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Una buona proposta

Dichiara oggi  il ministro in carica per il turismo, Michela Vittoria Brambilla, di volersi fare portavoce di una proposta pubblicata ieri dal Foglio tanto semplice quanto efficace: la liberalizzazione degli orari delle attività commerciali, a partire dai giorni festivi.

Tra proposte di riforme costituzionali piene di principi e vuote di precetti immediati, una semplice disposizione che dica che nessuna amministrazione può imporre gli orari di apertura e di chiusura di un’attività commerciale al pubblico, come si legge appunto nel Foglio, sarebbe invece una regola concreta, efficace, a costo zero ed effettivamente capace di incoraggiare a “lavorare di più, lavorare tuttiâ€, come ha scritto ieri Carlo Stagnaro sul Foglio. Proprio Stagnaro, e in precedenti occasioni sia l’Istituto Bruno Leoni che questo blog, hanno già dimostrato, con dati alla mano forniti da alcune ricerche condotte in questi anni, che nessuno dei vincoli imposti alla libertà del titolare di scegliere quando vendere porta vantaggio ad alcuno: né a costui, né ai concorrenti, né al consumatore e, dunque, all’economia.

Se finora gli orari non sono stati totalmente liberalizzati con una minimalistica regola come quella proposta dal Foglio, è quindi più il frutto del solito strascinamento dello status quo che di scelte ragionate (opinabili o meno).

Da anni ormai, praticamente da quando il settore commerciale è stato in parte liberalizzato, si discute se completare o meno questa liberalizzazione. A difendere la rigida conservazione dei vincoli sono più gli enti territoriali che non lo Stato, ma qualcuno oggi anche da quelle parti (v. Modena) ammette che forse non c’è nulla di male a lasciare gli esercenti liberi di scegliere quali siano gli orari migliori per vendere, e che anzi in questo modo si darebbe una mano alla ripresa economica, senza bisogno di ricorrere a strategie complesse, costose, e quindi solo annunciate.

Che il ministro del turismo voglia farsi carico di presentare questa semplicissima proposta al governo, dunque, è una buona notizia. Se così sarà, si potrebbe dare anche per questa via un segno tangibile a quella “scossa†all’economia che, come abbiamo detto anche qui, non può trovare giovamento (solo) da una riforma costituzionale, ma necessita di interventi di de-regolazione settore per settore.

Sarebbe la proponente giusta al momento giusto, il Ministro Brambilla, visto che in Italia i consumi turistici ammontano ogni anno a quasi 100 miliardi di euro tra italiani e stranieri, solo un terzo dei quali imputabile alle strutture alberghiere.

L’importante è che sia chiaro che la liberalizzazione degli orari di apertura non deve subire vincoli o limitazioni non solo da parte dello Stato centrale , ma anche da parte di tutte le altre amministrazioni pubbliche, a partire dagli enti locali territoriali, dove è parimenti forte la lusinga elettorale.

18 febbraio 2011 Città, liberalizzazioni

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  1. Alessio
    19 febbraio 2011 a 9:20 | #1

    Il vostro punto di vista ha qualcosa di selvaggio e sgradevole. Stagnaro sul Foglio fa un minestrone di ragioni strutturali, per carità, tutti condivisibili e ci mette di mezzo anche gli orari di lavoro. Vi chiedo se avete mai pensato a che tipo di vita conducono i piccoli commercianti e artigiani. La vostra liberalizzazione è per i grandi centri, le grandi catene di distribuzione, chi può permettersi il lusso di ricattare con uno stipendio da fame e orari assurdi persone che hanno bisogno di lavorare. Io sono un impiegato e sono fortunato di esserlo. I piccoli commercianti non possono permettersi dipendenti, probabilmente godranno di pensioni da fame e lavorano in molti casi di brutto, e voi li volete costringere a lavorare sette giorni alla settimana, per cosa? Per far spendere di più altre persone che già sono ridotte all’osso come capacità di spesa e rapporto spese obbligatorie su reddito disponibile. Mi sembra uno sgradevole liberismo a vantaggio grandi catene di distribuzione. Poco di strutturale, poco di virtuoso (nel senso economico del termine). Dovreste partire da modelli e proposte un po’ più serie che un ‘liberalizziamo, liberalizziamo’ gridato al balcone.

  2. Anton
    19 febbraio 2011 a 10:27 | #2

    @Alessio
    A me risulta che molte grandi catene di distribuzione tengano aperti i loro negozi fino alle 22.00 ed oltre; non e’ questa concorrenza sleale? e poi perche’ non dare la stessa opportunita’ ai piccoli commercianti che magari potrebbero farsi aiutare dai famigliari?
    I turisti stranieri inoltre, abituati nei propri paesi ad orari di apertura 24/24, sarebbero invogliati a spendere di piu’ perche’ di giorno sono occupati con visite a musei, chiese ecc. mentre la sera in genere non sanno cosa fare.
    “Bisogna lavorare di piu’ e sopra tutto meglio…” da “Se Gesu’ fosse Tremonti…” sul blog:
    http://www.segesufossetremonti.blogspot.com
    che vi invito a leggere e commentare.

  3. michele penzani
    19 febbraio 2011 a 11:02 | #3

    Pur apprezzando la competenza dell’autrice dell’articolo e quella del dott. Stagnaro, mi unisco al senso delle righe del sig. Alessio, permettendomi di aggiungere che se le aliquote d’imposta (e la normativa sulle contabilità in genere) per i piccoli commercianti, fosse la stessa per la grande distribuzione, i ragionamenti sulla competitività avrebbero un pochino più di senso.
    La realtà di una posizione dominante sul mercato, in favore appunto della grande distribuzione, invece, è ulteriormente aggravata dalla possibilità che essa, nei centri comm.li, ad esempio, hanno la possibilità di vendere ogni sorta di prodotto, mentre -come sappiamo- non è possibile vedere macellerie o panifici nelle gallerie degli stessi.
    Gli studi sul commercio che leggiamo, per noi commercianti, sono, in questo panorama di mercato oggettivamente non equo, viziati da una generalità a volte quasi disarmante. Prendendo ad esempio proprio l’articolo del dott. Stagnaro cui si fa sopra riferimento:”Il Cermes ha stimato che, semplicemente portando a 28 (dalle attuali 14) le aperture domenicali consentite, i consumi aumenterebbero dell’1,96 per cento”…Mi chiedo se il CERMES abbia sotto mano anche i dati di quanto costi il personale da investire per ambire ad una previsione del genere (contenere le spese credo faccia parte ancora della buona gestione di un’azienda). Inoltre, questo ipotetico +1,96%, tiene conto delle differenze per categorie in funzione del contesto di ubicazione? Considerando la dislocazione delle attività nei centri commerciali, punti vendita che offrono particolari servizi (gioiellerie; photofinishing; digitale; ottica; cartolerie) hanno dati ed esigenze di apertura diversi ad esempio dalle tabaccherie o dai negozi di abbigliamento. Ma, come è noto, i centri commerciali impongono una uniformità di esercizio. Detto questo, considerando che una REALE libertà di apertura ottimizzerebbe la capacità di vendita ed ergonomizzerebbe la gestione d’impresa, anche se passasse la condivisibile proposta del ministro Brambilla, si trasferirebbe soltanto l’imposizione di fatto degli orari di apertura al pubblico alle autorità che gestiscono le gallerie dei centri commerciali stessi.
    A questo si potrebbe obiettare che esse, in genere, sono realtà consorziali che rappresentano i commercianti ivi inseriti, che è vero, ma non credo che si conoscano tutte le problematiche, i conflitti e le pressioni che si trovano ad affrontare i commercianti. Se si estendesse questa libertà anche nei contratti di locazione d’inserimento dei punti vendita anche nei C/C, le obiezioni espresse dal sig. Bussoni di Confesercenti troverebbero una più facile comprensione e soluzione, nonché -davvero- si potrebbe parlare di vera liberalizzazione degli orari per fini positivi.

  4. Gionata Pacor
    19 febbraio 2011 a 11:24 | #4

    E’ incredibile quanto sia difficile spiegare a delle persone dotate di un’intelligenza che dovrebbe essere sufficiente per lavorare come impiegati che c’è una differenza tra il dire “apri il tuo negozio quando vuoi” e “costringere i commercianti a lavorare 7 giorni alla settimana”.

  5. michele penzani
    19 febbraio 2011 a 11:50 | #5

    @Ginata: appunto.

  6. michele penzani
    19 febbraio 2011 a 11:51 | #6

    @Gionata: appunto.

  7. Salvatore Panza
    19 febbraio 2011 a 12:26 | #7

    Temo che tu dia per assiomatico che il piccolo negozio è cosa buona e giusta..

  8. michele penzani
    19 febbraio 2011 a 12:42 | #8

    @Salvatore: assolutamente no, ritengo sia cosa buona e giusta pari regole di mercato.

  9. 19 febbraio 2011 a 12:57 | #9

    @Alessio
    Come è stato già segnalato, non si tratta di imporre più ore di apertura, piuttosto di consentire al commerciante quando aprire. Non è obbligo, ma libertà (ossia l’esatto contrario), sulla base di autonome valutazioni che ogni esercente farà, in base ai prodotti che vende, al luogo in cui è ubicato, alle sue esigenze personali, etc.
    Ciò volevo precisare, a prescindere dal giudizio asseverativo per cui il negozio di vicinato è migliore del centro commerciale.

  10. 19 febbraio 2011 a 13:01 | #10

    @michele penzani
    Concordo appieno con le sue preoccupazioni. Quella degli orari, infatti, è solo una delle tante storture, che, a mio avviso, si somma alle altre da lei menzionate.

  11. giulio dapelo
    19 febbraio 2011 a 14:02 | #11

    Condivido quanto scritto da Carlo Stagnaro ma penso che per liberalizzare sia forse necessaria e propedeutica un’inezione di presupposti culturali, sociali e normativi. Tento di spiegare la mia strampalata opinione; la propensione alla “fatica” è poca, le famiglie iperprotettive e sognatrici perseverano ad imporre ai loro figli la scelta del “biglietto da visita con impresso un dott.” anche se conseguito a 30 anni e privo di qualsiasi minima utilità. La domenica è sacra (non si lavora) e ora pure il sabato è in odore di beatificazione; la normativa “lavoristica” è così complessa e rigida che per ottenere dai dipendenti prestazioni lavorative straordinarie è necessario un accordo sindacale sottoscritto da Lama (buon’anima), Cofferati e la Marcegaglia. La pressione fiscale e contributiva è folle, tanto da generare un rapporto costi/benefici incondivisibile (lavorare un giorno in più per poi cosa, conti alla mano, partorire un topolino reddituale?). Meno laureati ma di qualità, più commesse, operai, falegnami e meno specialisti in comunicazione e lettere antiche; poche regole ma chiare e rigorosamentete adeguate al presente, con le sue logiche e dinamiche che nulla hanno a che fare con il passato (5 anni del nuovo millenio equivalgono a 50 di quello appena trascorso); pressione tributaria realmente sostenibile e quindi condivisibile (poi un pò di galera a chi evade). In questo momento resta operativo, per così dire, solo il capitale, in un libero mercato che di libero non ha proprio nulla; abbiamo perso per strada la nostra nostrana memoria storica, le risorse umane, le braccia, il buon senso e il piacere di faticare per qualcosa in cui crediamo. Grazie per l’opportunità. Giulio Dapelo

  12. j
    19 febbraio 2011 a 15:10 | #12

    Se ho ben capito la filosofia della proposta, spero che gli autori saranno anche d’accordo a “liberalizzare” i venditori ambulanti senza licenza, da mettere di fronte ai negozi e ai supermercati a vendere gli stessi prodotti senza i costi di struttura.

    Inoltre liberalizzerei il pagamento delle tasse, ovvero, chi vuole è libero di pagarle, chi non vuole non deve mica farlo!

    A parte il sarcasmo, ho già spiegato più volte il mio pensiero: non è lavorare di più la soluzione, ma lavorare di meno e tutti. Se io lavorassi mezza giornata (con uno stipendio netto accettabile e poco tassato), l’altra mezza potrei dedicarla ai consumi, senza dover costringere i poveracci a lavorare la domenica. Se io lavorassi mezza giornata, un’altra persona potrebbe lavorare l’altra mezza sulla mia stessa sedia e consumare nell’altra mezza.
    Insomma, essendoci una disoccupazione clamorosa, non credo che facendo lavorare di più i soliti noti miglioriamo la nostra qualità della vita. Dobbiamo lavorare meno per stare meglio noi fortunati occupati e per lasciare ai disoccupati la possibilità di guadagnare e consumare, per creare un circolo virtuoso lavoro-consumi per tutta l’economia.
    Chiaramente bisogna tagliare le tasse, e in questo vi sosterrò in tutte le vostre battaglie.
    Nell’apologia dello sfruttamento del “lavovatove” mai.
    Saluti.

  13. Nikolai
    19 febbraio 2011 a 15:12 | #13

    Se non fosse vietato dai dogmi vigenti occorrerebbe poi riflettere sul perchè le “liberalizzazioni” vadano immancabilmente di pari passo con un tangibile peggioramento sia delle condizioni di lavoro che dei redditi oltre al generalizzato scadimento della qualità del lavoro stesso. Senza dimenticare la diminuzione dei posti di lavoro disponibili. Perchè da comuni cittadini dovremmo credere, obbedire e combattere per un modello (i.e. : fregatura) del genere ?

  14. Alessio
    19 febbraio 2011 a 18:23 | #14

    La libertà di tenere aperto non significa più ore di apertura, certo, ma può generare un meccanismo perverso e insostenibile solo da chi ha risorse finanziarie ingenti. Io non sono per il piccolo negozio a priori ma il piccolo commerciante non fa una bella vita, così come chi sta alle casse di un supermercato di domenica e fino alle 22 e sarei curioso di sapere quanto guadagna. L’1.96% di aumento dei consumi significa così tanto? E’ questa la frustata all’economia? La libertà va bene (anche la libertà di offendere del sig. Gionata) ma non capisco perché mai la libertà in economia va sempre a favore di qualche soggetto e sempre il più forte, poi, quando non conviene più non va più bene.

  15. Andrea Chiari
    19 febbraio 2011 a 20:33 | #15

    Liberiamo il dibattito dalla figura del ministro Brambilla sul cui curriculum e sulle cui competenze è meglio stendere robusti veli. La faccenda è troppo importante per legarla all’ultima uscita dell’ultimo ministro di turno. Sfogato il gozzo, vengo alla sostanza: sono perfettamente d’accordo. Ma quale sfruttamento? Si vigili che siano rispettati i contratti di lavoro e che gli straordinari siano pagati. E’ questo il problema: in un paese serio dove si rispettano le leggi e la dignità dei lavoratori provvedimenti di questo tipo fanno solo bene all’occupazione. Dico ai miei compagni di sinistra, consarvatori “a prescindere” anche quando si tratta di conservare privilegi di destra, la difesa delle burocrazie e delle normative rigide fa solo il gioco dei corporativismi commerciali. A proposito, non ho mai capito tutta la burocrazia legata ai saldi (prezzi controllati, sconti da certificare, scadenze di calendario da rispettare per le offerte ecc ecc, tutta materia largamente elusa nella pratica). E se uno facesse i prezzi che vuole, dove e quando gli pare, senza i vigili municipali che vanno a controllare improbabili parametri? Questo è buon senso, non significa aderire alla scuola di Chicago, qui rappresentata dai simpatici e garbati titolari di questo blog, filiale italiana del partito repubblicano americano.

  16. 20 febbraio 2011 a 9:40 | #16

    @Alessio
    Ogni libertà può generare quelli che lei chiama meccanismi perversi: si chiama libero arbitrio, responsabilità individuale, religiosamente libertà di peccare, la metta come vuole.
    Che ognuno sia libero di lavorare quando e quanto vuole, ovviamente pagando il prezzo delle sue scelte. D’altra parte, quanti lavoratori pagano il prezzo delle loro scelte di impegno? Crede che per un artista, un libero professionista, un imprenditore, sia diverso?
    Certo, c’è un’alternativa che consente di evitare di collegare l’impegno al guadagno:
    Da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni.
    Ma mi pare che abbia fallito…

  17. Alessio
    20 febbraio 2011 a 12:59 | #17

    Certo slegare l’impegno e il merito dal guadagno è sbagliato. Lunga è la lista Enron, Parmalat, le banche statunitensi, gli stipendi dei Goldman boys, gli stipendi dei professori universitari e dei dirigenti del pubblico impiego, dei ceo ecc. il libero arbitrio che descrive lei, senza scomodare la religione e temi più importanti, funziona in un sistema sociale in cui si possa scegliere veramente, negoziare il proprio valore personalmente, essere stipendiati correttamente ed eticamente. A me pare che non sia così, a me pare che non si possa scegliere il proprio lavoro così facilmente, né che si possa negoziare le condizioni di stipendio senza che ci siano di mezzo quintalate di carta di contratti collettivi nazionali. In tutto questo (e in tutti i problemi segnalati da Stagnaro nel suo articolo e in qualche commento) è prioritario partire dagli orari dei negozi per un 1.96% di crescita dei consumi. Se mi dice che l’1.96% di crescita dei consumi si traduce 1.96% di crescita del PIL sono con lei, probabilmente la posta in gioco (economica) vale la pena (sociale). Se non è così cercherei altre priorità per la crescita. Tutto qui.

  18. j
    20 febbraio 2011 a 15:35 | #18

    Credo che sia risolutivo dire: liberalizziamo, apriamo anche la domenica, ma già che ci siamo, regolamentiamo un po’, per far crescere il surplus totale e al contempo per evitare che qualcuno ci rimetta troppo.
    Entrambi i dogmi, se presi singolarmente, sono estremi e quindi sbagliati, mentre un compromesso tra i due può portare più benefici per tutti.

    Aprire la domenica potrebbe essere positivo per il consumatore malato che così non si dedica a se stesso e alla famiglia, ma alle imprese che vogliono plagiarlo e fargli spendere soldi in continuazione (tuttora non capisco perché questo consumatore non sia andato a fare la spesa tra lunedì e sabato però – e perché se domenica il negozio è chiuso questo consumatore non compra più il prodotto che avrebbe comprato domenica e solo domenica).

    Chi ci rimette, invece, è il lavoratore che sarà costretto a lavorare tutti i giorni (magari con turni di riposo variabili, per carità, ma vi assicuro che sgobbare mentre i tuoi amici riposano o si divertono insieme non è proprio il massimo). Nuove assunzioni? Possibile, ma saranno lavori alienanti, che non miglioreranno in alcun modo la qualità della vita media.

    Andare tutti i giorni al centro commerciale è un po’ come stare tutto il giorno a guardare tv spazzatura. Un buon governo deve sì lasciare libertà di farlo ai suoi cittadini, ma deve fare tutto il possibile affinché questi preferiscano fare di meglio e affinché gli sia data la possibilità di farlo.

    Se il mondo diventa il mondo del “lavoro tutti i giorni, così poi consumo”, forse quello delle liberalizzazioni è un argomento di scarso rilievo su cui ci stiamo concentrando troppo per inseguire un numerino (PIL +2%) invece del nostro benessere comune (lavoro il giusto per dare il mio contributo alla società, per poter mangiare e per godermi il tempo libero).

  19. romain
    20 febbraio 2011 a 17:29 | #19

    la proposta della ministra Brambilla di liberalizzare gli orari delle attività commerciali mi sembra buona, e comunque tesa verso una maggiore libertà economica (come dice il bell’articolo di Serena); da un ministro del turismo mi sarei aspettato invece una maggiore critica, un fermo contrasto, contro il ripristino della famigerata imposta di soggiorno abolita a suo tempo per manifesto obbrobrio e ora improvvidamente riesumata, per di più con un governo di centro-destra che dovrebbe essere liberale e antitasse; quella imposta va ri-abolita, a costo di minacciare dimissioni, perchè danneggia comunque tutti, turisti, operatori economici, comuni cittadini (io abito a Roma quindi egoisticamente non dovrei preoccuparmi, e invece sarò danneggiato indirettamente anch’io, se non altro perchè i miei sentimenti liberali e liberisti ne soffrono); e non mi si dica che sono i comuni a volere ripristinare quella odiosa imposta, perchè oltretutto il comune di Roma è di centro-destra (vero ineffabile sindaco Alemanno?)

  20. Andrea Chiari
    20 febbraio 2011 a 17:39 | #20

    Vorrei essere d’accordo con J (di cui va apprezzata lo pseudonimo sintetico e asettico). Tuttavia mi pare eccessivo lamentare come alienante un qualche turno di lavoro alla festa. Un mio amico ristoratore non trova camerieri, pur pagandoli bene e in regola, perchè il sabato sera i giovinotti preferiscono bisbocciare con gli amici – pur da disoccupati – piuttosto che servire ai tavoli. Se il lavoro è ben pagato, in regola e i turni hanno adeguato recupero compensativo come da contratto io ci andrei piano a legittimare certe pretese, in tempi come questi. Riguardo allo stato che dovrebbe favorire passatempi più encomiabili che frequentare i supermercati, io ci andrei piano a evocare i filosofi o i virtuosi al potere. Ci sono stati tentativi anche recenti di forgiare “uomini nuovi”, liberi dal consumismo e dediti alla culura e alla socialità (almeno nelle intenzioni). Le cose – sembra – non sono andate bene. Anche a sinistra dovremo farcene una ragione.

  21. ALESSIO DI MICHELE
    20 febbraio 2011 a 19:11 | #21

    Sotto la difesa dell’ impresentabile status quo c’ è, credo, un’ auto rappresentazione della realtà assai conservativa: tutti tendiamo a vederci come produttori od aspiranti tali, ma mai come consumatori, eppure, basterebbe pensare al caso di chi vive di risparmi, si può non essere in qualche momento produttori, ma mai si eviterà di consumare. Quindi: eliminiamo per tutti le imposizioni di orario, e nel contempo eliminiamo gli obblighi di comprare la previdenza solo dall’ Inps, l’ obbligo di pagare la tarsu al comune,… . Anche l’ imprenditore acquista: facilitiamo la vita agli acquistatori (chi acquista, sia per consumare che per investire), compratori di un etto di prosciutto o di un bancone frigorifero, e tutta l’ economia funzionerà meglio.

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