CHICAGO BLOG » welfare http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Per fermare le lancette dell’orologio, tagliamo la spesa. di Vito Tanzi /2010/11/11/per-fermare-le-lancette-dellorologio-tagliamo-la-spesa-di-vito-tanzi/ /2010/11/11/per-fermare-le-lancette-dellorologio-tagliamo-la-spesa-di-vito-tanzi/#comments Thu, 11 Nov 2010 07:00:36 +0000 Guest /?p=7544 Il “debt clock” dell’Istituto Bruno Leoni, che vede l’orologio muoversi in avanti al ritmo di 2700 e rotti euro al secondo, mi ha fatto ricordare quello che dicevano sul debito pubblico alcuni grandi pensatori del passato. Ne voglio citare solo due.

Nell’anno 43 A.C. Cicerone diceva:

Il bilancio nazionale deve essere mantenuto in equilibrio. Il debito pubblico deve essere ridotto, e l’arroganza dei politici deve essere controllata (…) Il popolo deve di nuovo imparare a lavorare, invece di vivere con l’assistenza pubblica.

David Hume il grande filosofo e storico scozzese del 18mo secolo scrisse:

È una grande tentazione per un ministro usare i prestiti pubblici che gli  permettono di fare bella figura senza imporre il peso delle tasse sulle spalle dei cittadini…L’abitudine di contrarre debiti sarà inevitabilmente abusata (…) Le conseguenze (…) saranno due: o la nazione distruggerà il debito, o il debito distruggerà la nazione.

Ci sono molti esempi nella storia del mondo in cui il debito ha distrutto nazioni.

Mezzo secolo fa, la spesa pubblica in Italia, così come in altri Paesi, era circa la metà del livello attuale. Nel 2008 la spesa primaria, cioè la spesa pubblica al netto del pagamento di  interessi sul debito pubblico, era il 43,6 per cento del PIL. In quell’anno in Australia era il 30,4 per cento; nella Svizzera era il 31,0 per cento; in Giappone era il 33,5 per cento;in Canada e negli Stati Uniti era il 36,1 per cento. Nella spendacciona Norvegia, la spesa primaria era il 38,5 per cento del PIL (dati del FMI).

Tutti questi altri Paesi hanno una qualità della vita e servizi pubblici tra i migliori nel mondo, e migliori che in Italia. Generalmente si trovano ai primi posti, per qualità della  vita, nelle classifiche internazionali – per esempio nella classifica pubblicata dal Human Development Report delle Nazioni Unite. Ridurre la spesa primaria italiana al livello di quella norvegese, la più alta tra i Paesi menzionati, farebbe aumentare il superavit primario italiano (cioè al netto di interessi) di più del cinque percento del PIL, abbastanza da far marciare indietro il debt clock. Riducendo la spesa primaria al livello di quella svizzera, aumenterebbe il superavit primario al dieci per cento del PIL, abbastanza da far impazzire il  “Clock” nella corsa all’indietro, eliminando il debito pubblico italiano in pochi anni.

Oltre agli ostacoli politici nella riduzione della spesa che sono ovvi, sarebbe  davvero così dannoso  portare la spesa pubblica primaria italiana (quella al netto degli interessi sul debito pubblico) al livello di quella norvegese? È vero che la riduzione della spesa ridurrebbe la qualità della vita in Italia? Forse la diminuirebbe fino a raggiungere quella dei Norvegesi o degli Svizzeri? Magari!

Vito Tanzi è fra i più noti economisti italiani. È stato direttore del Dipartimento di Finanza Pubblica del FMI, e consulente della Banca Mondiale, delle Nazioni Unite. Fra il 2001 e il 2003, è stato Sottosegretario all’Economia e alla Finanza. Ha scritto diversi libri, fra cui (con Ludger Schuknecht) La spesa pubblica nel XX secolo. Una prospettiva globale (Firenze University Press 2007).

Per l’Istituto Bruno Leoni Vito Tanzi ha pubblicato:
“Il ruolo dello Stato e della spesa pubblica nell’epoca della globalizzazione”, Occasional Paper n. 25 (25 gennaio 2006) [PDF]
“Stato assistenziale e performance economiche. Il caso dei Paesi scandinavi” (con Ludger Schuknecht), Occasional Paper n. 31 (28 aprile 2006) [PDF]
“Politica fiscale. Quando teoria e realtà si scontrano”, Occasional Paper n. 33 (7 agosto 2006) [PDF]

“Strade convergenti. La politica fiscale in Italia e negli Stati Uniti”, IBL Focus n. 147 (14 novembre 2009), disponiible qui [PDF].

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Famiglia e fisco: lo scudo del diritto naturale /2010/11/09/famiglia-e-fisco-lo-scudo-del-diritto-naturale/ /2010/11/09/famiglia-e-fisco-lo-scudo-del-diritto-naturale/#comments Tue, 09 Nov 2010 16:24:16 +0000 Oscar Giannino /?p=7538 Le polemiche e le difficoltà aperte nel governo e nella maggioranza non potevano risparmiare la Conferenza nazionale sulla famiglia, apertasi ieri a Milano. L’arcivescovo Dionigi Tettamanzi è stato chiaro: non è più tempo solo per declinare valori e princìpi, quel che serve sono azioni concrete. I rappresentanti del governo, il ministro del welfare Maurizio Sacconi e il sottosegretario Giovanardi che ha la delega per le politiche familiari, hanno risposto illustrando il cantiere aperto dell’esecutivo, che in primis inevitabilmente troverà espressione nella tanto promessa riforma fiscale, attesa da troppi anni ormai per crederci davvero come imminente e risolutiva, ai cui lavori preparatori Tremonti ha recentemnet associato l’intera società economica e civile. Ma ecco che le tensioni politiche hanno inevitabilmente fatto capolino, spostando l’attenzione per ore sulla difesa della famiglia ex articolo 29 della Costituzione, alla quale l’opposizione ha immediatamente contrapposto la difesa delle unioni di fatto, divenute oltre 820 mila di cui solo 300 mila negli ultimi 6 anni. Considero queste derive laiciste una stupidaggine.

La famiglia naturale composta da persone eterosessuali è un fondamento etico del quale non si può negare la legittima difesa. Senza per questo escludere le coppie di fatto con figli dalle nuove egevolazioni. Ma sarebbe meglio se la politica badasse al sodo della questione, prima di inoltrarsi sulla via della polemica. Perché, altrimenti, il rischio è di contrapporre etiche distinte, ma trascurando di fatto la centralità della famiglia in quanto tale. Nucleo essenziale della vita sociale ed economica del nostro Paese. Primo integratore del reddito di giovani e anziani, disabili e malati. Cellula fondamentale della formazione del capitale umano e relazionale, i due pilastri essenziali dello sviluppo in una società della conoscenza, prima ancora del capitale fisico e di quello finanziario.

La famiglia italiana è il primo protagonista della vita nazionale, ed è insieme quello che ha più titoli per una profonda delusione. E’ il soggetto più trascurato dalla politica, più ancora delle imprese, più e peggio dei lavoratori e dei pensionati. Se diamo un’occhiata alle cifre rielaborate nel rapporto Cisf 2009 pubblicato da Franco Angeli pochi mesi fa, c’è da raggelare. Il 53,45 delle famiglie italiane, che sono in totale circa 24 milioni, non ha figli. Il 21,9% ha un figlio. Il 19,5% ne ha due. Il 4,4% ne ha tre. Solo lo 0,7% ne ha quattro. E’ dal 1978 che il tasso di fecondità è molto al di sotto di quei 2,1 figli per donna che servono a tenere in equilibrio la composizione per età della popolazione, e cioè a preservare i conti previdenziali intergenerazionali in futuro. Siamo nel 2009 a 1,4 figli per donna, 1,3 tra le italiane e 2,1 per le immigrate.

Eppure, nei sondaggi il numero medio dei figli desiderati dalle famiglie italiane sarebbe superiore a 2. Poiché generalmente non viviamo più in un Paese disposto ai sacrifici di cui furono capaci i nostri padri e i nostri nonni, è allo Stato che le famiglie italiane imputano la responsabilità per il numero inferiore di figli a cui sono per così dire “costrette”. Quando nella famiglia sono presenti tre figli, l’incidenza della povertà assoluta -à espressa come distanza dalla linea mediana del reddito procapite delle famiglie italiane – raddoppia, passando all’8% rispetto al 4% che riguarda le famiglie italiane nella loro totalità, e quadruplica rispetto al 2% che riguarda invece le famiglie con un solo figlio. Se i costo mensile di mantenimento di un bambino tra o e 5 anni è calcolato dall’Istat mediamente come di 317 euro al mese, il costo di accrescimento complessivo del figlio finché resta a carico diventa in media di 800 euro al mese. Ed è dichiarando di non poter sopportare questi costi, che oltre la metà delle famiglie finisce per restare senza figli.

Ci sono almeno tre questioni di fondo alle quali non è facile rispondere, stanti le condizioni della finanza pubblica italiana – motivo che spiega perché Tremonti proceda coi piedi di piombo.

Il primo è il fisco, che in Italia disconosce la capacità contributiva se non individuale a differenza di quanto capita in tantissimi altri paese, e così finisce per sfavorire la fecondità visto che, per chi ha tre figli e con un reddito sino ai 20 mila euro l’anno, il fisco italiano finisce per gravare tra il 30 e il 40% in più rispetto alla Francia e alla Germania. Personalmente sono per il minimumfamilienprinzip alla tedesca, un tetto di reddito familiare modificato di anno in anno dfel tutto intangibile a quelunque pretesa fiscale dell’ordinamento. Una sana barriera di diritto naturale alla fame dello Stato, in germania reintrodotta dalla Corte di Karlsruhe, primo motore della discesa della spesa pubblica e della pressione fiscale di olrre 5 punti di Pil prima della crisi.

Il secondo è il peso relativo dell’intera politica sociale rivolta alla famiglia, dagli asili nido fino alla conciliazione dei tempi-lavoro di padri e madri rispetto ai congedi parentali: l’Italia spende per la funzione famiglia poco più dell’1% del Pil, la Francia il 2,5% e la Germania più del 3%. Spostare un punto e qualcosa di Pil a favore della famiglia significa spostare 16 miliardi di euro, raggiungere la Francia significa riallocarne 23. Alzi la mano chi è disposto, tra i beneficiari della spesa pubblica italiana, a rinunciare a somme che, per addizione, giungano a cifre simili.

Il terzo è che l’intero welfare andrebbe riorientato in maniera sussidiaria, decentrate e aperta al privato sociale, ponendo al centro la famiglia e incentivando fiscalmente chi le offre servizi che lo Stato non è in grado di offrire.

E’ una vera rivoluzione, quella che servirebbe per ridare smalto e futuro alla famiglia italiana. In un Paese in cui tutti lamentano di voler più spesa pubblica per sé, resterà impossibile fare una scelta decisa a favore del nostro futuro. E’ solo tagliando in profondità e riallocando con decisione a favore della procreazione, che non dipenderemo in futuro da un numero ancora maggiore di immigrati.

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Voteremo Nord vs Sud (finalmente) – di Mario Unnia /2010/11/06/voteremo-nord-vs-sud-finalmente-%e2%80%93-di-mario-unnia/ /2010/11/06/voteremo-nord-vs-sud-finalmente-%e2%80%93-di-mario-unnia/#comments Sat, 06 Nov 2010 16:57:40 +0000 Guest /?p=7481 Se le cose andranno come sembrano andare, il traballante bipolarismo politico si scioglierà nell’acido del multipolarismo, con effetti sulla governabilità che ci faranno rimpiangere la bassa performance degli ultimi governi. Ma per un bipolarisno che se ne va, un altro si consoliderà e occuperà l’intera scena politica: il bipolarismo socio-territoriale, chiamiamolo così, con un Nord dalle Alpi a Siena e un Sud dall’Alto Lazio in giù, isole comprese.

Alcuni partiti si schiereranno senza equivoci nei campi avversi: Lega, Idv, Sel. Tutto il Sud ha gettato la maschera, fa discorsi di tono autonomista, in Sicilia addirittura separatista, ma in realtà vuole annettere la capitale nel polo meridionalista. I cantori della nazione barricati a Roma avranno un unico ruolo possibile, essere la punta di lancia delle rivendicazioni del Sud che coincidono con le loro, dal momento che la capitale è già  risucchiata nel gorgo meridionale e la sua funzione nazionale convince solo il presidente della Repubblica e parte della sinistra.

Il Terzo Polo, se ci sarà, si attribuirà il ruolo salvifico dell’unità d’Italia, rimediando consensi tra illusi e transumanti. Se non ci sarà, Fini e Casini, emiliani ma romani di elezione, si candideranno separatamente al ruolo di salvatori della patria, riecheggiando appelli ecumenici oltreteverini. I grandi partiti, Pdl e Pd, non si pronunceranno nella contesa Nord vs Sud, la negheranno a metà strizzando però l’occhio ai vecchi elettori per farsi perdonare. Ma il bipolarismo socio-territoriale si manifesterà nelle liste e nell’esito del voto, perché al Nord e al Sud dovranno imbarcare candidati sintonici ai sentimenti polarizzati dei territori.

Insomma, fatte le elezioni potremmo trovarci in parlamento un nuovo bipolarismo, quello Nord Sud trasversale al multipolarismo espresso dalle etichette dei partiti. Vien da dire ‘speriamo che succeda’. Sarebbe un buon funerale della Seconda Repubblica, e la premessa di interessanti evoluzioni.

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Il nuovo patto sociale di Marchionne /2010/08/27/il-nuovo-patto-sociale-di-marchionne/ /2010/08/27/il-nuovo-patto-sociale-di-marchionne/#comments Fri, 27 Aug 2010 15:25:32 +0000 Oscar Giannino /?p=6866 Sergio Marchionne ieri ha conquistato il Meeting di Rimini. Come il giorno precedente Emma Marcegaglia, si è guardato bene dal cadere nella trappola di chi sulla vicenda Fiat-Melfi alza i toni per alzare polveroni. Ha usato sobrietà e misura, l’uomo che porta la nuova Fiat di John Elkann alla sfida mondiale attraverso l’America. Con il pieno  sostegno non solo dell’azienda che guida ma – c’è almeno da sperarlo – di tutta l’industria italiana, ha lanciato un fermo appello a chiunque nella società italiana comprenda che è tempo di usare grande responsabilità, di scelte rapide ed efficaci, e di regole nuove che le consentano nell’interesse di tutti: delle aziende, dei lavoratori, del Paese intero. E’ un Marchonne molto diverso da quello che, tra 2005 e 2007, piaceva alla sinistra perché “socialdemocratico”. E che torna invece al suo credo illustrato due anni prima di assumere la guida Fiat all’Harvard Business Review, quando il suo unico faro era lo shareholder value. E’ un vero e proprio nuovo patto sociale, quello che Marchionne e il presidente di Confindustria hanno perorato a Rimini. E’ il contrario di quella specie di rozza imposizione, unilaterale e autoritaria, che Fiom e sinistra antagonista attribuiscono al nuovo corso dell’azienda leader della manifattura italiana, e a tutti coloro che insieme a lei indicano nel rapido decollo dei Paesi emergenti il treno della crescita sul quale o ci attrezziamo a salire subito, oppure per anni e anni resteremo confinati a un crescita ancor più stagnante di quella del decennio precrisi.

La premessa per comprendere meglio in che cosa consista, questo nuovo patto sociale, è la comprensione della nuova globalizzazione con cui siamo alle prese. Il mondo post crisi vede leader mondiale della produzione industriale la Cina e non più gli Stati Uniti. Vede l’intera costa occidentale del Pacifico, da Vietnam e Thailandia a Corea del Sud e Indonesia, non più sotto l’orbita economica e politica degli States, ma di Pechino, che ha agganciato l’export asiatico alla soddisfazione dei propri consumi interni, destinati a crescere vorticosamente sostituendo la tossicchiante domanda americana.

Chi era critico della globalizzazione anglosassone, resta ancor più critico anche di questa neoglobalizzazione a guida asiatica. Gode di vasto consenso, infatti, la tesi secondo la quale (vedi ultimi interventi di Luciano Gallino ed Eugenio Scalfari, su Repubblica) tentare di assicurarsi quote crescenti di quei mercati, che vedranno centinaia di milioni di neoconsumatori affacciarsi a bisogni crescenti, comporti una concorrenza al ribasso dei costi e dei diritti dei lavoratori dei Paesi avanzati. Come a dire che se la Fiat punta a diventare un gigante mondiale bisogna fermarla, perché se ci riesce significa che gli operai di Pomigliano, Melfi e Mirafiori saranno costretti alle basse paghe e agli zero diritti degli operai cinesi.

E’ una tesi popolare, abilmente insufflata da quel pezzo di sindacato e di sinistra che continua a guardare alla storia attraverso lo specchietto retrovisore. E le lenti della nostalgia, dei mitici anni in cui bandiere rosse e consensi a milioni tra gli operai facevano pensare che la fabbrica fosse finalmente nelle mani giuste, cioè quelle degli sfruttati in lotta naturale contro gli odiati e famigerati “padroni”.

Senonché, si tratta di una tesi completamente falsa. L’intera storia della globalizzazione, dalla prima rivoluzione industriale manchesteriana e dall’applicazione della legge dei rendimenti comparati e della specializzazione del lavoro, è fatta di Paesi che si affermano e restano per lungo tempo leader, anche nell’espansione dei mercati ad aree a più basso costo del lavoro. Purché naturalmente quei Paesi avanzati non dimentichino che devono preservare due condizioni. La prima è che devono avere una struttura produttiva flessibile, in grado di rispondere rapidamente alla mutata domanda internazionale. La seconda è che devono restare titolari di tecnologie di prodotto e processo, gestionali, commerciali e distributive, capaci di preservare  la leadership nella parte più elevata del valore aggiunto, quella che i Paesi emergenti metteranno più tempo a raggiungere. E’ grazie a questa leadership, che si realizzano utili tali da continuare a sostenere redditi elevati tantod elle inmprese, che dei loro dipendenti. Così facendo la Gran Bretagna preservò la sua egemonia nell’Ottocento, e gli Stati Uniti la loro nel Novecento e fino alla grande crisi attuale. La differenza rispetto al passato è che semmai i Paesi meno avanzati oggi sono assai più rapidi di un tempo, nel dover concedere aumenti salariali e dei diritti: persino la Cina comunista, registra negli ultimi sei mesi aumenti retributivi tra il 15% e il 25% nel più della propria manifattura.

Ma perché la struttura produttiva sia flessibile e contemporaneamente capace di concentrarsi sull’affinamento e l’innovazione delle tecnologie, occorrono anche regole condivise capaci di rendere possibili queste innovazioni continue. A volte, come nel caso Fiat in Italia, innovazioni di forte discontinuità, visto lo stato di fortissima difficoltà dell’azienda quando Marchionne la prese in mano.

Ma il nuovo patto sociale indicato da Marchionne e Marcegaglia offre ai lavoratori più retribuzione netta e meno tassata, non meno. Oltre a rappresentare l’unica strada oggi possibile per difendere la base occupazione attuale, e per estenderla ulteriormente in futuro. Certo, trattare stabilimento per stabilimento e azienda per azienda le nuove condizioni di miglior utilizzo degli impianti attraverso turni, orari e straordinari, in cambio non solo di più retribuzione ma altresì di 20 miliardi di investimenti, implica l’addio ai vecchi riti e miti della contrattazione centralizzata e iperpoliticizzata.

Ma è di questo che c’è bisogno, nel mondo nuovo. Concretezza, rigore, reciproco vantaggio tra capitale e lavoro. Il nuovo patto sociale manda in soffitta i rottami ideologici della contrapposizione di classe. Non si fonda più sul collettivismo corporativo. Ma sull’utile comune e condiviso di una nuova responsabilità sociale. Che guarda al miglioramento del benessere e dei consumi di miliardi di individui nel mondo come a una possibilità per tutti, non come a una minaccia.

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Le politiche keynesiane hanno portato la Gran Bretagna sull’orlo della rovina /2010/06/24/le-politiche-keynesiane-hanno-portato-la-gran-bretagna-sull%e2%80%99orlo-della-rovina/ /2010/06/24/le-politiche-keynesiane-hanno-portato-la-gran-bretagna-sull%e2%80%99orlo-della-rovina/#comments Thu, 24 Jun 2010 16:38:37 +0000 Guest /?p=6358 Riceviamo da Kevin Dowd e volentieri pubblichiamo:

Il miglior contributo al dibattito parlamentare sulla “finanziaria” d’emergenza del regno Unito è quello dato da Steve Baker, deputato eletto nella circoscrizione di Wycombe. Avvalendosi di un’analisi impeccabile e di fonti universalmente rispettate (ONS – Office for National Statistics – e Banca dei regolamenti internazionali) per i dati che ha citato, Baker ha dipinto un quadro spaventoso: le politiche fiscali dei governi dei paesi occidentali sono insostenibili, e lo erano anche prima che si verificasse la crisi delle ultime settimane.

Lo Stato non può continuare a indebitarsi, non può continuare a spendere e non può continuare a tassare. Né, tanto meno, può far sì (se mai lo ha potuto) che l’economia cresca, uscendo dalla situazione attuale. L’unica alternativa per ripagare il debito pubblico sarebbe innescare un periodo di elevata inflazione, ma ciò causerebbe una catastrofe simile a quella che colpì la repubblica di Weimar dopo la Prima Guerra Mondiale.

Tutto ciò comporta la prospettiva dell’insolvenza da parte dello Stato ed è tenendo presente questa possibilità (nonché il fallimento delle politiche keynesiane all’insegna del “più spendiamo, prima ne usciamo”) che è necessario giudicare questa storica legge di bilancio “straordinaria”. Le politiche keynesiane, fondate sui provvedimenti fiscali e monetari più dispendiosi, hanno portato il paese sull’orlo della rovina e devono essere ripudiate, esattamente come fu fatto dopo la crisi con il Fondo Monetario Internazionale del 1976, prima che il vampiro si risvegli.

I dati menzionati da Steve Baker sono decisamente preoccupanti: il debito pubblico è pari a 772 miliardi di sterline, di per sé non una somma intollerabile, ma completamente messa in ombra dagli impegni di spesa per le pensioni pubbliche, che portano il totale a 4.771 miliardi di sterline, sestuplicando il valore del debito. Se a questo aggiungiamo le obbligazioni delle banche, che oggi dipendono dallo Stato sotto più di un aspetto, arriviamo ad un valore (usando i dati dell’ONS) di circa 6.300 miliardi. Vale la pensa scriverlo per esteso: 6.300.000.000.000. Le cifre di questa grandezza hanno un tale numero di zero da risultare del tutto inconcepibili. Tuttavia, giusto per offrire un termine di paragone per questo valore, basti pensare che è pari a oltre quattro volte il PIL del Regno Unito.

Un miliardo qui, uno lì e senza nemmeno accorgercene ci troviamo a parlare di cifre piuttosto serie.

Queste cifre rendono inevitabile la bancarotta dell’Inghilterra, a meno che non vengano adottati provvedimenti estremamente drastici.

Mi dispiace calcare la mano, ma devo aggiungere che questi numeri, per quanto siano agghiaccianti e basati su fonti decisamente solide, non sono neanche lontanamente spaventosi quanto dovrebbero.

1: la maggior parte degli “esperti” ritiene che in futuro il rendimento degli investimenti e dei risparmi sarà inferiore al passato (equity premium più basso, eccetera). Di conseguenza dovremmo abbassare le nostre proiezioni relative ai rendimenti finanziari reali futuri. Solo questo rende molto peggiori le nostre prospettive.

2: la maggior parte delle proiezioni degli obblighi di spesa relativi alle pensioni ignora il “rischio di longevità”, ossia la possibilità che le persone vivano più a lungo del previsto, imponendo maggiori oneri al sistema pensionistico (si tratta del problema che ha colto alla sprovvista i presunti esperti, ossia gli specialisti in calcoli attuariali, almeno fino al 2000; basti pensare al crollo di Equitable Life). Il punto che sto cercando di esprimere è che i progressi nella riduzione della mortalità sono molto più grandi di quanto non appaia alla maggior parte degli osservatori, e che i risvolti per il futuro dei piani pensionistici sono decisamente preoccupanti. Per averne un’idea, basti pensare che, nei prossimi quarant’anni, da solo questo fattore potrebbe comportare un aumento della spesa pensionistica di circa il 40-50%. Gli esperti discutono già oggi della “coda tossica” dovuta la numero di anziani che potrebbe raggiungere e superare la novantina: solo questo potrebbe causare il fallimento di molti dei piani pensionistici che sono riusciti a sopravvivere al saccheggio dei fondi pensione effettuato da Gordon Brown, che ha mandato in rovina il sistema pensionistico non statale.

3: l’aspetto più importante, tuttavia, è che il sistema a ripartizione utilizzato per il finanziamento del sistema pensionistico e previdenziale è, in sostanza, uno schema Ponzi, ossia un piano finanziario a piramide. Una volta compreso questo punto, il resto viene da sé, con una certezza incontrovertibile e quasi matematica: i giovani vengono ingannati e costretti a contribuire in misura crescente ad un sistema che in cambio non gli darà niente, il problema non potrà che peggiorare e il suo crollo è comunque inevitabile. Ricordate Bernie Madoff?

4: ci si prospetta un futuro di guerra tra generazioni, in cui gli anziani (che traggono beneficio dal sistema) diventeranno più numerosi e avranno pretese sempre più esose (cure mediche costose, e via dicendo) per un periodo sempre più lungo, nell’aspettativa che i loro figli e i loro nipoti onorino impegni di spesa contratti prima ancora che nascessero. Il sistema è sempre stato sgradevole, ma oggi il piatto piange. Nel frattempo i più giovani dovranno saldare i debiti contratti per studiare all’università, non potranno permettersi di comprare una casa più confortevole, dovranno venire alle prese con un mercato del lavoro sempre più difficile e fare fronte a oneri fiscali crescenti e non avranno la sicurezza economica (pensioni e assistenza medica garantite, eccetera) dei loro predecessori: l’avranno pagata, ma non ne potranno godere.

Nel 1930 John Maynard Keynes pubblicò uno splendido saggio (Economic Possibilities for Our Grandchildren) nel quale immaginava la situazione economica dell’umanità di lì a cent’anni. Le sue considerazioni non hanno retto alla prova del tempo: Keynes prevedeva che il problema economico (la necessità di lavorare) sarebbe stato risolto e che per mantenerci avremmo lavorato appena tre ore al giorno. Egli si preoccupava degli effetti dell’enorme quantità di tempo libero e delle conseguenze della noia sulla salute mentale dell’umanità. Era lo stesso genio che ci ha detto che gli Stati devono uscire dalle recessioni a forza di spesa e che comunque, nel lungo periodo, saremo tutti morti.

Kevin Dowd ha tenuto fino a pochi mesi fa la cattedra di Financial Risk Management presso la University of Nottingham Business School. Attualmente è, tra l’altro adjunct scholar presso il CATO Institute in Washington. In italiano ha pubblicato Abolire le banche centrali (IBL Libri 2009).

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul blog dell’Institute for Economic Affairs, che ringraziamo per la gentile concessine alla traduzione e pubblicazione su chicago-blog.

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Il crepuscolo del welfare /2010/06/02/il-crepuscolo-del-welfare/ /2010/06/02/il-crepuscolo-del-welfare/#comments Wed, 02 Jun 2010 13:35:39 +0000 Guest /?p=6143 Riceviamo da Silvano Fait (IHC) e volentieri pubblichiamo.

“La dottrina della necessità di una rete di sicurezza per raccogliere chi cade è svuotata di significato dalla dottrina che attribuisce una giusta partecipazione anche a coloro che sanno benissimo sostenersi da soli.” (The Economist, 15 marzo 1958)

Il Welfare State, nei termini in cui è stato concepito fino ad ora, sta rapidamente raggiungendo il traguardo oltrepassato il quale non sarà più in grado di fronteggiare gli impegni presi con i cittadini e, volente o nolente, sarà costretto a ridiscutere i termini dei benefici già accordati. Questo sia in fatto di pensioni, di sanità che di istruzione (cfr. W. Buiter circa le Unfunded Social Securities Liabilities). Il processo di costruzione dello stato sociale si è sempre basato sul presupposto che qualsiasi intervento da parte dello stato all’interno dell’ordine sociale spontaneo abbia delle ripercussioni di carattere economico senza per questo arrivare ad intaccare quegli aspetti di ordine morale che stanno alla base del progresso di una popolazione. Purtroppo invece, generazione dopo generazione, il sentimento di solidarietà umana che ha spinto alla creazione delle prime reti di protezione, si è trasformato in un grande cumulo di pretese che spesso ognuno di noi rivolge nei confronti della società in relazione a bisogni ritenuti non adeguatamente soddisfatti. Paradossalmente l’incremento del benessere, delle opportunità e degli stili di vita possibili hanno ampliato a dismisura la casistica in cui si ritiene necessario l’intervento “riparatore” da parte di un organismo centrale. Il welfare state induce una fetta non trascurabile della popolazione ad aspirare a ruoli meramente burocratici, ma dotati di ampio potere discrezionale, e a competere non per il miglioramento della propria posizione ma per l’accaparramento di benefici e sussidi in modo quasi clientelare. Questa enorme distrazione di sforzi, oltre ad essere un costo, è il sintomo di un mutamento nei modi di pensare e di agire. Intendiamoci: per molti secoli, anzi forse durante tutta la storia, la vita dei “clientes” e dei lacchè di corte è stata e continuerà ad essere più agiata rispetto a quella della maggior parte degli uomini liberi. Bisogna però essere altrettanto decisi nell’affermare che è stata la mentalità borghese ed imprenditoriale di questi ultimi ad aver consentito l’avanzamento dell’umanità a livelli di benessere senza pari.

La fallacia dei processi redistributivi delle odierne forme di welfare è insita nella concezione statica della società che li sottintende, nella visione circolare delle dinamiche economiche, nella concezione di un agire umano ritmato e prevedibile come il succedersi del giorno e della notte o l’alternarsi delle stagioni. Per questo è possibile considerare il matrimonio tra l’ingegneria sociale e le dottrine socialiste e/o keynesiane come predestinato e inevitabile. La decadenza derivante dalla ripetuta introduzione e modifica di processi redistributivi non è il frutto di una loro eventuale cattiva amministrazione. Viene dal sistematico rifiuto di comprendere che siamo quello che siamo come conseguenza di ciò che siamo stati e che per tanto dirigere coattivamente tutte le nostre energie per la realizzazione di un obiettivo sociale o morale, per lodevole che sia, ci impedirà di declinare per noi stessi il verbo essere al futuro. Ogni avanzamento richiede come prerequisito la possibilità che anche soltanto alcuni individui siano in condizione di tentare di scoprire nuove vie, sopportandone i costi e traendone per sé i massimi benefici, per quanto sproporzionati essi possano apparire agli occhi degli altri.

Potrà sembrare cinico, ma non è grazie alle lotte sindacali se la vostra azienda vi fornisce un’assicurazione sanitaria integrativa, o alle competenze statistiche degli attuari dell’Inail se disponete di un’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. In ultima istanza, è grazie all’avidità di noti e ignoti armatori navali i quali, secoli or sono, pagavano dei “premi” ai comandanti che riuscivano a condurre delle bagnarole di legno da una parte all’altra del Mediterraneo. Costoro, senza né saperlo né volerlo essere, furono i pionieri dei meccanismi assicurativi che consentono oggi di ripartire i rischi e soddisfare bisogni di natura sociale e previdenziale. Ed è altamente probabile che all’epoca questi individui rimanessero antipatici né più né meno come oggi generano forme di risentimento le persone che accumulano fortune con successo. L’imprenditore, nell’accezione che la scuola liberale viennese dà a questo termine, vede. Il burocrate, nel migliore dei casi, guarda e imita. Per natura e per mancanza di stimoli, non è votato all’innovazione.

Spesso alcuni citano la Svezia e i paesi scandinavi come modelli. E spesso chi cita la Svezia ha una pessima opinione, ad esempio, della tranquilla e benestante Svizzera, assimilandola ad un rifugio di pirati. Una specie di Tortuga con le Alpi intorno. Pochi però si soffermano sul fatto che la Svezia e gli altri paesi nordici erano già tra i più ricchi al mondo prima che Lord Beveridge concepisse l’idea di uno Stato che assiste gli individui dalla culla alla tomba. E lo erano diventati grazie ad un lungo periodo di pace, libero commercio, e infrastrutture giuridiche idonee a tutelare la proprietà ed i contratti. Tutti i sistemi di protezione sociale hanno necessariamente bisogno di un’economia sottostante forte e dinamica da cui estrarre le risorse. Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia sono nazioni che spesso primeggiano in fatto di libertà economica, burocrazia snella, efficienza nell’amministrazione della giustizia civile e commerciale, trasparenza, bassa corruzione. Fattori non sempre rintracciabili all’interno di macroagreggati come il prodotto interno lordo, ma in grado di compensare il gap fiscale che li separa dai maggiori paesi dell’Europa continentale e mediterranea. Per un approfondimento sui paesi scandinavi invito a leggere alcuni articoli del Mises Institute: The Scandinavian-Welfare Myth Revisited (http://mises.org/daily/4146), The Sweden Myth (http://mises.org/daily/2259), How The Welfare State corrupted Sweden (http://mises.org/daily/2190).

Se la crisi dei debiti sovrani non sarà l’occasione per ridimensionare e riconfigurare il ruolo dello Stato nell’economia, rimettendo gli individui sulla retta via dell’autoresponsabilizzazione, l’Occidente, con il suoi futuro ipotecato, finirà per apparire al resto del mondo (paesi emergenti in testa) come Versailles appariva al resto della Francia: parassita e rentier. Le proteste greche, caratterizzate da una certa dose di violenza urbana, sono riuscite nel giro di pochi mesi a mandare a picco il fatturato dell’unico settore, quello turistico, immediatamente offribile sul mercato. Senza nulla togliere al diritto di rimostrare contro la propria classe politica, spiace constatare come chi non debba mai fronteggiare costi, ricavi e clienti perché paga pantalone, abbia difficoltà a capire il danno che l’estremismo barricadiero ha inferto alla società greca e che potrebbe inferire al resto d’Europa. Parallelamente a questi eventi, i processi di negoziazione interni alla Unione Europea legati al bail out dei debiti sovrani cominciano a far emergere in maniera strisciante piccole forme di miope ed incivile nazionalismo che altrettanto ingenuamente si pensa di sconfiggere conferendo maggiori poteri decisionali alle strutture centrali dell’Unione. L’Europa non ha certo bisogno di cominciare a coltivare nuovamente discutibili “sentimenti collettivi” di natura pseudo sciovinista, la cui origine deriva da una scarsa definizione e percezione delle proprie responsabilità e dei propri doveri individuali. La totale incapacità di reinventarsi o di immaginare un futuro che non consista semplicemente in una lenta agonia dello status quo è un danno peggiore, per le nuove generazioni, rispetto a quello derivante da qualsiasi dissesto delle casse pubbliche. E questa rischia di essere l’amara eredità di una società al tempo stesso timorosa dei mutamenti necessari a rinvigorirne la crescita ed incapace di reimpostare le proprie reti di protezione sociale.

Shumpeter e Hayek prefigurano la fine del capitalismo a causa del suo stesso successo. La ricchezza da questo prodotta incrementa le istanze redistributive ed egualitarie fino al punto in cui il sistema si sclerotizza e poi collassa. Agli individui non resta che combattere per dividersi le fette di una torta che diventa via via più piccola. Perché ciò non si verifichi è necessario cominciare ad immaginare una società più libera, fatta di uomini, donne e famiglie che collaborando e competendo tra loro soddisfano, nei limiti della natura umana, i rispettivi bisogni. Dalla culla alla tomba.

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Un bene pubblico? privatizzare l’acqua: Charles Murray docet /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/ /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/#comments Mon, 03 May 2010 17:36:56 +0000 Serena Sileoni /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/ Come spesso accade, e come troppo spesso ci si dimentica quando si affrontano le politiche pubbliche, la semplicità è il modo migliore per giudicare la bontà o meno di una scelta.

A proposito della cd. privatizzazione dell’acqua, la lettura di questo brano di Charles Murray, tratto da What it means to be a libertiarian, che a breve sarà disponibile anche in italiano, è appunto una di quelle occasioni in cui poche parole semplici sono molto più efficaci di tante welfariane previsioni e stime.

Esse sembrano tanto più sinteticamente efficaci quanto più, credo, ognuno di noi può ritrovare la propria esperienza di rapporto vissuto con la pubblica amministrazione, rimanendo difficile contestare la verosimiglianza di un quadro del genere, anche se dipinto avendo a mente un paese straniero (gli USA) e qualche anno fa (nel 1997).

Dopo la lettura della citazione, chiedetevi pure se ancora siete convinti che privatizzare l’acqua sia un male pubblico.

In una parte della nostra vita, quella gestita dal governo, dobbiamo compilare dichiarazioni di redditi, rinnovare la patente di guida [...] cercare rettificare la somma pagata in più per la bolletta dell’acqua [...] Ciò che il settore privato può risolvere in pochi minuti al telefono, per ventiquattro ore al giorno, il governo può risolverlo dalle dieci alle tre, dal lunedì al venerdì, andandoci di persona e con la necessità di tre visite perché il problema sia compreso bene. La somma in eccesso sulla bolletta dell’acqua? Si finisce per pagarla, poiché, se si insiste, un ufficio amministrativo caduto in confusione potrebbe chiudere il rubinetto per mancato pagamento.

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Lo sbilancio previdenziale: c’è, eccome /2010/04/29/lo-sbilancio-previdenziale-ce-eccome/ /2010/04/29/lo-sbilancio-previdenziale-ce-eccome/#comments Thu, 29 Apr 2010 09:50:16 +0000 Oscar Giannino /?p=5814 Non c’è dubbio che bisogna essere riconoscenti, per il gran lavoro svolto all’Inps dal presidente Antonio Mastrapasqua e da tutti i suoi collaboratori. La relazione annuale INPS sul 2009  presentata l’altroieri in Parlamento testimonia di un grande sforzo di efficienza tecnologica e di procedure, con 600 milioni di euro di risparmi cumulati, 18 miliardi di sostegni a vario titolo alle vittime della crisi di cui 10 alle famiglie, 18 milioni di prestazioni pensionistiche pagate, 20 milioni di lavoratori assicurati, un milione e mezzo di imprese con cui interfacciarsi. Anche se, malgrado tutto questo, il testo della relazione sul sito Inps ancora non c’è. Tre dati almeno, però, si stagliano tra tutti quelli forniti, e disegnano una fotografia del Paese che ha anche ombre, al di là delle luce su cui Mastrapaqua giustamente ha insistito. La prima ombra è il pesante deficit reale, altro che avanzo. Vediamo i dati.

Il primo riguarda il bilancio finanziario. Viene dichiarato un avanzo di 7,9 miliardi rispetto agli 11 del 2008. Ma a fronte di uscite per 268,6 miliardi, le entrate contributive ammontano nel 2009 a 148,5 miliardi. Il resto sono trasferimenti dal bilancio dello Stato per 83 miliardi, in amento del 5% quasi sull’anno prima. E’ evidente che per un conto veritiero, al dà della tecnicalità delle diverse poste e del fatto che all’Inps spettano funzioni di assistenza oltre che previdenziali, bisogna concludere che il bilancio resta in rosso per 83 miliardi meno gli 8 di avanzo, cioè di 75 miliardi. Lo sbilancio era pari a 59 miliardi nel 1999, a 68 nel 2007. E’ cresciuto del 24% in un decennio.  Nel dare atto all’INPS di fare il possibile per migliorare l’efficienza della propria gestione, questo è il maggior dato su cui riflettere. Senza nuovi interventi – a proposito dei quali si comprende che la politica non muoia dalla voglia di confrontarsi con sindacato e  imprese – i trasferimenti generali dal bilancio dello Stato sono destinati ad accrescersi.

Il secondo dato riguarda i 16 e oltre miliardi spesi per i 2,6 milioni di trattamenti d’invalidità. L’INPS sta potenziando con successo i controlli e le revoche, e si espone a ulteriore contenzioso come non bastasse quello che già lo colpisce. Ma lo scandalo del ministro Tremonti, che ripete spesso i tassi di concentrazione dell’invalidità in alcune province del Sud superiori anche del 500% al resto d’Italia, resta pienamente giustificato. E’ una prassi che in alcune aree d’Italia ha configurato una vera forma impropria di integrazione al reddito delle famiglie. In cambio quasi sempre di consensi alla politica e al sindacato, con medici e funzionari compiacenti. E’ una faccia dell’Italia premoderna che colpisce i contribuenti onesti, uno scandalo che deve finire.

Il terzo dato è quello che ci dice molto dell’Italia attuale e del suo futuro. Nel 2010, la popolazione degli anziani sopra i 65 anni supererà quella dei giovani tra gli 0 e 19 anni. E’ l’inversione di una tendenza plurisecolare, dovuto all’innalzamento della vita attesa, al minor tasso di fecondità da oltre 25 anni inchiodato a 1,5 nati per donna invece dei 2,1 che servono a sostenere l’equilibrio demografico. Nel 2009 i nuovi sessantenni sono stati 780 mila, i nuovi ventenni poco più di 600mila. Se allunghiamo la proiezione fino al bambini nati nel 2009, per ogni anno tra il 2010 e il 2030 otteniamo che il saldo migratorio necessario per l’equilibrio dei conti intergenerazionali sale dalle 170 mila unità del 2009, a 200mila l’anno fino al 2017, per innalzarsi a ben 400 mila l’anno tra il 2019 e il 2030. Trecentomila nuovi stranieri l’anno per vent’anni sono sei milioni di individui: è questo l’apporto di immigrati di cui l’Italia e l’INPS hanno bisogno, per non collassare sotto il peso di trasferimenti ancora maggiori dalla fiscalità generale.

Di qui tre conseguenze. La prima riguarda la necessità di una forte svolta nelle politiche a favore della famiglia e della natalità. Si tratti di deduzioni fiscali o del quoziente familiare, sono più che mai necessari approcci “alla francese” o alla “tedesca”, per innalzare il tasso di attività femminile rendendo insieme possibile avere più figli, come accade in quei Paesi.

La seconda conseguenza è che sulle politiche dell’immigrazione non è più il caso di fare demagogia. Senza imigrati, e  ben integrati, l’Italia secondo i numeri che abbiamo non si regge.

La terza è che bisogna abituarci a un paese in cui gli ultra sessantacinquenni passeranno oltre i 20 milioni tra poco, per salire fin verso i 30. E’ un Paese in cui cambia la modalità del consumo e dell’investimento, del risparmio e dell’utilizzo del patrimonio. In cui devono essere diversi i modi di intendere e offrire i servizi, la mobilità nelle città e sui lunghi tratti, la facilità di accesso alla pubblica amministrazione. Ma anche l’intrattenimento e i consumi culturali, il cibo e le abitudini alimentari, persino lo sport e il tempo libero. In un Paese dove tutto è modellato in apparenza per “sempre giovani”, saremo davvero capaci di adeguarci a un’”Italoia di vecchi’? E’ una asfida culturale e umana, prima che di aridi conti previdenziali.

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Un divertissement per convincere gli americani a non europeizzarsi /2010/01/22/un-divertissement-per-convincere-gli-americani-a-non-europeizzarsi/ /2010/01/22/un-divertissement-per-convincere-gli-americani-a-non-europeizzarsi/#comments Fri, 22 Jan 2010 18:35:33 +0000 Piercamillo Falasca /?p=4882 Qualche giorno fa Paul Krugman sentenziò sulle pagine del New York Times che gli Stati Uniti avrebbero dovuto imparare dall’Europa (“Learning from Europe”), un’economia dinamica quanto quell’americana – a detta dell’economista liberal – che avrebbe dimostrato come “la giustizia sociale ed il progresso possono andare mano nella mano”. Per Krugman è solo un vecchio luogo comune quello che dipingerebbe la socialdemocrazia europea come un modello economico rigido, lento e decadente.
Insomma, in vista di un’incombente europeizzazione degli Stati Uniti dell’era Obama (ma di “era” si potrà davvero parlare solo se il presidente supererà le forche caudine delle elezioni di mid-term e, soprattutto, il Mar Rosso delle presidenziali del 2012), ecco che i profeti liberal edulcorano il racconto di cosa sarà l’America all’europea.

Per chi nella vecchia Europa socialdemocratica ci vive – e noi italiani siamo più europei degli altri da questo punto di vista – il ragionamento di Krugman solleva due istinti diversi: da un lato, ci sono i sempreverdi anti-americani che esultano e cantano le lodi dell’economia sociale di mercato; dall’altro lato, stanno coloro che tristemente osservano il loro mondo ideale diventare sempre più simile al loro mondo reale.
Spetta agli americani decidere la via che intendono seguire. Da parte nostra, consigliamo loro di guardare lo schema che segue, che riprendiamo dal blog Super-Economy, curato dallo stravagante Tino Sanandaji, studente PhD a Chicago (e coinquilino di un mio grande amico, tra l’altro). E’ un divertissement per il fine settimana, non ha valore né pretese scientifiche, ma fa riflettere.

Prendiamo i circa 196 milioni di americani che si auto-classificano discendenti da uno dei paesi dell’Europa dei Quindici (escludiamo quindi coloro che si definiscono genericamente “europei”, “anglosassoni in senso lato” o “scandinavi”) ed osserviamo il reddito pro-capite per l’anno 2007 dei diversi gruppi. Se ogni paese Ue avesse un reddito pro-capite pari a quello degli americani che da quello stesso paese discendono, il reddito pro-capite dei Quindici sarebbe stato nel 2007 di circa 53mila dollari, anziché 33mila. Interessante.

Se gli americani riflettessero su queste cifre, siamo sicuri che vorrebbero davvero l’europeizzazione degli Stati Uniti?

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Italia meno disoccupata. Oro o princisbecco? /2009/11/07/italia-meno-disoccupata-oro-o-princisbecco/ /2009/11/07/italia-meno-disoccupata-oro-o-princisbecco/#comments Sat, 07 Nov 2009 08:48:37 +0000 Oscar Giannino /?p=3633 L’Economist affronta in questo e questo articolo il tema di che cosa l’America e l’Europa abbiano reciprocamente da imparare, considerando i rispettivi tassi di disoccupazione. Effettivamente, il tasso medio dell’euroarea è poco sotto il 10%, quello USA l’ha appena superato. Ma ciò che offre argomento su cui riflettere è che in Europa Germania e Italia, i due paesi più manifatturieri ed esportatori che proprio per questo perdono tra i 6 e i 5 punti di Pil dacché la crisi è iniziata, sono tra quelli coi più bassi tassi di disoccupazione. C’è di che fare trionfalismo? Immaginavo di leggerne, oggi, sui media italiani che lo accostano all’annuncio che abbiamo superato come sesto paese al mondo il Regno Unito, e all’indicatore anticipatore Ocse – uno strumento del tutto inservibile, dal punto di vista quantitativo, che da qualche mese è però la delizia della politica italiana – che torna a dire che l’Italia uscirà dalla crisi meglio di tanti altri. Così è, infatti, la retorica impazza. Secondo me, di gonfiare le gote non è il caso. Di riflettere, sì. 

Germania e Francia sono tra i paesi europei che, davanti alla crisi, hanno varato praticamente l’intero spettro di politiche attive pubbliche di sostegno all’occupazione rilevate dall’Ocse. Lavoratori che diventando a tempo determinato o parziale mantengono integrazione al reddito pari a quello conseguito quando erano a tempo pieno e-o indeterminato, sgravi fortissimi o addirittura sospensioni del pagamento dei contributi sui lavoratori che entrano in programmi di ristrutturazione differita rispetto a quella richiesta dall’azienda da cui dipendono, e via proseguendo.

L’Italia, al contrario, non ha fatto nulla di tutto questo. Anche l’Economist giustamente rileva che siamo tra i grandi paesi europei quello i cui strumenti di integrazione del reddito ai disoccupati sono quelli meno lontani dal modello americano. E questo è un bene. Ciò che rende meno alta la disoccupazione aggiuntiva nell’unità di tempo, nel nostro caso, è il molto maggior ritardo delle imprese a ristrutturare, rispetto alla decisione assoluta messa in mostra da quelle americane, dove la produttività nel terzo trimestre, a fronte del record di disoccupati da oltre 25 anni, è salita stellarmente di oltre il 9%.

In sintesi. I grandi Paesi europei con meno disoccupati stanno accumulando più deficit pubblico per programmi straordinari di welfare ai senza lavoro, ma contano su una domanda interna come contributo alla ripresa del Pil quasi dovunque maggiore che da noi. Noi conteniamo invece i disoccupati perché rallentiamo più di altri la razionalizzazione dei fattori produttivi necessaria a ripartire con forza da perimetri e volumi più ristretti, ma con maggiore innovazione. La minor disoccupazione odierna da noi sarà una più bassa partecipazione al mercato del lavoro domani – è stato così negli anni alle nostre spalle, in cui grazie a maggior flessibilità abbiamo innalzato di poco il tasso di occupazione giovanile, e di pochissimo quello femminile – per gli altri un denominatore più elevato che renderà meno oneroso il debito pubblico, nel rapporto tra questo e il prodotto nazionale. Aspettiamo dunque, prima di vani trionfalismi. È stato positivo gestire in deroga l’estensione degli ammortizzatori, preferita dal governo al vano torneo che si sarebbe scatenato in parlamento e sui media con l’opposizione, in caso di loro riforma strutturale. Ma bisognerebbe avere il fegato di alcune rotture di continuità proprio oggi, sulla tasse e sulle regole del mercato del lavoro e delle pensioni, per accelerare la crescita e renderla meglio sostenibile. Alora sì, avremmo imparato qualcosa dagli errori del passato e lo avremmo messo a frutto.

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