CHICAGO BLOG » tasse http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Sat, 21 May 2011 07:35:49 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.4 Il veto di Tremonti alla direttiva sul risparmio trasfrontaliero /2011/05/18/il-veto-di-tremonti-alla-direttiva-sul-risparmio-trasfrontaliero/ /2011/05/18/il-veto-di-tremonti-alla-direttiva-sul-risparmio-trasfrontaliero/#comments Wed, 18 May 2011 13:47:22 +0000 Oscar Giannino /?p=9041 Si è riproposto ieri all’Ecofin il veto italiano alla bozza di revisione della direttiva europea in materia di tassazione del risparmio transfrontaliero. Il problema è rappresentato dal fatto che ormai l’Italia è l’unica, a insistere sul veto e a bloccare l’adozione delle nuove norme. Ed è del tutto paradossale, a mio giudizio almeno, che il governo di centrodestra italiano superi quelli di tutta Europa nell’invocare l’armonizzazione assoluta su una questione che per un liberale vero dovrebbe essere considerata principio di massima importanza, perchè attiene alla sfera delle libertà individuali e alla tutela che ad esse va accordata. Sempre che si sia liberali e non statalisti, di dstra o di sinistra a me poco importa. Evidentemente, chi per il governo ha delega piena sulla questione è uno statalista di destra. E si chiama Giulio Tremonti. Mi dispiace dirlo, ma è così. Vediamo di che si tratta, per i non addetti ai lavori.

La questione è sorta con l’attacco di esosità che ha colpito nella grande crisi i diversi Stati membri dell’Unione europea . Con l’esplosione dei deficit e dei debiti pbblici, tutti hanno iniziato a cercare di stringere le maglie del proprio fisco nazionale per accrescere il gettito.  Ricorrendo, nel caso di Francia e Germania, a far pagare milioni di euro dai propri servizi segreti a funzionari nfedeli di banche svizzere o lussemburghesi, allo scopo di assicurarsi liste di depositanti illecitamente sottratte agli istituti di credito dai funzionari stessi, alla ricerca di una svolta di bella vita per sempre. naturalmente, tutto ciò è stato fatto in nome della giustizia fiscale. Ne abbiamo più volte parlato, e su questo blog siamo inorriditi, all’idea che Stati sovrani acquisiscano tramite illeciti – nel minimo de casi, si chiama concorso in ricettazione, aggravata da truffa e da molteplici altre violazioni penali, a seconda delle dverse legislazioni vigenti nei Paesi in cui tali banche operano -  dati bancari da incrociare con quelli del proprio sistema fiscale.

Inevitabilmene, il problema che si è posto a quel punto è stata la modifica della direttiva vigente da 7 anni in materia di tassazione del risparmio transfrontaliero. E la convergenza si è trovata in un sistema basato su un’alternativa: o il pieno scambio di informazioni bancarie tra Paesi diversi cioè lo scambio delle liste dei contribuenti con pieno accesso all’ammontare e variare dei loro depositi e investimenti, oppure un euroritenuta alla fonte del 35% sugli interessi maturati, dei quali due terzi vanno a fisco del Paese di cui è citadino il depositante, e il rimanente 25% a quello del Paese che pratica la ritenuta.  Il 35% è un’aliquota elevata e congegnata a crescita nel tempo, in modo da incoraggiare i paesi alla piena disclosure reciproca.

Il ministro Tremonti all’inizio ha avuto i colleghi francesi e tedeschi dalla sua, ma col tempo – i processi avviati e gli accordi raggiunti tramite FMI da quei grandi Paesi con la Svizzera extraeuropea – l’Italia ha finito per trovarsi sempre più sola, nel suo veto.  Perché il punto è diventato quello di pretendere sanzioni ai Paesi che dovessero risultare inottemperanti al pieno adempimento o dello scambio di informazioni, oppure della ritenuta  alla fonte. Laddove per pieno adempimento l’Italia sostiene che bisogna che tutti i Paesi si mettano i condizione di farsi comunicare depositi e investimenti attuati anche offshore ai quattro angoli del mondo, tramite trust o fiduciarie e veicoli comunque costituiti per beneficiare di aliquote ancora più basse in ordinamnti che praticano tradizionalmente la piena concorrenza al ribasso degli oneri fiscali. E’ una richiesta particolarmente inaccettabile per quei Paesi che, come Lussemburgo e Austria, hanno previsto nel proprio ordinamento tutele legali – in Austria, addirittura e santamente costituzionali – alla riservatezza bancaria.

E’ proprio questo principio di tutela, che l’Italia si propone di abbattere con il suo veto. Nessuna tutela alla riservatezza, sanzioni anzi automatiche per chi rifiuta di esercitare le prerogative dello Stato d polizia come fanno in Italia Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate ed Equitalia su ogni forma di impiego, transazione  o ricavo di capitale.

L’Italia, grazie al cielo, è rimasta sola. Tremonti batte persino i francesi, in materia di armonizzazione statalista del controllo totale sull’uso ciò che ciascuno  liberamente  dei propri denari. Piacerà molto agli statalisti di tutti i colori e fedi politiche, piacerà moltissimo ai paladini dello sdegno permanente antievasione. A me non piace per niente. Chi si batte per armonizzazione  e sanzioni dimentica che l’equilibrio del bilancio se sei liberale si ottiene tagliando la spesa, soprattuitto se è superiore al 52% del Pil come in Italia, non alzando le tasse e colpevolizzando un contribuente così tanto vessato come quello italiano. E’ da queste vicende tecniche che non finiscono in prima pagina, che si capisce in maniera indelebile chi è statalista e chi liberale. E’ ovvio che lo statalista antievasione sia più popolare nei sondaggi, pettinando per il verso giusto il mantra nazionale della lotta ai ricchi ed avidi evasori. Ma se è uno statalista di destra, per i liberali è persino peggio degli statalisti di sinistra. Ripeto: niente di personale, Tremonti resta bravissimo ad aver difeso con le unghie e i denti i saldi pubblici italiani, evitandoci così – sostanzialmente lui da solo, contro la sua stessa coalizione – di finire dritti anche noi nella crisi dell’eurodebito. Ma visto che si inzia a parlare di post Berlusconi – vediamo con una transizione quanto lunga e ulteriormente incasinata – tanto vale da liberali per ilmercato parlare schietti, e dire pane al pane. Viva l’Austria tutt la vita, per quel che mi riguarda.

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La discrezionalità è pericolosa – di Sheldon Richman /2011/05/18/la-discrezionalita-e-pericolosa-%e2%80%93-di-sheldon-richman/ /2011/05/18/la-discrezionalita-e-pericolosa-%e2%80%93-di-sheldon-richman/#comments Wed, 18 May 2011 07:41:35 +0000 Guest /?p=9027 Riguardo le agevolazioni fiscali per le compagnie petrolifere.

Che si nutra affetto oppure no per le grandi compagnie petrolifere, ciascuno dovrebbe essere preoccupato dal potere del governo di emettere “agevolazioni fiscali” selettive e di abrogarle ogni volta che un politico ha bisogno di soldi. Non mi sorprenderete a dire qualcosa di positivo su alcuna tassa, ma riserbo uno speciale animus per ogni sistema che dà ai politici il potere di trattare le diverse attività produttive in maniera diversa. Bisogna prendere sul serio l’uguaglianza di fronte alla legge.Nel suo tentativo di ridurre il deficit il Presidente Obama spera di ricavare 44 miliardi di dollari in dieci anni mettendo fine a certe agevolazioni fiscali per l’industria petrolifera; i 35 miliardi di dollari di profitto nel primo trimestre 2011 delle big five companies le rendono un obiettivo allettante per i politici improvvisamente colti da un senso di responsabilità fiscale. Ovviamente le compagnie petrolifere non sono estranee al potere, avendo avuto una relazione di vicinanza ai decisori nazionali e statali per generazioni. Si dovrebbe dire, chi di lobbisti ferisce, di lobbisti perisce.

Non che questo dovrebbe essere in questione, ma per la cronaca, anche con i prezzi del petrolio e del gas in crescita, la redditività dell’industria è tutto fuorché straordinaria. Nel primo trimestre l’industria si è piazzata 114esima su 215, con un profitto medio sulle vendite di 6,2 centesimi per dollaro. Gli esperti che inveiscono su questo non sono propensi a menzionare che la media dell’industria della telecomunicazione è 10,5% e che la media dell’industria dei periodici è 51%.

Potere discrezionale
Ma lasciamo l’industria petrolifera da parte (per oggi) e concentriamoci sull’arbitrarietà e sulla discrezionalità del potere implicita nella controversia sulle tasse. Nel 2004 è stata emanata la Domestic Manufacturing Deduction (DMD), che l’Associated Press dice “permette alle compagnie di qualsiasi tipo di dedurre dal loro imponibile fino al 9% dei profitti delle manifatture domestiche. Secondo tale legge, le compagnie petrolifere e di gas vengono classificate come industrie, ma non possono dedurre più del 6%”. Come indicato, lo scopo della deduzione era di incoraggiare le industrie nazionali. I soldi che l’industria petrolifera risparmia grazie a tale deduzione rappresentano il 42% del totale su cui Obama sta provando a mettere le mani. (Il resto dei 44 miliardi verrebbe dalla fine di specifiche deduzioni dell’industria petrolifera che riguardano costi immateriali, la svalutazione dei pozzi, e le royalty pagate ai governi stranieri.)

Se giudichiamo la mossa del governo secondo standard di libertà, si potrebbe concludere che il DMD è stato un errore per due motivi. Primo, è un modo inefficiente per ridurre le tasse. Il peso dell’attività economica dovrebbe essere sollevato non da deduzioni ad hoc concesse da politici che provano a far sembrare di “fare qualcosa”, bensì da tagli lineari – se non una totale abrogazione delle tasse. (Che è sempre preferibile, considerando la peculiarità che la tassazione ha in comune con il furto – come ha affettuosamente detto un precedente direttore di Freeman, Frank Chodorov.) Secondo, la deduzione è manipolativa: non si applica a tutte le attività economiche, ma solo all’industria domestica, quindi introduce un differenziale che favorisce alcuni rispetto ad altri e distorce il mercato. (Al margine, alcuni faranno ciò che è necessario per avere la deduzione rispetto a qualcosa che ha un vero senso economico.)

I politici, ovviamente, amano il potere di premiare e punire che gli deriva da un codice fiscale complesso, ma il resto di noi dovrebbe essere preoccupato da tale discrezione. Considerando la confusa copertura dei media, sarebbe utile distinguere i sussidi da “crediti” di imposta, “loopholes”, eccetera. I sussidi sono soldi provenienti dalle casse dello Stato con gli omaggi dei contribuenti. Il resto sono esenzioni da una tassa: per esempio, una deduzione dalla base imponibile o un credito rispetto alle imposte “dovute”.

Distinzione morale
La distinzione morale tra il sussidio e l’agevolazione fiscale dovrebbe essere palese. Con l’una i beneficiari prendono i soldi di qualcun altro con la forza; con l’altra il beneficiario si tiene quello che altrimenti gli sarebbe stato preso.

Io offrirei anche una distinzione tra i vari tipi di agevolazioni fiscali. C’è un mondo di differenza tra un taglio trasversale delle tasse (o la loro abrogazione) e un taglio o deduzione o credito mirato. I sostenitori della libertà dovrebbero sempre applaudire il primo e dubitare del secondo. Perché? Per la ragione già citata: la discrezione è pericolosa. I politici non hanno bisogno del tradizionale potere di un pianificatore centrale per imporre schemi economici. Tutto quello di cui hanno bisogno è il potere di scrivere politiche fiscali discriminatorie. Virtualmente ciò che può essere fatto con la regolazione può anche essere fatto con politiche fiscali selettive. Negli anni ‘80, quando i costruttori di automobili giapponesi stavano surclassando le Big Three americane, qualche membro del congresso propose una detrazione fiscale solamente per gli acquirenti di veicoli nazionali. (Non venne approvata.) Quando un governo può modellare il comportamento economico attraverso la leva fiscale, non c’è certo il libero mercato. La neutralità fiscale è una chimera, ma dovremmo opporci ogni volta che i legislatori provano a manipolare il processo economico.

E adesso?
Questo ovviamente non ci dice cosa accadrebbe in presenza delle attuali preferenze fiscali, nello specifico le agevolazioni per l’industria petrolifera. Ho delle ragioni per consigliare di non toccarle (in attesa di drastiche riduzioni o abrogazione delle tasse.) Primo, rimuoverle ora aumenterebbe il carico fiscale, cioè l’aumento innaturale, dunque immorale, del trasferimento di risorse al governo. Secondo, un’eliminazione selettiva sarebbe un altro esercizio di pianificazione economica attraverso il fisco. Terzo, mettere fine alle deduzioni darebbe ai politici il mezzo per commettere ulteriori danni.

Tagliare il deficit dovrebbe essere un passo verso la riduzione del bilancio pubblico, che a sua volta dovrebbe condurre a ridurre le dimensioni dello Stato. Lo Stato non ha bisogno di altre entrate. Deve smettere di fare cose.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su The Freeman, che ringraziamo per la gentile concessione alla pubblicazione in italiano.
Traduzione di Costanza Gallo
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Un asilo fondato sul lavoro /2011/05/13/9004/ /2011/05/13/9004/#comments Fri, 13 May 2011 14:44:42 +0000 Nicolò D. /?p=9004 Nicolò si avvia ormai verso il compimento del primo mese di vita, e continua purtroppo a fare le sue esperienze di suddito.
Per cominciare a conoscere il Paese nel quale gli è capitato di nascere, ha pensato fosse una buona idea partire dalla Legge Fondamentale locale. Alcune norme – ma bisogna compatirlo, ancora è un infante – non le ha proprio capite. Ad esempio cosa voglia dire fondare la Repubblica sul lavoro gli risulta piuttosto oscuro; né i numerosi e autorevolissimi interventi che hanno illustrato il concetto nei giorni scorsi gli sono valsi a dissipare le nebbie
Ma ha presto scoperto che altre norme, che credeva di aver ben capito e che gli erano piaciute, non sono affatto rispettate.
Vicino casa sua c’è un bell’asilo nido che affaccia su un parco e sulle Terme di Traiano. Nicolò, che per quanto piccolo non è affatto stupido, ha subito pensato: è così bello che costerà un occhio della testa; chissà se potrò permettermelo. Poi gli hanno detto che l’asilo nido è pubblico, per la precisione comunale. Bene, ha pensato, ci sarà una qualche gara e io potrò concorrere alla pari con gli altri. Quale il suo sconcerto quando gli è stato spiegato che – in barba al divieto di discriminazioni basate sulle condizioni sociali, di cui aveva letto nella Legge Fondamentale e che gli sembrava di aver ben compreso – egli non sarà ammesso all’asilo proprio in virtù delle condizioni sociali dei suoi genitori!

Dal che Nicolò si è fatto convinto che sebbene la costituzione formale non sia quel gran capolavoro che dicono (vedi la pretesa di fondare la repubblica sul lavoro), la cosiddetta costituzione materiale è sicuramente peggio.
Un po’ deluso dalle scienze giuridiche, che non lo aiutavano abbastanza a capire dove è capitato, Nicolò si è quindi rivolto alle scienze economiche. E gli è stato subito chiaro che se lui non viene ammesso all’asilo nido comunale perché i suoi genitori pagano per finanziare quell’asilo più di quanto paghino i genitori degli altri pretendenti, c’è davvero qualcosa che non funziona.
Per cercare di capire come porvi rimedio ha preso in mano un po’ di libri editi dall’IBL.

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Imprese che resistono – di Gerardo Coco /2011/04/28/imprese-che-resistono-%e2%80%93-di-gerardo-coco/ /2011/04/28/imprese-che-resistono-%e2%80%93-di-gerardo-coco/#comments Thu, 28 Apr 2011 07:13:46 +0000 Guest /?p=8881 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gerardo Coco.

Possono sperare di sopravvivere aziende sottoposte a un carico fiscale che in Italia si aggira intorno al 70%? È questa la prima domanda che la politica dovrebbe porsi. E, seconda domanda: se il comparto della piccola imprenditoria (PMI) costituisce l’80%, dell’intero settore industriale e assorbe il 70% dell’occupazione (di cui 30% per imprese con meno di 10 addetti) e risponde di circa il 70% del fatturato e fornisce un valore aggiunto tra il 65 e l’85%, perché soffocarne il contributo decisivo all’economia con una imposizione fiscale insostenibile?Non è poi il tasso di crescita delle cosiddette start-up a contribuire all’offerta di prima occupazione ed assorbire la manodopera meno qualificata e più debole? Se il settore costituisce la base produttiva del paese perché taglieggiarla proprio quando il calo d’ordini si fa drammatico? È civiltà industriale quella che assoggetta l’imprenditoria alla schiavitù fiscale?  È con la requisizione delle risorse che la politica intende promuovere la ripresa?

Le PMI in Europa sono 23 milioni e dall’inizio della grande crisi hanno già registrato una perdita 3,25 milioni di posti di lavoro. In Italia, dove dall’inizio della crisi hanno chiuso oltre 30.000 imprese la situazione è aggravata da una pressione fiscale fra le più alte del mondo e da altri problemi storici come quello del credito “forzoso” a cui le PMI sono assoggettate dalla pubblica amministrazione e delle grandi aziende la cui lentezza nei pagamenti ne divora la liquidità già messa a dura prova dal problematico accesso al credito.

Nell’impresa, la capacità di pagare i costi organizzativi, finanziare innovazioni, aumentare l’occupazione ed accrescerne la produttività dipende dalla formazione di capitale e dal profitto. Una nazione non è fondata solo sul lavoro ma sul profitto industriale. Bisognerebbe scriverlo nella Costituzione. Senza profitto, fonte principale di accumulazione, nella società prevarrebbe un’economia di sussistenza cioè il sottosviluppo. Per la verità il termine “profitto” è fuorviante. Oggi non è altro che un’illusione contabile, perché nella società ci sono solo costi, i costi passati delle imprese che devono rinnovare il capitale fisico-tecnico, i costi dell’immane e irresponsabile debito statale, i costi delle crisi, i costi futuri dei cambiamenti economici e quelli di mantenimento dei posti del lavoro di oggi e di domani, se ci saranno.

E che Dio la mandi buona per tutto il resto.

La prima responsabilità sociale dell’impresa, piccola o grande è quella di guadagnare abbastanza per coprire questi costi passati e futuri, per sostenere nuove generazioni di occupati, perché le imprese in decadenza in un’economia in declino non potranno mai essere datori di lavoro né in alcun modo socialmente responsabili. Solo attraverso il profitto i problemi sociali possono trasformarsi in opportunità economiche, imprenditoriali, in capacità produttiva ed in posti di lavoro retribuiti. Solo attraverso il profitto la società può crescere. La formazione di capitale attraverso il profitto è una responsabilità sociale perché è l’unica fonte per i posti di lavoro di un futuro incerto. Nessuna società può infatti sopravvivere alle tensioni provocate da una grave disoccupazione giovanile e la disoccupazione aumenta quando il capitale è insufficiente per assorbirla. Ora sono proprio le politiche economiche e fiscali che, assorbendo capitale e profitti, si oppongono alla crescita dell’occupazione.

I piani industriali “anticrisi” basati sullo stanziamento di fondi statali e regionali sono espedienti per mantenere alta la pressione fiscale scaricandola su tutta la collettività in modo arbitrario e discriminatorio (perché poi riservare aiuti e finanziamenti agevolati solo ad aziende con più di 50 addetti con fatturato superiore ai 10 milioni e non a tutte le altre imprese?). Tanto meno si evita la falcidia delle imprese con i fondi di solidarietà (termine talmente impostore e abusato da vergognarsi ormai a pronunciarlo) regionali, facendo recitare alle imprese, cioè agli artefici dell’economia, il ruolo di assistiti da mantenere a spese della carità collettiva. A tanto portano le politiche economiche!

I veri piani anticrisi si fanno detassando le imprese per liberare risorse di capitale. Detassare significa aumentare la domanda di lavoro. E il cosiddetto sostegno alle politiche del lavoro sì fa, oltre che con l’abbattimento delle tasse, liberando l’economia d’impresa dal cappio al collo dello statuto dei lavoratori che implica indennità di licenziamento talmente elevate dal dissuadere gli imprenditori dall’aumentare i propri organici. Revisionando lo statuto si eliminerebbe il coacervo di strumenti di flessibilità, scomparirebbe il fenomeno del precariato e si avrebbe più stabilità nell’occupazione.

Tre anni fa un piccolo numero di imprese del Piemonte guidate da un imprenditore piemontese, Luca Peotta, esasperate dal vampirismo fiscale costituì un movimento di protesta:  Imprese Che Resistono (ICR). Resistere a che cosa? Appunto all’arbitrio tirannico del governo e della burocrazia statale, alla iniquità delle mutazioni legislative senza fine e a strumenti come Equitalia, creati per esercitare con maggior efficacia l’arte della rapina fiscale. In piena crisi, ICR chiedeva alle istituzioni misure eccezionali di sostegno per evitare un naufragio industriale senza speranza.

A questo movimento spontaneo ed apartitico che avanzava rivendicazioni imperniate su una fiscalità meno oppressiva e rinvii di pagamenti (sospensione degli acconti fiscali, iva per cassa, IRAP ed interessi da portare in piena detrazione, posticipo delle scadenze bancarie e previdenziali, regolarità dei pagamenti da parte della PA e delle grandi imprese) si unirono imprese da tutta d’Italia.

Oggi al movimento, che organizza incontri di sensibilizzazione in tutta Italia, cominciano ad aderire anche imprese iscritte alle associazioni imprenditoriali tradizionali, dimostratesi nel passato inefficaci nel difendere gli interessi della categoria contro misure inique e lesive della libertà di impresa (come non ricordare gli ignobili studi di settore, iniziativa incostituzionale e da ex pianificazione sovietica che, o ha eliminato di migliaia di piccoli imprenditori o li ha precipitati nel sommerso?).

Fino ad ora, dopo diversi incontri con la politica, ICR non è riuscita, sostanzialmente, a scuoterne l’indifferenza sia perché la politica non ha ancora capito la gravità del problema, sia perché il movimento, forse, non ha ancora raggiunto la massa critica (sono 1400 gli aderenti al movimento) necessaria ad un gruppo di pressione per costringere la politica ad apportare concreti cambiamenti ed evitare l’asfissia finanziaria generale. Esso, forse, deve ancora superare il punto di debolezza principale: la frammentazione tipica del settore che impedisce la formazione di una coscienza di categoria in grado di unificare il movimento e di dare efficacia all’azione collettiva. Se una grande azienda mette a rischio il lavoro di qualche migliaio di operai è emergenza nazionale. Se perdono il lavoro centinaia di migliaia di lavoratori anonimi, nessuno se ne accorge, salvo le vittime.

La politica non aiuta gli sconosciuti. Eppure il futuro economico di un paese non va formandosi ad opera di qualche grande impresa ma per merito di imprese del tutto anonime. La politica non ha ancora capito che la battaglia di ICR è una battaglia contro il sottosviluppo economico perché le piccole imprese sono sempre state e sono i mezzi fondamentali che le società industriali si sono date per far crescere l’economia. Se il loro tasso di mortalità aumenta il sistema economico regredisce rapidamente. Ma invece di prendere provvedimenti per il loro salvataggio, la politica lascerà che lo scempio della disintegrazione industriale continui. Ecco perché siamo convinti che il movimento di protesta crescerà e alla fine, per ottenere misure efficaci  dovrà ritornare alle dimostrazioni dure, di piazza. E poiché ciò che serve alle piccole e medie imprese serve alla ripresa ed al paese ci auguriamo che la battaglia a cui ICR si appresta, diventi la battaglia di tutti specialmente dei giovani, occupati o meno. Sarebbe ora che scendessero in piazza anche le donne impegnate in politica e le femministe, questa volta non per rivendicare la dignità e libertà di disposizione del proprio corpo ma quella del proprio reddito e di quello delle imprese dove la maggior parte delle donne lavora perché la vera dignità e l’emancipazione derivano dal potersi sostenere con il frutto del proprio lavoro che va difeso dall’aggressione fiscale e che non può essere barattato con sussidi e solidarietà varie senza perdere la dignità e la libertà per scivolare verso una servitù regolata dallo Stato.

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We want our money back /2011/04/16/we-want-our-money-back/ /2011/04/16/we-want-our-money-back/#comments Sat, 16 Apr 2011 13:30:39 +0000 Giovanni Boggero /?p=8821 E’ arrivato il momento di dirlo, chiaro e forte. Dopo le province, anche le circoscrizioni vanno abolite. Chi siede nei cd. consigli di zona non ha minimamente presente quale sia la situazione finanziaria del nostro paese, il livello del nostro debito pubblico e l’incidenza della nostra spesa sul PIL. Eppure, si suole dire che più il centro di spesa è vicino al cittadino più fa i suoi interessi. La chiamano sussidiarietà. Non si tiene conto che la politica è, a qualsiasi livello, molto crudamente distribuzione di denaro pubblico. Punto. I politicanti locali cercheranno sempre di guadagnarsi la rielezione, favorendo le piccole clientele di quartiere, una volta i commercianti, un’altra le parrocchie, un’altra ancora le associazioni  non-profit. E’ la politica, bellezza! Quasi come giocare a Monopolino.

Basta dare un’occhiata alle deliberazioni della Circoscrizione 3 del Comune di Torino, tra le più grandi della città. Tre quarti di esse è dedicata all’erogazione di prebende, ribattezzate “contributi” nella neolingua degli amministratori dalle mani bucate. Giudicate voi. 8000 euro sono stati versati nello scorso settembre ai commercianti per la festa di Halloween, 5900 alla Compagnia delle Opere (poverini ne hanno bisogno…), 7600 ad un centro di ascolto psicologico. E potrei continuare all’infinito. Qualsiasi deliberazione avrebbe meritato il voto contrario. Viceversa, quasi nessun consigliere, di maggioranza (centrosinistra) o di opposizione (centrodestra), si è mai opposto. Salvo poi piangere miseria dalle pagine della Repubblica o della Stampa per i tagli del gettone di presenza.

Abbiate un po’ di buon gusto: tacete.

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Se Gheddafi non c’è il petroliere balla? – di Emilio Rocca /2011/04/07/se-gheddafi-non-ce-il-petroliere-balla-%e2%80%93-di-emilio-rocca/ /2011/04/07/se-gheddafi-non-ce-il-petroliere-balla-%e2%80%93-di-emilio-rocca/#comments Thu, 07 Apr 2011 15:34:39 +0000 Guest /?p=8724 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Emilio Rocca.

I petrolieri stanno approfittando della crisi libica? L’accusa di “speculare” sulla guerra circola fin da quando i prezzi del petrolio hanno preso il volo dopo lo scoppio delle ostilità, ed è stata rinfocolata dall’avvio di una indagine conoscitiva da parte dell’Antitrust sulla validità dell’indice Platts, che stima il prezzo di mercato della materia prima. Il Garante della concorrenza ha pure posto l’enfasi sugli strumenti utili a favorire la diffusione delle pompe bianche e della grande distribuzione. Dal canto loro, fin dai primi di marzo le associazioni dei consumatori chiedono un intervento del governo. Ma cosa dicono i dati?

Le accuse dei consumatori e i sospetti impliciti nell’indagine dell’Antitrust, si rivelano scarsamente fondati. Un primo modo per verificare l’ipotesi di scarsa concorrenzialità è osservare la variazione del margine lordo delle compagnie: davvero le rivolte in Libia sono state una scusa per fare extra-profitti? Possiamo calcolare il margine lordo come differenza tra il prezzo alla pompa e il costo della materia prima per produrre quel litro di benzina o gasolio. Seguendo la metodologia abituale, possiamo assumere che il costo della materia sia uguale alla quotazione Platt’s CIF Med, che rappresenta il costo per acquistare dei carburanti raffinati e averli consegnati in un porto del Mediterraneo. Il margine lordo comprende costi di stoccaggio e di distribuzione oltre al margine netto realizzato dalla compagnia e dal gestore dell’impianto.

Consideriamo allora l’accusa delle associazione dei consumatori, per cui i petrolieri avrebbero trovato nelle rivolte libiche un buon diversivo per fare maggiori profitti. Le prime manifestazioni registrate in Libia risalgono alla sera del 15 febbraio: quel giorno in Italia le compagnie petrolifere registravano un margine lordo di 15,6 centesimi per la benzina e di 13,9 centesimi per il gasolio. A distanza di un mese e mezzo, il 29 marzo questi valori erano, rispettivamente, 15 e 16,1 centesimi. In un mese e mezzo il margine lordo sulla benzina è diminuito di 0,6 centesimi, quello sul gasolio è aumentato di 2,2 centesimi. Ma prima trarre delle conclusioni affrettate è utile allargare il campo di attenzione e considerare le variazioni del margine lordo su un periodo più ampio. Se osserviamo il grafico del margine lordo che abbiamo calcolato da inizio 2010 ad oggi notiamo che il suo valore è tutt’altro che stabile. Dall’anno scorso ad oggi ha toccato massimi di 18 centesimi e minimi di 12 centesimi: un range considerevole. Quello che preme sottolineare è che, in questo periodo più ampio, il margine lordo è stato estremamente volatile, ma non ha manifestato alcun trend significativo.

Venendo al secondo sospetto, ci chiediamo se l’indice Platt’s sia un valido riferimento per le compagnie petrolifere nel decidere i prezzi. Teoricamente per essere un “buon” riferimento dovrebbe rispecchiare perfettamente le variazioni nelle quotazioni del greggio più quelle relative ai costi di raffinazione che possono risentire del mix di greggi effettivamente disponibile in un dato momento, oltre al rapporto tra la domanda attesa e la capacità effettivamente disponibile e le scorte. In tal caso ogni variazione nel prezzo dei carburanti raffinati sarebbe imputabile ad una variazione del prezzo della materia prima, il greggio appunto, e potremmo escludere l’ipotesi di comportamenti anticoncorrenziali delle compagnie e ad aumenti del loro margine.

Il grafico seguente mostra allora le variazioni tra prezzi della benzina alla pompa, la sua quotazione Platt’s e le variazioni di un litro di greggio. Quest’ultimo valore è un paniere dei principali quotazioni del greggio; inoltre viene espresso in euro per escludere qualsiasi effetto del mercato dei cambi sulle variazioni analizzate.

Consideriamo la relazione tra l’indice Platt’s e il greggio: se all’inizio il parallelismo è molto evidente, sembrerebbe poi essere molto più volatile del greggio. Di nuovo, espandendo il periodo di studio questo dubbio si indebolisce. Misurando la correlazione tra platts e greggio da inizio 2010 all’ultima settimana otteniamo un valore robusto, pari a 0,97. Questo prova che l’indice Platt’s segua bene le variazioni del prezzo del greggio e che aumenti nella quotazione della benzina raffinata siano imputabili per la maggior parte ad aumenti del prezzo del greggio.

Sembrerebbe  più sospetta la relazione tra il prezzo della benzina alla pompa e l’indice Platt’s: in particolare si ha la netta sensazione che quando la quotazione sale il prezzo della benzina alla pompa lo segua fedelmente, mentre quanto scende il prezzo del carburante sia molto più rigido ad adattarsi. Confermerebbe dunque la voce popolare secondo cui, quando il prezzo del greggio aumenta la benzina rincara subito, mentre quanto diminuisce le compagnie aspettino a ridurre il prezzo del carburante e si arricchiscano. Prima di arrivare a questa conclusione proviamo però ad espandere di nuovo il campo di attenzione. Anche la correlazione tra Platt’s e prezzo alla pompa è robusta, pari a 0,96. Di fatto possiamo concludere che, sebbene negli ultimi giorni le variazioni siano state molto forti, nell’arco di quasi un anno e mezzo il prezzo della benzina in Italia ha rispecchiato fedelmente le variazioni delle quotazioni internazionali Platt’s. È possibile che i movimenti dei prezzi dei prodotti raffinati abbiano l’effetto di “smorzare” i cambiamenti: i petrolieri punterebbero, nel breve termine, a proteggere più i volumi che i margini nelle fasi di prezzi crescenti, per poi ricuperare i margini quando i prezzi internazionali si riducono.

La tabella seguente riassume i valori delle correlazioni calcolate tra il primo gennaio 2010 e il 29 marzo 2011.

CORRELAZIONE

Platt’s – prezzo benzina alla pompa

Platt’s – greggio

Margine lordo – Mix greggi €

0,957131948

0,976001671

0,068241101

L’ultima colonna mostra che la correlazione tra il margine lordo della vendita della benzina e il prezzo del greggio è pressoché inesistente. Ciò conferma un’intuizione teorica: non sarebbe molto tempestivo per le compagnie aumentare i propri margini quando il prezzo del petrolio sale. Non sarebbe tempestivo perché in tali circostanze hanno tutti gli occhi addosso: in questi giorni i politici e i media riservano grande attenzione all’argomento e sono  tutti pronti ad accusare i petrolieri collusi e opportunisti. Peraltro, non sarebbe neppure particolarmente vantaggioso: si collude meglio quando i prezzi sono “bassi” così si aumentano i margini senza perdere volumi.

Tirando le fila del discorso, le accuse di scarsa concorrenzialità non reggono il confronto dei dati. Le compagnie petrolifere non hanno goduto margini maggiori approfittando della recente instabilità delle quotazioni del greggio e le loro procedure di pricing sono coerenti. Resta l’impressione un po’ amara che ancora una volta si reagisca al caro-benzina puntando il dito contro le compagnie petrolifere. Lo stereotipo vuole infatti questo settore manovrato da oligopolisti senza scrupoli e ciò giustifica l’attenzione pedante dell’Antitrust. Paradossalmente, la recente indagine dell’Autorità è iniziata proprio nella settimana in cui è diventato legge il decreto che finanzia il Fondo Unico per lo Spettacolo attraverso un aumento delle accise sui carburanti di “soli uno-due centesimi”.

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Patrimoniale: un escamotage ingiusto e dannoso – di Natale D’Amico /2011/03/09/patrimoniale-un-escamotage-ingiusto-e-dannoso-%e2%80%93-di-natale-d%e2%80%99amico/ /2011/03/09/patrimoniale-un-escamotage-ingiusto-e-dannoso-%e2%80%93-di-natale-d%e2%80%99amico/#comments Wed, 09 Mar 2011 18:18:37 +0000 Guest /?p=8525 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Natale D’Amico.

Lo Stato italiano ha un enorme debito, sul quale l’orologio dell’IBL ci aggiorna in tempo reale, che assomma oggi a circa 1900 miliardi di euro, pari a quasi il 120 per cento del prodotto interno lordo. Questo debito è frutto delle dissolutezze del passato: non dipende unicamente dai comportamenti di chi ci ha governato negli anni recenti, ma risale molto indietro nella storia italiana.Purtroppo l’Italia non si è indebitata per investire – tant’è che il livello delle infrastrutture è penoso – ma per finanziare la spesa corrente.

È lo stesso servizio al debito ad alimentare la spesa corrente: un po’ perché il debito è grande, e quindi il flusso di interessi che devono essere corrisposti è commisurati; un po’ perché l’affidabilità del paese è quella che è, e quindi chi ci presta i soldi non è disposto a farlo se non a un tasso di interesse consistentemente maggiore di quello richiesto per prestare a debitori ritenuti più affidabili, come la Germania.

Questo alto debito, e questo elevato onere per interessi, è vissuto dalla politica come una camicia di forza: purtroppo, purtroppo per il ceto politico, non abbiamo potuto né possiamo, come altri hanno fatto approfittando della crisi, darci alle spese pubbliche pazze; se lo facessimo, i mercati ci travolgerebbero. Ecco allora la brillante idea: facciamo un colpaccio, abbattendo in un sol momento si dice di un terzo il debito. Così recupereremo finalmente lo spazio per fare “politiche espansive”, cioè per ricominciare a spendere allegramente.

Come fare? Lo Stato si indebita verso italiani e verso stranieri; con gli stranieri non possiamo far nulla; ci presteranno i soldi se riterranno conveniente il tasso di interesse che offriamo, altrimenti presteranno i loro quattrini ad altri; ma gli italiani sono sudditi (questa è l’espressione giusta, non cittadini) di questo Paese, soggetti alle nostre leggi; allora possiamo espropriarli di una parte della loro ricchezza per abbattere il debito pubblico. Chiamiamo il furto imposta patrimoniale, e i sudditi dovranno subire.
Quanto la cosa sia ingiusta, non sfugge a nessuno che solo voglia un po’ ragionare.

Anzitutto, un’imposta siffatta colpisce più duramente chi più ha risparmiato. Ad esempio chi, non disponendo di una sufficiente copertura pensionistica pubblica, ha pensato fosse necessario essere previdente; ovvero chi, vedendo le difficoltà nel trovare lavoro dei propri figli, ha pensato di costituire per loro una riserva. Soprattutto, il debito è risultato di una spesa pubblica da cui sicuramente alcuni italiani hanno tratto grandi vantaggi; attraverso l’imposta patrimoniale sono chiamati a pagare il conto cittadini che niente assicura siano i medesimi che hanno tratto vantaggio da quella spesa.

Si consideri che la famigerata imposta sui depositi bancari del 1992 aveva una aliquota del 6 per mille. L’imposta di cui oggi si parla sarebbe estesa all’intero patrimonio, non solo ai depositi bancari, ed avrebbe una aliquota ben maggiore. Se quello fu percepito come un furto, questo sarebbe un furto infinitamente maggiore.

Non solo la patrimoniale sarebbe ingiusta sotto il profilo redistributivo: sarebbe anche dannosa. La gran parte dei contribuenti non avrebbero la liquidità necessaria per pagare una imposta patrimoniale delle dimensioni ipotizzate (un terzo del debito in essere!!! 600 miliardi di euro!!!). Dovrebbero quindi liquidare parte del proprio patrimonio, ad esempio immobiliare. Ma chi comprerebbe gli immobili messi in vendita? Il prezzo crollerebbe. Ed ecco che si materializzerebbe anche in Italia quel crollo del mercato immobiliare, con connesse gravi crisi bancarie, e conseguenti interventi pubblici di salvataggio.

L’esperienza, infatti, insegna che, se i prezzi degli immobili scendono, le banche hanno problemi; e, se le banche hanno problemi, i governi vengono in aiuto. Se si vuol far precipitare l’economia italiana in una crisi che si auto avviti in una spirale senza fondo, si è trovato il modo. Come abbiamo imparato nel corso dell’ultima crisi, i governi sono bravissimi a generare le tempeste perfette.

Riassumendo, una patrimoniale straordinaria sarebbe un’imposta ingiusta oltre il limite del furto, e dannosa oltre il limite del drammatico. Ed allora perché se ne discute? Perché abbiamo ragione di temere che prima o poi un simile intervento suicida venga realizzato?

Il perché lo si è detto al principio: perché il ceto politico, insieme a quel gigantesco coacervo di interessi pasciuto dalla spesa pubblica, vuole che la patrimoniale si faccia; così potrà ripartire la giostra della spesa pubblica, e così chi potrà tornerà a pascersi. La patrimoniale è lo strumento per non tagliare la spesa pubblica, e per mantenere intatte, o addirittura ampliare, le rendite dei beneficiari della spesa stessa.

Chi non si pasce della spesa pubblica potrà sempre essere convinto con la solita retorica delle spese necessarie: necessarie per evitare i tagli alla scuola, i tagli alla cultura, e simili. Tutti dimenticando che mai nei 150 dell’Italia unita in periodi di pace la spesa pubblica è stata tanto alta quanto oggi, in valore assoluto e in rapporto al prodotto nazionale.

Dimenticando o non comprendendo che, quando si parla di tagli, non si intende affatto che la spesa è diminuita o diminuirà, ma solo che non è cresciuta o non crescerà come era previsto che facesse. I tagli riguardano spese future, e più spesso futuri aumenti della spesa: chi denuncia un “taglio”, spesso si lamenta solo perché il beneficio che si aspetta di trarre dalla spesa pubblica non è destinato a crescere! Dimenticando che nel complesso le spesa, e quindi le tasse che vengono prelevate dalle nostre tasche, continuano a salire.

Quanto alla pretesa della spesa pubblica per lo sviluppo, non potrò che ripetere le parole con le quali nel 1924 Luigi Einaudi rivolgeva un monito a “coloro i quali chieggono nuove spese, (…) smaniosi di espansioni economiche, di lavori pubblici, di indebitamente cosiddetti produttivi, dimentichi dell’insegnamento forse più eloquente del dopo-guerra in Italia e fuori d’Italia: essere vano sperare il rifiorimento dell’economia privata e della finanza pubblica dai grandi programmi di spese statali a sedicente incremento dell’economia nazionale; ed essere invece la rigida, dura politica del pareggio ad ogni costo la premessa perentoria della ricostruzione economica del paese”.

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La parabola dei talenti, patrimoniale inclusa /2011/03/09/la-parabola-dei-talenti-patrimoniale-inclusa/ /2011/03/09/la-parabola-dei-talenti-patrimoniale-inclusa/#comments Wed, 09 Mar 2011 08:31:33 +0000 Carlo Stagnaro /?p=8519 Con tante scuse all’evangelista Matteo.

Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Quello che ne aveva ricevuti due, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, lo sperperò al gioco e con le donne.

Dopo molto tempo venne a trovarli il ministro dell’Economia, il quale chiese a ciascuno di essi: “quanto possiedi, e quanto hai guadagnato, figliuolo?”. Il primo servo disse: “possiedo un capitale di cinque talenti e nel corrente anno fiscale ho prodotto un reddito di altri cinque”. Il secondo servo disse: “possiedo un capitale di due talenti ma non ho avuto alcun reddito, per cui chiedo di essere ammesso ai benefici del welfare state”. Il terzo servo disse: “sono incapiente e non ho reddito, per cui chiedo di essere ammesso ai benefici del welfare state”.

Il ministro dell’Economia, raccolti i dati di cui aveva bisogno, tornò nella capitale e fece i suoi conti. Il servo coi cinque talenti aveva un reddito molto alto, ragion per cui ricevette di lì a poco una cartella esattoriale secondo cui egli doveva applicare l’aliquota marginale del 43 per cento, ossia doveva versare all’erario la somma di talenti 2,15. Al servo con un modesto patrimonio ma nessun reddito venne accreditato un salario minino di 1 talento, e al servo senza reddito nè patrimonio venne riconosciuto il massimo sostegno possibile del valore di 1,5 talenti.

A quel punto il ministro dell’Economia, soddisfatto di aver perseguito il massimo bene per il maggior numero di persone, trasse i bilanci e si rese conto che le spese, pari a 2,5 talenti, superavano le entrate, pari a 2,15 talenti. Esclamò: “questo disavanzo primario mi turba!”. E ancor più lo turbò apprendere che lo stock di debito pubblico, pari a 6 talenti ossia al 120 per cento del prodotto interno lordo, produceva un ulteriore aggravio di 0,3 talenti per il pagamento degli interessi passivi, che – date le precarie condizioni del paese – avevano un tasso medio del 5 per cento.

Allora il ministro dell’Economia tornò dai servi e tenne un accorato discorso: “servi – disse – il vostro sostentamento non è più possibile, poiché le attuali entrate fiscali di 2,15 talenti non sono sufficienti a compensare una spesa di 2,8 talenti. Per di più siamo a un tornante della storia: la speculazione internazionale ha aggredito il nostro debito pubblico, obbligandoci a rispettare decisioni prese da altri. E tuttavia, a fronte di un grande debito pubblico, nel nostro paese vià un grande risparmio privato. E’ giunto il momento in cui le linee rette diventano curve, e le curve si rettificano: per questo ho deciso di imporre un’imposta patrimoniale per dimezzare il debito pubblico. L’imposta dovrà fruttarmi almeno 3 talenti. Ciascuno di voi dovrà quindi pagarmi mediamente un talento”.

Disse il servo senza patrimonio né reddito: “signor ministro, la sua proposta è doverosa e giusta. C’è però un problema: il mio reddito, garantito dallo stato, è pari a 1,5 talenti, se dovessi pagare un tributo di un talento guadagnerei solo 0,5 talenti, al di sotto della soglia di povertà”. Disse il servo con un modesto patrimonio e un basso reddito: “signor ministro, la sua proposta è del tutto ragionevole, ma io ho un reddito di un solo talento: se dovessi pagare un tributo di un talento, per sopravvivere dovrei intaccare il mio risparmio privato, rendendo così il debito pubblico non più garantito”. Disse il servo più ricco: “signor ministro, io ho già dato il mio contributo a risanare il bilancio pubblico: ho infatti pagato 2,15 talenti all’erario, poco meno di quanto rimane a me. Come può chiedermi di contribuire ancora?”. “E tuttavia – s’intromise il servo povero – non possiamo ignorare la grave piaga che affligge la nostra società: la disuguaglianza. Infatti, un terzo della popolazione ha un reddito superiore alla somma degli altri due terzi, e possiede il 70 per cento delle ricchezze”. Avendo ascoltato tutti, il ministro dell’Economia disse: “ho preso la mia decisione. Servo povero, tu vivi già nell’indigenza e non posso gravarti ulteriormente. Ceto medio, tu rappresenti la mia base elettorale e troppe volte hai pagato per garantire gli agi e i vizi delle classi più agiate. Servo ricco: i tuoi argomenti non mi convincono. Contrastano infatti col più basilare principio dell’equità fiscale, secondo cui i soldi bisogna prenderli da chi li ha, perché chi non li ha, non li ha; e contrastano anche coi tuoi obblighi di solidarietà sociale, per cui chi lavora deve mantenere chi non lavora. Infine, mi permetto di farti notare che la stragrande maggioranza del popolo supporta la mia proposta, che coincide nell’imporre una patrimoniale straordinaria sul terzo più ricco della popolazione. Quindi, se tu ti opponi sarai considerato un nemico della democrazia e condannato ai lavori forzati”. Soddisfatto, il ministro se ne andò.

Di lì a poco, il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto un talento, ne presentò 1,5, dicendo: “Signore, mi hai consegnato un solo talento; ecco, ne ho guadagnato un altro mezzo”. “Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnato un altro, e un rendimento del 50 per cento in tempo di crisi non è poco”. “Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 24 Venuto infine colui che aveva ricevuto cinque talenti, disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ebbene, io misi a frutto i cinque talenti che mi hai dato, e ne ho guadagnati altri cinque. Poi però, tra tassazione ordinaria e straordinaria, ho dovuto pagare 5,15 talenti, per cui te ne restituisco solo 4,85”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto investire il mio denaro e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse; invece tu solo, che eri il mio prediletto, hai estratto un rendimento negativo dal mio capitale. Toglietegli dunque i talenti che gli restano, e dateli a chi ha fatto fruttare ciò che aveva ricevuto. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

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Quanto costa la patrimoniale? /2011/03/05/quanto-costa-la-patrimoniale/ /2011/03/05/quanto-costa-la-patrimoniale/#comments Sat, 05 Mar 2011 17:15:06 +0000 Carlo Stagnaro /?p=8481 Nello (scarno) dibattito sull’introduzione di una imposta patrimoniale per ridurre lo stock del debito pubblico, molti aspetti sono rimasti in ombra. Per esempio, si è riflettuto poco sul fatto che un intervento dal lato delle entrate, senza un corrispettivo (e duro) intervento dal lato della spesa, avrebbe sì ridotto il rapporto tra debito e prodotto interno lordo, ma solo per vederlo ricrescere in funzione della naturale tendenza allo “sbilancio” dei nostri conti pubblici. Un altro fattore che è stato incredibilmente trascurato è il dogma dell’immacolata concezione della patrimoniale: come se fosse possibile sottrarre 560 miliardi di euro al settore privato, senza produrre alcuna reazione da parte degli attori economici.

La prima cosa da fare per capire cosa succederebbe è guardare cosa succede… senza la patrimoniale. Possiamo farcene un’idea guardando le previsioni contenuta nella “Decisione di finanza pubblica 2011-2013” (l’equivalente del vecchio Dpef), con l’avvertenza che si tratta di stime a loro volta ottimistiche. Prendiamo, comunque, questo scenario come riferimento: lo chiameremo scenario I, come inerziale.

Ora, proviamo a innestare su questo scenario la patrimoniale. Nella versione “nirvana”, la patrimoniale non produce altro effetto che la riduzione del debito (in assoluto e in rapporto al Pil). Questo scenario, detto anche degli “italiani cretini” (perché i nostri connazionali, pur essendo chiamati a sborsare in media 10.000 euro a testa, non cambierebbero in nulla il loro comportamento) è quello che viene brandito dai sostenitori della patrimoniale: poiché esso è pensato per far scendere di oltre 30 punti percentuali il rapporto debito-Pil, lo chiameremo Scenario 3I.

Purtroppo, questo scenario è totalmente irrealistico. Come minimo, quei 560 miliardi di euro, venendo sottratti ai legittimi proprietari ed essendo usati per estinguere un debito, cesseranno di dare un rendimento. Nella migliore e più eroica delle ipotesi, dunque, il Pil verrà ridotto di un ammontare uguale al rendimento di 560 miliardi di euro. Supponendo (in modo assai conservativo) un rendimento medio del 3 per cento (inferiore al tasso di interesse medio sul debito pubblico, che è del 4 e qualcosa per cento), si arriva allo scenario 3TI, che rispetto al precedente incorpora un trasferimento di ricchezza (T).

A occhio nudo la differenza può risultare – ed è – piccola, ma questo scenario ha il merito di iniziare a farci capire che la patrimoniale non ha solo un effetto occasionale dal lato delle entrate: ha anche la conseguenza di deprimere la crescita del Pil e, di conseguenza, di ridurre permanentemente le entrate da tassazione ordinaria. Questo è molto importante perché significa che, a parità di altri elementi, l’introduzione di una patrimoniale, anche sotto ipotesi molto ottimistiche, farebbe peggiorare il saldo primario.

Ma non è tutto. Perché uno shock fiscale di queste dimensioni (stiamo parlando della crescita istantanea della pressione fiscale di 34 punti percentuali!) non può essere privo di effetti ugualmente rilevanti sulla crescita. Per esempio, il Fondo monetario internazionale ci dice che

In the case of tax-based programs, the effect of a fiscal consolidation of 1 percent of GDP on GDP is –1.3 percent after two years.

Anche qui, facciamo un’ipotesi conservativa, per tener conto delle dimensioni e della diffusione del risparmio degli italiani: supponiamo che, nei due anni successivi all’introduzione della patrimoniale (cioè 2012 e 2013), l’effetto recessivo sia pari a 0,8 punti percentuali di riduzione del Pil per ogni punto percentuale di inasprimento fiscale. Cosa succederebbe? Lo vediamo nello scenario che, alle ipotesi dei precedenti, aggiunge quella di meno crescita (M), e che per questo chiamiamo Scenario 3MTI (ogni assonanza è puramente casuale).

In pratica, già al secondo anno dopo l’introduzione della patrimoniale, il rapporto tra debito e Pil torna attorno al 95 per cento, e cresce rapidamente. La ragione è molto semplice: la patrimoniale ammazza lo sviluppo, e quel debito che esce dalla porta dell’imposta straordinaria, rientra dalla finestra della fiscalità ordinaria (che fa aggio su una base imponibile ristretta). Cioè, gli effetti recessivi della patrimoniale sono tali da pregiudicarne non dico l’efficienza, ma addirittura l’efficacia. Non prendete troppo sul serio i numeri: sono spannometrici e basati su una visione ultra-semplicistica delle cose. Prendete sul serio i trend.

L’ipotesi sottostante – che finora non ho esplicitato – è che la spesa pubblica non venga a sua volta tagliata. E’ un’ipotesi ragionevole, perché chi parla di patrimoniale lo fa proprio perché non ha alcuna intenzione di trovare risorse tagliando la spesa; ed è conservativa perché non tiene conto del fatto che, di fronte a un fenomeno recessivo di ampie proporzioni, che necessariamente implica meno investimenti e più disoccupazione, entrano in gioco gli “stabilizzatori automatici” che fanno crescere la spesa. Dunque, il “prezzo” della patrimoniale sarebbero meno crescita, meno gettito fiscale, più spesa pubblica, e in ultima analisi un biglietto di sola andata verso la ricostituzione dell’attuale rapporto tra debito e Pil.

Com’era più quella di chi nuoce agli altri procurando del danno a se stesso?

(Post basato sul mio intervento al convegno di Chicago-blog su “10 buoni motivi per dire no alla patrimoniale“)

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Il budget di Obama: perché no, e cosa dice a noi /2011/02/17/il-budget-di-obama-perche-no-e-cosa-dice-a-noi/ /2011/02/17/il-budget-di-obama-perche-no-e-cosa-dice-a-noi/#comments Thu, 17 Feb 2011 11:09:34 +0000 Oscar Giannino /?p=8385 E’ davvero forte e credibile, la proposta di budget avanzata da Obama come mano tesa verso il nuovo Congresso, in cui i repubblicani dopo il midterm controllano saldamente la Camera dei Rappresentanti. Mi piacerebbe poter dire di sì, visto che in termini di exit strategy è molto forte l’impulso che dagli Usa si propaga nel mondo, quanto a politiche fiscali e monetarie. Devo tuttavia deludere il lettore. Dal mio punto di vista la risposta è no. Per due ordini di ragioni, che non c’entrano nulla con il giudizio politico ma dipendono dai numeri. La prima ha a che vedere con la scelta tecnica che ha portato ai tanto decantati tagli annunciati di spesa. La seconda, con l’indicatore essenziale che dovrebbe essere considerato prioritario per orientare le politiche pubbliche.

La Casa Bianca concentra 400 degli annunciati 1100 miliardi di dollari di tagli alla spesa nel decennio sulla spesa discrezionale non destinata alla Difesa. Tale aggregato ammonta a circa il 13% del totale della spesa pubblica federale. Già questo basta a far capire che siamo lontanissimi da qualunque seria exit strategy rispetto al riequilibrio del bilancio. Quando il deficit pubblico annuale è intorno all11 e rotti per cento del GDP statunitense quest’anno e ci si propone di ridurlo alla metà è inutile girarci intorno, è sul 100% della spesa pubblica che occorre lavorare di accetta dove utile, e di bulino dove necessario, per recuperare credibilmente i margini di un azzeramento del deficit in pochi anni. Su questo hanno ragione i repubblicani: non solo la manovra di Obama resta per un terzo appoggiata su tasse aggiuntive, ma quando bisogna dare un’energica inversione di rotta di tale portata è inutile concentrarsi solo sugli orpelli, bisogna rivedere gli entitlements, i diritti quesiti del welfare su sanità e pensioni. Temo che sia una lezione che non vale solo per l’America, se capite di che cosa sto parlando. Per azzerare deficit di questa portata, o come nel caso italiano di invertire energicamente un debito pubblico che sta quasi al 119% del Pil,n se la politica parla di “lotta agli sprechi” vuol dire semplicemente che sta eludendo il problema. Ed è una pessima politica.

Aggiungo: poiché per 5 anni la spesa discrezionale non per la difesa verrebbe semplicemente bloccata ai livelli attuali per poi procedere ai tagli riconducendola al livello del 2008, l’Amministrazione tiene per buona la base 2010 che ha visto quell’aggregato elevarsi sino a 614 miliardi di dollari, mentre a fine dicembre i primi tagli portati dai repubblicani l’hanno ridotta per i mesi dell’esercizio provvisorio dell’anno in corso a quota 539 miliardi. La differenza proiettata nel primo quinquennio “mangia” tutti i tagli annunciati in quello successivo. Senza contare che, nella spesa non discrezionale, il budget propone ulteriori aumenti di spesa in deficit largamente sottostimati, visto che per esempio la sola spesa per investimenti trasportistici sale a 246 miliardi nel decennio, mentre per l’istruzione si dispone l’assunzione di altri 100 mila insegnanti di matematica e materie scientifiche.

Infine: mi rendo conto che sia ancora più impopolare, ma a restare sbagliato è l’indicatore principe che gli USA continuano a indicare a tutti i Paesi colpiti dalla crisi come il faro a cui ancorare le politiche. E’ la disoccupazione, dicono i consiglieri di Obama. Per questo continuano a crededre che per ogni dollaro levato al contribuente e speso per assumere qualcuno che il mercato non occuperebbe di suo se ne generi uno e mezzo, mentre restituendo un dollaro di minori tasse se ne genera meno di uno. I keynesiani sono convinti che i consumi siano il volano di tutto. Ma non è così nemmeno in un Paese in cui generano quasi il 70% del GDP come negli Usa. Sono gli investimenti, il vero indicatore primario al quale dovrebbe guardare il politico., per noi seguaci della scuola austriaca. Nelle grandi crisi si riallinea verso il basso la sovraccapacità generata da investimenti facili aiutati da tassi d’interesse troppo bassi, e la disoccupazione sale naturalmente. Ma per farla scendere fisiologicamente – non per mero effetto di droga pubblica – occorre che le imprese tornino a giudicare conveniente reinvestire. Il politico e il regolatore devono pensare a tassi d’interesse non troppo bassi e a basse tasse per incentivarli, mentre per i keynesiani vale l’opposto. Fatto sta che Obama continua ad accumulare debito pubblico a vagonate ma anche quest’anno la disoccupazione resterà sopra il 9% per le stesse previsioni della Casa Bianca. Mentre gli investimenti americani da metà del 2010 hanno smesso di riprendere parte di quei 6 punti di Pil in meno accumulati nella grande botta del 2009 – erano passati dal 17% all’11% del Gdp. Ricostuite le scorte ed esauriti gli investimenti capital intensive da sempre collegati all’espulsione della manodopera, le imprese non si fidano né dei consumi interni, né soprattutto delle tante tasse che all’enorme debito pubblico inevitabilmente si associano. Direi che anche questa, è una lezione che vale anche a casa nostra.

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