CHICAGO BLOG » università http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Della protesta universitaria, del furto di futuro economico /2010/11/30/della-protesta-universitaria-del-furto-di-futuro-economico/ /2010/11/30/della-protesta-universitaria-del-furto-di-futuro-economico/#comments Tue, 30 Nov 2010 19:39:06 +0000 Oscar Giannino /?p=7740 Prima i tetti. Poi i monumenti. E infine i blocchi a strade, autostrade e stazioni, gli attacchi alle forze dell’ordine. Gli universitari in lotta contro la Gelmini rianimano l’anelito barricadero che aveva da anni in Italia riavvolto mestamente le sue bandiere. Come mai, non hanno dato vita a scontri, blocchi e disordini due milioni di disoccupati? Come mai, nessun segno analogo dalle duecentomila imprese che tra quattro settimane escono dalla moratoria bancaria, col rischio che si apra la morìa per loro e gli oltre due milioni di loro dipendenti? E’ un moto spontaneo quello universitario, è la riproposizione protestataria del passato, o0 è la fucina in cui si forgia l’identità di una nuova generazione?

Porsi le domande è il minimo, in un Paese che fino all’altro ieri era giustamente e trasversalmente fiero di aver saputo mantenere coesione sociale nella crisi, un giudizio da estendere in realtà pienamente anche alla Cgil, che al di là del fuoco e fiamme dialettico su Pomigilano e sulle deroghe al contratto dei meccanici, è stata in realtà molto responsabile in centinaia e centinaia di crisi aziendali e territoriali, evitando che le legittime proteste prendessero la mano e bloccassero o spaccassero il Paese. Il minimo è anche porsi le domande senza cadere in trappola, quella cioè di guardare alla generazione degli attuali universitari col paraocchi della propria, di generazione. Nel mio caso, quella cresciuta a Torino negli insanguinati e violenti anni 70.

Prima domanda: pesa, la strumentalizzazione politica? Sì e no. Sì, perché le difficoltà innegabili e crescenti dell’esecutivo Berlusconi, lo sfilarsi dei finiani nei voti d’aula e l’enorme pressione dei media e dei sondaggi sul governo hanno finito per alzare molto la temperatura. E i ragazzi ne hanno fatto tesoro, perché non sono scemi. Chiunque abbia protestato in piazza sa che il limite della manifestazione sta istintivamente in ciò che si avverte nell’aria. Se entrando a forza in Senato sai che potrai contare sul consenso dei media e sul fatto che polizia e magistrati ci andranno con la mano leggera, perché il primo a non potersi permettere l’accusa di nervi saltati è il governo in difficoltà, allora entrerai a forza in Senato. L’indomani, farai ancor di più. Se leggi tutti i giorni su giornali borghesissimi o ascolti in tv che si sta preparando il 25 aprile in Italia, allora il blocco di autostrade e stazioni sarà come il grande atto preparatorio che attesta che c’eri anche tu, a dare la spallata finale all’autocrate. Quest’amosfera ha contato eccome, nelle ultime due settimane, perché la protesta universitaria salisse d’asprezza. Dopodiché, se pensate che dietro la minoranza iperprotestataria ci siano parole d’ordine di partiti e sindacati dell’opposizione, non avete da anni posto piede in un’università italiana. Non è così.

Secondo: è rinata, la mitica unità di studenti e lavoratori? No e sì. Tra gli studenti di oggi e il popolo degli artigiani, commercianti e partite IVA, come delle piccole imprese industriali o di servizi vittime della crisi, c’è una barriera. Fortissima estraneità. Il vecchio cavallo di battaglia dell’unità rivoluzionaria tra libro e chiave inglese è spirato negli anni Ottanta. Non rinasce oggi. Al suo posto, un’alleanza singolare. Per quanto mi riguarda, incomprensibile. Di fatto, gli studenti hanno preso a protestare in coda ai ricercatori universitari, i veri incubatori della fiammata di protesta, da mesi. Sono stati i ricercatori i primi a salire sui tetti. Seguiti dai politici in processione che, per conto mio, sul tetto dovrebbero a quel punto restarci anche sotto la neve, visto che il loro mestiere è risolverli, i problemi, non aizzarne l’insolubilità,siano di ex maggioranza come i finiani o di vecchia opposizione come Di Pietro e il Pd. Di fatto, gli studenti hanno fatto proprio e ripetuto il mantra del no ai tagli all’Università – spariti, ma che importa – e il no dei ricercatori all’idoneità entro tre anni o della massima protrazione di un altro triennio dei loro contratti, perché se a quel punto l’idoneità non si è ottenuta allora si va a casa. Come e perché gli studenti facciano causa comune con chi nell’Università insegna e chiede ancor più che in passato risorse da destinare solo a chi lavora negli Atenei, invece che destinate alla qualità dell’offerta formativa per chi l’Università la frequenta, questo per me è contraddizione e mistero. La vera rivoluzione sarebbe se gli studenti dicessero basta allo strapotere degli ordinari e degli associati nella fallimentare gestione universitaria, mandassero a quel Paese le richieste dei ricercatori per un posto sicuro, chiedessero invece un riesame di merito di tutti i titoli di chi nell’Università pretende di insegnare e fare ricerca. I casi sono due: o gli studenti non le conoscono, le cifre e le responsabilità del disastro universitario italiano figlio di 40 anni di ope legis e di concorsi locali gravati da cordate e cooptazioni nepotistiche, oppure la loro è tutt’altro che rivoluzione. È conservazione bella e buona. Alcuni rettori lo hanno capito benissimo. Dopo aver incassato in Parlamento, dove sono lobby fortissima, belle smussate alla Gelmini in versione originaria che tagliava qualche artiglio ai baroni, hanno aizzato gli studenti alla protesta nel nome dell’autonomia universitaria, com’è accaduto a Firenze. Pessimo paradosso, per i giovani sui monumenti, fare il gioco di coloro grazie ai quali l’Università che frequentano non premia il merito.

Terzo: c’è una nuova identità collettiva, quel senso giocoso e improvvisamente deciso a tutto, di contestazione radicale in nome dell’apparentemente impossibile che da sempre si associa alle proteste giovanili, segnali nella modernità di una grande rottura culturale, dall’Ottocento e dalla rivoluzione romantico-nazionale al 1871 egualitario della Comune parigina, dagli spartachisti a Berlino fino al 1968 e al maggio francese? Guardiamogli bene negli occhi, i protagonisti dei blocchi stradali. Non hanno niente a che vedere con l’idealismo utopico della rivolta anticapitalista di 40 anni fa, non hanno parole d’ordine antisistema da scandire. Quelle sono finite nella tomba del movimento antiglobalista, in un mondo che oggi cresce solo grazie ai Paesi che abbiamo associato vent’anni fa nella globalizzazione: e per fortuna. Ma un senso di estraneità da furto ai loro danni di presente e di futuro, nei protestari c’è eccome. Non sapranno cifre e trend del disastro universitario italiano, perché le proteste non si nutrono di numeri e analisi ma di slogan e obiettivi simbolici da abbattere. Ma capiscono da anni in Italia l’ascensore sociale è bloccato, che il lavoro ipertutelato dei loro padri col cavolo che i più l’avranno mai, che il reddito disponibile di chi saltabecca da un contratto all’altro è all’inizio e resta miserrimo per anni, in moltissimi casi. Che bisogna contare sul patrimonio delle famiglie, elevatissimo rispetto a quello di altri Paesi, ma è pur sempre una vita del cavolo, dire grazie a papà e mamma fino a 40 anni aspettando di ereditare. Non hanno nessun Sartre o Cocteau attuale come libri di formazione, non leggono neanche i giornali e se ne fottono allegramente della società luqida come di ogni altra cristallizzazione socio-politica del disordinato mondo attuale, piegato da vecchie tutele a costo troppo elevato addossate a chi non ne avrà. Ma un futuro diverso da quello che lorio si prospetta sì, batte nelle loro teste come qualcosa da prendersi anche a costo di occupare strade e monumenti. In questo, li capisco. In un paese a crescita da zerovirgola e mentre si alza il costo dell’eurodebito, hanno due volte ragione.

Quarto: che risposta dare. Alla protesta contro un presente grigio, la sinistra ha per storia e vocazione una maggior vocazione. Ma la destra sbaglia, se risponde tornate a casa a studiare. Una sana destra avrebbe dovuto esser presente dall’inizio e naturalmente, nelle università. Per mostrare che il primo avversario è il docente che prende tutto per sé, e il secondo il politico che se lo tiene amico e lo accontenta. Per scandire che i Paesi che spendono di più sono quelli che hanno le Università libere di pagare quanto vogliono, perché assumono i migliori che ti faranno guadagnare di più se riesci a laurearti con loro. Per chiedere più borse di studio per soli risultati ottenuti, e non per i numerini dell’ISEE che sono figli della truffa fiscale iperstatalista e nemica dell’individuo e dei suoi meriti, tipica del nostro Paese. E’ un partiocolare non secondario, per la politica italiana degli anni a venire. La destra universitaria c’era, minoritaria ma combattiva, negli anni Sessanta e Settanta. Oggi, sembra non esserci più. E ci dice come al solito più degli errori dei padri, che delle responsabilità dei figli.

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Università: come non si debbono fare le riforme /2010/11/25/universita-come-non-si-debbono-fare-le-riforme/ /2010/11/25/universita-come-non-si-debbono-fare-le-riforme/#comments Thu, 25 Nov 2010 22:40:20 +0000 Ugo Arrigo /?p=7692 La riforma degli atenei statali in corso di approvazione alla Camera rappresenta un ottimo esempio di come non si debbono fare le riforme. In primo luogo non dimostra di poter realizzare un miglioramento rispetto ad uno status quo ritenuto insoddisfacente (mentre un buon progetto di riforma deve provare di poter realizzare un nuovo stato che sia superiore e dominante, possibilmente in maniera netta, rispetto a quello corrente). Per dimostrare di poter superare gli aspetti problematici della situazione esistente deve essere in grado di identificarli e quantificarli con esattezza: prima di individuare la terapia occorre una diagnosi accurata. La riforma, invece, è  una terapia senza diagnosi (secondo difetto).

Cosa si imputa infatti all’università pubblica? Una  scarsità di risultati solo in assoluto o anche in rapporto alle risorse consumate?  Si tratta di due ipotesi molto differenti dato che nel primo caso la colpa è delle risorse insufficienti e nel secondo dell’inefficienza del sistema che, invece, spreca risorse. Nel primo caso occorre dare più risorse per ottenere risultati migliori, nel secondo caso le risorse si possono anche ridurre all’accrescersi dell’efficienza del loro utilizzo.

Nel nostro paese vi sono 12 adulti laureati ogni 100 abitanti, nei paesi sviluppati dell’area Ocse 26 ogni 100 abitanti; in Italia coloro che hanno conseguito un dottorato di ricerca sono 16 ogni 100 mila abitanti, in Europa 50, negli Stati Uniti 48. Il minor output totale nel tempo del sistema universitario è dunque provato, tuttavia il rapporto output/input segnala per l’Italia un valore superiore alla media europea: da noi vi sono circa 30 studenti iscritti per docente di ruolo, ricercatori compresi (60 mila docenti per 1,8 milioni di  studenti), nell’area Ocse 15,8 studenti per docente, poco più della metà. Se escludiamo dal numeratore i fuori corso, che esistono solo in Italia e che tuttavia non sono iscritti ‘in sonno’ ma consumano risorse,  il rapporto docenti studenti scende in Italia a 21,4, rimanendo comunque più elevato del 35% rispetto alla media Ocse. Inoltre, se escludiamo dal denominatore i ricercatori, i quali non sono tenuti dalle norme vigenti a svolgere attività didattiche (sino al decennio ’90 non potevano essere titolari di insegnamenti ma solo di attività didattiche integrative), e vi lasciamo i soli professori ordinari e associati, il rapporto studenti docenti sale a 35 se escludiamo i fuori corso dal numeratore e a 48 se li includiamo. Per quanto riguarda la spesa pubblica per la formazione superiore essa è pari in Italia allo 0,8% del Pil, nei paesi Ocse all’1,3% del Pil. Essa è inoltre pari in Italia al’1,6% della spesa pubblica totale contro il 2,9% nell’Unione Europea.

Sul fronte della ricerca in Italia vi sono 82 mila addetti (universitari e appartenenti ad altri enti), in Francia e Gran Bretagna oltre 160 mila, in Germania oltre 250 mila, in Giappone oltre 600 mila, negli Stati Uniti più di 1,2 milioni. La spesa complessiva per la ricerca è pari in Italia all’1,1% del Pil ed essa è per oltre metà a carico del settore pubblico; in Europa è pari all’1,9% del Pil. L’Italia e gli altri paesi europei si erano impegnati a raggiungere il 3% del Pil entro il 2010. Pur essendovi indubbi margini di miglioramento di efficienza (rimando al mio ‘progetto liberale’ di riforma degli atenei) è evidente che la scarsità di risultati complessivi del sistema di formazione universitaria e della ricerca sia soprattutto conseguenza della scarsità di risorse messe a disposizione.

I dati precedenti sono noti (debbono ragionevolmente esserlo) ai ministri che hanno promosso la riforma dell’università, essendo riportati a pag. 37-38, in una scheda curata dal  Ministero dell’Università, Istruzione e Ricerca, dell’Allegato al Documento di Programmazione Economico-Finanziaria per gli anni 2010-2013 presentato dal Ministro dell’Economia e dal Presidente del Consiglio il 15 luglio 2009.

Come si può deliberare senza conoscere? Come si può deliberare ignorando ciò che è  noto? … come se le soluzioni non maturate e non ragionate non partorissero necessariamente nuovi grovigli e rinnovate urgenze di porre rimedio a peggiori mali.

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La liberalizzazione delle rette universitarie, per togliere ai ricchi e dare ai poveri /2010/10/05/la-liberalizzazione-delle-rette-universitarie-per-togliere-ai-ricchi-e-dare-ai-poveri/ /2010/10/05/la-liberalizzazione-delle-rette-universitarie-per-togliere-ai-ricchi-e-dare-ai-poveri/#comments Tue, 05 Oct 2010 12:48:06 +0000 Piercamillo Falasca /?p=7215 Pubblicato anche su Libertiamo.it - Partiamo da un dato: le rette universitarie sono molto inferiori al costo che lo Stato sopporta per erogare ad ogni studente l’istruzione universitaria. Come scrive Francesco Giavazzi su lavoce.info, uno studente universitario costa allo Stato circa 7mila euro l’anno, mentre le rette raramente superano i 3mila euro l’anno. Non giriamoci intorno: con ‘prezzi’ tanto più bassi del costo dell’istruzione, si riduce l’incentivo a studiare e pretendere una elevata qualità del servizio.

Ma c’è di più. Un punto cruciale delle tesi di Roberto Perotti nel suo libro “L’università truccata”  (Einaudi, 2008) è il seguente: rette uguali per tutti, o poco differenziate, sono di fatto un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. L’argomento dell’economista è il seguente: circa un quarto degli studenti universitari proviene dal 20 per cento più ricco delle famiglie; e meno di uno studente su dieci proviene dal 20 per cento più povero. Numero più numero meno – il libro di Perotti usa dati del 2006, ma le cose non sono mutate – la sostanza è questa: all’università vanno soprattutto i figli dei più abbienti, che potrebbero pagare rete più alte, mentre la loro laurea viene finanziata con le tasse di tutti, incluse i contribuenti più poveri, che solo eccezionalmente mandano i loro figli all’università.

E invece, con il risparmio derivante dall’innalzamento delle rette universitarie sarebbe possibile garantire non solo una migliore qualità complessiva, ma anche l’accesso gratuito dei poveri all’istruzione superiore attraverso borse di studio e prestiti d’onore. All’ombra dell’ideologica concezione della giustizia sociale, insomma, prospera la vera ingiustizia dell’accademia pubblica italiana.

Come nasce il problema? Gli atenei non sono liberi di determinare le loro rette, perché per legge (l’articolo 5 del DPR 306 del 1997) la contribuzione studentesca non può superare il 20 per cento dei trasferimenti statali ordinari. Con la conseguenza diabolica che la riduzione dei trasferimenti statali finisce per ridurre in proporzione anche l’ammontare delle risorse reperibili attraverso le rette. Da tempo Francesco Giavazzi e Roberto Perotti (ma l’argomento è da molti anni un cavallo di battaglia di Antonio Martino, per fare un esempio) sostengono che il taglio dei trasferimenti statali alle università – una costante di questa legislatura – è sostenibile e ‘intellettualmente onesto’ solo se accompagnato dalla concessione alle stesse di piena autonomia nella determinazione delle rette. E da tempo il governo fa orecchie da mercante, forse timoroso delle inevitabili proteste dei tanti che, quando parlano di giustizia sociale, non sanno guardare oltre il proprio naso.

Con un emendamento firmato da tre deputati di Futuro e Libertà (Barbaro, Della Vedova e Di Biagio) la proposta di liberalizzazione delle rette arriva oggi in Commissione Cultura alla Camera, dove è appunto in discussione la riforma dell’università. Difficile che la maggioranza si apra, ed altrettanto difficile che il centrosinistra sostenga l’iniziativa, ‘catturato’ com’è in questi ambiti dal peggior sindacalismo studentesco. Ma l’emendamento di FLI è come una goccia di benzina: di per sé non serve a far girare il motore, ma un piccolo incendio nel dibattito lo può provocare. Soprattutto se chi ha davvero a cuore il futuro dell’università italiana farà sentire la propria voce a supporto.

Accanto alla proposta di eliminazione del tetto alla contribuzione studentesca, i tre deputati hanno presentato un’altra misura a nostro giudizio interessante: la deducibilità all’80 per cento delle donazioni private alle università, potenzialmente una spinta decisiva per una vera autonomia degli atenei. Vedremo.

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Manuel Ayau, un uomo di cui non sentirete parlare /2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/ /2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/#comments Wed, 04 Aug 2010 18:56:19 +0000 Alberto Mingardi /?p=6713 Difficilmente ne avrete sentito parlare, ma Manuel Ayau (nato il 27 dicembre 1925 e venuto a mancare ieri) è un uomo la cui vita ha avuto un senso. Pochi hanno fatto quanto lui  per la libertà individuale e la scienza economica, nel suo disastrato Guatemala e non solo.
Ayau era un imprenditore ma a partire dagli anni Settanta prese a dedicare una quota sempre più ampia non solo dei suoi averi ma del suo tempo e più in generale delle sue energie a quell’universo di idee caro anche ai lettori di questo blog. Partecipò attivamente ai lavori della Mont Pelerin Society che, prima di Internet, era pressoché l’unico strumento di cui per tenersi in contatto disponeva la piccola comunità di studiosi che a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta gettò le basi della lenta e progressiva “rinascita” del liberalismo classico dopo le due guerre. “Muso”, come lo chiamavano gli amici e tutti coloro che in qualche maniera finivano per sentirlo amico pur avendo avuto scambi episodici con lui, era per molti come per Bob Higgs “un eroe”. Qui qualche cenno biografico e qui il podcast di un bel documentario-conversazione del Liberty Fund. E’ stato uno straordinario “imprenditore intellettuale”, cui dobbiamo (così lo dobbiamo a Ralph Harris, a Jacques Garello, a Leonard Read e a pochissimi, temerari altri) la sopravvivenza delle idee di mercato in una stagione terribile, cui l’ingresso nelle sedi ufficiali del dibattito pubblico era loro interdetto, grazie a delle piccole e agili “istituzioni corsare”.
Ayau ha fatto tantissime cose della vita. E’ stato un uomo d’impresa fra i maggiori del suo Paese, ha fatto il consigliere d’amministrazione di imprese importanti, non si è sottratto all’amaro calice della politica, ha fondato nel 1959 il primo think-tank liberale del suo Paese e dell’America latina (il Centro de Estudios Economico-Sociales) ma la sua grande opera è stata l’Universidad Francisco Marroquin. Una straordinaria università privata, che ha fatto nascere e crescere, con l’obiettivo (raggiunto) di farne un centro di eccellenza in grado di accompagnare il progresso civile del suo Paese. Credo sia l’unica università del mondo dove gli studenti si trovano a passare a fianco di busto di Ludwig von Mises (cui è intitolata la biblioteca) e a uno di Friedrich von Hayek. E’ sicuramente l’unica che pubblica una rivista chiamata “Laissez Faire”. Tutti gli studenti undergraduate, indipendentemente dalla specializzazione, debbono sostenere un corso di economia e uno di “filosofia sociale” (basato sul pensiero politico di Hayek).
Ci sono signori che spergiurano di voler fondare una “università del pensiero liberale” e che potrebbero mantenerne a dozzine, ma al massimo ne parlano il 26 di dicembre di ogni anno, se proprio non c’è di meglio da fare, e palesando una curiosa idea di corpo docente che andrebbe da Tony Blair a Putin.
Muso Ayau è stato un uomo che, con disponibilità immensamente inferiori, ma credendo in qualcosa, una vera “università del pensiero liberale” l’ha costruita – coinvolgendo a vario titolo Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Jim Buchanan, Gordon Tullock, Vernon Smith. Lascia un’eredità destinata a fiorire sempre di più, in un Paese non facile, grazie alla sua determinazione, alla sua tenacia, alla sua straordinaria fiducia nella capacità delle idee di cambiare le cose. Gli sia lieve la terra.
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Viva Frati, abbasso l’ope legis e le carnevalate /2010/07/06/viva-frati-abbasso-lope-legis-e-le-carnevalate/ /2010/07/06/viva-frati-abbasso-lope-legis-e-le-carnevalate/#comments Tue, 06 Jul 2010 19:11:04 +0000 Oscar Giannino /?p=6450 So benissimo che il più dei professori universitari mi darà addosso. E’ già capitato a Radio 24, quando ho trattato il tema. Perché solo chi è in cattedra, crede di poter e dover giudicare di ciò che lo riguarda. E chi non è d’accordo, è un mero cane e servo del potere. Me ne verranno altri improperi. Amen. Ma io dico: viva viva le parole di verità pronunciate dal Rettore Frati della Sapienza di Roma! Da mesi la riforma dell’Università promossa dal ministro Gelmini avanza nel suo iter parlamentare. E da mesi sale il livello e il tono della protesta. Più avanti, qualche considerazione sulla riforma. Ma, prima , veniamo subito alla Sapienza di Roma. In alcune sue Facoltà i docenti, per protesta contro la riforma, in accordo con gli studenti e il personale ausiliario, dopo il blocco degli esami hanno deciso di riprenderne lo svolgimento ma di notte, a lume di candela. “Secondo un ordine fedele sia all’inversione di senso cui sembrano orientate le manovre del governo, sia al nuovo profilo di professori ombra, oscurati e delegittimati nella sostanza qualitativa e quantitativa del proprio impegno quotidiano”, è stato dichiarato da alcuni docenti. La reazione del Rettore, professor Luigi Frati, che pure non risparmia anch’egli critiche alla riforma, non si è fatta attendere.

Ha invitato tutti a non danneggiare oltremodo gli studenti desiderosi di dare gli esami. Ha bocciato come “inutilmente folkloriche” le sessioni notturne. In più, ha pronunciato giudizi che dovrebbero fare riflettere tutti, e che invece hanno suscitato sdegno e fischi.

Che cosa ha detto, il professor Frati? Un’amara verità. Che, come tutte le verità, dà scandalo. “Non credo che noi non siamo corresponsabili”, ha detto il Rettore. “Il 30% dei ricercatori a Giurisprudenza non ha prodotto nulla nell’ambito della ricerca scientifica, e in generale alla Sapienza il 10% dei ricercatori non ha prodotto nulla in 10 anni.” Di qui la sua conclusione. Secca e precisa, come un colpo di bisturi: “Queste persone vanno cacciate dall’Università”.

Apriti cielo. Più ancora della condanna del situazionismo futurista degli esami notturni, e della tenace negazione che tutte le voci di bilancio pubblico debbano compartecipare a un dimagrimento della spesa per punti interi di Pil, invece di eccepire in ciascun settore l’eccezione a proprio vantaggio, come regolarmente capita in Italia a cominciare dall’orchestra della Scala, in sciopero pur senza che le sia stato tagliato alcunché, sono stati proprio i giudizi di Frati sui ricercatori a valergli una vera e propria ondata di riprovazione. Perché è sul punto dei ricercatori, che la riforma provoca per le sue scelte di fondo ancor più polemica che sul resto.

Più polemica di quella riservata ai tagli alle dotazioni ma premiando le sedi capaci di risultati migliori e i docenti coi giudizi migliori; ai limiti per i mandati dei Rettori; alle nuove norme per evitare l’assunzione di parenti; ai nuovi poteri dei cda rispetto al Senato accademico; alla possibilità di commissariamento in caso di dissesto finanziario, e di accorpamento per mettere un freno alle decine e decine di sedi moltiplicatesi inutilmente sul territorio.

I ricercatori sono infatti l’ultima leva della proliferazione ope legis di figure docenti nell’Università italiana, nate dalla fervida fantasia trentennale del legislatore d’ogni colore, alla ricerca di nuovi consensi con nuove sanatorie e immissioni in ruolo. Nati col decreto 382 del 1980 in teoria per fini prioritari di ricerca e solo per intregrare la didattica, hanno finito per rappresentare con oltre 24 mila unità il 35% dell’intero personale docente, rispetto ai 19 mila ordinari e altrettanti associati.

La riforma Gelmini compie una scelta che ha del rivoluzionario, rispetto alla prassi quarantennale. Rifuta la regolarizzazione a tutti i ricercatori, respinge il più sacro sin qui tra i diritti nel pubblico impiego italiano, e cioè il diritto acquisito. Per tutti gli attuali ricercatori e per quelli che saranno assunti nei nuovi concorsi fino a fine dell’anno prossimo abbassandone l’età minima da 36 – 36! – a 30 anni, dopo altri 2 contratti a termine di 3 anni o si passa come associati se giudicati idonei, oppure le porte dell’Università per loro si chiuderanno.

E’ questa rottura di continuità, a scatenare la protesta. Perché nell’Università italiana, sin qui, nulla era più sacro del posto garantito a vita a chi vi aveva intanto messo piede. Solo assumendo a tempo indeterminato tutti i ricercatori, dice la sinistra, si può abbassare – per altro di pochissimi anni, i ricercatori ormai sono per lo più ben ultracinquantenni – l’età media del corpo docente. E per questo gli associati e gli ordinari dovevano essere mandati in pensione prima, non consentendo loro di restare in cattedra fino a 70 anni e oltre come capita oggi, ma tutti a casa al 65esimo anno di età. Diritto acquisito e pensionamento anticipato invece che prolungato: ecco i fondamenti nei quali crede chi protesta.

Per carità, la riforma Gelmini ha anche le sue pecche. Che purtroppo si sono di molto accentuate nell’esame parlamentare, visto che tra Camera e Senato gli accademici abbondano e ci hanno messo del loro, per abbattere per esempio il tetto minimo di 1500 ore di didattica e ricerca per i professori a tempo pieno, per cancellare la prevista certificazione della ricerca, per levare quel tetto minimo del 40% di membri esterni dai cda che i professori sentivano come presenza estranea e minacciosa, per rendere assai più vischiose che nella versione del ministro le procedure per sostituire i Rettori inadeguati.

Ma sul punto di fondo toccato dal Rettore Frati, non si può che concordare con lui. L’Università dovrebbe essere un tempio di serietà. Per tutti, a cominciare dagli insegnanti. Torce e mascherate notturne andrebbero riservate al Carnevale. Ed eccellenza e merito sostituirsi all’egualitarismo in nome della pura anzianità di servizio. E’ chi protesta contro di questo, a meritarsi l’ombra.

Ripeto: do per scontato che mi si dirà che non capisco nulla, che la Gelmini non ha i titoli per neppuren osare pensare di metter mano a riforme simili, chen il governo Berlusconi è fatto da tenebrosi nemici della cultura e della libertà d’opinione e di pensiero. Ribadisco tutti i difetti del governo e di chi lo guida e compone mi son chiari ed evidenti. Ma non per questo spezzare l’ope legis nelle Università non è cosa sacrosanta, buona e giusta. E’ solo tardiva. Dipendesse da me, sarebbe ancor più severa, con Università autonome e libere di procacciarsi risorse sul mercato, e di pagare insegnanti quanto vogliono e riescono per ingaggiare i migliori. E chi non ci riesce e non quadra i conti, chiude. Altroché l’egualitarismo ingannatore di chi si riempie la bocca di “università pubblica”, che dello State ripropone tutti i fallimenti.

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Luca Ricolfi, l’università e l’impossibile “meritocrazia di Stato” /2010/05/07/luca-ricolfi-luniversita-e-limpossibile-meritocrazia-di-stato/ /2010/05/07/luca-ricolfi-luniversita-e-limpossibile-meritocrazia-di-stato/#comments Fri, 07 May 2010 13:52:38 +0000 Carlo Lottieri /?p=5935 In Illusione italiche (edito da Mondadori) l’ottimo Luca Ricolfi ha pubblicato in volume i suoi micro-saggi già apparsi su Panorama nella rubrica “Fatti & credenze”. Si tratta di analisi che mostrano come esista una sociologia a base empirica che è in grado di offrire utili spunti di riflessione, spaziando dalla criminalità alle imposte, dall’immigrazione al federalismo, dal Mezzogiorno all’istruzione, e via dicendo.

In uno di tali “esercizi di disincanto”, come l’autore li chiama, viene presa in esame la difficile situazione degli atenei italiani. Il pezzo era stato scritto a commento del decreto-legge 180 dei 10 novembre 2008, con cui si iniziava a introdurre qualche elemento meritocratico nell’assegnazione dei fondi per le università. L’idea dell’autore è che “i fondi dovrebbero essere distribuiti premiando gli atenei ‘virtuosi’ e punendo quelli ‘viziosi’” e che per definire questa distinzione tra buoni e cattivi atenei si debba tenere in considerazione sia l’efficienza nella gestione (i conti in ordine) che la qualità dei servizi (didattica e ricerca).

Fin qui tutto bene, se non fosse che l’Italia è l’Italia. Utilizzando informazioni e studi di notevole affidabilità, infatti, Ricolfi giunge alla conclusione che – grosso modo – possiamo dividere le nostre università in quattro gruppi: un primo gruppo (prevalente in Lombardia) è caratterizzato da qualità e alta efficienza; un secondo gruppo (prevalente nel resto del Nord) unisce qualità e media efficienza; un terzo gruppo (tipico delle regioni “rosse”) unisce qualità e bassa efficienza; e, infine, un’ultima categoria (le università del Mezzogiorno) è caratterizzata da poca qualità e media efficienza.

Stante così le cose, adottare un sistema meritocratico vorrebbe dire in buona sostanza premiare le università settentrionali a scapito di quelle del Centro e del Sud. Ma è possibile? Nel senso: è politicamente possibile questo trasferimento di risorse a favore delle aree più ricche e già ora con i servizi universitari migliori? Non mi pare sia così.

Considerato nel suo insieme, l’intervento pubblico è sempre redistributivo e anche se segue le logiche più strane, nel suo insieme si giustifica (o prova a giustificarsi) sulla base di logiche solidali. I flussi del Welfare State sono i più contorti, ma non possono palesemente adottare lo stile di un Robin Hood alla rovescia. Nei fatti, accade di continuo, ma non può avvenire per decisione aperta e consapevole. Si fa, ma non si dice. Soprattutto quando si deve fare i conti, come in questo caso, con aree territoriali ben delimitate e con quelle tensioni molto forti che la retorica delle celebrazioni dei 150 anni d’Unità non è certo in grado di cancellare.

La mia impressione è che in Italia un finanziamento statale meritocratico delle università, oltre a incontrare tantissimi scogli (a partire dalla difficoltà a definire la qualità, ad esempio, della ricerca), sbatta fatalmente anche contro questa perenne controversie sulle molte Italie e, in particolare, sull’opposizione Nord – Sud. Forse converrebbe immaginare, seguendo la proposta formulata nel 1988 da Franco Romani (“Un po’ di anarchia nel cuore dell’Accademia”), un finanziamento pubblico semplicemente legato al numero degli iscritti, oltre che – aggiungo io – un aumento delle rette versate dalle famiglie (che apra spazi a soggetti privati, specie stranieri) e un incremento delle borse di studio e dei prestiti d’onore.

Bisogna insomma dirigersi verso il mercato, lasciando che sia esso a favorire la concorrenza e il merito. Altre direzioni appaiono difficilmente percorribili.

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Vendere per ridurre il debito: chi lavora e chi dorme /2010/01/31/vendere-per-ridurre-il-debito-chi-lavora-e-chi-dorme/ /2010/01/31/vendere-per-ridurre-il-debito-chi-lavora-e-chi-dorme/#comments Sun, 31 Jan 2010 15:59:33 +0000 Carlo Lottieri /?p=5009 A Siena, l’università è in condizioni finanziarie disastrose. Anni e anni di assunzioni clientelari hanno condotto l’ateneo ad avere un numero esorbitante di personale tecnico-amministrativo, perfino superiore all’insieme dei docenti.

In passato la gestione è stata talmente irresponsabile che si sono accumulati debiti addirittura con l’Inpdap (non si versavano i contributi previdenziali, in altri termini), oltre che con le banche. Ora si sta cercando di individuare una via d’uscita e grazie anche alla nomina nel dicembre scorso di un nuovo direttore amministrativo – il professor Antonio Davide Barretta – l’università sta indirizzandosi verso quelle scelte che, purtroppo, appaiono necessarie: non soltanto il blocco delle assunzioni e degli avanzamenti di carriera (insieme al taglio di ogni spesa superflua, e perfino di alcune che superflue non sono…), il quale è indispensabile ad azzerare in qualche anno il deficit, ma anche la cessione degli immobili, al fine di dirigersi verso l’annullamento dello stock del debito.

Le resistenze esistono, naturalmente, ma all’interno dell’università sta crescendo la consapevolezza che non vi è modo di evitare questa amara medicina. Da un lato si sta provando a favorire l’esodo dei dipendenti verso altre attività, ma soprattutto ci si sta impegnando a cedere pezzi importanti del patrimonio per poter tappare le falle.

Per l’università di Siena, ad esempio, la Certosa di Pontignano è un autentico gioiello: un centro congressi che molte tra le migliori università americane sognerebbero di avere. Eppure è quasi sicuro che nell’arco di un periodo di tempo ragionevole si procederà alla dismissione. Ed è giusto che sia così, se si vuole garantire un futuro all’ateneo.

Sotto certi punti di vista, lo Stato italiano nel suo insieme è messo molto peggio. In particolare, il debito è talmente gravoso che già ora il pagamento degli interessi divora una parte considerevole delle uscite. Eppure è chiaro che la situazione potrebbe farsi perfino peggiore se, come è probabile, nei prossimi tempi si assisterà ad un innalzamento dei tassi di interesse e se, nello specifico, il debito italiano subirà un declassamento analogo a quello conosciuto dalla Grecia.

Ma mentre all’università di Siena ora ci si rimbocca le maniche, anche se questo significa sopprimere nella culla progetti professionali e speranze di carriera (specie ai neo-laureati e ai ricercatori precari), nella Capitale si fa finta di nulla.

L’idea che sia urgente e indispensabile mettere in vendite le proprie “certose” – Eni, Enel, Poste, Cassa depositi e prestiti, Ferrovie, ecc. – sembra fuori dall’orizzonte del politico: sicuramente a destra (chi sta al potere controlla nomine e nominati), ma anche a sinistra, dato che mai l’opposizione richiama l’attenzione sull’esigenza di abbassare in tal modo il debito.

Nella piccola accademia senese, un’istituzione con più di 700 anni di storia posta nel cuore della Toscana più rossa, ci si sta rimboccando le maniche per puntellare la casa. Ovviamente c’è chi vorrebbe fare finta di nulla, ma è difficile che possa averla vinta. Nel Palazzo romano, invece, si dorme il sonno degli irresponsabili, e a questo punto per il Paese è concreto il rischio di un crollo rovinoso.

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Corte europea dei diritti umani: Libertà contrattuale (e religiosa) a rischio /2009/12/12/corte-europea-dei-diritti-umani-liberta-contrattuale-e-religiosa-a-rischio/ /2009/12/12/corte-europea-dei-diritti-umani-liberta-contrattuale-e-religiosa-a-rischio/#comments Sat, 12 Dec 2009 09:14:57 +0000 Serena Sileoni /?p=4279 Rispetto alle reazioni che la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul crocifisso ha provocato, verrebbe da dire che il problema dell’esposizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche non si porrebbe se le scuole non fossero pubbliche. Ma non vado oltre, dato che, in poche righe, non è possibile dare conto di tutte le buone ragioni che inducono a pensare che il diritto sostanziale (dunque per tutti, non solo per i benestanti) all’istruzione potrebbe essere meglio garantito da un sistema scolastico basato sulla libera concorrenza piuttosto che da quella complessa burocrazia chiamato scuola pubblica. Ne riparleremo, magari, in un prossimo articolo, riprendendo i saggi di Einaudi e Valitutti che hanno sostenuto, con molta più autorevolezza di chi scrive, la libertà della scuola dallo Stato.

Per tornare al rapporto tra religione e istruzione, ritenevo che ogni preoccupazione delle due fazioni di questo conflitto culturale sarebbe venuta meno al cadere del presupposto di partenza, ovvero dell’appartenenza o meno dei muri scolastici su cui appendere il crocifisso al patrimonio pubblico, piuttosto che alla proprietà di soggetti privati. Poi, però, ho letto la sentenza Lombardi Vallauri c. Italia, emessa contemporaneamente alla ben più nota pronuncia della Corte di Strasburgo.
Il caso è noto, ma vale la pena ripercorrerlo nelle linee essenziali. Il prof. Lombardi Vallauri è docente di filosofia del diritto all’Università di Firenze. Dal 1976 insegna la stessa materia anche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in base a contratti annuali, rinnovati anno dopo anno, previa procedura di valutazione comparativa.
Nel 1998, prima di presentare la domanda di rinnovo del contratto per l’anno accademico 1998-1999, il docente ebbe un incontro informale con la Congregazione per l’Educazione Cattolica, organo della Santa Sede. Con lettera di pochi giorni successiva a quell’incontro, la Congregazione comunicava al rettore dell’Università S. Cuore che alcuni recenti orientamenti del professore erano da ritenersi in contrasto con la dottrina cattolica, tanto da costituire condizione di rigetto della domanda di nuovo contratto annuale. Il Consiglio di facoltà si adeguava alla lettera della Congregazione.
Esaurite le vie interne di ricorso per veder soddisfatte la sua pretese circa il riconoscimento della libertà di insegnamento e religiosa, il professor Lombardi Vallauri si rivolgeva così alla Corte europea dei diritti umani.
Buon senso comune, ovvero la saggezza di chi non è abituato al cavillo giuridico, porterebbe a pensare che la pretesa del docente non avrebbe trovato soddisfazione presso la Corte di Strasburgo. Negli ordinamenti occidentali, infatti, vige su tutti il principio di libertà. Libertà che è anche libertà contrattuale che si manifesta con la libertà di scelta della controparte, con la libertà di non concludere il contratto o di concluderlo alle condizioni volontariamente pattuite tra le parti.
Questo fondamentale principio vale per tutti i privati, persone fisiche, giuridiche, enti di fatto; regime diverso vale invece per gli enti pubblici. In virtù di questo principio sovrano di libertà trovano piena legittimazione la scelte determinate da motivazioni – razionali o meno – che si appellano all’intuitu personae, secondo cui ognuno è libero di determinare con chi concludere accordi e negozi giuridici, prima ancora che di decidere con quali modalità e a quali condizioni concluderli. Si noti peraltro che nel caso dedotto avanti la Corte Europea non si trattava di sciogliere un vincolo contrattuale, ma di farne nascere uno nuovo. È noto che l’università pubblica, per sua natura, è tenuta a selezionare i docenti sulla base di parametri preordinati e oggettivi di valutazione (quali la produzione scientifica), quindi con imparzialità e neutralità rispetto a criteri basati sulla personalità o sugli orientamenti dei candidati.
Al contrario, ero convinta, e con me credo tantissimi altri, che l’esistenza delle università private fosse giustificata in virtù di una precisa opzione culturale della loro attività pedagogica e che perciò esse erano naturalmente libere di selezionare il personale docente in base a criteri anche non strettamente inerenti il solo merito accademico, senza per questo contrastare con la libertà di insegnamento prevista dall’articolo 33 della Costituzione, ma anzi sostanziando la portata degli articoli 2 e 21 della stessa. Se non bastasse il senso comune, potremmo anche aggiungere che l’Accordo di revisione del Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica italiana (che, giova ricordare, è un atto di diritto internazionale, e non interno) prevede che “le nomine dei professori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore […] sono subordinate al gradimento sotto l’aspetto religioso dell’autorità ecclesiastica competente”.
Pertanto, agli occhi dell’uomo medio, come potrebbe essere quello di chi scrive, è un principio lapalissiano quello secondo cui gli enti scolastici e accademici privati siano liberi di educare gli iscritti secondo i loro principi, e dunque di decidere funzionalmente il personale incaricato dell’istruzione e della formazione. Evidentemente, la Corte europea è di altro avviso. All’esito del processo, infatti, la Corte ha riconosciuto la violazione della Convenzione europea dei diritti umani sulla base di un principio che, come ha già insegnato la giurisprudenza statunitense, rischia anche in Europa di diventare il passepartout per un attivismo giudiziario e un’ingerenza della “coscienza giurisdizionale”, nei casi in cui il giudice non ha una norma precisa a cui appigliarsi direttamente: il giusto procedimento. La Corte ha infatti concluso che il professor Vallauri è stato leso nel suo diritto a un contraddittorio equo con la Congregazione e l’Università, non essendogli stata data l’occasione di discutere con tali organi delle sue posizioni personali contrastanti con la dottrina cattolica e delle eventuali ricadute che queste posizioni avrebbero avuto sull’attività di docenza.
In mancanza di sostegni giuridici più solidi, non potendo fare riferimento evidentemente né al principio di uguaglianza né alla libertà di espressione né alla libertà di religione, giustizia è stata resa sulla base di una clausola estremamente aperta, quella appunto del giusto procedimento, che, come è avvenuto con il due process d’oltreoceano, ha giustificato pronunce giurisdizionali quantomeno creative, come la presente. Tanti sono gli insegnamenti che questa sentenza reca con sé. Il primo tra tutti è che la libertà contrattuale rischia di diventare meno libera…

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Le troppe Università del Nordest /2009/11/16/le-troppe-universita-del-nordest/ /2009/11/16/le-troppe-universita-del-nordest/#comments Mon, 16 Nov 2009 11:24:16 +0000 Oscar Giannino /?p=3773 Perché il Nordest deve farsi superare dal Nordovest? La domanda sorge immediata, alla vista di quel che sta capitando a Torino e Milano. Le due città stanno rapidamente scoprendo in queste settimane ciò che in decenni era solo argomento di convegni. L’Alta Velocità ferroviaria che tra poche settimane metterà le due città del Nordovest alla distanza di meno di un’ora sta rendendo finalmente d’attualità per le loro classi dirigenti la realizzazione di una vera integrazione. Il cosiddetto progetto Mi-To non era mai decollato, finché si trattava di Fiat e Pirelli. Era al più il brand di un riuscitissimo festival musicale, che ha unito insieme l’anima culturale pubblica di Settembre Musica a Torino con la sponsorship privata meneghina e internazionale del finanziere Francesco Micheli. Ora, invece, vedremo se le classi dirigenti nordovestine si sveglieranno, e ci crederanno davvero, a Mi-To. Comunque in men che non si dica i rettori della seconda e della terza università italiana per qualità di studi, Francesco Profumo del Politecnico di Torino e Giulio Ballio del Politecnico di Milano, hanno comunemente annunciato la volontà di iniziare un  processo di fusione. Non siamo ancora a un solo Senato accademico. Ma alla possibilità per gli studenti di fruire intanto di corsi ed insegnamenti dei due Atenei. Con l’accordo delle Autonomie di entrambe le Regioni, la richiesta di premialità al Ministero, e l’obiettivo di rendersi ancor più capaci di attirare risorse private, da parte delle molte imprese per le quali gli ingegneri dei due atenei sono i migliori d’Italia. E al Nordest?

E’ vero, l’Alta Velocità nel Nordest è lungi dall’essere compiuta, fino a Venezia e al corridoio verso l’Est Europa. Ma non mettiamo scuse. Tra Padova e Venezia o Verona, non ci sono tre ore di treno. Il problema maggiore riguarda Trieste, dove Generali fa presente da tempo che se continuerà a essere tagliata fuori dai grandi collegamenti veloci, sarà giocoforza sostare altrove la sede. Ma quanti anni è che l’integrazione delle eccellenze universitarie del Nordest è materia di convegni?  Ne ho contati otto tra i maggiori, solo negli ultimi due anni. C’è un gruppo di studio apposito presso il ministero  guidato da Maria Stella Gelmini, e che parte dal presupposto che Friuli Venezia-Giulia, Veneto e Trentino Alto-Adige siano sufficientemente omogenee sia dal lato della struttura socio-economica, sia dal lato dell’offerta universitaria. Anche se la presenza di due Regioni a Statuto speciale rende le  loro competenze non omogenee e maggiori, di quelle del Veneto.

Eppure stiamo parlando di otto atenei tra Trieste, Udine, Trento, Bolzano, Padova, Verona, Venezia Ca’ Foscari, l’Istituto di Architettura a Venezia, dei quali sette di medie o piccole dimensioni e uno, quello patavino, che è un vero megateneo. Ma in realtà i bacini di utenza sono in moltissimi casi sovrapposti. E restando non integrati la possibilità di fare massa critica verso donazioni e investimenti privati da parte delle imprese resta molto limitata. Dipenderà anche da questo, che in 4 casi su 8 la prima retribuzione mensile dei neolaureati nordestini risultava al 2007 inferiore alla media nazionale che è di 1050 euro? Che l’alta qualità della formazione universitaria era solo il settimo fattore su 13, indicato dalla imprese come motivo che spinge all’investimento, nel panel curato dalla fondazione Nordest? E che secondo lo stesso panel  il rapporto con scuola e università fosse solo il quinto fattore su 10, nella spinta  a radicarsi nel territorio invece che a delocalizzare? Aggiungo che per essere l’area del Paese, almeno prima della crisi,  notoriamente più dinamica per piccola e media impresa, la dispersione in 8 Atenei non coordinati non aiuta certo i giovani, che con l’eccezione di Bolzano e Verona per il resto sono esattamente nella media nazionale, quanto a tempi d’attesa per la prima occupazione.

I Rettori si sono visti e ne hanno parlato molte volte tra loro. Cristiana Compagno di Udine, Vincenzo Milanesi di Padova, Francesco Peroni di Trieste hanno spiegato molte volte ai presidenti delle diverse Regioni di che cosa avrebbero bisogno, a fronte di trasferimenti in calo da Roma e da spese procapite regionali per studente tanto differenziate tra Veneto da una parte, e le due autonomie speciali dall’altra. Ma ora ora è venuto il momento di smettere di far solo parole. Di decidere qualcosa. Dalla crisi non si esce come indistinta economia nazionale. Lo sappiamo benissimo, che  sono invece le macroaree locali a fare la differenza, in termini di competitività di costo, di infrastrutture, di logistica, di capitale fisico e soprattutto di capitale umano. Ora che Milano e Torino si muovono, politici, rettori e imprenditori del Nordest non restino con le mani in mano. Oppure molte mani resteranno in tasca, nel futuro, invece di lavorare e costruire il futuro.

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GermaniaFutura /2009/10/08/germaniafutura/ /2009/10/08/germaniafutura/#comments Thu, 08 Oct 2009 07:14:10 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=3170 Ieri e oggi grande spazio sui media per la nuova associazione di Montezemolo, “ItaliaFutura”. Il Corsera dedicava ieri una pagina intera al rapporto sulla mobilità sociale presentato a Roma. Il Foglio riporta oggi il testo integrale del discorso dell’ex presidente di Confindustria tenuto nella medesima occasione. Nel corso della presentazione di “ItaliaFutura”, tre proposte sono state avanzate per togliere il gesso al paese. Non avendo intenzione di analizzarle una per una mi concedo un brevissimo commento sulla prima: non era più semplice intervenire direttamente sulle borse di studio? Ovvero, se il problema per molti giovani (bravi e intelligenti) è quello di non avere mezzi economici per iscriversi e frequentare per 5 anni l’università, qual è il rimedio? Premesso che le tasse universitarie in Italia sono particolarmente basse, e discriminano troppo poco tra chi potrebbe pagare rette più alte (perchè proveniente da una famiglia benestante) e chi invece dimostra difficoltà dovute a situazioni economiche più modeste, come permettere ai giovani meritevoli di giungere ad una laurea? “ItaliaFutura” propone di creare una sorta di “fondo opportunità”, attivato alla nascita di ogni bimbo. Praticamente, ogni nuovo nato si troverà un conto corrente con 1.000 euro, che sarà integrato nel tempo rispettando diverse condizioni. La proposta sembra alquanto macchinosa e viene da chiedersi se la via più semplice non sia un’altra. Come accennato in precedenza, basterebbero rette più alte per finaziare borse di studio più sostanziose. Ad ogni modo, le proposte più interessanti, in questi giorni, non sono arrivate da Palazzo Colonna (dove si presentava il rapporto sulla mobilità sociale) ma dalla Germania. Naturalmente, “più interessanti” dal nostro punto di vista. Merkel e Westerwelle sono alle prese con la scrittura del programma per i prossimi anni di governo giallo-nero (Cdu-Liberali). Il leader dell’Fdp avrebbe proposto l’azzeramente di tutto il sistema bizantino di welfare con la sostituzione del “solo” reddito minimo di friedmaniana memoria. Di cosa si tratta? Prima di tutto, si tratta di fare tabula rasa di tutti i sussidi che vengono concessi per gli scopi più disparati. Fatto questo, il governo interverrebbe per garantire a tutti un salario minimo. Friedman chiamava questa alternativa radicale all’attuale sistema: “imposta negativa sul reddito”. Antonio Martino la spiega così:

Supponiamo che il livello di reddito individuale al di sopra del quale si cominciano a pagare imposte sia di 10 milioni di lire: questo è il primo elemento, quello che Friedman chiama “break-even point”. Nel sistema attuale, chi ha un reddito inferiore al minimo non paga imposte, e tutto finisce lì. Sulla base della proposta, invece, coloro che hanno un reddito inferiore al minimo riceverebbero dallo stato una percentuale della differenza fra reddito minimo e reddito percepito. Se tale percentuale fosse, per esempio, del 50%, un individuo con un reddito di 2 milioni riceverebbe dallo Stato 4 milioni (il 50% della differenza fra reddito minimo e reddito percepito). Questo è il secondo elemento, “l’aliquota di imposta negativa” (il 50% nel nostro caso ipotetico). E’ evidente che, dati i primi due elementi del nostro esempio, un sistema siffatto equivarrebbe a garantire un reddito di 5 milioni a coloro che non hanno percepito alcun reddito (il 50% della differenza fra reddito minimo e zero). Questo è il terzo elemento, cioè il “reddito garantito”.

Perchè un sistema del genere sarebbe preferibile? Innanzitutto permetterebbe a tutte le persone di scegliere direttamente come utilizzare il reddito minimo garantito, corrisposto in denaro. Secondariamente, renderebbe più trasparente e razionale il sistema degli aiuti ai cittadini bisognosi, togliendo di mezzo una quantità sterminata di burocrazia. Le risorse sarebbero destinate direttamente ai beneficiari e non all’apparato burocratica preposto alla loro amministrazione. La difficoltà starebbe nel quantificare correttamente i tre elementi prima richiamati: “break-even point”, aliquota e reddito garantito. Il rischio, come in tutti sistemi di welfare, è quello di disincentivare il lavoro. La proposta in sè è radicale, il modo in cui Westerwelle voglia attuarla non è ben chiaro. Ancora meno chiara è la possibilità che un progetto così ambizioso possa essere accettato nel paese diBismarck, ovvero l’ideatore dello Stato sociale. In un panorama come quello attuale dove i partiti di destra sembrerebbero avere perso il loro piglio liberale, l’idea dell’Fdp è senza dubbio lodevole. E se poi dovesse anche essere attuata… beh, vorrebbe dire che la GermaniaFutura ci piacerebbe di più dell’ItaliaFutura.

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