CHICAGO BLOG » teoria economica http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 La teoria austriaca del ciclo economico: un po’ di chiarezza /2010/05/27/la-teoria-austriaca-del-ciclo-economico-un-po%e2%80%99-di-chiarezza/ /2010/05/27/la-teoria-austriaca-del-ciclo-economico-un-po%e2%80%99-di-chiarezza/#comments Thu, 27 May 2010 12:21:06 +0000 Guest /?p=6070 di Anthony J. Evans

Questo articolo è stato pubblicato originariamente il 25 maggio 2010 sul blog dell’Institute of Economic Affairs, che ringraziamo per la gentile concessione alla ripubblicazione su chicago-blog.

Il mese scorso Martin Wolf si è chiesto sulle pagine del Financial Times: «L’economia “austriaca” spiega le crisi economiche meglio delle altre scuole di pensiero?».

Dopo aver ammesso che i modelli neoclassici «non si sono certo segnalati per la capacità di prevedere la crisi e di proporre le possibili risposte», Wolf ha evidenziato che alcune tesi “austriache” sono state convalidate dai fatti: «una politica monetaria mirante a mantenere un livello prefissato d’inflazione è intrinsecamente destabilizzante; il sistema della riserva bancaria frazionaria crea esplosioni di credito impossibili da gestire; il “malivestimento” globale che ne consegue spiega il successivo crollo del sistema finanziario».

Disgraziatamente, a questo punto Wolf commette l’errore di confondere le cause della crisi con il dibattito sulle politiche più idonee ad innescare la ripresa: «gli austriaci affermano inoltre – esattamente come i loro predecessori negli anni Trenta – che la risposta giusta consiste nel permettere la liquidazione di tutti i rami secchi, continuando a mantenere il pareggio di bilancio mentre l’economia va a rotoli. È questa ricetta che trovo poco convincente».

Per iniziare, se si spera di trovare nella teoria austriaca del ciclo economico una spiegazione teorica esauriente di: (1) il boom artificiale, (2) la recessione economica e (3) le politiche più idonee ad alimentare nuovamente la crescita, è probabile rimanere delusi. Ma se sarebbe assurdo pensare che una sola scuola di pensiero (per giunta sconosciuta ai più) possa fornire una risposta conclusiva a tutte le questioni proposte, sarebbe irragionevole rifiutare le parti che reggono alla prova dei fatti solo perché non riescono a spiegare tutto.

I concetti “austriaci” equivalgono sostanzialmente ad una teoria dei boom economici non sostenibili indotti dalla disponibilità di credito. Si tratta pertanto di una teoria non applicabile a tutti i cicli di espansione e contrazione e originariamente non aveva neppure lo scopo di indagare il processo di ripresa economica (Hayek aveva etichettato questa parte “deflazione secondaria”, lasciando intendere che il problema primario era un altro, ossia il malinvestimento di beni capitali). Le più famose storie della Grande Depressione in chiave austriaca si sono occupate della fase di espansione, più che della crisi e della recessione: The Great Depression di Lionel Robbins è stato pubblicato nel 1934 e America’s Great Depression (La grande depressione, Rubbettino 2008) di Murray N. Rothbard si ferma al 1932. Consiglierei quindi a Martin Wolf di non considerare le idee austriache alla stregua di sostituti di tutte le altre spiegazioni, ma di seguire un sistema più opportunistico: la teoria austriaca spiega il boom, mentre per spiegare la recessione sono necessarie anche le idee di Keynes e dei monetaristi.

In secondo luogo, Wolf offre un’immagine falsata delle spiegazioni che gli austriaci danno delle depressioni economiche. La tesi del “liquidare tutto” è falsa, giacché molti economisti austriaci riconoscono che riuscire ad evitare una contrazione monetaria può prevenire una spirale deflazionistica che porterebbe alla depressione. In virtù della complessità di questa politica, il ragionamento tende a spostarsi dalla politica monetaria ai regimi monetari, giacché gli austriaci hanno un programma di riforme del settore bancario che in futuro potrebbe prevenire le crisi. Il problema è che solo gli austriaci affrontano a viso aperto la dura realtà economica che nessun pasto è gratis: una volta che i malinvestimenti sono stati fatti, la correzione di rotta è onerosa. Ciò non significa che gli esponenti politici debbano limitarsi a “non far nulla”, ma solo che ogni sforzo deve concentrarsi sulla capacità dei mercati di funzionare come dovrebbero.

Per convincersene, prendiamo la replica di Paul Krugman alla domanda di Wolf: «perché non si verifica una disoccupazione analoga durante la fase di espansione, quando i lavoratori vengono trasferiti alla produzione di beni?». Beh, in realtà durante il boom la disoccupazione esiste: secondo un recente studio, ogni anno nel Regno Unito vengono perduti 2,65 milioni di posti di lavoro nel settore privato (ma tendiamo a non accorgercene, perché ne viene creato un numero superiore). Concentrarsi sul livello di occupazione “complessivo” impedisce di rilevare gli aggiustamenti che vengono continuamente effettuati, mano a mano che gli individui passano da un posto di lavoro all’altro al variare delle condizioni economiche. In effetti anche Krugman dà l’impressione di credere che alla fase di espansione debba corrispondere una “sovrainvestimento”. Sebbene ciò non sia del tutto sbagliato, la tesi austriaca è che durante il boom vi sia un problema di malinvestimento: esaminare le variabili nell’aggregato impedisce di cogliere queste sottili differenze.

Il problema è che gli economisti neoclassici credono in un modello di flusso circolare che fa astrazione dal tempo. Gli austriaci, viceversa, sono consapevoli del fatto che gli investimenti in beni capitali avvengono al passare del tempo. Come ha detto Roger Garrison: «la specificità e la durevolezza del capitale di lungo periodo non permette in generale una tempestiva inversione di rotta». Ovvero, per citare Arnold Kling, «ogni boom è lento e ogni crollo è repentino» (è interessante osservare che John Hicks ha commesso lo stesso errore nella sua critica agli austriaci: si direbbe che Krugman non se ne sia accorto e che non conosca la letteratura secondaria che ciò ha prodotto).

In sintesi, il contributo delle idee austriache dipende dalla nostra opinione in merito alla solidità dell’economia prima della crisi. Come spiega Garrison, vi sono due concezioni alternative: «il crollo è avvenuto: (a) nel pieno di una fase di sana crescita a causa della completa inettitudine della banca centrale; oppure (b) sul finire di un’espansione indotta politicamente intrinsecamente insostenibile e nel marasma della confusione in merito alla natura del problema e dei mezzi migliori per affrontarlo?».

Se rispondete (a) siete un monetarista e non è un caso che le idee austriache vi appiano strane. Ma se rispondete (b), il mio consiglio è di imparare qualcosa di più su una teoria che spiega le crisi economiche con tanta maestria.

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Critical Review & Financial Crisis /2009/08/24/critical-review-financial-crisis/ /2009/08/24/critical-review-financial-crisis/#comments Mon, 24 Aug 2009 20:29:26 +0000 Carlo Lottieri /?p=2339 Negli anni scorsi, la Critical Review si era segnalata quale rivista di filosofia politica (e dintorni) sostanzialmente schierata su posizioni libertarie, ma non di rado incline a civettare con varie forme di post: postlibertarismo, postmodernismo, postfilosofia, e via dicendo. Per questa ragione il suol editor, Jeffrey Friedman, si era tirato addosso (e a ragione) una certa quota di contestazioni e ironie da parte dei propri lettori: essenzialmente libertari, liberali classici, conservatives, etc.

Con l’ultimo numero, intitolato Causes of the Financial Crisis, la rivista sembra essere tornata su binari più classici. L’introduzione, firmata dal direttore stesso della pubblicazione, sviluppa fin dal titolo (“A Crisis of Politics, Not Economics: Complexity, Ignorance, and Policy Failure”) la tesi – minoritaria, ma solidamente liberale – che anche stavolta il carattere patologico della crisi sia figlio di tutta una serie di programmi politici, che hanno creato un sistema di incentivi e disincentivi che ha falsato il mercato e ha indotto a comportamenti “irrazionali”. I nomi della maggior parte degli autori invitati a scrivere (da White a Taylor, per limitarsi a due nomi) paiono convergenti con questa prospettiva.

Dopo tanto girovagare, insomma, Friedman e la Critical Review sembrano essere tornati alla casella di partenza. E questa non è una cattiva notizia.

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