CHICAGO BLOG » Wto http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Due visioni sulla Cina, Banca Mondiale e Fmi /2009/09/30/due-visioni-sulla-cina-banca-mondiale-e-fmi/ /2009/09/30/due-visioni-sulla-cina-banca-mondiale-e-fmi/#comments Wed, 30 Sep 2009 00:24:56 +0000 Oscar Giannino /?p=3033 Ho visto che cresce la febbre cinese tra i lettori del nostro blog. Soprattutto tra diversi che grazie al Cielo hanno preso negli ultimi tempi a frequentarci, e magari non è affatto detto che la pensino come noi ma sono curiosi di vedere come argomentiamo le nostre tesi. Considero questo “annusamento tra diversi” assolutamente benefico, ed è la ragione di fondo per la quale abbiamo in definitiva deciso di aprire questo foro. I contributori che l’hanno originato hanno idee e formazione simili, ma non per questo si considerano “nati imparati” o depositari di verità assolute. Anzi, si sono posti il problema di uscire dalla conventicola “chiusa”, una trappola in cui spesso la nostra scuola finisce spesso, vedi a mio giudizio per esempio il pur ottimo blog del Mises Institute (a proposito, il 29 settembre era il compleanno di zio Ludwig…). Questa premessa per dire che capisco bene come ad alcuni sul blog – e a moltissimi fuori – la Cina coi suoi bassi costi e i suoi zero diritti politico-sociali appaia un’enorme trappola attivata dagli Usa per sostenere il proprio deficit estero, mentre erode soprattutto la nostra base produttiva. Tuttavia,  un’analisi che a mio giudizio ha pure dei fondati elementi storici – il processo d’ingresso “incondizionatlo” della Cina nel Wto ebbe ragioni in sostanza  vicine a quelle da sempre descritte  con una punta di acrimonia da Tremonti -  ma si fonda anche su una mispercezione  della Cina e del suo gigantismo in quanto tali.

È utile e istruttivo, da questo punto di vista, dare un’occhiata a come assai diversamente si guardi oggi al concreto apporto cinese alla crescita mondiale, ora che gli Usa stentano e stenteranno per anni a ricollocare la propria domanda interna ai livelli precrisi. Se leggete il post di Brian Hoyt sul blog della World Bank, vi renderete conto che nell’istituto guidato da Robert Zoellick tutti si danno un gran da fare a credere che la Cina stia facendo il meglio e ancor di più, per sostituire la domanda americana come locomotiva mondiale. Se leggete invece l’intervento di Markus Jaeger sulla Voxeu,  potete toccare con mano che a logica dei numeri che più piacciono al FMI  dice un’altra cosa. I Paesi BRICs contano oggi circa il 14% del Pil mondiale a fronte del 24% USA, e il prodotto cinse è circa la metà di quello americano. Continuando crescere del 6-7% annuo, anche se gli USA si riprendessero verso il 2% a fine 2010, i cinesi rappresenterebbero al 2014 l’85% del GDP USA. Ma di qui ad allora ciò significa che se i cinesi potrebbero arrivare ad assicurare fino a un 30% della crescita aggiuntiva planetaria nei prossimi anni, ciò non comporterà affatto la sostituzione della domanda USA ai fini della crescita dei Paesi avanzati, non solo di quelli asiatici, che si stanno tutti riorganizzando e aderendo all’invito cinese di esportare essi nel mercato domestico  con la stella rossa. Ma soprattutto europei. Insomma: la Cina approfitta della crisi Usa e ne guadagna in leadeship. Ma di qui a dire che essa prenderà il posto dell’America, ce ne passa di acqua sotto i ponti.

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Hu-rrà! /2009/08/03/hu-rra/ /2009/08/03/hu-rra/#comments Mon, 03 Aug 2009 06:18:18 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1871 La Cina di Hu Jintao difende i diritti umani di tutti, e specialmente di americani ed europei. Pechino ha infatti inviato due proteste formali all’Organizzazione mondiale del commercio contro le politiche protezionistiche di Usa e Ue. Si tratta di una mossa necessaria a proteggere il mercato di valle dei prodotti cinesi – stimato in oltre 600 miliardi di dollari nel 2008 – dall’aggressione regolatoria di cui è oggetto nei paesi industrializzati, che amplifica l’impatto della crisi. Già nella seconda metà dell’anno scorso si era registrato un crollo del commercio mondiale, e nel rapporto annuale della Wto erano presenti le prime esplicite preocupazioni sul rischio protezionista:

Un quarto fattore che potrebbe contribuire alla contrazione degli scambi è l’aumento delle misure protezioniste. Qualunque crescita di questo tipo di misure minaccerà le prospettive di ricupero e prolungherà la crisi. Il rischio di una crescita del protezionismo è fonte di preoccupazione.

Preoccupazione puntualmente confermata dagli eventi, tanto che – a dispetto dei richiami del capo della Wto, Pascal Lamy, e degli impegni solenni, formali e inutili di G8 e G20 – i provvedimenti che, a vario titolo, ostacolano gli scambi sono letteralmente esplosi nel 2009. Nel secondo trimestre 2009, la Wto ha registrato 83 nuovi interventi da parte di 24 paesi più l’Unione europea, al netto delle restrizioni sulle importazioni di carne suina introdotte da diversi paesi come misura precauzionale contro la nuova influenza. Un rapporto della Banca mondiale dello scorso marzo ci aveva del resto avvertiti che  il protezionismo era in crescita in 17 dei 20 membri del G20, gli stessi che a ogni occasione stigmatizzano la chiusura del commercio internazionale.

E’ comprensibile che, in un momento di difficoltà, le pressioni sui governi da parte delle imprese travolte dalla crisi si faccia forte, addirittura insostenibile. Ma la difesa della libertà di scambio a livello internazionale è uno di quei temi su cui non è tollerabile o giustificabile alcuna marcia indietro. E non solo perché mantenere l’attuale livello di – diciamo – liberalizzazione può apparire come un sacrificio ma lo è, se lo è, solo nell’immediato, perché nel lungo termine costituisce una garanzia di ricupero più rapido. Soprattutto, il protezionismo non è mai temporaneo: una volta introdotti, i dazi sono complicatissimi da rimuovere, anche perché, tranne che in pochi casi, il loro effetto non viene direttamente percepito dai consumatori.

Il punto fondamentale è che un dazio è una specie di tassa e sussidio, assieme: tassa sui consumatori, che sono costretti a pagare di più ciò che potrebbero avere per meno, e sussidio alle imprese protette, che così vedono alzarsi l’asticella della competizione sul prezzo. Non riesco a immaginare un solo dazio – compresi quelli ambientali e quelli antidumping – che possa avere un effetto positivo. Un dazio è sempre un cedimento della società a favore dell’intervento governativo, ed è sempre un’opera di redistribuzione dai consumatori ad alcune imprese. Per questo essi vanno combattuti con ogni forza e per questo bisogna guardare con simpatia e sostegno alla mossa della Cina.

Basterà? Sicuramente no, anche perché i poteri della Wto sono, all’atto pratico, effettivamente contenuti e inadeguati. Non basterà, e per sconfiggere il protezionismo serve il consolidarsi di coalizioni liberoscambiste all’interno dei singoli paesi. Ma tutto fa brodo, e se Pechino ha delle armi legali per proteggere le sue imprese e i nostri diritti, è bene che le usi.

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Cina e commercio, Obama come Tremonti /2009/06/23/cina-e-commercio-obama-come-tremonti/ /2009/06/23/cina-e-commercio-obama-come-tremonti/#comments Tue, 23 Jun 2009 17:05:35 +0000 Oscar Giannino /?p=1117 Oggi l’Amministrazione americana ha presentato una argomentata protesta ufficiale contro la Cina in sede Wto, scavalcando in durezza l’Unione europea che sulla stessa materia aveva sinora tenuto un profilo formalmente più basso. Qui la nota ufficiale del governo Usa, e l’elenco delle restrizioni in termini di quote all’import export dichiarate dal governo cinese, in spregio al Trattato e agli impegni espliciti assunti nel firmarlo. Si tratta, dome vedrete, soprattutto di minerali essenziali nel settore metallurgico, macchinari e costruzioni, la base del rapido ed energico shift dall’export alla domanda interna deliberato dal governo cinese tre mesi fa, per impedire che il calo vorticoso dell’export cinese abbassasse oltremodo la crescita del Pil. La guerra per disancorare il peg tra dollaro e reminmbi si fa dura, al di là del merito del commercio unfair sul quale un anno fa Tremonti teneva lezione, sbertucciato allora dai più… Il problema è che, rispetto ad allora, la gara protezionista ha fatto proseliti a decine. In Italia, però, i politici non se ne occupano più. È rimasta solo Confindustria, a levare la voce quasi ogni giorno sul tema.

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L’Italia, la Cina e una raffica di cattive notizie /2009/05/14/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/ /2009/05/14/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/#comments Thu, 14 May 2009 19:11:22 +0000 Oscar Giannino /index.php/2009/05/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/ Sono in giro per una serie di incontri e convegni, in licei, cooperative, armatori, i Giovani di Confindustria, il Forum della PA con Brunetta, e via continuando. Per questo mi scuso di esser mancato un giorno, e ne approfitto per un post al volo. Mi ha molto sorpreso dieci minuti fa leggere l’editoriale di Nouriel Roubini sul New York Times di oggi, perché è raro che le sue tesi sopra le righe mi convincano. Ma mi sono ritrovato esattamente nel ragionamento che avevo esposto ieri agli studenti del Sacro Cuore di Milano e oggi al parlamentino nazionale degli juniores di Confindustria guidati da Federica Guidi. Si tratta delle conseguenze che potrebbe avere per tutti i paesi grandi esportatori in semilavorati e componentistica a non altissimo valore aggiunto – come l’Italia – un eventuale cambio del tallone monetario del commercio mondiale. In altre parole: dello scioglimento del peg semi fisso tra dollaro e reminmbi, che negli anni alle nostre spalle ha “aggiunto” competitività monetaria, attraverso il collegamento automatico alla svalutazione del dollaro sull’euro, ai prodotti cinesi già avvantaggiati da basso costo congenito. Secondo stime riservate che l’Ice esita comprensibilmente a rendere note, potrebbero essere dolori per almeno due delle famose “4 A” che costituiscono i due terzi dell’export italiano. Per l’automazione e componentistica elettromeccanica, e per l’abbigliamento-tessile-moda, ciò potrebbe costituire un cambio rilevante delle ragioni di scambio, in grado di convincere molte grandi aziende capofiliere – soprattutto tedesche, nel primo settore – a rinviare il più possibile la ripresa di ordini ad aziende fornitrici italiane, in attesa di verificare se non convenga spostare altrove le proprie catene di supply.
Quel che in apparenza è un tema “alto e lontano” – la proposta cinese di una seria modifica dei diritti di prelievo e relativo paniere monetario di riferimento, in sede di Fmi – in realtà potrebbe colpire in profondità le possibilità di ripresa dell’export italiano. Gli americani sono convinti che i cinesi si convinceranno presto a rivalutare, pur di riavviare comunque il proprio export. I cinesi sono persuasi che saranno gli americani per primi a dover mollare la loro pretesa, perché di mese in mese i disoccupati aggiuntivi Usa da ottobre passeranno dagli attuali 5,7 milioni a 7 e oltre entro l’estate, e a quel punto Obama sarà costretto a piantarla e a rassegnarsi, se vuole che i cinesi riprendano ad acquistare asset in dollari, cioè a finanziare a debito il risanamento Usa come fino ad ottobre ne finanziavano la crescita dei consumi.
Purtroppo, se è corretto ipersemplificare in questi termini il braccio di ferro monetario sotteso alla ripresa del commercio mondiale, occorre ricordare che i cinesi possono contare su di uno strumento assai più efficace di quello americano. L’Armata Popolare Cinese mette sui treni e rispedisce in campagna ogni mese dai 3 ai 5 milioni di cinesi risospingendoli all’economia di sussistenza agricola, nel mentre si attua il colossale shift della crescita da estero-trainata a focalizzata su infrastrutture e domanda interna. Gli americani, al contrario non possono certo arruolare milioni di disoccupati nella Guardia Nazionale. Di conseguenza, al il nostro export converrebbe una posizione filocinese anzichenò.
Nel frattempo, una raffica di notizie che mi sembrano smentiscano gli ottimismi di circostanza: il deficit tedesco a 50 miliardi di euro quest’anno da 11 nel 2008 con tanto di addio ai tagli fiscali preannunciati; la cattiva – e giustificata – reazione del mercato alle trimestrali di Unicredit e Intesa; la scontata sconfitta degli imprenditori privati in Assolombarda, vista la sconsideratezza con cui la presidente uscente ha cercato di pilotare la sua successione su un candidato debole come già avevo scritto, con inevitabile vittoria del candidato “pubblico”, Maugeri dell’Eni, che dopo un anno di ridicolaggini su Expò 2015 infligge una nuova bella ridimensionata alle pretesi milanesi; il venir meno della residua finzione di Cai su Malpensa, e scontate chiacchiere dei governatorid el Nord che solo ora riscoprono la necessità di liberalizzare gli slot intanto riassicurati ad Alitalia anche se non li usa; la conferma che nella riscrittura a puntate del rapporto Caio riemerge lo scorporo “tutto pubblico” della rete fissa di Telecom Italia… e poi vi chiedete perché Mike Bongiorno è andato da Murdoch per riprendere a scandire tutte le sere il suo proverbiale “allegriaaaa”: perché qui da noi c’è poco da ridere, e lo sa anche lui.

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