CHICAGO BLOG » ue http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 11:09:36 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 No eurobond, tre cose servono all’Italia /2010/12/07/no-eurobond-tre-cose-servono-allitalia/ /2010/12/07/no-eurobond-tre-cose-servono-allitalia/#comments Tue, 07 Dec 2010 17:35:39 +0000 Oscar Giannino /?p=7802 Dunque come previsto all’Ecofin la Germania ha detto no. No sia al rafforzamento dell’EFSF: tradotto, significa non c’è capienza per salvare Portogallo e Spagna. Sia alla proposta Tremonti-Juncker di eurobond avanzata ieri sul FT. Il ministro italiano dell’Economia ha dichiarato di essere ottimista, anche l’EFSF l’Italia lo propose a fine 2008 e molti risero, poi la Grecia in panne nella primavera 2010 obbligò a vararlo. Lo stesso avverrà per gli eurobond, pensa Tremonti. Vedremo al Conmsiglio Europeo e al summit dei capi di Stato e  di governo che lo segue. A me non pare probabile che le cose si smuovgano, e oltretutto la proposta di un’Agenzia del Debito Europeo che rilevi debito dei membri eurozona fino al 40% del Pil comune e cioè di ciascun membro, mantiene due punti che non mi sono affatto chiari e che anzi mi appaiono temibili. Continuo a pensarla come Roberto Perotti oggi sul Sole. Era meglio ristrutturare il debito greco a febbraio, avviare cioè un semidefault che avrebbe scoraggiato a insistere tutti gli altri membri “eurodeboli”. Congiuntamente credo che il problema irrisolto sia quello delle banche innanzitutto tedesche e francesi, come ho scritto ieri. E che comunque l’Italian dovrebbe fare tre cose, subito e di suo, senza confidare negli eurobond.

I due punti non chiari – a me almeno – della proposta Tremonti-Juncker riguardano: i tassi ai quali si praticherebbe lo swap tra debito nazionale e debito dell’EDA; il premio ai più deboli.  I tassi d imercato cioè spread compresi sono esclusi, naturalmente, in sede ci conversione. I proponenti hanno parlato di conversione  “alla pari”, e hanno aggiunto che anzi andrebbe assicurato un premio ai Paesi sotto stress. E’ come dire che aboliamo dal 50 al 100%b il potere del mercato di esprimere un giudizio sui diversi premi di rischio Paese: non si tratta di essere tedeschi, per respingere un’idea di questo tipo. E’ evidente che incoraggia comportamenti irresponsabili, da parte della politica fiscale e di bilancio a livello nazionale.  La seconda proposta non chiara riguarda il proposto meccanismo di sostegno da parte dell’EDA al finanziamento di almeno il 50% dei nuovi titoli che sarebbero emessi dagli Stati membri, e anche qui si propone di giungere fino al 100% dui finanziamento in caso di stress. Un secondo e temibile premio all’azzardo morale dei governi.

Veniamo all’Italia. Tremonti, tra manovra pluriennale estiva e correzioni nella legge di stabilità per il 2011, ha frenato il deficit tendenziale dello 0,9% di Pil per il 2011, e dell’1,5% sia nel 2012 che nel 2013. Altri hanno dovuto fare sforzi multipli di tali grandezze. La spiegazione del perché siano stati “costretti” a fare più dell’Italia si chiama avanzo primario. Il saldo primario è la differenza tra uscite e entrate, al netto della spesa per interessi sul debito. Tra i 16 paesi dell’eurozona l’Italia è in testa. Positivo nel 2008 (+2,5% del Pil) il saldo primario italiano ha girato, causa recessione, per la prima volta dal 1991 in territorio negativo nel 2009 (-0,6%). Per il 2010, si dovrebbe chiudere di poco sotto lo zero. Per tornare ad avanzo primario positivo nel 2011. Livelli nettamente migliori della media dell’eurozona, pari a -3,6% nel 2010 e a -2,9% nel 2011. Tra i big, la Germania registrerà disavanzi primari nel 2010 e 2011 del -2,3% e -2%, la Francia del -5,4% e -4,5%. Terribili gli andamenti dell’Irlanda (-8,8% e -7,6%), Spagna (-7,6% e -7,2%). Meglio la Grecia post massicci tagli primaverili(-4,0% e -4,1%).

Ma il premio di rischio dei titoli pubblici dipende da altre due cose: dalla crescita, dall’ammontare di interessi da pagare sul debito. Eccoli, i talloni d’Achille del nostro Paese. L’aumento del Pil italiano è dell’1,1% quest’anno e l’anno prossimo, previsto in lieve miglioramento nel 2012 all’1,4%. La serie tedesca è 3,7%, 2,2% e 2%. Quella francese +1,6% in 2010 e 2011, 1,8% nel 2012. Quando la crescita di un Paese è inferiore agli oneri sul debito, o l’avanzo primario compensa la differenza oppure il debito pubblico sale ancora. Noi siamo su quella via: ma tutti quelli che gridano contro Tremonti, al centro e a sinistra, vogliono più spesa pubblica.

Infine, gli interessi sul debito. Siamo più esposti alle oscillazioni degli spread di altri che hanno avanzi primari peggiori. Per diluire il più possibile gli interessi del debito ed accrescere la durata media dei titoli emessi noi teniamo in media quattro aste al mese, due di titoli a breve e due a durata medio-lunga. L’ammontare è minore delle maxi aste concentrate in pochi mesi adottate dai più nell’eurozona. Una strategia ottima quando è basso lo spread, come nel primo decennio dell’euro. Quando il mercato balla, più emissioni si traducono in più occasioni per il mercato di premere il doppio pedale tra basso prezzo nominale di acquisto e alto rendimento. Per questo siamo finiti sopra i 200 punti base, la settimana scorsa.

In conclusione: la finanza pubblica italiana è apparentemente più sotto controllo che tra i nostri partner, come pura dinamica di spesa comparata. Ma la bassa crescita e l’esposizione alla volatilità consigliano tre cose. Non abbassare la guardia, cioè spendere meno e non di più. Molto meno, per abbattere le tasse. E, se possibile, una manovra di rientro straordinario del debito. Il patrimonio immobiliare liquidabile pubblico – escluso tutto ciò che è vincolato, non parliamo di Colosseo e Pompei – vale circa 500 miliardi. Cederne anche solo due terzi, con veicoli e procedure di mercato, abbassa il debito pubblico di 20 punti di Pil, al di sotto della media dell’eurozona l’anno prossimo. Sarebbe la fine dell’eccezione italiana, la premessa per concentrarsi sulla vera sfida: crescere di più.

eniamo all’Italia.

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Tremonti rilancia gli eurobond. Sarà dura, perché.. /2010/12/06/tremonti-rilancia-gli-eurobond-sara-dura-perche/ /2010/12/06/tremonti-rilancia-gli-eurobond-sara-dura-perche/#comments Mon, 06 Dec 2010 11:08:38 +0000 Oscar Giannino /?p=7787 All’Eurogruppo di stasera e all’Ecofin di domani Tremonti e il presidente dell’Eurogruppo Juncker riproporrano gli eurobond europei, questa volta non per rilanciare gli investimenti pubblici ma anche e sprattutto per swappare titoli dei Paesi a rischio nell’eurozona. Ho dei fortissimi dubbi che per i tedeschi la proposta sia accettabile.  E una controproposta, dovessi essere io al tavolo.

Che cosa continua a non funzionare, nelle regole europee sin qui stabilite dopo il caso greco e quello irlandese? Che cosa non convince ancora, dopo che la Germania di Angela Merkel e la Francia di Sarkozy hanno formalmente confermato che il loro patto di Deauville diverrà proposta formale e ufficiale al Consiglio europeo, e cioè che dopo il 2013 l’attuale fondo di stabilità finanziaria EFSF varato dopo il salvagente alla Grecia diventi un meccanismo stabile – per questo serve una modifica al trattato europeo – al quale comparteciperanno anche le banche private? Non si era detto nel corso degli ultimi mesi che i salvataggi avvenivano in realtà solo per tuteklare non gli euromembri a rischio ma le banche stesse di Germania e Francia, visto che sono imbottite di titoli sovrani europei che fino a qualche mese fa avevano premi di rischio diversificati solo nell’ordine delle decine e non di centinaia punti base? Perchè non considerare allora favorevolmente, l’idea tedesca degli haircuts, cioè che le banche stesse si espongano in caso di rischio default dei Paesi di cui hanno comprato i titoli, a tagli degli interessi attesi se non a una rinuncia di parti stesse del capitale stesso impegnato?

La prima cosa che i mercati hanno capito, sapendo far di conto, è che tali haircuts più che tagli di capelli finirebbero per essere tagli di teste. Un analista di JPMorgan la settimana scorsa ha calcolato che una decurtazione pari a non più del 20% del valore di rimborso dei titoli pubblici dei Paesi a rischio – cioè Grecia e Irlanda, Portogallo e Spagna – basterebbe oggi come oggi a determinare l’azzeramento del capitale proprio delle maggiori banche francesi.

La seconda cosa che i mercati hanno capito, sapendo sempre far di conto sin qui ancora una volta meglio di regolatori e governi, è che i tassi d’interesse ai quali si dovranno sottoporre gli euromembri “deboli”, per effetto delle nuove regole tedesche, spingono in realtà questi paesi non a salvarsi, ma semplicemente al baratro. Per fare un solo esempio: poiché l’Irlanda è tenuta a pagare un rendimento del 5,8% sul prestito fattole dal Fondo Monetario internazionale e dall’EFSF.  Nelle condizioni attuali e proiettate nel triennio delle finanze pubbliche irlandesi, questo significherà che al 2014 i soli oneri sul prestito rappresenterebbero il 25% del totale delle entrate di Dublino. Una condizione di default peggiore di quella rischiata per i soli salvataggi bancari.

L’Irlanda si troverebbe a trasferire ogni anno il 10% del suo reddito nazionale tra interessi sui prestiti vecchi e nuove emissioni: siamo a proporzioni analoghe a quelle dei debiti di guerra imposti alla Germania a Versailles dopo la prima guerra mondiale, tra le grida di Keynes che per una volta vide giusto, ammonendo che così facendo si mettevano solo le basi per un nuovo conflitto europeo che sarebbe invece poi diventato mondiale. Persino uno dei pochi sinceri europeisti americani, come il liberal Barry Eichengreen che insegna economia e scienze politiche a Berkeley, ha scritto sdegnato sull’Handesblatt che questo bel pasticcio gli ha fatto cambiare idea sull’euro, perché se le classi dirigente europee sono così “corte di leadership” allora la moneta unica è destinata a saltare.

Di fronte alla malaparata degli spread impazziti di Spagna e Portogallo – e per la prima volta anche dei BTP italiano sopra i 200 bps sul BUND -  i governi europei riservatamente si sono inginocchiati di fronte al board della BCE, implorandola di informare i mercati che la banca centrale è pronta a comprare quantità industriali di titoli dei Paesi a rischio, fino a piegare il mercato nella sua speculazione se necessario. Cosa che la BCE ha sia pur riottosamente accettato di dire, contraria com’è alla monetizzazione del debito massicciamente praticata invece dalla FED.

Senonché anche questa terza cosa i mercati rischiano di capirla come una nuova circostanza aggravante. Se la BCE copre con acquisti, tanto vale per fondi monetari, banche che devono disintermediare titoli pubblici ed hedge funds scatenarsi a briglia sciolta sull’aumento degli spreads e scommesse sui relativi futures, è come dire al mercato che ci sono di aggio possibile 1000 basis points per la Grecia, 800 per l’Irlanda, 5 o 600 per Portogallo e Spagna, e magari fino a 380 o 400 per gli stessi titoli italiani, forbici amplissime in cui far razzia con la stessa facilità con cui si possono rubare le offerte dalle cassette in Chiesa. Per di più senza rischiare di rimetterci nulla della carta che ti resta in mano, dopo gli acquisti calmieratori della BCE.

Quali ricette, allora? Gli europeisti inguaribili, quelli che fanno finta che la Germania non abbia solidi limiti costituzionali e politici al salvataggio altrui, predicano e ripetono che bisogna far nascere la fiscalità congiunta europea. S’illudono, a mio giudizio.  Dui tutto abbiamo bisogno, tranne che di un fisco armonizzato. In Italia, le tasse devono scenddere se vogliamo sopravvivere e crescere.

C’è poi il, fronte degli eurorealisti comunque ottimisti, in cui militano Tremonti e  Juncker con la loro idierian proposta “eurobond salvacicale”.  Non si è riusciti a far decollare gli eurobond per finanziare la crescita e gli investimenti fuori dai limiti al deficit posti dal Patto di stabilità, non credo che nasceranno più facilmente a copertura di chi ha bolle scoppiate da curare. Il ministro Schauble, appena promosso dal Financial Times primo nella graduatoria europea di credibilità, ha già detto che ècpntrario.

I mercatisti come me, contrari a ogni armonizzazione fiscale che significherebbe solo eternare tasse altissime per tutti invece di farle scendere, pensano invece che è molto meglio occuparsi del problema vero: cioè le banche che hanno in pancia i titoli. I mercati scommettono che le banche tedesche e francesi non si toccano, a costo di far saltare l’euro. Meglio ripatrimonializzare direttamemente quelle banche allora, come i tedeschi con la loro opacità sugli attivi e gli stress test farsa non hanno voluto fare, che obbligare paesi interi a trasferire fette inaudite di ricchezza dei contribuenti a quelle stesse banche per anni a venire.

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Fossi irlandese: viva la sterlina! /2010/11/22/fossi-irlandese-viva-la-sterlina/ /2010/11/22/fossi-irlandese-viva-la-sterlina/#comments Mon, 22 Nov 2010 16:43:16 +0000 Oscar Giannino /?p=7656 Mi spiace andare controcorrente, ma se io fossi irlandese avrei del tutto condiviso l’atteggiamento tenuto dal governo in queste ultime settimane. Avrei cioè detto fino alla fine che di aiuti non c’era bisogno, perché il debito pubblico era coperto per un anno:così da far “strizzare” le altre capitali dell’euroare.  E avrei anche opposto fiera resistenza alla condizione numero uno per gli aiuti posta dai tedeschi e dai francesi. Anzi, avrei anche aggiunto sul tavolo un’altro argomento polemico, che al contrario l’Irlanda non ha ritenuto opportuno usare.

Tutti sanno qual è la realtà. L’Irlanda non è Paese che abbia mentito sui suoi numeri pubblici come la Grecia. Non è Paese che abbia un deficit annuale a doppia cifra sul Pil delle partite correnti, come capita al Portogallo che non riesce a generare esportazioni e dipende dai capitali stranieri. L’Irlanda paga l’esplosione del suo sistema bancario, che adottando in pieno il modello di intermediazione ad alta leva era iperesposto su crediti e impieghi ad alto rischio, divenuti nella crisi insolvibili perché privi di prezzo. Con banche più grandi della sua economia, la garanzia pubblica data al sistema da salvare ha finito per non bastare, perché perdite e rettifiche sono giunte in due anni a coprire più di 40 punti nazionali di Pil.

L’innalzarsi degli spread dei titoli pubblici irlandesi sul Bund ha punito un Paese la cui economia è inefficiente? No, ha punito il fatto che in più di due anni l’euroarea non ha saputo né voluto in alcun modo darsi un meccanismo di salvataggio e  garanzia degli intermediari finanziari che non sui riverberasse immediatamente sui conti pubblici anno per anno dei diversi Paesi membri. E’ un meccanismo che vede di volta in volta i Paesi leader tirare la corda fino all’estremo secondo prossimo al default del Paese che si trovi esposto al rischio, per poi imporgli condizioni capestro per salvare le proprie banche che regolarmente hanno titoli di quel paese e sono i veri destinatari del salvataggio, che invece spingerà il Paese destinatario a due conseguenze sbagliate. La prima è una massiccia deflazione,pagata da tutti gli incolpevoli cittadini e dalle imprese. La seconda, nel caso irlandese, è ancor più inaccettabile, e costituisce la richiesta che più ha registrato opposizione a Dublino. E cioè alzare drasticamente quell’aliquota del 12,5% sul reddito d’impresa che ai grandi paesi dell’euroarea ha dato fastidio per anni. Garantendo all’Irlanda una crescita fortissima del’economia reale attirando imprese da tutto il mondo, e nell’equilibrio tra entrate e spese e dunque non in deficit, quel 12,5% di aliquota flat mostrava al mondo intero che la scelta di alte tasse europee era un pietoso scudo abbatticrescita, necessario in realtà solo a reggere l’eccesso di intermediazione pubblica del reddito nazionale.

Per questo, fossi irlandese, col cavolo che accetterei gli aiuti che servono a coprire le esposizioni franco-tedesche su titoli irlandesi, imponendo all’economia irlandese il costo e obbligando l’Irlanda ad uniformarsi alle alte aliquote continentali. Piuttosto, fossi stato un uomo di governo irlandese avrei continuato a far capire ai franco-tedeschi che è la loro Europa alla loro condizioni, che non regge. Tanto che avrei annunciato l’uscita dall’euro per un accordo di cambio collegato alla sterlina, autonoma dall’euro per fortuna dei britannici e lungimiranza di Margaret Thatcher. Su questa base, à la guerre comme à la guerre, avrei scommesso che americani e britannici avrebbero mobilitato tutte le proprie energie, per far accorrere il Fondo Monetario a sostegno dell’Irlanda.

Non è andata così. Purtroppo, franco-tedeschi ne ottengono l’ennesima conferma che l’euroarea può continuare ad andare avanti mettendo nel mirino uno dopo l’altro i Paesi esposti, al servizio dell’europrimato germanico e con la scappatoia offerta ai francesi di non prevedere rientri quantitativi del debito pubblico come tetti dichiarati ex ante in assenza del cui raggiungimento scattino sanzioni automatiche. Come capisco gli irlandesi capisco anche i tedeschi, forti delle scelte che hanno fatto su rigore pubblico e produttività privata. Purché sia chiaro che alla fine l’euro su questi presupposti non reggerà. E che presto verrà il turno dell’Italia, dopo il Portogallo. Perché non abbiamo bolle né banche esplose, ma cresciamo troppo poco e a quel punto il mercato penserà che senza un giogo al collo il debito pubblico non scenderà mai. Ci pensa, la politica italiana? Pronta com’è a dire che a quel punto la colpa è stata solo di chi ha invece frenato la spesa pubblica, non mi pare proprio. Credo anzi che in molti ci sperino, nell’Italia presto al posto dell’Irlanda. Allacciate le cinture.

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Debito, Irlanda e quattro lezioni /2010/11/17/debito-irlanda-e-quattro-lezioni/ /2010/11/17/debito-irlanda-e-quattro-lezioni/#comments Wed, 17 Nov 2010 13:13:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7631 Ho vinto una scommessa che avrei voluto perdere. Su Panorama la settimana scorsa ho lanciato un appello alla politica italiana, perché nella crisi non si faccia prendere la mano dall’irresponsabilità e tenga bene a mente il debito pubblico italiano (non casualmente, visto il contatore del terrore cioè del debito pubblico che qui pubblichiamo). Apposta, però, su Panorama ho moltiplicato per dieci la cifra, nella convinzione che, abituati come siamo a considerare il debito come una percentuale del Pil, nessuno faccia caso davvero al suo vero ammontare. Come purtroppo temevo, nessuno se n’è accorto. I casi sono due. O nessuno mi legge, e allora il direttore fa bene ad additarmi la porta. Oppure vuol dire che davvero siamo in pochissimi, ad avere idea che il debito pubblico italiano ammonta – ora che sono le 12,30 di mercoledì 17 novembre 2010 – a oltre 1.857 miliardi di euro. E che ogni secondo aumenta di oltre 2300 euro, 150 mila al minuto, quasi 9 milioni di euro l’ora, oltre 200 milioni di euro ogni giorno che Dio manda in terra.

Sarà bene che la politica italiana e soprattutto le opposizioni vecchie, nuove e nuovissime la ricordino bene, questa cifra. Che la aggiornino costantemente. Nelle prossime settimane e mesi di instabilità ogni fesseria sulla finanza pubblica italiana può trascinarci dritti dritti nella crisi dell’eurodebito. Dove grazie alla tanto criticata lesina del governo siamo riusciti ad evitare di trovarci in compagnia di Grecia ieri, Irlanda e Portogallo oggi. Anche se poi la lesina e basta non ha compiuto alcuna scelta tra quelle prioritarie, che servivano al’Italia per crescere, scelta che avrebbe implicato scontentare alcuni tagliando enegicamente spesa loro riservata, per concentrarsi su altro.

E’ il caso che i ferventi architetti di maggioranze e governi nuovi, e i teorici magari di sante alleanze tra opposti da Vendola a Fini, alzino lo sguardo dalle alchimie e dalle legittime ambizioni di ciascuno, per ricordare quattro semplici cose. La prima è che la Germania non fa sconti: sbaglia chi crede che la Merkel abbia parlato per incompetenza, quando ha chiesto che dal 2013 i Paesi dell’eurozona ad alto debito espongano chi ha comprato i loro titoli a rimetterci interessi e capitale. La Germania spinge così i mercati a credere che ci saranno due gironi nell’euro. Chi è rigoroso nei conti pubblici e produttivo nell’economia reale sta nel primo, chi no sta nel secondo e pagherà interessi altissimi. Se finiamo nel secondo girone siamo fritti. Ci bruciamo tutto il vantaggio dell’euro cioè pagare annualmente solo 4 punti di Pil di interessi sul debito, invece che 7, 8 o 9 come un tempo.

Secondo. L’Irlanda non è per niente pazza come in molti la dipingono, a respingere gli aiuti “coatti” europei. Lo fa perché non tollera l’idea che Bruxelles imponga di alzare le tasse. Fossi irlandese la penserei anch’io così. Perché il futuro, come il passato, è di chi ha basse tasse e spesa pubblica. Anche se ha dovuto fare deficit pazzeschi per salvare le banche, non bisogna dimenticare che così sarà.

Terzo. Nella guerra tra dollaro e yuan, è l’euro a fare il vaso di coccio, ed è l’Europa a contare poco, tranne il ristretto girone tedesco, per altro alleato alla Cina. E’ lì che dobbiamo stare: non certo con le tasse patrimoniali che la sinistra ha in serbo se vince.

Quarto. L’intero mondo avanzato compie oggi un enorme travaso di risorse verso chi oggi rappresenta il futuro, cioè l’Asia sinocentrica. Le masse gestite dai fondi di investimento europei dirette a quei Paesi emergenti ammontavano a 168 miliardi di € nel 2008, a 440 miliardi quest’anno. Il Financial Times ha stimato che toccheranno i 769 miliardi nel 2014. Più è alto il rischio di finire nel girone dantesco europeo se facciamo fesserie, più risorse perderemo per la crescita italiana. Dall’interno, perché scapperanno all’estero. E dall’estero, perché andranno altrove.

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Che culo, c’è la recessione /2010/10/13/che-culo-ce-la-recessione/ /2010/10/13/che-culo-ce-la-recessione/#comments Wed, 13 Oct 2010 12:55:34 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7277 L’Italia è uno dei tre paesi dell’Ue15 – assieme ad Austria e Danimarca – che devono rimboccarsi le maniche per raggiungere l’obiettivo di riduzione delle loro emissioni. Per il resto, l’Unione europea brinda oggi alla luce del più recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente. Infatti, Kyoto è vicino, anzi,

large drop in emissions seen in 2008 and 2009 gives EU-15 a head start to reach and even overachieve its 8 % reduction target under the Kyoto Protocol.

Infatti, l’Ue ha potuto contare sul sostegno di un grande alleato: la recessione.

Questa ambiguità non è nuova a Bruxelles. A maggio, quando la commissaria per il clima, Connie Hedegaard, tentò di alzare l’asticella spostando l’obiettivo di riduzione per il 2020 al 30 per cento,le organizzazioni industriali del vecchio continente andarono su tutte le furie perché la bozza di comunicazione predisposta dalla Commissione di fatto accreditava l’idea che il calo osservato l’anno scorso, e dovuto al crollo della produzione industriale, fosse in qualche modo un vantaggio. Scrisse all’epoca la Confindustria tedesca, in un documento interno:

La minore crescita economica non dovrebbe essere celebrata come uno strumento per la protezione del clima.

(Qui un commento sull’episodio). Adesso lo stesso atteggiamento pauperista e anti-crescita ritorna, alla grande, per bocca dell’Agenzia europea dell’ambiente, la quale nota, non senza una certa soddisfazione, che l’obiettivo di Kyoto (-8 per cento nel 2012) è terribilmente vicino, “grazie” alla sostanziale riduzione osservata nel 2008-2009. Nel 2009, in particolare, l’Ue27 ha visto ridursi il suo Pil del 4,2 per cento, e le emissioni del 6,9 per cento. Il nesso tra queste due variazioni è talmente stretto, evidente e chiaro che neppure la stessa Eea riesce a tacerlo, anche se lo confina all’ultimo punto nei suoi key findings (ritenendolo forse meno importante dell’auto-incensamento per il grandioso risultato raggiunto). La quale addirittura si spinge a sottolineare che la recessione ha contato meno, nel determinare questa tendenza, rispetto all’effetto delle politiche di contenimento delle emissioni. Infatti,

Return to economic growth could temporarily level off or even reverse the decline in emissions, but the declining trend is expected to continue.

Non mi è chiaro in base a cosa si possa sostenere una simile tesi. Non c’è comunicato dell’Agenzia degli ultimi dieci anni che non abbia riconosciuto che le due variabili fondamentali dietro l’andamento delle emissioni sono il tempo (inverno freddo emissioni alte, e viceversa) e la performance economica (crescita sostenuta emissioni alte, e viceversa). In questo senso, trovo abbastanza sconcertante che, se da un lato si magnificano i risultati raggiunti, dall’altro non si esprima la più piccola preoccupazione per il modo in cui, in larga parte, sono stati ottenuti. Elogiare la recessione (o anche solo accettarla come un fatto) è un approccio due volte autolesionista. Anzitutto perché, se nell’immediato essa può effettivamente contribuire a ridurre le emissioni, nel lungo termine un impoverimento generalizzato riduce la capacità di investimento dei paesi europei sia in innovazione, sia nelle mitiche fonti rinnovabili (basta guardarsi in giro per vedere ovunque il tentativo di abbassare gli incentivi, e senza incentivi bye bye green economy). La recessione fa pure emergere il lato più distorsivo degli incentivi: schermando la remuneratività delle fonti verdi dagli alti e bassi del mercato (e questo è vero in particolare per le tariffe feed-in) essi tendono a scaricare il calo della domanda unicamente sulle produzioni convenzionali, spingendo così i prezzi effettivi per i consumatori e i costi di generazione per il sistema verso l’alto, in una spirale pro-ciclica di cui l’economia non ha certo bisogno.

Il sostanziale fallimento delle politiche climatiche è pure evidente dalla figura chiave, che si trova a p.32 del rapporto linkato sopra. La figura è la seguente (cliccare per ingrandire).

Il grafico di sinistra mostra lo scenario base; quello di destra illustra invece lo scenario di riferimento nel caso tutte le speranze (aka “scenario libro dei sogni” o “promessa elettorale”). In entrambi i casi, due aspetti sono evidenti: 1) sotto una ragionevole ipotesi di crescita economica, buona parte della riduzione delle emissioni nel 2009 è destinata a essere riassorbita (al contrario di quanto scritto nel comunicato stampa); 2) la maggior parte delle presunte riduzioni sono attese nei settori “non Ets”, cioè quelli che non sono soggetti al mercato dei fumi. Un aspetto interessante: nei settori Ets lo shock della crisi verrà riassorbito solo in minima parte, segno che l’effetto della recessione sulle produzioni ad alta intensità di energia rischia di essere permanente. In questo, le politiche europee possono effettivamente giocare un ruolo: rendendo strutturale un impatto che, almeno in parte, era solo congiunturale. In altre parole, la crisi è stata una sorta di trigger, spingendo le imprese a delocalizzare sia per fronteggiare il calo della domanda, sia per prevenire il potenziale ulteriore aumento dei costi energetici o della confusione amministrativa, o di entrambi, dovuta alle nuove politiche europee, tanto più che lo scenario internazionale lascia intuire un acuirsi dell’asimmetria tra l’Ue, virtuosa e fessa, e il resto del mondo. In breve, la bontà della recessione non viene solo riconosciuta nelle parole dei funzionari europei: la recessione viene consapevolmente (e colpevolmente) integrata tra le politiche climatiche del Vecchio Continente.

Qualche elemento di curiosità desta, poi, il club dei cattivi: di cui fa parte, come sempre, l’Italia (le cui virtù un giorno emergeranno ché, almeno per l’elettrico, abbiamo il parco di generazione più pulito d’Europa), ma anche, a sorpresa, due paesi simbolo delle politiche verdi: Austria e Danimarca. Che è successo? In Austria, molto semplicemente, la sensibilità ambientale si è tradotta più nella meticolosa cura del territorio, che nella lotta alla crescita economica. Anzi: una crescita rapida e sostenuta ha allontanato il paese dagli obiettivi di Kyoto, costringendolo ad acquistare una montagna di crediti sul mercato europeo (e, dal punto di vista degli austriaci, grazie a Dio che costavano poco). Dell’Italia sappiamo tutto: il punto più importante è che ci siamo trovati in una situazione simile a quella austriaca (seppure senza essere particolarmente corti di permessi) ma per ragioni molto diverse; cioè, non per la crescita alta e prolungata (che non c’è stata) ma perché siamo stati penalizzati dalla scelta del 1990 come anno di riferimento. L’Italia è un paese, sotto il profilo delle emissioni, che era virtuoso prima di Kyoto e che dunque è svantaggiato dal modo in cui i meccanismi sono stati implementati. E la Danimarca? Il paese dei green jobs e del wind power? Probabilmente, Copenhagen ha fallito perché aveva assunto un obiettivo irrealistico (-21 per cento, mentre attualmente si trova a -9,2 per cento). Questo suggerisce che ad impossibilia nemo tenetur dovrebbe essere un principio scolpito nella roccia. Tra l’altro, la Danimarca sta già pagando un pesante tributo alla sua fama di paese verde, come abbiamo spiegato qui e come viene più nel dettaglio approfondito qui.

In conclusione, ancora una volta l’Europa dimostra, nel modo in cui affronta le sue politiche ambientali, tutto il suo strabismo. Fissare obiettivi costosi e sostanzialmente privi di benefici ambientali, intonare il mantra dei loro presunti benefici economici pur sapendo che essi sono inesistenti, e usare tutto ciò come un surrogato della ricerca identitaria è il modo peggiore di affrontare un problema che di per sé può essere serio. Ma arrivare al punto da considerare la recessione una benedizione divina è la prova provata che a Bruxelles si è completamente perso interesse per qualunque considerazione di efficacia ed efficienza.

(Il post gemello si trova qui).

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Un drappello di disorientati /2010/09/21/un-drappello-di-disorientati/ /2010/09/21/un-drappello-di-disorientati/#comments Tue, 21 Sep 2010 07:53:22 +0000 Giordano Masini /?p=7096 Agea è l’ente che si occupa delle erogazioni in agricoltura, ovvero è attraverso di esso che passano i contributi e i sussidi che gli agricoltori ricevono, ed è esso che deve vigilare sull’applicazione delle regole comunitarie. Secondo il suo presidente, Dario Fruscio, il governo e la politica dovrebbero intervenire per tirare fuori dai guai quei pochi allevatori che si ostinano a non aderire al piano di rateizzazione delle multe per gli sforamenti delle quote latte. D’altronde, si commuove Fruscio, la stragrande maggioranza ha già pagato (ci manca poco che non li definisca dei fessi), solo loro insistono a non volerlo fare, ma sono in pochi (“residuali dal mero punto di vista numerico” dichiara testualmente), al governo cosa costa? Suvvia, mettiamoci una mano sul cuore e l’altra al portafogli dei contribuenti, questa è gente che ha famiglia… Ma il più bello viene dopo (grassetti nostri):

Mi risulta che già soltanto con l’annuncio dell’emendamento poi tradottasi nell’art. 40 bis della L. n. 122/2010, si è innescato un forte e progressivo rallentamento nelle adesioni alla L. 33/2009. Voglio dire che l’iniziativa per il rinvio della scadenza di giugno ha prodotto, fin dall’inizio, una sorta di stop agli effetti della legge 33. E a questo punto, a meno di interventi legislativi dell’ultimo momento, su questo drappello di disorientati calerà una pioggia di notifiche di nuove intimazioni di pagamento, con anche l’avvio delle procedure per la revoca delle quote latte assegnate. Evidentemente, ancora una volta come dispone la L. 33/2009, quanti non riusciranno a far fronte alle richieste di pagamento di Equitalia, si troveranno in piena procedura esecutiva, con rischio di perdita d’ogni cosa: in primis della fiducia in chi li ha distolti dalla loro linearità contadina e dalla loro cultura e abitudine al rispetto delle leggi; poi rischieranno la perdita anche dei loro beni.

Ovvero, la deroga imposta in finanziaria dalla Lega Nord al termine di giugno per l’adesione alle rateizzazioni (che già comporterà per l’Italia una procedura d’infrazione che pagheremo noi) ha rallentato l’adesione alle rateizzazioni stesse. Ma va? Chi l’avrebbe mai detto? Ma dato che alla fine dell’anno saremo di nuovo daccapo, se non facciamo qualcosa c’è rischio che questi poveri “disorientati” smettano di dar retta a chi continua ad alimentare le loro speranze (e non sarebbe ora?). Il finale è degno di un romanzo d’appendice:

Io continuo, anzi voglio continuare a sperare che chi ne ha facoltà possa lavorare fattivamente nella prospettiva di risolvere il caso. In sostanza che la politica voglia trovare per questo drappello di brava e laboriosa gente una via d’uscita. Diversamente sarà il dramma. Dietro questi produttori ci sono migliaia di famiglie, le quali si traducono in chissà quant’altre decine di migliaia di portatori di speranze e di angosce. Chi più può, chi ha più sensibilità, amore e rispetto per la proprietà contadina e per il mondo rurale, più fortemente dovrà sentirsi impegnato a togliere da tale possibile baratro una parte così significativa del mondo rurale. E’ uno sforzo riparatorio di generosità che la politica deve alla “gente della terra”, indipendentemente da posizioni e divisioni politiche e da più o meno responsabilità di ciascuna parte rispetto alla gravità della questione.

Fruscio (che è alla guida di un agenzia tecnica, che dovrebbe astenersi quindi da dare indicazioni politiche – ma questo è un aspetto marginale, secondo me ognuno può dire la sua e va contestato nel merito) sembra dimenticare che qualsiasi intervento legislativo nella direzione da lui auspicata, qualsiasi “sforzo riparatorio” comporterebbe all’Italia ulteriori procedure di infrazione, così come sembra ignorare che in vent’anni queste procedure di infrazione sono costate ai cittadini del nostro paese circa 4 miliardi di euro (a fronte di circa 300 milioni effettivamente recuperati).

Nel frattempo, qualcuno potrebbe chiedergli su chi dovrebbero riporre la loro fiducia le decine di migliaia di allevatori (la stragrande maggioranza) che in questi anni si sono dovuti adeguare ad un sistema iniquo in sé, quello delle quote latte, ma che finché è in vigore non può ovviamente fare figli e figliastri, e hanno pagato le loro sanzioni. Ma probabilmente loro non “tengono famiglia”…

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Fs e la concorrenza scorretta /2010/09/10/fs-e-la-concorrenza-scorretta/ /2010/09/10/fs-e-la-concorrenza-scorretta/#comments Fri, 10 Sep 2010 10:46:12 +0000 Oscar Giannino /?p=6994 Ha ragione o torto Mauro Moretti, l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, quando ha affermato “Tu puoi fare la migliore gara possibile e la più trasparente, ma in Italia chi perde si tutela col giudice amministrativo e tu non puoi fare nulla”? Ha ragione o torto, quando annuncia che Fs in futuro, nei settori del mercato aperti alla concorrenza, potrebbe decidere attraverso affidamenti diretti e non più gare, seguendo la possibilità prevista dall’articolo 30 della direttiva 17 del 2004? E’ una duplice questione di peso, per noi che siamo a favore della concorrenza e del mercato. Ma secondo me Moretti ha ragione. E’ l’Europa a dargliela, non noi. Vediamo perché.

A scaldare gli animi è ovviamente l’avvicinarsi della concorrenza che Ntv porterà a Trenitalia sull’Alta Velocità. O meglio, il fatto che Ntv in quanto società privata decida secondo procedure che di fatto configurano un vantaggio asimmetrico, rispetto all’incumbent. Fs si trova sin qui a dover decidere secondo procedure le cui impugnative del concorrente consentono che «tutto venga bloccato per anni, mentre i tuoi competitori possono fare affidamenti anche in un giorno», dice Moretti. E il riferimento diretto è alla gara per l’assegnazione di cinquanta nuovi treni ad altissima velocità vinta dalla joint Bombardier-Ansaldo e subito sospesa per il ricorso presentato da Alstom – fornitore del concorrente Ntv – al Tar del Lazio, che dovrebbe iniziare a pronunciarsi nel merito in merito nella camera di consiglio del prossimo 29 settembre.

Diciamo “dovrebbe”, perché con ogni probabilità il giudice amministrativo non deciderà un bel niente: si limiterà a disporre nei dettagli le modalità interpretative dei dati della gara ai quali ha disposto l’accesso pubblico per Alstom oltre che naturalmente per i propri periti. La maggior probabilità va a favore dell’ennesimo rinvio, al termine del quale dopo mesi e mesi la decisione salomonica potrebbe essere quella di indicare a Fs la necessità di una nuova gara, nel caso in cui si dovesse ritenere che l’interpretazione delle specifiche tecniche e di costo del bando di gara fosse “sdrucciolevole” sin dall’inizio per inadeguata mancanza di chiarezza, o per l’esercizio discrezionale o comunque opinabile delle modalità di attribuzione dei punteggi.

In altre parole, secondo questo probabile calendario della giustizia amministrativa: a Ntv arrivano i primi treni Italo Agv dell’Alstom che percorrono la rete per sperimentare che tecnicamente sia tutto a posto in vista del lancio ufficiale del servizio l’anno prossimo, mentre nel frattempo Trenitalia vede ritardata alle calende greche aggiudicazione e ovviamente consegna dei 50 V300 Zefiro ad altissima velocità, e nel frattempo resta ad affrontare la concorrenza di Ntv, che si preannuncia – vedere per credere – “nell’alto di gamma” del servizio, coi suoi attuali e vecchi ETR500 del consorzio Trevi, convogli tecnologicamente e per allestimento fermi allo stato dell’arte di 22-23 anni fa.

E’ la gara di evidenza pubblica europea, visto che l’importo della commessa era sino al miliardo e mezzo di euro, ciò che per Fs rappresenta un obbligo di trasparenza in quanto società pubblica, per evitare anche la più remota ipotesi che nella spesa del denaro del viaggiatore e del contribuente possano aver peso influenze, prassi e procedure meno che corrette. Un principio sacrosanto, visto il track record non proprio smagliante non solo del settore pubblico italiano in generale, ma della stessa Fs ai tempi di Ligato, tanto per fare un nome, o degli appalti per le pulizie, che l’attuale management ha dovuto azzerare per riaggiudicarli secondo criteri di efficienza, esponendosi a pressioni di ogni tipo e dovendo anche ricorrere a segnalazioni a forze dell’ordine e magistratura.

Diritto comunitario alla mano, tuttavia, la facoltà dell’aggiudicazione diretta invece della gara pubblica, nei settori di mercato nei quali l’azienda pubblica e quelle private concorrente possano e debbano competere su base paritaria di accesso all’infrastruttura per offrire servizi passeggeri e merci, diventa per l’azienda pubblica non una modalità per abbattere la trasparenza, ma per inverare il principio di neutralità tra controllo pubblico e privato delle aziende, neutralità che è sancita dal Trattato europeo sin dalla sua prima versione. Il Trattato afferma e promuove la concorrenza, non discrimina nel mercato la forma proprietaria a favore del privato. Potrà non piacere a mercatisti come noi, da sempre sospettosi e pronti a battagliare ed evidenziare il vantaggio da sussidi e trasferimenti diretti e indiretti che alle aziende pubbliche viene da parte dello Stato e che mancano ai privati concorrenti, ma è uno dei fondamenti da sempre dell’edificio europeo in materia di mercato e concorrenza. E’ così, e di conseguenza, a mio giudizio, Moretti fa bene a ricorrere a tutto ciò che, nell’ordinamento europeo, discende dunque dalla neutralità proprietaria. Se non lo facesse, l’azionista pubblico potrebbe arrivare a chiedergliene conto un domani fino a configurare una vera e propria azione di responsabilità, nel caso in cui a giudizio del Tesoro il mancato ricorso a gare dirette nell’AV o nel trasporto merci avesse l’effetto di determinare un improprio svantaggio di Trenitalia.

Del resto, secondo me Moretti ha fatto anche bene a non procedere subito ad affidamenti, ma a bandire una gara: se non avesse proceduto in questo modo, sarebbe inevitabilmente subito partito il coro di chi avrebbe potuto accusare Fs di opacità. Meglio, molto meglio aver scelto la gara, e di fronte al ricorso accolto del fornitore del concorrente mostrare all’azionista e a tutti i passeggeri che a questo punto si è costretti a reagire per non essere penalizzati. Non che la via dell’affidamento diretto sia poi a propria volta priva di tempi più lunghi di quelli consentiti a Ntv, visto che a quel punto, a doversi pronunciare preventivamente dovrebbe essere la Commissione europea. La normativa europea prevede infatti che, »per determinare se l’attività è direttamente esposta alla concorrenza«, si guardi ai criteri del relativo trattato che riguardano i beni o i servizi interessati, l’esistenza di beni o servizi alternativi, i prezzi e la presenza, effettiva o potenziale, di più fornitori dei beni o servizi in questione. Una richiesta specifica, in questo senso, deve essere fatta dal singolo Stato alla Commissione Europea che ha tre mesi per rispondere o, eventualmente, chiedere una proroga di ulteriori tre mesi.

La via alla concorrenza ferroviaria non si presenta meno ostica di quella aerea. Il particolare è che in entrambi i casi é Banca Intesa a giocare un ruolo di primo piano, visto che il capitale di tutti i soci privati di Ntv a cominciare da quello di Montezemolo è sin dall’atto costitutivo retrocesso in garanzia a Intesa. L’unico vero socio industriale del concorrente di Fs è l’incumbent pubblico francese Sncf. A testimonianza che la gara per l’apertura dei mercati nazionali è innanzitutto una gara tra giganti pubblici, con tedeschi e francesi pronti a far piazza pulita degli avversari.

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Spesa e tasse: tetto in Costituzione, alla tedesca /2010/08/31/6914/ /2010/08/31/6914/#comments Tue, 31 Aug 2010 15:21:16 +0000 Oscar Giannino /?p=6914 L’Europa continua a interrogarsi sul doppio binario che la Germania ha di fatto imposto sin dall’inizio della crisi a ogni tentativo continentale di affrontarne le conseguenze con strumenti comuni. Forse è venuto il momento, ai fini dell’exit strategy innanzitutto del nostro Paese e dunque delle sue scelte politiche più di fondo, di affrontare il nodo delineandolo con chiarezza. Quando dico con chiarezza, significa evitando accuratamente ogni atteggiamento retorico: sia esso ispirato alla retorica federalista-europea, sia alla retorica istituzionalista-europea, sia a quella antieuropeista per fede e professione. Lo dico perché, nella mia esperienza, trovo che la maggior parte dei richiami dell’Europa sui media italiani continui ad essere viziata da questo errore di fondo. Si parla di un’Europa che si vuole o si teme, comunque sempre di una diversa da quella che c’è davvero, e prescindendo da come davvero funziona e concretamente può realisticamente cambiare, non seguendo impossibili balzi in avanti. Veniamo invece al punto.La Germania nel secondo trimestre 2010 è cresciuto del 3,4% sull’anno precedente e se invece proiettiamo sul futuro il suo dato, saremmo al tasso monstre dell’8,8%: non sarà così ovviamente, ma è altrettanto evidente che la crescita tedesca (e quella britannica) dividono di fato l’Europa in due, c’è chi sta nel girone A , da cui la Francia in frenata rischia di uscire, e chi sta nel girone B cioè cresce intorno al,l’1%. C’è poi il girone C, dei Paesi come Grecia e Spagna spinti in recessione dalla stretta necessaria per evitare la crisi del loro debito pubblico. Sappiamo quali sono i due motori essenziali della crescita tedesca. Il primo è un’elevata produttività, innestata sei sette anni fa con un cambio di passo complessivo di prestazione di lavoro, turni e retribuzioni nei grandi gruppi manifatturieri di Deutschland AG, da Volkswagen a Siemens, alla testa oggi dell’export industriale nei nuovi mercati emergenti a cominciare dalla Cina. Il secondo è un impegno rigoroso sulla finanza pubblica, senza alcuna facile concessione al deficit facile. Sono due scelte su cui converge il più delle classi dirigenti germaniche, a prescindere dalla perdita di consenso e popolarità del governo Merkel, che ha perso la maggioranza al Bundesrat alle elezioni di maggio in Renania Nord Westfalia, senza che nessuno a Berlino abbia mai pensato neanche per un secondo a crisi di governo ed elezioni anticipate. Tuttavia, quel che ci si ostina a non capire è da quali pecondizioni siano dipese queste due scelte di fondo. Si imputa alla Germania di non capire che un modello di crescita basato sul suo export manifatturiero extra europeo si rivelerà insostenibile, perché i due terzi del commercio Ue sono intraeuropei e dunque da parte di Berlino si rivelerà un clamoroso boomerang, non agevolare i Paesi continentali a minor crescita sostenendo la domanda interna germanica. Ammesso e non concesso, come diceva Totò. Il punto di fondo è che prima di criticare i tedeschi, bisogna capirli. Fatto è che i tedeschi i limiti se li sono posti nella loro Costituzione, a differenza di noi italiani che li abbiamo sempre aspettati dall’Europa. Di qui a quattro anni il pareggio di bilancio sarà obbligato costituzionalmente, in Germania, e il massimo di deficit pubblico consentito sarà pari a poco più di un punto percentuale di Pil. Il secondo limite costituzionale, posto anni fa da una fondamentale sentenza interpretativa della Corte di Karlsruhe che è l’equivalente della nostra Corte costituzionale, è che in Germania c’è un limite anche alla pressione fiscale, un vero e proprio tetto d’intangibilità da parte dell’ordinamento nei confronti di persone e famiglie. Per effetto di questi due limiti, in Germania spesa pubblica e pressione fiscale sono scesi di 6 punti di Pil negli anni precedenti alla crisi. Ed è su questi due pilastri costituzionali, che la Corte di Karlsruhe ha fondato la sentenza interpretativa del nuovo Trattato europeo, per la quale nessun meccanismo automatico europeo verrà accettato dalla Germania, senza passare prima per un voto del Parlamento tedesco. Prima di accusare i tedeschi, forse sarebbe il caso di porsi un problema rispetto alle vere scelte che hanno fatto: no quella di essere “più cattivi verso di noi”, ma “più severi verso loro stessi”. Poiché non è l’Europa, in grado di dare vincoli esterni al Paese più virtuoso, ci hanno pensato loro stessi a farlo. Allora delle due l’una. Si può credere che, in un’Europa nella quale i mercati cominciano a vedere mese dopo mese malgrado il salvataggio greco due gironi di crescita e di premio al rischio dei titoli pubblici e forse anche a due gironi dell’euro, all’Italia convenga concertare coi Paesi deboli “contro” la Germania, spingendola con politiche fiscali e retributive a consumare e importare di più. Oppure, si può pensare che, come secondo Paese manifatturiero ed esportatore dopo i tedeschi, noi dobbiamo seguire il loro esempio. E allora poche chiacchiere, ci vogliono politici che dichiarino ai propri elettori che occorre un doppio limite in Costituzione: alle pretese fiscali, e al deficit pubblico. Vedere per credere.

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La Germania fa boom e rotea lo scettro… da noi invece /2010/08/13/la-germania-fa-boom-e-rotea-lo-scettro-da-noi-invece/ /2010/08/13/la-germania-fa-boom-e-rotea-lo-scettro-da-noi-invece/#comments Fri, 13 Aug 2010 18:25:56 +0000 Oscar Giannino /?p=6790 La crescita record tedesca nel secondo trimestre annunciata oggi alza di un gradino ulteriore la primazia tedesca sull’intera euroarea. Per almeno tre ragioni. Mostra a tutti gli altri Paesi su quali margini d’intervento rapido di fronte alla più grave crisi del dopoguerra poteva contare chi avesse tenuto in ordine la propria finanza pubblica negli anni migliori precedenti. Stacca tutti – e noi per primi italiani, i diretti concorrenti in questa partita – nell’ammontare, intensità e qualità della domanda estera che Berlino si sta assicurando sui mercati mondiali che più tirano. Nanizza ogni pretesa di una politica comune europea, della domanda e dell’offerta, visto che il gap tra il passo germanico e quello del resto d’Europa si fa più ampio. C’è da riflettere parecchio, venendo alle vicende di casa nostra. Soprattuitto se si pensa che alle elezioni di maggio inNord  Renania Westphalia la Merkel ha perso, perdendo insieme la maggioranza al Bundesrat: epppure nessuno, sia pure nel precipitare dei sondaggi e nella malmostosità del suo stesso partito su cui più volte ha qui scritto Giovani Boggero, si èmesso a pensare a crisi di governo, elezioni, e tanto meno dossier.Se analizziamo in termini comparati la crescita europea nel secondo trimestre 2010, occhio innanzitutto a un risultato insospettato solo tre mesi prima: l’euroarea nel suo complesso cresce ben più degli USA, che si stanno impietosamente piantando e per Obama al midterm saranno dolori, a meno di inopinate riparrtenze a settembre, che nessuno sa oggi immaginare nei dati. L’Europa cresce infatti sul primo trimestre 2010 in media dell’1% di PIL, e sopra la linea stanno il Regno Unito con l’1,2%, la Svezia con l’1,3%, l’Estonia con il 2%, la Germania con un più 2,2%, e la Lituania con il 2,8%. Sotto la linea la Francia con più 0,6%, l’Italia con lo 0,4%, Spagna e Portogallo con lo 0,2%, la Grecia co un meno 1,7%. Su base annualizzata guardando all’indietro, cioè su metà 2009, l’Ue è crsciuta in media di in non disprezzabile 1,7%. La Francia è in media spaccata. L’Italia è sotto la linea con l’1,1%, persino il Portogallo fa meglio di noi con il suo più 1,4%, mentre la Spagna sull’anno precedente ha il segno meno 0,2%, e la Grecia sprofonda al meno 3,6%. Sopra la linea, tra i Paesi magguiori, la Svezia con il suo spettacolare più 3,6%, e in cima a tutti la stellare Germania, con un incredibile 3,7% di aumento sull’anno scorso. La crescita del trimestre tedesco è la più alta dall’unificazione tedesca. e se la si proietta sull’anno a venoire, di questo ritmo la Germania crescerebbe quasi del 9%!

A tirare la ripresa tedesca sono le esportazioni ad alto valore aggiunto. Mercedes, per esempio, da metà 2009 a metà 2010 ha letteralmente triplicato le sue vendite in Cina. Nel solo viaggio in Russia e Cina della seconda settimana di luglio, la Merkel ha portato a casa contratti per circa 25 miliardi di euro per primarie imprese germaniche. Ma altre due componenti sul fronte interno raforzano il traino della domanda estera. Le imoprese tedesche hanno ripreso a investire a un tasso doppio di quanto fosse previsto. E la domanda interna, che molti immaginavano flat a seguito del’alta disoccupazione, è ripartita in contemporanza con un più 0,4% al contestuale calo dei disoccupati. Al paragone, l’Italia pure è trainata dal commercio estero, ma in proporzioni assai meno intense di quanto i tedeschi stiano facendo man bassa. E soprattutto, da noi, languono  gli investimenti delle imprese, e i consumi delle famiglie restano orientati al segno restrittivo.

La Germania è insime alla Cina l’unico grande Paese che stia uscendo dalla crisi adottando una “vera” ricetta keynesiana. Ma quando dico “vera” intendo nel senso che i politici dimenticano sempre: e cioè che negli anni in cui l’economia tira bisogna tagliare deficit e spesa pubblica e abbassare le tasse, come puntualmente la ger,mania ha fatto nel decennio precrisi, dando anche una svolta alla produttività con grandi contratti in imprese leader che hanno  fatto svoltare gruppi come Volkswagen, Siemens e via continuando, oltre che coi due pacchetti Hartz. Cos’ i tedeschi hanno potuto mobilitare non solo fino a 480 miliardi di euro di garanzie per il loro sistema bancario – che resta l’anello debole del sistema germanico – ma ben 115 miliardi a sostegno delle imprese private da ricapitalizzare, e 80 miliardi in due tranche di sostegno alla domanda. L’effetto è stato concentrato e, da quel che si vde, efficace, tanto che la Gewrmania ha già innestato la retromarcia tre mesi fa tagliando spesa pubblica compresa quell “sociale”, e salvando invece ricerca e università.

Da noi, l’intervento sulla capitalizzazione delle piccole imprese i cui attivi restano gracili doveva partire con il Fondo di capitalizzazione proposto da Confindustria più di un anno fa, poi farraginosament concordato tra Tesoro e banche, che però non è mai partito. Quanto ai tagli alla finnza publica, da noi vige il sistema lineare per portare comunque  a casa il risultato, senza criteri prioritari perché altrimenti ogni lobby invoca di essere risprmita dalle forbici: col pessimo risultato che si levano risorse anche laddove bisognerebbe invece concentrarle, a scapito di chi invece si limita  a spendere per tenere in piedi inutili e costosi organici di dipendenti pubblici.

Non voglio farla lunga. Un Paese serio dovrebbe prendere la germania come riferimento, e cercare di capire come correre al suo passo. Noi crediamo di aver fatto il giusto evitando di finire nella lista dei sospettati dell’eurodebito, insieme a Grecia, Spagna e Irlanda. Ma di questo passo risprofonderemo nella nostra bassa crescita, che va avanti dagli anni Novanta. Poi dice che uno è esterofilo….

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Amicus clima, sed magis amica agricoltura sussidiata /2010/08/13/amicus-clima-sed-magis-amica-agricoltura-sussidiata/ /2010/08/13/amicus-clima-sed-magis-amica-agricoltura-sussidiata/#comments Fri, 13 Aug 2010 15:11:37 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6784 Il riscaldamento globale sarà anche la più grande minaccia di sempre, ma c’è una minaccia ancora più grande: che gli agricoltori europei non facciano abbastanza soldi. La Commissione europea ha aperto un’indagine per verificare se i produttori americani abbiano esportato biodiesel nell’Ue attraverso paesi terzi, per evitare i dazi; per la stessa ragione, intende controllare che le importazioni non avvengano in miscele con meno del 20 per cento di biodiesel, che sono escluse dal dazio straordinario di 237 euro / tonnellata creato l’anno scorso.

Ufficialmente, il dazio è stato creato per contrastare l’effetto distorsivo dei sussidi americani alla produzione di biocarburanti che, piombando nell’ambito del pacchetto di stimolo obamiano in un periodo di prezzi calanti dei prodotti agricoli, avrebbero causato un regime di concorrenza sleale (a Genova diciamo: O corvo dixe a o merlo: “cumme t’è neigru!”). Se, comunque, il problema fosse solo questo, i dazi dovrebbero essere limitati alle importazioni dal Nordamerica. Invece, si applicano (anche se in misura inferiore) a tutti i biocarburanti importati, compresi quelli dai paesi tropicali che sono più economici e più efficienti in termini di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Il tema non è nuovo; anzi, è talmente trasparente che me ne ero già occupato in tempi non sospetti (quando ancora i biocarburanti andavano di moda e non si era sollevato il polverone sui potenziali impatti nefasti di quelli di prima generazione: le principali critiche sono riassunte qui da Elisabetta Macioce).

La triste verità è che la politica europea dei biocarburanti è una semplice e neppure troppo sofisticata foglia di fico. Se n’è accorto persino il Parlamento europeo, che è tutto dire. Se ne era accorto, soprattutto e con onestà, l’ex commissario europeo al Commercio, Peter Mandelson, che combatté una battaglia (perdente) per cancellare queste barriere. Restano dunque attuali le sue parole:

Biofuel policy is not ultimately an industrial policy or an agricultural policy – it is an environmental policy, driven above all by the greenest outcomes,” Mandelson said. “Europe should be open to accepting that we will import a large part of our biofuel resources. We should certainly not contemplate favoring EU production of biofuels with a weak carbon performance if we can import cheaper, cleaner biofuels.

Purtroppo, finché questo equivoco non sarà chiarito, una frontiera della ricerca promettente rimarrà viziata, e gli sforzi più innovativi dovranno subire l’onta della confusione con interessi meno nobili.

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