CHICAGO BLOG » unione europea http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 11:09:36 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Il “Contro-Rapporto Monti” dell’IBL: per un’Europa più integrata dal mercato e più aperta al mondo /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/ /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/#comments Thu, 02 Dec 2010 21:16:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=7754 Qualche mese fa, su invito di José Barroso, l’ex commissario europeo Mario Monti ha redatto un rapporto intitolato A new strategy for the single market at the service of Europe’s economy and society , con l’obiettivo di indicare talune linee fondamentali di sviluppo per l’Europa di oggi e di domani.

Il rapporto contiene talune proposte ragionevoli e in particolare auspica una crescita del mercato interno, che faccia saltare le molte e talvolta assai alte barriere che impediscono una piena integrazione tra i vari Paesi dell’Europa a 27 e le loro distinte economie. Ma, al tempo stesso, il testo redatto da Monti contiene argomenti e proposte assai discutibili. In particolare, esso formula una netta difesa di vecchi vizi statalisti europei (specie in tema di welfare) e per giunta esprime una esplicita avversione per la concorrenza istituzionale: soprattutto in materia fiscale.

Per questo motivo l’Istituto Bruno Leoni ha pensato di predisporre una sua interpretazione del “rapporto Monti”, affidando a un gruppo di lavoro internazionale il compito di commentare – capitolo dopo capitolo – tutte le tesi contenute nel testo predisposto dall’economista italiano. Questo lavoro a più mani si intitola Il “Rapporto Monti”: una lettura critica (qui in italiano e qui in inglese) e ha potuto avvalersi del contributo di vari studiosi, italiani e no: Filippo Cavazzoni, Luigi Ceffalo, Luca Fava, Pierre Garello, Carlo Lottieri, Diego Menegon, Alberto Mingardi, Lucia Quaglino, Dalibor Rohac, Josef Sima e Carlo Stagnaro.

Il testo è stato presentato a Bruxelles oggi, 2 dicembre, nel corso di un seminario cui ha partecipato lo stesso Monti. L’obiettivo è stato quello di evidenziare i limiti delle proposte avanzate dall’ex commissario, non sempre coerenti con una visione autenticamente di mercato, sottolineando come la logica dirigista di molte tesi del Rapporto  ostacoli – al di là delle dichiarazioni e delle intenzioni – lo sviluppo di un’economia europea davvero dinamica, integrata e concorrenziale.

I temi essenziali della critica sviluppata dal “contro-rapporto” targato IBL emergono con chiarezza in questo passo, tratto dall’introduzione:

Dietro la riflessione di Monti si vede la proposta di un “grande scambio”: per costruire il mercato interno, gli Stati membri devono dotarsi di sistemi di welfare state sufficienti ad ammortizzare la transizione e sostenere il consenso; perché questo sia possibile, occorre perseguire un grande disegno di armonizzazione fiscale, volto a colpire sia la “concorrenza fiscale” all’interno dell’Ue, sia – a maggior ragione – quella dei “paradisi fiscali”.

L’analisi dell’IBL punta insomma a raccogliere la sfida del “Rapporto Monti”, per valorizzarne gli aspetti positivi, ma anche e soprattutto per sottolineare come un vero mercato non possa essere “unico” (e cioè ristretto alla piccola Europa), non possa basarsi su una tassazione e su una regolamentazione asfissianti (tratti caratteristici del modello welfarista “renano”) e non possa in alcun modo avvantaggiarsi da un’armonizzazione fiscale costruita dall’alto, che riduca quella pressione competitiva che finora ha impedito ai governi europei di espandere in maniera illimitata le loro pretese.

Se infatti le aliquote marginali delle imposte dirette sono significativamente calate un po’ ovunque (dopo che negli anni Settanta erano giunte a livelli altissimi, e non soltanto in Svezia), questo è stato dovuto non tanto a un cambiamento di orientamenti culturali (che pure in parte si è verificato), ma è stato soprattutto conseguente allo sforzo di quei ministri dell’Economia dei vari Paesi europei che hanno fatto il possibile per non perdere tutti i propri contribuenti più importanti. Quando i capitali si muovono e si trasferiscono altrove, che senso ha, infatti, tenere aliquote molto alte, se esse sono ormai prive di una base imponibile? Meglio portare a casa il 45% di 50 che il 90% di 5.

Su questo specifico punto sviluppa una riflessione molto sofisticata un altro lavoro discusso oggi a Bruxelles, anche’esso promosso dall?IBL, e cioè il saggio Tax Competition: A Curse or A Blessing? (qui in inglese, ma qui c’è una sintesi in italiano) di Dalibor Rohac, un giovane e brillante economista slovacco che oggi è un ricercatore del Legatum Institute e che qualche anno fa fu pure a Sestri Levante quale relatore di Mises Seminar organizzato dall’IBL. Avvalendosi della teoria dei giochi, nel suo studio Rohac mostra come un’armonizzazione calata dall’alto blocchi ogni processo di apprendimento e soprattutto ostacoli quel dinamismo degli attori che – sul medio e lungo termine – favorisce l’abbassamento delle aliquote e, in questo modo, aiuta a realizzare una migliore integrazione delle economie.

Un’Europa fiscalmente armonizzata, insomma, è destinata a diventare un vero inferno fiscale. Più di quanto non lo sia già oggi.

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In piccolo, si può smuovere anche il Quirinale /2010/11/12/in-piccolo-si-puo-smuovere-anche-il-quirinale/ /2010/11/12/in-piccolo-si-puo-smuovere-anche-il-quirinale/#comments Fri, 12 Nov 2010 20:55:39 +0000 Oscar Giannino /?p=7575 Segnalo giusto tre particolari non troppo secondari, a conclusione della giornata: abbiamo lasciato sul sito di questo blog lo stesso intervento video del sottoscritto da mesi, e purtroppo c’era un perché; la scelta del contatore del terrore, cioè del debito pubblico, oggi si comprova di bruciante attualità; in piccolo, sono riuscito senza sforzo e con un minimo di fatica a ottenere che il Quirinale uscisse dall’ambiguità sulla spesa pubblica. Soddisfazioni intellettuali, certo. Solo queste, del resto, possiamo qui permetterci.  Le illusioni dell’eurosalvataggio, recita il titolo del contributo video che ho deciso di lasciare sulla prima pagina di Chicago Blog ormai dai tempi del compromesso in extremis colto al salvataggio greco con la nascita dell’EFSF, in realtà cuscino di ultima istanza rispetto all’intervento che in sede europea resta prioritario per tempi, disponibilità di risorse e competenze, cioè quello del Fondo Monetario Internazionale.  Non l’ho lasciato lì per prigrizia. Era evidente sin dal primo giorno della soluzione maturata sei mesi fa che essa non avrebbe retto al tempo. La Germania restava e resta semopr epiù il vero Paese leader per bilancia commerciale, dei pagamenti, produttività e dunque crescita, nonché per il vincolo ostativo a strumenti strutturali di salvataggio visti i suoi vincoli costituzionali a duifesa della sovranità nazionale. Dall’altra parte, altri paesi oltre la Grecia restavano ineressati da squilibri di bilancia di pagamenti, come il Protogallo che nelle partite correnti sta a meno 11% di PIL, o di bolle ancora non completamente emerse e rettificate con perdite, come l’Irlanda in campo bancario. Quel che non potevamo sapere con certezza ma solo prevedere, e lo abbiamo previsto, è che i due fattori di debolezza intrinseca del compromesso sarebbero stati ulteriormente minati  dalla guerra delle valute rialimentata dalle contraddizioni della politica “lasca” americana sia in campo fiscale e di bilancio sia monetario  da parte della FED, con il conseguente piantarsi della crescita USA, l’indebolimento che l’euro forte apporta ai Paesi più deboli dell’eurozona rispetto alla Germania, e la frenata generale anche europea tranne che a Berlino e a Londra per effetto delle recenti durissime misure di finanza pubblica. I nuovi record storici di questi giorni degli spread irlandesi e portoghesi sul BUND ci danno purtroppo ragione. La conferenza stampa congiunta al G20 dei ministri delle Finanze dei grandi Paesi europei è stata oggi la conferma che siamo di nuovo sull’orlo di un cratere vulcanico. delò resto, la germania ha fatto la sua scelta. sta con la Cina e contro l’America. Io la capisco, ma per noi son dolori.

Secondo: la necessità di fernare il corso del nostro contatore del terrore cioè del debito publico è confermata dal fatto che oggi anche lo spread dei BTP italiani sul BUND ha superato con 192 punti il rec0rd dello scorso inizio giugno. La consolante tesi per la quale l’Italia era fuori dalla crisi non è destinata a restare vera, con questi chiari di luna politici. E non perché io difenda il governo berlusocni o Giulio Tremonti. Al contrario, servirebbero credibili impegni politici adeguati alla bnuova cornice di instabilità. Cioè un governo stabile e un ministro dell’Economia capace e in condizioni di assicurare  un serio èpiano pluriennale di ridimensionamento della spesa pubblica in termini reali, a fronte di credibili , paralleli e immediati sgravi fiscali a imprese e lavoratori. Il governo che sta tirando le cuoia in questi giorni ha creduto e scelto di non poterlo fare per non alzare la temperatura delle polemiche sociali, stanta la difesa a testuggine da parte delle mille lobbies italiane del milione di rivoli della spesa pubblica, che ha continuato a salire in questi anni nella sua parte corrente mentre scendeva in quella per investimenti. Prima che sia troppo tardi, bisogna invertire il segno di questa scelta. Invertitrla con forza e durezza. Indicando in cinque -sei punti di spesa pubbluica e pressione fisdale in meno l’orizzonte triennale di provvedimenti che ridisegnino alcuni punti essenziali del welfare  e della macchina pubblica italiana, con cessioni al mercato di interi comparti di servizi pubblicui che pre restare tali devono essere offerti secondo standard di qualità e di efficienza, ma non gestiti più da dipendenti pubblici pagati dal contribuente. Altrimenti, bisogna sapere che inevitabilmente o quasi  -dietro l’angolo i nuovi governi e le nuove alchimie che ci sta preparando una politica priva di visione in ogni area politica, al centro come a sinistra come a maggior ragione nella destra resa afasica dal dramma berlusconico – magari dopo un’elezione confusa e senza vincitori dotati di maggioranza coesa, la soluzione sarà quella di una patrimoniale con la scusa che chi c’era prima ha raccontato balle.  ma non una patrimoniale come ponte di breve termine per l’adozione immediata di una flat tax di convergenza tra reddito delle persone fisiche e giuridiche sul 20%. Una patrimoniale e basta, per reperire le nuove risorse che tutti vogliono spendere per far ancora lievitare la spesa pubblica.

Per questo, ieri sera a Porta a porta, ho deciso con un minimo di doppiezza di sollevare il caso della nota del Quirinale che affermava, a due giorni soli dall’inderogabilità richiamata dal Colle dell’approvazione della legge di stabilità, che non si poteva andare avanti con tagli continui. Una nota ambigua, ho detto. Che correva il rischio di essere imbracciata dal partito della spesa pubblica – quello che da Pompei ai teatri, dai film ai ricercatori universitari  confonde lo sviluppo con i denari del contribuente – come un’insperatata e autorevolissima legittimazione.  Stamattina ho rilanciato la palla, intervistando gasparri a La versione di Oscar su radio 24 glie l’ho fatto ridire. Il Quirinale a quel punto ha deciso di emettere una nota di precisazione, il cui senso è non bisogna accrescere il deficit  ma bisogna fare scelte precise invece che tagli lineari.

E’ già qualcosa, ed è comunque un successo. Non possiamio soperare che il Quirinale si metta a dire insieme a noi che la via giusta è quella in realtà di comprimere energicamente spesa pubblica e tasse . Ma, in piccolo, siamo almeno riusiti a fargli dire che non bisogna fare più deficit, ed è già qualcosa in questa povera disastrata Italia.

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Draghi non deve fare politica, ma ben altro /2010/11/09/draghi-non-deve-fare-politica-ma-ben-altro/ /2010/11/09/draghi-non-deve-fare-politica-ma-ben-altro/#comments Tue, 09 Nov 2010 16:14:31 +0000 Oscar Giannino /?p=7536 Dalle cronache politiche qualcuno continua di quando in quando ad avanzare l’ipotesi che potrebbe essere chiamato a esercitare una supplenza politica in Italia. Ma in realtà per Mario Draghi potrebbe essere un serio incomodo. Non lo dico solo perché molti gli hanno sempre attribuito una segreta voglia di far politica, ma a me è sempre personalmente risultato che non vi sia praticamente nulla di più alieno al suo pensiero, formazione e legittima ambizione. Soprattutto, l’eventuale ed ipotetica chiamata del Quirinale costituirebbe un serio ostacolo a qualcosa che invece sta concretamente maturando. Cioè la possibilità che sia proprio il governatore della Banca d’Italia, a succedere al francese Trichet alla guida della BCE.

E’ una partita che si gioca ai vertici europei l’anno prossimo. Ma intanto quel che nelle ultime settimane gli osservatori specializzati e fior di media europei hanno registrato, è che la candidatura del tedesco Axel Weber, il banchiere centrale tedesco, ha perso molte frecce al suo arco. Le reiterate dichiarazioni del capo della Bundesbank contro la politica monetaria e contro il Quantitative Easing seguito dalla BCE – per altro assai più modesto di quello praticato e rilanciato dalla FED – nonché i suoi irrituali accenni alla necessità che il debito pubblico dei paesi definiti “europeriferici” possa andare incontro ad auspicabili haircuts cioè a riscadenze e degli interessi con perdite delle banche e dei risparmiatori, hanno praticamente obbligato Trichet a smentire apertamente che Weber rappresenti la linea della BCE. In altre parole, in Weber si legge con eccessiva irruenza la matrice politica e germanica della sua nomina, e ciò lo induce a parlare più a difesa degli interessi del suo Paese che di quelli dell’eurosistema. Non è una buona credenziale per guidare la BCE. Ormai il giudizio è pubblico, esteso e condiviso.

Nell’ultima settimana, Der Spiegel ha dedicato un servizio alla “declinante stella” di Weber, accusato di avere “la bocca troppo larga”. Il Financial Times Deutschland ha scritto che è ufficiosamente riaperta la gara e che Weber non è più il candidato numero uno, e che al suo posto maggiori chanches le ha Draghi. Mentre il riflesso condizionato tedesco di preferire un fido banchiere centrale olandese a un italiano olandese non trova buona soluzione in Nout Wellink, che deve occuparsi dei problemi di bilancio e della solidità finanziaria del suo Paese. A parte il fatto che già il predecessore di Trichet, Wim Duisenberg, era olandese. Su Die Welt il presidente dell’eurogruoppo, il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha anch’egli criticato duramente Weber. In futuro alla Bce, ha detto, serve un presidente che esprima con autorevolezza una sola voce, non un polemista minoritario.

E’ vero, contro Draghi gioca che il vicepresidente BCE scelto l’anno scorso è del Sud Europa, il portoghese Vitor Constancio. Ma a un francese non può succedere un altro francese, come Dominique Strauss-Kahn, oggi alla testa del FMI a almeno apparentemente il candidato di bandiera di Parigi . Al vice portoghese tanto meno si può aggiungere poi un presidente spagnolo, come spera Madrid che tiene in serbo Jaime Caruana, oggi alla rigorosissima BRI di Basilea, e alla Banca di Spagna dieci anni fa. Mentre il banchiere centrale lussemburghese, Yves Mersch, è un avvocato: il che lo esclude per mancanza di titoli. I tedeschi, scartato Weber, potrebbero giocare la carta di Klaus Regling, l’ex direttore generale della degli Affari Economici e Finanziari alla Commissione Europea oggi alla testa dell’European Financial Stability Facility da 440 miliardi nato per la crisi greca, e che i tedeschi vogliono smontare, sostituendolo con un più ambizioso Fondo Monetario Europeo subordinato però a un’improbabile modifica del Trattato. Ma Regling non ha alcuna esperienza di banca centrale.

Come si vede, all’esame delle forze in campo, Draghi ha tra tutti migliori possibilità di quanto si credesse fino a pochi mesi fa. La guida del Financial Stability Forum e l’ottimo rapporto con Geithner e gli altri regolatori mondiali lo ha reso un candidato autorevole al di là delle vicende del suo Paese. Francamente, al Quirinale potrebbero e dovrebbero pensarci, prima di dirottarlo su altro.

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Perché da noi si mistificano i Tea Parties /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/ /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/#comments Tue, 09 Nov 2010 15:55:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7534 Ancora una volta, negli Stati Uniti il pendolo elettorale si è potentemente spostato. E ancora una volta lo ha fatto in una maniera che in Italia e nel più dell’Europa continentale risulta incomprensibile. Ve ne fornisco una modesta riprova.

Ho condotto un’indagine registrando sul mio pc 276 articoli dell’intero spettro della stampa quotidiana nazionale e locale italiana dal manifesto a Libero e comprese 15 testate locali più importanti, articoli dedicati alla presentazione delle elezioni di midterm nella settimana che ha preceduto le consultazioni, e oltre 350 nei tre giorni successivi, a commento del risultato. In queste elezioni la grande novità è rappresentata dalla storia e dalla posizione dei Tea Parties, che hanno invertito la polarità come il Contratto con l’America di Newt Gingrich fu la base del lunghi anni di Congresso repubblicano, da metà mandato di Clinton fino alla rivincita democratica sotto Bush figlio. Ebbene, su un totale di oltre 600 articoli, circa 480 davano conto dei Tea Parties come una rete potentemente sostenuta dalle grandi corporations, pressoché agli ordini o quanto meno astutamente strumentalizzata da Karl Rove – il mago della mobilitazione repubblicana sotto Bush padre e figlio – nonché come un movimento in cui abbondavano pazzi e spostati, razzisti del Sud armati fino ai denti, antiabortisti visionari e ballisti predicatori di castità come Christine O’Donnel, che ha finito per perdere disastrosamente in Delaware. Dettagliate e più corrette – a mio giudizio, naturalmente, non ho alcuna pretesa di parlare a nome di presunte “verità” – ricostruzioni dei Tea Parties come movimento che nasce si diffonde localmente, come protesta spontanea dal basso innanzitutto contro le politiche stataliste e salvabanche seguite da Bush figlio ben prima ancora che Obama vincesse le elezioni, prima del voto sono state offerte ai lettori italiani a malapena in una cinquantina di articoli, meno cioè del 10%.

Solo all’indomani del voto, la percentuale di analisi meno estreme dedicate ai Tea Parties si è leggermente equilibrata, soprattutto grazie a vittorie di personaggi di spicco come Marc Rubio in Florida, comunque descritto come politico di lungo corso abile nel cavalcare la protesta ma estraneo alla vera natura del movimento. Gli accenti già mutavano quando si passava alla descrizione di Rand Paul, il giovane oftalmologo vittorioso grazie soprattutto al fatto di essere figlio di Ron Paul, figura di riferimento dell’elettorato libertario pronto anche a candidarsi come indipendente nella gara per le ultime presidenziali, con proposte che in Europa lo fanno passare come matto quali l’abolizione della FED e il ritorno in sua vece al regime del gold standard. Tra parentesi, nella nuova Camera dei Rappresentanti a nettissima maggioranza repubblicana è proprio Ron Paul, il candidato senior repubblicano numero uno alla carica di presidente del sottocomitato alla politica monetaria che è l’interfaccia parlamentare al quale la FED di Bernanke risponde direttamente, visto che nell’ordinamento americano l’autonomia e l’indipendenza del regolatore monetario non lo sottrae a uno stretto regime di audizioni parlamentari, nelle quali i congressmen passano al setaccio le decisioni e gli orientamenti della banca centrale.

Commentando il voto nel mio appuntamento quotidiano con gli ascoltatori di Radio24, ho chiesto esplicitamente al direttore della Stampa, Mario Calabresi, che sul suo giornale insieme al Foglio di Giuliano Ferrara a mio personalissimo giudizio ha dato le informazioni più estese e corrette sui Tea Parties, se non pesasse un pregiudizio tutto italiano e per molti versi europeo, nel leggere i fenomeni spontanei della società americana attraverso lenti deformanti e spesso addirittura caricaturali. Mi ha risposto di sì, che anche nella sua esperienza di corrispondente dagli USA aveva spesso toccato con mano che questo pregiudizio c’è eccome.

Non è questione di malafede, o di voler artatamente leggere la politica americana con l’occhio italiano ed europeo, che è abituato a considerare i partiti politici come unici veri attori della politica e, di solito, con una forza o un polo a maggioranza moderato-cristiano alla quale si oppone un grande partito o un’alleanza progressista-socialista. Un doppio binario che negli States è fuorviante: perché lì la mobilitazione dal basso indipendentemente dai partiti è costitutiva dell’idea stessa dell’Unione, il socialismo non c’è mai stato, e l’impronta religiosa e cristiana vive e influenza pesantemente entrambe le basi e le dirigenze sia democratiche sia repubblicane, con accenti diversi ma a volte assolutamente trasversali su temi come l’aborto, la bioetica e la ricerca sulle cellule staminali.

C’è qualcosa di più profondo ancora del vizio politologico. E’ un difetto culturale, quello che tanto spesso ci impedisce di capire l’America profonda. Perché siamo pronti a comprendere l’America liberal, quella delle élite accademiche, mediatiche e e degli affari della costa orientale come californiana che da sempre costituiscono il bastione del pensiero progressista americano, favorevole all’intervento pubblico e alle politiche redistribuzioniste, alla forte impronta statalista nella sanità come nel campo ambientale. Sono quelle èlite, sommate a un forte scontento per la guerra in Iraq e in Afghanistan, che nel 2008 si mobilitarono per una riuscitissima campagna dal basso e di raccolta fondi online che risultò decisiva per la vittoria del primo presidente nero contro l’accoppiata McCain-Palin. Una vittoria della quale il primo fattore era l’elevata partecipazione al voto, perché tradizionalmente più si alza l’afflusso alle urne dei ceti a basso reddito, migliori diventano le chances dei democratici.

Ma come siamo tradizionalmente propensi ad avvertire l’impegno delle èlite progressiste americane come qualcosa di familiare a quanto avviene nella politica europea, restiamo invece diffidenti e incapaci di capire una mobilitazione dal basso che non passa affatto dalle élite e che anzi le contesta apertamente, a cominciare dal campo conservatore e da quelle del partito repubblicano. E’ esattamente questo il segno originale dei Tea Parties, che in tutti i sondaggi di cui i lettori italiani hanno letto poco o nulla hanno visto impegnati in maniera crescente elettori che si dichiaravano indipendenti fino a percentuali del 40%, meno lontani dai repubblicani ma comunque per un 16-17% dei casi dichiaratamente ex elettori democratici e non solo alle presidenziali per Obama, ma tradizionalmente al Congresso o per governatori dello Stato.

Che cos’è, allora, a impedirci di capire l’anelito libertario prima che liberista che viene espresso questa volta dai Tea Parties, ma che è una componente permanente e ricorrente dell’impegno civile americano fuori dai partiti e dalla lobbies, siano delle grandi banche che da decenni si sono “comprate” il regolatore USA odelle grande compagnie di ogni genere e settore, dal petrolio agli armamenti, dall’auto a Internet? Essenzialmente tre cose, tre valori, tre princìpi che sono fondanti per decine di milioni di americani nella loro vita quotidiana, prima ancora di ogni giudizio politico sull’amministrazione temporaneamente in carica. I tre princìpi riguardano la proprietà, la libertà e l’eguaglianza. Per moltissimi americani, queste tre parole hanno e manterranno un significato profondamente diverso da come suonano ormai a noi italiani ed europei.

Per noi, la libertà non è più minacciata da alcuna tirannide, e la proprietà privata costituisce non più un bene da affermare come diritto naturale pre esistente a qualuqnue pretesa dell’ordinamento positivo, dello Srato e della politica. La proprietà privata ormai da tempo, nel nostro Paese e nella generalità dell’Europa continentale e scandinava, è anzi un limite sempre più pesante al perseguimento dell’eguaglianza. Per milioni di americani al contrario, anche tra coloro a bassissimo reddito e con le qualifiche più basse nel mondo del lavoro – ce n’è un’infinità nei Tea Parties, non sono ricchi avvocati o rancheros texani – la libertà è per sua stessa natura non egualitaria, perché gli esseri umani differiscono tra loro per forza, intelligenza, ambizione, coraggio e per tutti i più essenziali ingredienti che contribuiscono al successo. Come ha scritto Richard Pipes nel suo bellissimo “Proprietà e libertà”, le pari opportunità e l’eguaglianza di fronte alla legge – nel senso enunciato da Mosè nel Levitico 24,22, “ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per il cittadino del Paese, poiché io sono il Signore vostro Dio” – sono non solo compatibili con la libertà, ma essenziali per la sua sopravvivenza. Ma la parità dei compensi e degli averi – tanto cara a noi – invece non lo è. Anzi essa è del tutto innaturale e pertanto raggiungibile solo attraverso la coercizione. E non c’è coercizione buona quando essa è esercitata in mille modi dagli incentivi e disincentivi pubblici o dalla fiscalità progressiva esercitata dallo Stato, perché al contrario tale coercizione stabilita e perseguita da chi esercita il potere per mandato elettorale risulta ancor più dispotica e inaccettabile di quella esercitata con la forza da un tiranno.

Per quei milioni di americani che si sono mobilitati nei Tea Parties gridando basta all’eccesso di debito pubblico acceso da Obama, ancora insufficiente per i liberals come Paul Krugman e potentemente monetizzato dalla ossequiente FED di Bernanke, l’uguaglianza redistributrice è subdola e inaccettabile perché alzerà ulteriormente le tasse, intaccherà ancor più gravemente le libertà naturali dell’individuo, attribuirà alle persone incaricate di garantirla una serie di privilegi che li innalzeranno ancor più al di sopra del popolo.

Un intero filone della storia americana continua a considerare l’eguaglianza come primo e vero nemico della libertà. E diffida dello Stato e del suo welfare invasivo. Per quegli americani, i diritti economici di libertà indidividuale – cioè la proprietà, e questo spiega anche il diritto a portare armi – resteranno sempre più forti dei diritti civili a un equo trattamento stabilito dall’alto. Per loro, la proprietà privata è l’essenza stessa della diseguaglianza, e al tempo stesso procurarsi una proprietà col successo personale è la più importante delle libertà.

L’Europa, dopo il crac della finanza ad alta leva che spingeva milioni di americani a procurarsi proprietà attraverso l’eccesso di debito, ha pensato che fosse venuto il momento di una vittoria epocale. Finalmente l’anelito proprietario e libertario americano era spezzato per sempre. Lo Stato e le sue politiche redistribuzioniste erano l’unica risposta, l’unica via alla civiltà che tempera l’individuo nel nome degli interessi generali. Che sciocca illusione roussoiana, questa europea. I Tea Parties ci dicono il contrario. L’America profonda sa che crescerà più e meglio di noi con meno Stato o senza Stato tra i piedi. Come è sempre stato. Per questo, del resto, negli USA per ogni cittadino che vive solo del proprio ce n’è non più di 0,6 che percepiscono un qualche reddito integrato o corrisposto dal settore pubblico, mentre in Europa la percentuale è più che doppia da noi, tripla in Francia e quadrupla in Svezia. NOI Siamo figli dell’idealismo organicista, in chiave solidarista cristiana o socialista. La maggioranza degli americani ne resta immune. Quando lo capiremo sarà sempre troppo tardi per noi. Perché, oltre a crescere meno, per questo errore culturale avremo anche subìto più del giusto gli effetti di un’egemonia americana che, nel mondo nuovo, è soggetta sì a potenti ridimensionamenti. Ma portati dalla Cina, non dalla vecchia Europa appesantita dalle sue illusioni.

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Una lettura tedesca del nuovo Patto di Stabilità /2010/11/06/una-lettura-tedesca-del-nuovo-patto-di-stabilita/ /2010/11/06/una-lettura-tedesca-del-nuovo-patto-di-stabilita/#comments Sat, 06 Nov 2010 14:13:35 +0000 Giovanni Boggero /?p=7472 Come abbiamo scritto per Aspenia nel nostro lungo articolo che uscirà nei prossimi giorni, il compromesso raggiunto a Deauville tra la signora Merkel e il Presidente francese Sarkozy non è né una vittoria della linea dura, seguita dalla Cancelliera prima di allargare i cordoni della borsa, né una vittoria della linea morbida, abbracciata dalla Cancelliera con l’approvazione degli aiuti alla Grecia e l’istituzione del cd. Fondo di stabilizzazione.

Fatta la tara alle equazioni un po’ semplicistiche, il nuovo Patto di Stabilità è una via di mezzo tra questi due opposti. Benché Ulrike Guerot giudichi l’accordo come un netto successo per la Germania, una certa ambiguità di fondo la si nota anche nel titolo del suo articolo: a more European Germany – on German terms, laddove il neo-europeismo tedesco convive con un pizzico di sale teutonico. Da buona “prodiana” Angela Merkel ha insomma usato bastone e carota. E non è certo la prima volta. In patria tutto si è detto fuorché la Cancelliera sia stata la restauratrice del rigore. L’FDP e diversi organi di stampa le hanno rimproverato grande debolezza per non aver preteso l’applicazione di sanzioni automatiche e per aver protratto l’esistenza del Fondo di stabilizzazione. Lei ha replicato che “il congelamento dei diritti di voto è già previsto dal Trattato odierno”. Un bluff. La rinuncia alla sospensione del diritto di voto in caso di deficit eccessivi è stata funzionale ad ottenere la clausola della partecipazione dei creditori alla ristrutturazione, che molti commentatori fuori dai confini tedeschi considerano suscettibile di segnare un cambio di passo nella gestione delle finanze pubbliche da parte degli Stati membri.

A mio avviso, nell’accordo si trovano sia rigore sia solidarietà, disciplina di bilancio e perequazione, “euroscetticismo” ed “euroentusiasmo”. Il rigore sta appunto nell’eventualità di una ristrutturazione del debito per gli Stati spendaccioni, la solidarietà sta nel Fondo di stabilizzazione, approvato a maggio in fretta e furia e di fatto senza il crisma della copertura giuridica dei Trattati e ora reso permanente tramite un “annacquamento” dell’art. 122 TFUE. Tutto dipende insomma da come verrà dosata questa miscela. Per ora il mercato, come correttamente mostra Mario Seminerio su Il Fatto quotidiano, ha apprezzato lo sforzo rigorista.

In ultimo, una questione più prettamente giuridica. La proposta di revisione che Hermann Van Rompuy presenterà nel Consiglio europeo di dicembre dovrebbe finalmente prevedere l’uso delle cd. clausole dinamiche di modifica. In particolare si dovrebbe passare per l’art. 48 § 6 TFUE.

Anche qui condivido solo parzialmente quanto scrive Ulrike Guerot. Per due ragioni:

a) Benché la riforma semplificata del Trattato eviti le forche caudine della ratifica, la cosiddetta legge di responsabilità per l’integrazione (IntVG), che ha recepito le indicazioni della Corte Costituzionale tedesca nella sua celebre sentenza del 30 giugno 2009, ha esplicitamente previsto che tale ipotesi vada trattata come un normale caso di trasferimento di poteri sovrani e che quindi necessiti di una legge di approvazione nelle forme di una legge ex. art. 23 I comma della Legge fondamentale; non è chiaro se tale legge dovrà essere approvata ex proposizione 2 o ex proposizione 3 del medesimo articolo. La proposizione 3 verrebbe in rilievo, qualora si ritenesse che la modifica dei Trattati rechi disposizioni modificative od integrative della Legge fondamentale.  In tal caso  Bundestag e Bundesrat dovranno esprimersi a favore con una maggioranza qualificata di due terzi. Il ruolo dell’opposizione diverrebbe cioè fondamentale.

b) E’ vero che la riscrittura dei Trattati frustrerà probabilmente il ricorso dei famosi giuristi ed economisti, essendo d’ora in poi il Fondo di stabilizzazione ancorato direttamente nei Trattati. La Merkel terrà quindi a bada la cd. Terza Camera, superando l’ostacolo dell’art. 125 TFUE, che pur permane sulla carta. Ma ciò non toglie che Karlsruhe possa valutare comunque incostituzionale il meccanismo a livello di diritto interno. Oggi forse questo rischio la Cancelliera lo corre meno. Presidente della Corte Costituzionale non è più Hans-Jürgen Papier, ma il giovane Andreas Voßkuhle, di tendenze socialdemocratiche e abbastanza europeista. Tale cambio di marcia, impresso con la recente sentenza Mangold, dovrebbe insomma far dormire notti tranquille alla Cancelliera. Il mastino Schachtschneider, artefice dei ricorsi da Maastricht fino ad oggi, è però sempre dietro l’angolo…

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/2010/11/06/una-lettura-tedesca-del-nuovo-patto-di-stabilita/feed/ 0
Ritardati pagamenti PA: punire i politici /2010/10/27/ritardati-pagamenti-pa-punire-i-politici/ /2010/10/27/ritardati-pagamenti-pa-punire-i-politici/#comments Wed, 27 Oct 2010 12:57:51 +0000 Oscar Giannino /?p=7404 Evviva, la pubblica amministrazione è finalmente obbligata a saldare i suoi debiti in 30 giorni come termine ordinatorio, ed entro 60 al massimo perentoriamente. Dopodiché scattano interessi dell’8%. E’ la direttiva approvata tre giorni fa dal Parlamento Europeo, e subito si è stappato champagne. Nell’Italia odierna la media dei pagamenti della PA è salita dai 128 giorni del 2009 ai 140 quest’anno, attestano Confindustria e Rete Italia. Con settori in cui si superano i 180, afferma l’Associazione Nazionale dei Costruttori. E sacche di debito insoluto – per esempio nel settore sanitario, in alcune Regioni del Centrosud – in cui il ritardo arriva a 800, 900 e anche più di 1000 giorni. E’ uno scandalo italiano che si misura in anni, non in settimane. La classica misura dell’inefficienza, approssimazione e illegalità corruttrice dello Stato italiano. Ho un’ideuzza a sorpresa, per attuare la norma…

Il rispetto alla lettera della nuova regola porterebbe in poche settimane dai 50 ai 70 miliardi di euro nelle casse delle imprese. Per molte di loro, una boccata d’ossigeno decisiva. Per non poche, la differenza tra sopravvivere e continuare a dipendere dalla sola moratoria bancaria. Ma è inutile illudersi. E non solo perché Strasburgo lascia a ogni governo sino al 2013 per la messa in regola.

Il realista pensa che resterà una grida manzoniana. L’ottimista testone – eccomi – aggiunge: a meno che… Vediamo. Per realismo, va ricordato che le norme di contabilità pubblica prevedono che il debito pubblico sia tale solo alla scrittura di un mandato di pagamento, o della concessione di una garanzia reale che riconosca il debito come escutibile o scontabile in banca o su un mercato secondario (come capita ai Bot). La contabilità pubblica è per cassa, non per competenza. A molti sembrerà strano, ma se avete vinto una gara bandita dalla PA per la prestazione di un servizio o l’acquisito di un bene, ai sensi del diritto privato siete tutelati a ricevere il compenso dovuto. Ma per la contabilità pubblica quel debito della PA non esiste sinché non viene certificato o pagato almeno in parte. Poiché moltissime Autonomie locali non riescono fronteggiare i debiti per i vincoli del Patto di stabilità interno, il rispetto testuale dei 30 giorni porterebbe automaticamente all’emersione di debito pubblico per 3 o 4 punti aggiuntivi di Pil. Si può immaginare la giusta contrarietà di Tremonti.

A meno … a meno di immaginare un meccanismo che unisca tre diversi pilastri – rigore, trasparenza e prevenzione – facendo contenti sia imprese sia Tesoro. Qualunque garanzia pubblica sul debito insoluto oltre i 60 giorni può essere reperita nell’ambito della Cassa Depositi e Prestiti, il cui bilancio sta fuori dal recinto del debito pubblico per Bruxelles, esattamente come per gli analoghi istituti tedesco e francese. L’intero debito sarebbe immediatamente bancabile senza aggravi per il Tesoro. Per le Autonomie non in linea col patto di stabilità, si imporrebbe però un controllo di legittimità preventivo da parte della sezione specializzata della Corte dei Conti. E infine una doppia penalizzazione automatica: sui futuri impegni di spesa dell’Ente pubblico fino a regolarizzazione del debito avvenuta, ma anche – sorpresa! – in termini patrimoniali e personali per gli assessori e i politici che deliberano spese senza aver denari in cassa. Solo se rendiamo responsabili coloro che spendono in deficit, limitandoli e colpendoli a tempo nel loro patrimonio, evitiamo che a risponderne siano poi gli incolpevoli successori. E non ditemi per favore che a quel punto è come dire che politica la possono fare solo i ricchi, perché bastano sanzioni commisurate allo stock di patrimonio detenuto e al reddito dichiarato, oltre che alle attività partecipate o controllate. Che ne pensate?  Non è dal basso, che bisogna fare efficienza e rigore?

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Il nuovo patto europeo, più ombre che luci /2010/10/19/il-nuovo-patto-europeo-piu-ombre-che-luci/ /2010/10/19/il-nuovo-patto-europeo-piu-ombre-che-luci/#comments Tue, 19 Oct 2010 10:05:14 +0000 Oscar Giannino /?p=7332 E’ stata necessaria una mediazione diretta tra Angela Merkel e Nikolas Sarkozy, per sbloccare il braccio di ferro che da settimane spaccava a metà i 27 membri dell’Unione europea sul nocciolo del nuovo patto europeo di stabilità da far succedere al “patto stupido” precedente. Cioè quello di Maastricht del 1992, che già prima della crisi è stato interpretato sempre più discrezionalmente a cominciare da Francia e Germania e che comunque negli ultimi due anni è stato spazzato via, definito com’era sull’irreale ipotesi di una crescita del 3% l’anno in termini reali e del 5% in termini nominali, cioè compresa l’inflazione. Il braccio di ferro opponeva da una Parte Germania e Paesi nordici, come Olanda e Finlandia, dall’altra Francia, Italia, Paesi latini e la maggioranza di quelli dell’Est.  E’ buono, il compromesso? Che cosa signifca, oltre che per l’Ue, per l’Italia?

Per il primo fronte, il testo proposto dalla Commissione europea andava sostanzialmente accolto nella sua versione più rigida, comprendente oltre al rispetto del tetto di deficit un ritmo annuale predefinito di abbattimento del debito pubblico eccedente la soglia del 60% di Pil, e sanzioni automatiche proposte dalla Commissione stessa con un deposito fruttifero prima e infruttifero poi fino allo 0,2% del Pil e fino – proseguendo nell’infrazione – alla sospensione di percentuali crescenti dei fondi europei a disposizione di ciascun Paese.

Il compromesso finale franco tedesco – approvato dai 27 ministri delle Finanze ma ancor tutto da scrivere in dettaglio – prevede invece che sia il Consiglio europeo – cioè i governi che rappresentano gli elettorati, non i tecnici cioè i commissari europei  – il vero depositario delle decisioni e delle sanzioni, restando alla Commissione il potere di avviso ai governi non in regola, e la mera facoltà di proporre sanzioni. Per attribuire al Consiglio una funzione pienamente politica di questa portata si decide di modificare il Trattato europeo entro il 2013, ed è una buona cosa perché solo così la nuova politica di stabilità finanziaria entra a pieno titolo nei meccanismi operativi di prima grandezza dell’Unione europea. In più, nel merito, il fronte del rigore automatico e quello franco-italiano hanno trovato un compromesso fondato sulla comune convinzione di evitare così gli eccessi che avrebbero rischiato di fare anche di questo nuovo patto una mera versione aggiornata di quello precedente, col rischio cioè di risultare anch’esso “stupido”.  Di qui la decisione di sostituire gran parte dei numeri fissi indicati dalla Commissione con espressioni più generiche, da valutare Paese per Paese e a seconda del ciclo e della congiuntura.

Prevedere per esempio automaticamente che la riduzione del debito pubblico avrebbe dovuto avvenire anno per anno per una quota di almeno un ventesimo l’eccedenza oltre il 60% di Pil, per un Paese come l’Italia che il debito attualmente al  118% ha implicazioni completamente diverse se il tasso d’interesse è come oggi più basso sia della crescita reale che dell’andamento dei prezzi, opure se il tasso d’interesse – quando risalirà – superasse entrambe le grandezze. Se un Paese cresce in termini reali del 2% con tassi d’interesse nell’ordine dell’1% come oggi e con un’inflazione bassa,  quel rientro automatico del debito è compatibile con un deficit annuale dell’1,6% di PIL. Ma se la crescita si abbassa alla metà, i tassi d’interesse salgono e la crescita nominale è gonfiata dall’inflazione, il rientro automatico del debito pubblico previsto inizialmente dalla Commissione  rischia di tradursi in una grande trappola deflazionistica e recessiva per tutta la parte più debole dell’Europa.

Da una prospettiva di questo tipo, neanche Germania, Polonia e Paesi  nordici hanno nulla da guadagnare:, hanno argomentato Francia, Italia e Spagna:  perché il rischio è che salti l’euro, e per Berlino l’export tedesco intraeuropeo si indebolirebbe. Questa nuova consapevolezza, che si legge tra le righe nell’accordo di ieri, sarebbe il fatto nuovo rispetto alla crisi dell’eurodebito della scorsa primavera, quando il no tedesco a ogni cedimento ha seriamente rischiato di trasformare la crisi di Grecia e Portogallo nell’esplosione  dell’euro in quanto tale.

Altro fattore positivo è l’esplicito inglobamento nei criteri di valutazione della sostenibilità finanziaria dei diversi Paesi di una lista più ampia di criteri rispetto al solo deficit e debito pubblico. Verranno considerati sia il debito delle famiglie – che per l’Italia è basso, dunque è stato un successo per Tremonti inglobare tale criterio, come innumerevoli volte ha spiegato il professor Marco Fortis – sia la bilancia di parte corrente che esprime  in complesso la posizione di un Paese rispetto al flusso di capitali in ingresso e in uscita: un altro indicatore che per l’Italia va meglio di tanti altri membri dell’eurozona,visto che se Germania e Olanda sono in attivo di 5 e 6,5 punti di Pil rispettivamente, il nostro passivo per 3 punti di Pil resta meno preoccupante del -5% della Spagna, del -6,5% della Grecia, del -8,2% del Portogallo.

Oltre la  stabilità dei conti pubblici per la prima volta dal 2011 la vigilanza sui Paesi membri si estende anche al piano annuale di riforme per la cresciuta che ogni Paese sarà chiamato a definire entro aprile, in modo che la Commissione lo valuti entro giugno:  la crescita viene assunta come pilastro almeno altrettanto importante dei conti in regola.

Veniamo alle prime impressuini sul compromesso.

In Europa continua a esserci una netta differenza, in termini di rigore.  Ci sono Paesi come la Germania, che al di là e prima del vincolo europeo si sono posti autonomamente in Costituzione sia un tetto bassissimo al deficit pubblico – impossibile più dello 0,35% di Pil dal 2015 -  sia al prelievo fiscale, con un soglia personale e familiare di reddito intangibile alle pretese fiscali.  E vi sono poi Paesi in cui la politica continua a faticare molto nel mettere a frutto la lezione della grande crisi: e cioè che cresce di più chi ha meno spesa pubblica più efficiente, e meno tasse su lavoro e impresa.

E’ comunque un passo avanti, mettere al centro della nuova Europa una disciplina più  complessiva della stabilità finanziaria  e della crescita dell’economia reale. Ma la storia ci ha dimostrato che le regole automatiche funzionano meglio di quelle discrezionali, e dunque nel compromesso di ieri c’è una debolezza potenziale molto forte. Bisogna sperare che nei governi europei  resti ben viva la consapevolezza del grave rischio corso solo mesi fa: una crisi dell’euro sarebbe grave per tutti, tedeschi compresi a cominciare dalle loro banche. Ma è inutile illudersi, i Paesi forti come la Germania sopravviverebbero a una  crisi dell’euro assia meglio di quelli deboli, tra i quali resta l’Italia.

Di conseguenza, il compromesso di ieri in realtà non mi sembra affatto risolutivo.

Bisognerà stare attenti al diavolo che si nasconde nei dettagli, nella sua stesura completa e dettagliata.

Keynesiani e statalisti hanno buon gioco nel sostenere che l’ammorbidimento nasce anche dal fatto che sarebbe suicida per l’Europa – proprio perché cresce meno – rinunciare al pedale pubblico mentre l’America continua a farlo a go go.

Per l’Italia, l’annacquamento di vincoli troppo espliciti significa che la politica si sentirà più libera di continuare e escludere abbassamenti della spesa pubblica e della pressione fiscale in termini reali ed energici. Per chi la pensa come noi, la strada da seguire è questa e da ieri non siamo più forti nel sostenerla, temo.

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Il silenzio sul patto di stabilità europeo /2010/09/28/il-silenzio-sul-patto-di-stabilita-europeo/ /2010/09/28/il-silenzio-sul-patto-di-stabilita-europeo/#comments Tue, 28 Sep 2010 17:23:59 +0000 Oscar Giannino /?p=7161 L’Italia ufficiale ha la testa a quanto domaniaviene in parlamento, dopo due mesi di rodeo che ha dissipato gran parte di quel po’ di credibilità che questo governo aveva conquistato evitando quanto meno all’Italia di finire sulla graticola nella crisi dell’eurodebito. La vicenda non mi appassiona, ho sin qui anche per radio praticamente evitato di occuparmene. E’ un raro ma emblematico caso di totale mancanza di consapevolezza di quali possano essere le serie priorità di un Paese. E, per quanto mi riguarda e qualunque sia la verità sui 40 metri quadri a Montecarlo, mostra che qualunque sia la forma di governo da noi la storia della Fronda francese è un eterno classico, principi  in lotta contro re nella convinzione di dover ereditare il regno, ma a costo di rovinare il regno una volta che si smarrisce il senso delle proporzioni e della misura. Ai nostalgici della Prima Repubblica, ricordo che era l’esatto copione della lotta tra correnti Dc, e che di quella inedia di governo sono figli debito e discredito italiano. Forse è anche per questo, che in Italia stamane solo il 24 ore come giornale finanziario, e la Stampa, dedicavano attenzione all’Ecofin fuor da ristretti articolini nelle pagine di economia. L’Europa non è affato uscita dall’allarme della crisi che ne ha attanagliato significato e futuro da febbraio a maggio, eppure quasi nessuno s’interessa al nuovo Patto di stabilità europeo che dovrebbe fissare le nuove regole comuni per evitare di precipitare nel baratro. Penso sia un grave errore. E non mi convince affatto la posizione assunta dall’Italia. Da mesi abbiamo lasciato qui sulla vetrina del blog un videoeditoriale sul patto di stabilità, in cui sottoloineavo che l’Italia faceva bene a puntare i piedi perché nel calcolo del debito fosse compreso non solo quello pubblico ma anche quello delle famiglie. Detto questo, puntare insieme alla Francia a sanzioni deboli e discrezionali significa non capire quanto debole resti la capacità decisionale della poitica italiana, in asenza di vincoli stringenti, su deficit e debito pubblico.

Prima di entrare nel merito, una semplice questione di metodo. Perché Comuni, Province e Regioni hanno giustamente – dopo molte riottosità- dovuto sottoporsi alle decisioni assunte dal governo in materia di rispetto del patto di stabilità interno, con norme nuove come il rientro coatto del deficit sanitario e il relativo comissariamento, e norme stupide come il divieto ai Comuni virtuosi di riutilizzare nell’esercizio successivo per opere pubbkiche  gli avanzi di bilancio ristornati? Perché o Tremonti faceva così, oppuire la finanza pubblica italiana continuava a fare acqua in periferia malgrado le toppe poste alle paratie dello scafo centralista, e la pressione fiscale elevatissima. La domanda è allora: perché le Autonomie devono ccettarlo dal centro, mentre il governo centrale non deve accttare una disciplina altrettanto ferma e automatica imposta dall’Europa?

Ho due risposte secche. Nel merito, non accettare norme europee di correzione automatica di deficit e debito  è un errore. Nel metodo, penso anche che sia sbagliato, battersi insieme alla Francia contro Germania, Olanda, Regno Unito e BCE a favore del fatto che la discrezionalità delle sanzioni dipenda da maggioranze politiche in sede di Consiglio europeo.

Credo che l’Italia avrebbe dovuto coraggiosamente fare una scelta diversa. Abbracciare l’idea di ssere pronta a far scendere il proprio debito pubblico anche di 3 o 4 punti l’anno come regola standard per diversi anni: avrebbe imposto nuobve dismisisoni di patrimonio pubblico, e operazioni straordinarie sul debitop che sono assoluitamente necessarie oltre che più che possibili, senza ricorrere a finanza creativa. Le operazionidi dismisisone sono le classiche manovre di accompagnamento necessarie a conforto di un cambio di sistema fiscale – come quello comunque in corso atribuendo autonomia impositiva e responsabilità di spesa alle Autonomie – e vieppiù lo sarebbero qualora si andasse a una seria manovra di ridimensionamento delle aloiquote marginalie  e mediane e del totale reale di spesa pubblica sul Pil come noi pensiamo necessario per avere più crescita, più libertà e meno Stato corrotto e corruttore. In più, l’alleanza coi Paesi seri e rigorosi avrebbe levato argomento alle pretese tedesche di essere unico pivot di quest’Europa senz’anima, che con regole deboli resterà ancor più debole e con minor crescita, peggio esposta ai venti del’instabilità e priva ancor più di una politica di stabilità non solo comune, ma, soprrattuto, davvero operante.

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In Germania crolla il gioco di Stato /2010/09/12/in-germania-crolla-il-gioco-di-stato/ /2010/09/12/in-germania-crolla-il-gioco-di-stato/#comments Sun, 12 Sep 2010 11:28:23 +0000 Giovanni Boggero /?p=7015 Ogni tanto l’Unione Europea torna a fare il suo mestiere. Salvaguardare la libera concorrenza non andrà forse più tanto di moda, soprattutto se di mezzo c’è la Germania, ma talvolta Bruxelles riesce a stupirci. Questa volta, per la precisione, si tratta della Corte di Giustizia del Lussemburgo.

I giudici, riunendo una fitta serie di rinvii pregiudiziali, hanno infatti dato il colpo di grazia al sistema che teneva a galla il monopolio pubblico delle scommesse sportive teutoniche. La giustificazione addotta dal governo tedesco in ordine alla necessità di mantenere la posizione di vantaggio per tutelare i consumatori dalle frodi e combattere gli effetti nefasti del gioco d’azzardo è parsa alla Corte non conforme al dettato dei Trattati ed in particolare agli artt. 43 e 49 ex-TCE. La restrizione alla libera concorrenza è infatti ammessa per ragioni di interesse generale (sic), ma in questo caso i titolari dei monopoli pubblici – leggasi gli esecutivi regionali- hanno attuato campagne pubblicitarie a tappeto pur di massimizzare i profitti delle scommesse. Inoltre “le autorità tedesche attuano o tollerano politiche dirette ad incoraggiare la partecipazione a giochi da casinò e i giochi con apparecchi automatici”. Ancora una volta, insomma, dietro al paravento della tutela della salute o della protezione dei consumatori, si scorge la doppia morale di una mano pubblica che tenta brutalmente di far cassa.

Ora che il Glückspielstaatsvertrag è ridotto in cenere, il mugugno di Berlino, o meglio dei sedici Länder, non ha tardato a farsi sentire. Mentre il Land dello Schleswig-Holstein con il suo vicepresidente, l’avvocato liberale Wolfgang Kubicki, si propone di guidare la liberalizzazione del settore, la Renania-Palatinato, guidata da un governo di colore opposto, pare voler far di tutto per rafforzare il monopolio, in modo da incontrare i requisiti della disciplina europea. D’altra parte, proprio come disse un giorno un simpatico e fantasioso professore di diritto del lavoro a proposito delle pensioni delle donne in Italia: “L’Europa non ci chiede di alzare l’età pensionabile, ci chiede di equipararla”. Con ciò, alludendo al fatto che l’età pensionabile (maschile) sarebbe persino potuta scendere (!!).

Ad oggi il gioco d’azzardo online è proibito, la pubblicità è limitata (ne sa qualcosa il Milan!), mentre la normativa è carente sul versante delle slot-machine, tanto che i casinò avevano denunciato gravi perdite per la concorrenza sleale dei piccoli gestori delle “macchinette”. In poche parole una legislazione che ha favorito il mercato nero e che non ha aiutato più di tanto i monopolisti pubblici. Come spiegano dalle parti dell’FDP, l’emersione non sarebbe solo un beneficio per i consumatori, ma anche per le finanze dei Länder.

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Napolitano, la CEI e la produttività /2010/08/25/napolitano-la-cei-e-la-produttivita/ /2010/08/25/napolitano-la-cei-e-la-produttivita/#comments Wed, 25 Aug 2010 15:52:23 +0000 Oscar Giannino /?p=6849 Scusate, ma sulla vicenda Fiat-Melfi non sono d’accordo né con l’intervento del Capo dello Stato, né con il giudizio dell’arcivescovo presidente della commissione CEI per i problemi sociali e del lavoro. Mi sembrano da segnalare positivamente il Corriere della sera, che ha titolato giustamente “Napolitanto critica la Fiat”, il segretario della Uil Angeletti, che ha detto chiaro che in una vertenza giudiziaria tra privati il Capo dello Stato non dovrebbe entrrare per nulla, e il ministro Gelmini che in tutto il governo ha detto chiario “sto con Marchionne”.  Il Presidente della Repubblica mi sembra da elogiare molto per l’invito a superare lo scontro e a discutere con pacatezza del futuro delle relazioni industriali, visto che ha riconosciuto che la competizione internazionale è “aspra”. Ma mi sembra però da condannare risolutamente, per la sua scelta di entrare a gamba tesa in una vicenda nella quale menziona solo i ricorsi del sidnacato contro la Fiat, e non quelli della Fiat contro i tre licenziati. In questo modo, il segnale che viene dal Quirinale è che  il magistrato del lavoro, che nel giudizio d’urgenza ex articolo 28 dello Statuto si limita a una delibazione sul presunto fumus antisinacale della misura aziendale senza entrare nel merito delle cuircostanze di fatto, dovrà di fronte al ricorso Fiat dare ragione ai licenziati. Il Quirinale tace, sui ricorsi pendenti Fiat e sull’azione penale intentata dall’azienda per danno improprio. In altre parole – come riconosce persino oggi Tito Boeri su Repubblica, in un articolo pure che è aspramente conro la Fiat nelle sue conclusioni – dovrebbe passare il principio per il quale chiunque sciopera può bloccare una linea di produzione ledendo il diritto dei colleghi a non scioperare, e danneggiando l’impresa. E’ un errore gravissimo, senza precedenti nella storia istituzionale italiana. Politici e imprenditori e sindacalisti e giornalisti seri avrebbero dovuto insorgere con durezza. A questa stessa conclusione portano le parole pronunciate  da mons. Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Boiano e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace. Mons. Bregantini ha affermato che la Fiat “lede i diritti delle persone”, perché  “riduce tutto a una questione di carattere economico-finanziario”. Ignoro se abbia parlato a titolo personale o a nome della CEI, ma la carica che ricopre impegna l’intera Chiesa italiana. Che dunque si schiera a favore del blocco delle fabbriche travestito da legittimo diritto di sciopero, e per la via giudiziaria al blocco, una volta che sindacati minoritari perdono nelle urne , come è accaduto a Pomigliano. Mi sembra francamente pazzesco.

Forse è il caso di riflettere su due numeri, per capire quanto seria sia la questione dell’innalzamento della produttività da realizzare nel nostro Paese. Noi come italiani e come europei non abbiamo tanto un problema di produttività oraria a parità di qualifiche e mansioni, rispetto per esempio agli USA. Dagli anni Ottanta l’America ci ha strabattuto in produttività – a parte che per il più massiccio uso di tecnologie ITC – per due ragioni: lavoravano molti più americani che europei sul totale della popolazione in età da lavoro, e lavoravano per più ore e giorni e settimane l’anno, rispetto agli europei.  Nel 1997, sul totale della popolazione tra i 15 e i 64 anni, lavorava il 73,5% degli americani, rispetto al 58,5% come media allora degli attuali Paesi dell’euroarea, quando in Italia la percentuale era del 51,3%, in Francia del 59,6%, in Germania del 63,7%.

A fine dicembre 2009, dunque incorporando gli effetti della crisi, la terribile disoccupazione americana  ha abbassato il tasso di partecipazione per la prima volta da decenni ben sotto il 70%, al 67,6% per la precisione. La media dell’euroarea si è molto avvicinata agli USA, arrivando al 64,7%. Ma è una media che incorpora Paesi come la Germania al 70.9% (attenzione, nel 2009 è salita la partecipazione rispetto al 2008 malgrado la crisi, a conferma di quanto sia robusto economicamente quel Paese), la Francia al 64,2%. E l’Italia resta a uno sconsolante 57,5%. Abbiamo ancora più di 13 punti pieni percentuali di partecipazione al mercato del lavoro da recuperare, rispetto alla Germania leader europea. E’ per questo che servono regole diverse,  i 18 turni, e straordinari senza scioperi contrattati da sindacati che si rendano conto di come va il mondo oggi, e di che cosa dobbiamo metterci in condizione tutti di fare per vicnere la sfida e difendere la manifattura italiana, la base per l’occupazione di oggi e di domani, il traino della crescita italiana attraverso l’export.

Questi 13 punti invece è come se non esistessero, per tutti coloro che invocano il lavoro per decreto legge o per decreto di un giudice. Mi dispiace, ma non avrei mai pensato che Chiesa e Quirinale potressero rivelarsi così irresponsabili, da incoraggiare chi chiude gli occhi di fronte alla realtà e  invoca il diritto a bloccare le fabbriche.

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