CHICAGO BLOG » Unicredit http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 L’invettiva di Penati sul caso Rep-Prof /2010/09/27/linvettiva-di-penati-sul-caso-rep-prof/ /2010/09/27/linvettiva-di-penati-sul-caso-rep-prof/#comments Mon, 27 Sep 2010 10:45:38 +0000 Oscar Giannino /?p=7153 Ogni tanto ci vuole. Una sana invettiva che svuota i polmoni e scarica le meningi, collassa le endorfine e ripristina l’equilibrio metabolico. Tipo quella diAlessandro Penati oggi su Repubblica, che purtroppo non lo linka se non a pagamento, dunque se non l’avete letto qui solo una sintesi. E’ una replica invettivista all’intervista che Cesare Geronzi ha rilasciato a Massimo Giannini di Repubblica, dopo che questi aveva romanzato la vicenda della defenestrazione di Profumo come una resa all’asse Berlusconi-Letta-Geronzi. L’allineata delle tre botte mediatiche di Repubblica  Giannini-Geronzi-Penati dice molto , per me, di come si seguano in Italia le vicende finanziarie.

Prima lettura della vicenda Profumo: tutta politica – nella parte del male il centrodestra, naturalmente, della famigerata macchina occupapotere che è il centrodestra, ci mancherebbe – presentata come master&commander della finanza.  Polvere negli occhi ai lettori intribaliti, i molti che se anche parli del colore degli occhi dicono che la colpa è tutta di Silvio oppure tutta di pierluigi: la politica pagherebbe se fosse vero e andasse davvero così, ma con questo bel modo i media scaldano gli spalti calcistici di una politica ridotta a circo.

Seconda lettura: si cede una pagina intera a chi viene attaccato in prima lettura come fosse un incrocio tra Belzebù e Astarotte, e Geronzi obiettivamente ha buon gioco nel rispondere alle panzane della prima lettura con considerazioni che appaiono talora addirittura di elementare buon senso, tipo quelle dedicate all’evoluzione involutiva delle fondazioni.  Con questo artificio i rapporti di Repubblica con Geronzi restano in realtà ottimi, perché il giornalista che ha dato una prima lettura tanto forzatamente lontana dalla replica, per quanto sia bravo esita a reggere il fronte e dunque ecco la nostalgia delle sane fondazioni di un tempo, ché quelle sì difendevano stabilità banche e non facevano politica (tradotto, se la facevano per la Dc e per i post Dc non è politica, se in Intesa Bazoli le spiana quando pensano di avanzare candidati propri fa bene, perché “difendere la stabilità della banca” significa “difendere i banchieri  che guidano le banche”, di conseguenza fondazioni autoreferenziali e banchieri autoreferenziali uguale Eden in Terra: ma si può dico? io mi sbellico in solitudine… ho considerato l’intervista di Geronzi qualcosa da ritagliare e appendere al muro per la sua bravura, a conferma del fatto che chi nei decenni ha creato Capitalia e l’ha poi dissolta negli attivi di Unicredit poco prima della crisi insegna che il miglior banchiere italiano è appunto quello relazionale, un evocatore di realismo magico, uno strepitoso psicologo di politici malretti e imprenditori malgestiti, perchè quel che conta è la visione “sistemica” come si suol dire  e non i numeri; gli incroci azionari e i relativi semafori e non le strade fluide del mercato; gli intrecci e le rotatorie di potere e mai i viadotti su livelli diversi in cui ciascuno, banche, assicurazioni, imprese, segua la sua strada senza inchinarsi a logiche improprie diverse da sana crescita, stabilità patrimoniale e massimizzazione del risultato….: ha torto Geronzi? sui libri e nella teoria noi diciamo di sì, ma nella realtà italiana lui ha ragione, ragionissima, ragionissimissima da ven de re.., e capisco da molto tempo che rida sorrida e derida, chi crede in cose diverse )

Terza lettura: solo dopo e solo alla fine, contando sul fatto che per i lettori quel che continuerà a contare è la prima sceneggiata tutta politica rappresentata da Repubblica a cadavere di Profumo ancora caldo; solo dopo e solo alla fine, numeri e considerazioni di mercato lasciati ad Alessandro Penati, sempre più nella veste di lupo solitario che ulula alla luna nella steppa. E così, ooplà, chi propone letture deformate e devianti si copre il sedere sia con chi il potere lo esercita davvero e ne sorride, sia con la sparuta minoranza di noi mercatisti che vorrebbero a contare fossero solo numeri e bilanci e attivi, sia soprattutto con coloro che Profumo lo hanno cacciato davvero, cioè i tedeschi di Rampl e i signori delle fodnazioni Crt, Cariverona e Cassamarca e Carimonte.

Palle in politica, rinculi di potere, e parole vane di mercato: che cosa questa triade c’entri con far capire come e perchè Profumo sia andato a casa, o sono scemo io oppure spiegatemelo voi.

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I veri giubilatori di Profumo /2010/09/22/i-veri-giubilatori-di-profumo/ /2010/09/22/i-veri-giubilatori-di-profumo/#comments Wed, 22 Sep 2010 11:44:26 +0000 Oscar Giannino /?p=7135 In banca l’azionista decide, ma è il manager a dirgli tra che cosa. Così diceva il grande Raffaele Mattioli alla Comit, il modello da cui non solo Cuccia ma anche i giovani banchieri McKinsey italiani hanno sempre tratto insegnamento. Alessandro Profumo tra tutti, in un decennio e mezzo di strepitosa cavalcata in Italia e 22 Paesi esteri. Ma quando i dividendi agli azionisti scendono a meno della metà rispetto al difficile anno precedente, e poi a un quarto o un quinto degli anni precrisi come nella semestrale 2010 Unicredit, e si è dovuto pure mettere mano al portafoglio per miliardi in aumenti di capitale, lo spazio dei manager si restringe. E di Mattioli non si ricorda più nessuno. Ecco spiegata la levata di scudi in Unicredit di Cariverona con Paolo Biasi e dei trevigiani di Cassamarca,  dei piemontesi di Crt con Palenzona, dei bolognesi di Carimonte e della fondazione Banco di Sicilia. Sono loro, con gli azionisti tedeschi, i veri assassini di Profumo. Non la politica, anche se so che nel dirlo farò storcere a  molti la bocca. La piena delega a Profumo si è rotta piano piano, nel corso degli ultimi due anni.  E non solo per minori utili e dividendi, accantonamenti e rettifiche per miliardi ulteriori dopo aver rafforzato il capitale per oltre 6 miliardi. Le fondazioni non l’hanno mai voluto, un modello operativo accentrato sul capoazienda, con tre vice e sette proconsoli, come doveva essere l’Unicredit targata “S3” concepita da Profumo. “A lui la gestione tecnica, a noi le scelte di politica”. Proprio così: “di politica”, diceva il comunicato delle fondazioni il giorno del comitato operativo che ha rinviato l’Unicredit one man bank per tornare al modello di Banca Unica. E il comunicato era di mesi e mesi fa, non di questi giorni.

Profumo ha ammesso come nessun banchiere italiano, con due interviste al Financial Times a qualche mese di distanza dal crac Lehman Brothers, che dopo la crisi doveva cambiar modello di gestione e finanza. Ma quando chiese soldi ai soci dopo averlo negato per mesi, perse aura e  credibilità. E anche il suo rapporto con la Banca d’Italia di Draghi, che nell’esito finale della vicenda ha avuto il suo peso. La richiesta formale di chiarimenti da via Nazionale a Unicredit per l’ascesa dei libici nel capitale ha infatti consentito a Dieter Rampl di farsi attribuire dal comitato governance dell’istituto il mandato a investigare. Il primo segnale che Profumo aveva un piede già fuori dalla porta.

Sono state le fondazioni, il nemico vero alla fine. Profumo negli anni  ha provato a superare le anime locali, eredità delle fusioni, per fare efficienza. Ma le fondazioni non sono soci qualunque, pesano sul territorio e nella politica. A maggior ragione quando UniCredit esercitava il ruolo che ha esercitato in partecipate come Mediobanca e Generali, dalle quali non a caso Profumo ha fatto impossibile per allontanarsi: dopo aver pensato a scalare Generali nel 2002 e dopo aver cacciato Maranghi che non dava retta agli azionisti però, singolare accusa da parte di chi viene messo alla porta con la stessa imputazione.

Profumo a 20 anni lavorava già in  banca, al Banco Lariano, 10 anni prima di laurearsi. Il suo merito indiscusso è di aver trasformato in 10 anni, dopo la privatizzazione,  il Credito Italiano da modesta banca poco più che regionale nella più aggressiva banca italiana. Nel 2001, Business Week lo celebrava come “il più dinamico banchiere europeo”, con utili che crescevano a botte del 27% annuo e un ritorno sul capitale del 21% che facevano di Unicredit la più profittevole banca europea. Più di dieci anni fa si pensò persino a un matrimonio della sua Unicredit con gli spagnoli del Banco Bilbao, ma l’Italia non era pronta. E venne allora l’espansione a Est che oggi molti rimproverano, insieme alla crescita nel risparmi o gestito con acquisizioni come quella dell’americana Pioneer, poi da dismettere. Acquisizione che a Mario Draghi non piacque, visto che da quando è a via Nazionale non fa che dire che le banche dovrebbero lasciare il risparmio gestito in mani indipendenti.

Ma negli anni 2002-2004, è stata l’ Unicredit Banca d’Impresa – allora a guidarla era Pietro Modiano, poi in SanPaolo, poi in Intesa e ora alla Carlo Tassara di Bazoli – la prima grande banca che ad alcune migliaia di piccole imprese italiane ha proposto prodotti derivati che, nati per la semplice copertura da modifiche al tasso d’interesse, si rivelarono bombe e a tempo, e fonti di perdite per alcune miliardi di euro. E’ l’Unicredit di Profumo, ad essere condannata a rifondere oltre 220 milioni alla vecchia Cirio i cui bond fregarono migliaia di italiani, anche se una Corte d’Appello ha poi  sentenziato che il pagamento è inutile, visto che la Cirio non c’è più. Ed è ancora la compagnia assicurativa vita della sua Unicredit, ad offrire ai clienti che hanno sottoscritto prodotti della Lehman  un rimborso pari solo al 50% del capitale, a differenza di altri istituti italiani che hanno dato ai propri clienti copertura integrale.

Quando Profumo riconobbe al Financial Times che doveva cambiare il modello gestionale della banca, con meno trading di prodotti finanziari, il titolo Unicredit valeva ancora oltre sei euro. Poi venne la grande paura. L’aumento di capitale tanto a lungo negato avvenne con modalità singolari, non solo con altri 700 milioni di perdite dichiarate sull’investment banking fino ad allora negate, ma in più coperto da Mediobanca attraverso l’emissione di titoli convertibili speciali, dalla cedola molto onerosa. Modalità tanto singolari che la Fondazione Cariverona di Paolo Biasi prima le votò, poi all’ultimo momento si tirò indietro. Lasciando spazio ai libici – ecco l’inizio della storia -  che non avevano più problemi a reinvestire in Italia dopo la pacificazione offerta da Berlusconi. Ma da 3,08 euro dell’azione da sottoscrivere, il titolo Unicredit scivolò sino a sotto un euro. E’ di quei giorni, la profezia di Profumo che sarebbe andato in pensione assai presto. I 4 miliardi di utili 2008 incamerati senza dividendi ma continuando a perdere quote di mercato domestico furono accolti dalle fondazioni con un tacito patto: o l’anno prossimo cambia l’aria, oppure va a casa. Eccoci all’anno successivo, con una magrissima semestrale da soli poco più di 600 milioni di utili, e Profumo puntualmente è fuori.

Quando nel 2007 era nell’aria l’acquisizione di Capitalia da parte di UniCredit, il capolavoro di Geronzi di cui Profumo poi si è pentito, temendone gli effetti su Generali e Mediobanca il professor Giovanni Bazoli senza citare Profumo fece un ritratto spietato dei “banchieri all’americana”. Profumo alzò le spalle: non parla di me, disse. Fondazioni e azionisti tedeschi oggi hanno dato ragione a Bazoli. Non la politica, che ha assistito da Roma preoccupata con Tremonti delle conseguenze sistemiche di una dipartirta senza successori pronti. Per il presidente di Intesa, Bazoli, una soddisfazione sicuramente maggiore che per Tosi, il sindaco leghista di Verona.

Direte voi: ma come, non è stato forse il sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, il più guerrigliero dichiaratore contro l’impropria presunta regìa attribuita a Profumo, nel far salire i libici nel capitale della banca senza avvisare fondazioni azioniste e presidente tedesco? Certo che sì. Ma questa è appunto la maliziosa e studiata abilità in cui la Lega ormai inizia ad eccellere, a conferma che anni e anni di politica hanno reso i suoi dirigenti e migliori amministratori locali del tutto all’altezza dei più smaliziati vecchi democristiani di un tempo. In realtà, i leghisti dentro la Fondazione CariVerona ancora non sono formalmente neppure entrati, e Tosi è stato semplicemente astuto sui media a invocare più di tutti il ritorno in banca del “potere ai territori”.

Se non fosse così, se davvero la vicenda dovesse essere letta come per esempio ha fatto Repubblica, se in altre parole fossimo in presenza di uno spietato attacco per allineare la seconda banca italiana al – naturalmente – famigerato governo Berlusconi, non si capirebbe perché al contrario il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, abbia giocato fino all’ultimo nella vicenda assai più il ruolo del pompiere che quello del piromane. Come già avvenuto in passato in presenza di vicende come il salvataggio del gruppo Risanamento per Intesa, rispetto alla tesi della discontinuità aziendale e del fallimento invocata dalla procura di Milano, sia pur rifuggendo da ogni compromettente e improprio atto o dichiarazione ufficiale Tremonti ha tentato il tentabile, per spiegare alle fondazioni che era meglio procedere diversamente, di fronte a una situazione europea e internazionale ancora così fortemente attraversata da instabilità e tensioni proprio sul fronte bancario.

Capisco dunque che il teatrino politico italiano dirà che è stata la Lega ad entrare a gamba tesa, e che in definitiva Biasi e Palenzona  non sono o non sembrano certo di sinistra. Ma è teatrino, appunto, per me. La sostanza è che la caduta di Profumo con la politica c’entra niente, e tanto meno con la sua partecipazione alle primarie dell’Ulivo, e con la partecipazione di sua moglie all’Assemblea del Pd. Ai tedeschi non par vero, dopo quanto profumo ha pagato l’HVB, far ballare alle fondazioni il tango della liquidazione del maggior banchiere italiano che intendeva guidare una banca senza pagar pegno agli azionisti. Ma questa non è la miseria della politica italiana, che ne ha ben altre. E’ la storia del povero mercato italiano. E, comunque, Profumo di errori ne ha fatti: eccome. Dei 40 milioni di buonuscita di cui 2 a don Colmegna, penso sia demagogia facile sparlare: ha prodotto per gli azionisti utili a decine di miliadi in 15 anni prima di deluderli, non lo dimenticate per favore.

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Profumo, Passera e la grande banca /2010/09/07/profumo-passera-e-la-grande-banca/ /2010/09/07/profumo-passera-e-la-grande-banca/#comments Tue, 07 Sep 2010 18:06:51 +0000 Oscar Giannino /?p=6970 Ci sono due modi di guardare all’apparente crisi di fine estate dei due amministratori delegati delle due maggiori banche italiane. La prima è quella di perdersi nel filo di Arianna delle considerazioni di ordine personale, che tanto vanno per la maggiore nella stampa retroscenista, e non solo in quella politica. E così si sono lette fior di illazioni, su che cosa abbia spinto davvero o quali benedizioni abbiano indotto il Corriere della sera a pubblicare per due giorni di seguito articoli intorno agli investimenti alberghieri della famiglia Passera. E analogamente si sono sprecate le strizzate d’occhio, intorno al mormorio delle fondazioni azioniste raccolte insieme al presidente di Unicredit Dieter Rampl, nel protestare per aver appreso dai giornali che il fondo sovrano della Libia aveva aggiunto un altro due per cento buono di capitale alla quota di poco sotto al 5% già detenuta dalla banca centrale del Paese guidato dal finalmente amicissimo dell’Italia, il colonnello Gheddafi. Senonché chi scrive qui non intende inseguire considerazioni personalistiche. Hanno sicuramente il loro peso, per carità. Perché alla testa di grandi banche lo stile personale del numero uno operativo investe inevitabilmente il modello gestionale, il rapporto con gli azionisti, la scelta della prima cerchia del management alla testa delle diverse unità di business, e la modalità attraverso la quale essi trasmettono valori e procedure dell’istituto nelle attività di cui sono responsabili, a scendere fino all’ultimo sportello. Ma il primario giudizio su questo spetta agli organi e agli azionisti della banca. Tocca a noi tentare di capire invece se le polemiche tardoestive siano anche figlie di peculiarità sistemiche, quelle di cui ci occupiamo qui.

In una certa misura, la risposta è affermativa. Vediamo perché.

Nel caso di Intesa, il modello duale di governance bancaria mostra di non essere sempre automaticamente capace di impedire che, tra chi svolge la propria funzione apicale di gestione, e chi invece quella di sorveglianza, non possano insorgere anche talora equivoci. Nel caso specifico, non riguardano scelte istituzionali o operative della banca, ma le esternazioni personali dell’amministratore delegato, e la sua partecipazione a delibere che in realtà, anche volendo essere cattivi a oltranza nel maneggiare i criteri del conflitto d’interesse, configurano al massimo un caso di opportunità, non di rigorosa osservanza trasgredita. Ma anche se non innanzitutto l’opportunità è una categoria molto delicata, quando si tratta di apparire a prova di bomba di fronte al sospetto del conflitto d’interesse, a proposito della presenza di un fratello dell’ad nella società alberghiera operata da Intesa, quando in parallelo per le operazioni alberghiere della famiglia primari istituti bancari avevano messo a disposizione fior di capitali poi non utilizzati, ma investiti – del tutto legittimamente perché qui non siamo ostili al vantaggio fiscale comparato, su cui tanti demagogicamente ecepiscono in Italia – in Lussemburgo.

Nel caso di Unicredit, il problema è un altro. E’ una questione che questa volta non ha a che vedere con i colpi che ad Alessanro Profumo sono venuti dal guidare la banca più internazionalizzata d’Italia, più esposta in Paesi colpiti da crisi e bolle come l’Europa orientale, e insieme più avanti nell’aver adottato il modello originate to distribute più severamente colpito dalla crisi del modello d’intermediazione anglosassone. Oltre ad aver sottostimato all’inizio della crisi la necessità di ricapitalizzarsi. Tutto questo appartiene ormai al passato, come del resto confermato dagli stress test bancari europei – molto discutibili in verità, ma più per la tutela usata alle banche tedesche  – di qualche settimana fa.

Il problema che riemerge in Unicredit è un altro. Ed è di grande attualità non solo da noi, ma anche nell’Europa dei salvataggi bancari che da noi per fortuna non sono stati necessari, e in cui gli istituti che devono smobilizzare le quote di capitale pubblico d’emergenza pubblico sono alla ricerca di nuovi azionisti dotati di cospicui capitali. Che cosa è davvero oggi una banca nazionale? Basta che fondi sovrani e banche centrali estere ne diventino primo azionista, sommando quote che in teoria però sono distinte, perché sia giusto suonare l’allarme dell’attentato alla sovranità? Spetta all’amministatore delegato avvisare davvero preventivamente le fondazioni azioniste e il presidente, di una quota acquisita sul mercato da un investitore estero nel capitale della banca? Oppure sono gli azionisti, che a quel punto saltano in groppa all’occasione per mandare un segnale all’amministratore delegato che, però con la corretta governance poco o nulla hanno a che vedere? A me pare la seconda, e a voi che leggete?

Sarebbe stato più utile leggere analisi e opinioni intorno a questi tempi più generali, piuttosto che sulle ombrosità personali e inclinazioni politiche vere o attribuite ai due banchieri. Perché è inutile immaginare che gli sviluppi che si producono nei due maggiori istituti di credito italiano non imprimano di sé l’intero sistema bancario nazionale. Eppure, i tanti che hanno sprecato molte pagine per dire che era la Lega in crescita elettorale, e dunque in ascesa nelle indicazioni di amministratori delle fondazioni bancarie, ad attentare a Unicredit e Intesa, su questi aspetti sistemici hanno preferito quasi sempre tacere. Così va per lo più l’informazione su questi temi, in Italia. A conferma che la banca, la grande banca, conta ed è temuta assai più della politica.

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I fuochi di Profumo /2010/08/31/i-fuochi-di-profumo/ /2010/08/31/i-fuochi-di-profumo/#comments Tue, 31 Aug 2010 14:19:08 +0000 Camilla Conti /?p=6910 Ha mai pensato di darsi alla politica? “No. Anche perché penso di avere un carattere non adeguato”. Era il 29 maggio 2008 e Unicredit era da poco inciampata sulla mina dei derivati. Ecco allora uscire sulle pagine de L’Espresso una lunga  intervista sentimentale all’amministratore delegato, Alessandro Profumo.

Il banchiere europeo che più europeo non si può. Il manager che ha sempre chiesto di essere giudicato sulla qualità delle sue scelte e dei suoi progetti, ma senza contrarre debiti, neppure di riconoscenza, con nessuno. Orgogliosamente distante dai colleghi “di sistema” come Passera. E soprattutto snobisticamente avulso dalla politica con le sue beghe di palazzo troppo provinciali e becere. Poi, dopo i derivati, è arrivata la crisi. E anche mister Profumo si è dovuto adeguare.

Oggi lo ritroviamo attovagliato con Gheddafi, suo primo socio in affari, e con il premier Berlusconi che ha benedetto – c’è chi dice oliato attraverso la mediazione di Totò Ligresti – l’ingresso dei libici nel capitale di Piazza Cordusio.  Il banchiere che una volta andò a votare per le primarie del Pd è però stretto fra due fuochi. Da una parte Silvio e gli amici di Tripoli, dall’altra il ministro Tremonti e soprattutto il popolo padano il cui nuovo motto è: fondazioni bancarie a noi, fuori gli arabi, giù le mani di Gheddafi da Unicredit.

 Ai leghisti Profumo non piace. Soprattutto a quelli veneti che non vogliono occupare solo le banche ma anche le infrastrutture. Come la nuova piattaforma portuale di Venezia,  una delle priorità per l’economia della Regione. Il progetto lanciato dal Presidente dell’Autorità Portuale Paolo Costa, di un porto off-shore al largo della bocca di porto di Malamocco, dal costo previsto di 1,3 miliardi di euro è però rallentato dalla contesa con il Friuli-Venezia Giulia che sta lavorando ad un «superporto» tra Trieste e Monfalcone. Grazie ai finanziamenti di Unicredit Logistics , la società attraverso la quale il gruppo di Profumo finanzia le grandi infrastrutture.

E poi ci sono i tagli all’occupazione che scuotono i leghisti veronesi: secondo le prime stime dei sindacati, la scure si abbatterà soprattutto sui quartier generali di Banco di Sicilia e Banca di Roma, ma non resterà indenne la direzione di Unicredit Corporate Banking nella città scaligera. Il totale dei dipendenti del gruppo Unicredit in regione (calcolo del sindacato Fabi alla fine dello scorso anno) è di 6.184 unità: il grosso (2.670) gravita su Verona, ma ci sono presenze molto significative anche a Treviso (1.046) e Vicenza (1.022), mentre su Padova e Venezia si viaggia intorno alle 500 persone per ciascuna provincia.

“Ci lasci anticipandoci la sua prossima sfida”, concludeva l’intervista sentimentale de L’Espresso a Profumo nel 2008.  ”Se mi riporta sulla terra, le rispondo volentieri. Voglio far diventare l’Unicredit a tutti gli effetti la prima banca europea”. La sfida continua. Ma sotto una tenda beduina.

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Messi marzoline: raccolta in banca 10 punti più degli impieghi /2009/04/22/messi-marzoline-raccolta-in-banca-10-punti-piu-degli-impieghi/ /2009/04/22/messi-marzoline-raccolta-in-banca-10-punti-piu-degli-impieghi/#comments Wed, 22 Apr 2009 16:45:13 +0000 admin /index.php/2009/04/messi-marzoline-raccolta-in-banca-10-punti-piu-degli-impieghi/ Anche a marzo le banche italiane hanno mantenuto il trend affermatosi con crescente divario a loro vantaggio dallo scorso autunno. A marzo gli impieghi sono saliti solo del 2,8% sull’analogo mese 2008, mentre la raccolta è salita della bellezza dell’11,3%. Trainata dalle obbligazioni bancarie che gli istituti italiani continuano a piazzare ai propri sportelli a ritmi incrementa,li vertiginosi, con un più 20,5% mensile che va parametrato al più 5,8% dell’euroarea, al più 11,5% francese, e al meno 1,7% tedesco e al meno 3,1% spagnolo.
Si tratta di due dati sui quali riflettere. Da mesi la forbice crescente tra raccolta e impieghi ormai sui dieci punti mensili testimonia non solo la maggior propensione al risparmio delle famiglie innanzi alle incertezze della crisi – fenomeno fisiologico perché dovunque in tali condizioni sale la propensione al risparmio sul reddito disponibile, persino negli usa dove era negativo si alza del ritmo impressionante di quasi 5 punti al mese. Nel caso italiano, il divario tra raccolta e impieghi ha assunto proporzioni tali, e si è manifestato in tempi tanto rapidi, da precedere la contrazione degli investimenti da parte delle imprese a fronte del rallentamento dell’economia reale, ed è dunque una deve vere e più concrete misure della restrizione di credito che il sistema bancario italiano pratica, per rafforzarsi patrimonialmente. Che tutto ciò venga trainato dalle obbligazioni bancarie spiazzando i fondi, è espressione della garanzia statale che in Italia i risparmiatori avvertono dietro banche che pure non hanno dovuto ricorrere a interventi pubblici in alcun modo paragonabili a quelli che hanno cambiato le coordinate bancarie e del mercato in Paesi come Usa, Uk, Germania, Francia e Paesi Bassi. E’ da rimarcare poi che una tale strategia assai aggressiva di funding avviene in concomitanza, dopo 5 mesi di braccio di ferro sui cosiddetti Tremonti bonds troppo onerosi, con l’emissione di obbligazioni potenzialmente costosissime per l’emittente come l’appena collocato strumento di Unicredit per oltre un miliardo di euro. A beneficio di chi l’ha acquistato – anche in questo caso spiazzando investimenti più necessari – ma non certo a conferma di un solido stato di salute della banca italiana che non avrebbe avuto bisogno di un aumento di capitale né di aiuti pubblici, malgrado già paghi solo l’11% di tax rate e approfittiper oltre un miliardo nel 2008 di sgravi fiscali da rettifiche degli avviamenti patrimoniali concesse dal “famigerato” Tremonti…

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