CHICAGO BLOG » sviluppo http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Che cento Srl sboccino – di Francesco Benetti /2010/11/19/che-cento-srl-sboccino-%e2%80%93-di-francesco-benetti/ /2010/11/19/che-cento-srl-sboccino-%e2%80%93-di-francesco-benetti/#comments Fri, 19 Nov 2010 17:08:19 +0000 Guest /?p=7638 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Francesco Benetti:

Negli ultimi anni, media e politica insistono sulla necessità di favorire la ricerca, l’innovazione e l’aiuto ai giovani imprenditori per fornire opportunità e far emergere quei talenti che rappresentano il carburante di una vera ripresa economica. Nonostante le dichiarazioni di intenti però, le proposte sono sostanzialmente ancora poche e spesso non sufficientemente efficaci.

SrlFacile.org è un’iniziativa nata da un’idea semplice, ed un primo passo concreto nella giusta direzione: rendere meno burocratica e più accessibile la costituzione di una società a responsabilità limitata. Un’idea che, prendendo spunto da quanto già accade nel resto d’Europa, può essere messa in pratica senza grosse ripercussioni.

L’SrL è la forma societaria più adatta per l’imprenditoria giovanile e per chi vuole fare innovazione, ma gli alti costi di costituzione, comprese le migliaia di euro necessarie per versare il capitale sociale minimo, rappresentano una barriera spesso insormontabile e repressiva dell’iniziativa imprenditoriale.0

La società a responsabilità limitata si presta ad essere usata come un organismo finanziariamente dinamico, in grado di accettare investitori e capitali esterni, seed capital e venture funding, fondamentali in alcuni campi in cui la fase di ricerca & sviluppo iniziale richiede del tempo prima di produrre risultati tangibili.

Se l’azienda è appena stata costituita, la struttura della società consente allo stesso tempo di proteggere i singoli soci e di garantire continuità all’azienda, nel caso in cui la composizione societaria dovesse mutare, come spesso accade nei primi momenti di vita di un’azienda.

L’iniziativa ha preso corpo sotto forma di petizione, con un profilo assolutamente bipartisan, in quanto il concetto di innovazione come motore dell’economia non ha colore politico. È possibile contribuire, partecipando sul sito srlfacile.org o firmando la petizione a questo link.

In Inghilterra costituire una Ltd, l’equivalente di una SrL, costa qualche centinaio di euro. In Francia il capitale sociale necessario ad aprire una società è stato ridotto simbolicamente ad 1 euro, in Germania le UG permettono di versarlo contestualmente agli utili dell’azienda, e non in anticipo. Negli Stati Uniti si può far nascere una società con poco più di 50 dollari, e spesso è possibile fare tutto via web. Non potrebbe essere così anche in Italia?

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Il pianista Bahrami: “riapriamo i commerci con l’Iran!” /2010/08/18/il-pianista-bahrami-%e2%80%9criapriamo-i-commerci-con-l%e2%80%99iran%e2%80%9d/ /2010/08/18/il-pianista-bahrami-%e2%80%9criapriamo-i-commerci-con-l%e2%80%99iran%e2%80%9d/#comments Wed, 18 Aug 2010 15:47:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=6830 Ramin Bahrami è uno dei pianisti più importanti della sua generazione, ma è anche una personalità caratteristica di questo nostro tempo, segnato da intrecci e incroci. Nato a Teheran nel 1976, a otto anni è ammesso alla Hochschule für Musik di Francoforte, ma a causa della Rivoluzione khomeinista e della crisi economica che ne deriva è presto costretto a tornare in patria. Grazie all’interessamento di un console italiano, in seguito ottiene però la possibilità di venire a Milano, dove studia con Piero Rattalino e avvia una carriera che ne ha fatto, in pochi anni, uno tra i massimi interpreti di Johann Sebastian Bach.
Bahrami ha sottolineato a più riprese come Bach, l’autore che ama più di ogni altro, sia stato un tedesco capace di assorbire insegnamenti provenienti da ovunque, e qualche giorno fa egli ha preso la parola per chiedere alle grandi nazionali occidentali di sospendere gli embarghi contro l’Iran.

Il pianista non può essere sospettato di simpatie per il regime fondamentalista: specie se si considera che suo padre, che era un ingegnere, fu imprigionato dopo l’avvento al potere degli ayatollah e poi ucciso nel 1991. Egli però ritiene che impedire i commerci tra Teheran e l’Occidente danneggi le condizioni di vita della povera gente e allontani ogni possibilità di integrazione tra l’Iran e il resto del mondo. L’embargo non rappresenta una strategia dura, ma necessaria: è invece una politica illiberale che colpisce la popolazione civile iraniana, ostacola ogni forma di integrazione economica e culturale, rafforza i regimi al potere.

Lo si è già visto a Cuba, dove dopo anni e anni di un rigoroso embargo statunitense si continua a fare i conti con la “dinastia socialista” dei Castro, che se oggi inizia a perdere colpi è solo a causa dei disastri (di ogni genere) conseguenti al collettivismo imposto all’isola caraibica.

Detto questo non so se Bahrami abbia compreso quanto le libertà del commercio capitalistico siano strettamente intrecciate con la grande civiltà musicale che egli fa rivivere quando si mette dinanzi a una tastiera; e neppure se egli abbia chiaro come la libertà degli artisti sia inscindibile dal dinamismo di una società di mercato.

Ma il suo appello di questi giorni perché si riaprano le frontiere tra Iran e Occidente coglie un punto importante ed esprime una richiesta giusta. Andrebbe ascoltato.

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Il treno dei liberali, ovvero ricchezza per tutti/Di Giancarlo Maero /2010/08/18/il-treno-dei-liberali-ovvero-ricchezza-per-tuttidi-giancarlo-maero/ /2010/08/18/il-treno-dei-liberali-ovvero-ricchezza-per-tuttidi-giancarlo-maero/#comments Wed, 18 Aug 2010 13:46:26 +0000 Guest /?p=6827 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Giancarlo Maero:

Questa estate, una sera d’agosto, chiacchierando davanti ad un bicchiere di vino bianco con un amico socialista, in una taverna del Sud, mi sento dire: la società è come un treno che ha diversi vagoni e diverse classi. Io socialista vorrei un treno con un’unica classe, nel quale i passeggeri ricevono tutti gli stessi servizi; tu liberale, vorresti mantenere il treno diviso in diverse classi, con vagoni – i primi – per ricchi, altri per meno ricchi e gli ultimi per poveri.

Non nego che lì per lì il paragone mi ha un po’ spiazzato. Tanto che me la sono cavata rispondendo che la metafora del treno non mi pareva calzante e che, comunque, i poveri, che del “treno” della metafora se ne intendono, preferiscono salire sull’ultimo vagone del primo treno – quello diviso in classi -, piuttosto che sul treno con un’unica classe, sempre che su questo treno li lascino salire. Si trattava di una risposta istintiva e nello stesso tempo empirica, basata sull’esperienza che si ricava dall’osservazione. Una risposta che, però, mi ha lasciato insoddisfatto, come, credo, non abbia convinto il mio amico socialista.

Tant’è che il giorno dopo, mentre pedalavo all’ombra di un grande bosco, ho indirizzato il mio pensiero alla ricerca di una spiegazione, di un supporto razionale, alla risposta che avevo dato. E mi sono venuti in soccorso alcuni argomenti di cui ero venuto a conoscenza in questi ultimi mesi leggendo due bei libri, che si occupano di economia, diritto, politica, genetica ed evoluzione: La politica secondo Darwin, di Paul H. Rubin e Il gene agile di Matt Ridley. Due libri veramente molto interessanti.

Si racconta che i geni del nostro antenato, simile allo scimpanzé moderno, si siano formati in un periodo di circa 1,6 milioni di anni: il Pleistocene. Negli ultimi 40.000 anni del Pleistocene i nostri antenati erano cacciatori (i maschi)-raccoglitori (le femmine). E gli scambi erano limitati (anche se ne fu l’inizio, con conseguenze ritenute molto importanti) all’interno della coppia, oltre che destinati, naturalmente, al nutrimento della prole. In questa situazione il nutrimento era fornito esclusivamente dalla natura, con alcune conseguenze: che poteva sopravvivere solamente un numero limitato di animali per ciascuna specie, che poiché il cibo era limitato erano destinate a sopravvivere le specie più forti ed all’interno di ciascuna specie gli individui più forti (la situazione di homo hominis lupus) e, soprattutto, ai nostri fini, che ciò che cacciava e raccoglieva un nostro antenato veniva sottratto ad un altro nostro antenato, che vedeva pertanto ridotte le possibilità di sopravvivenza propria e dei propri figli e, di conseguenza, dei propri geni. E non c’è, allora, da stupirsi che sia stato lentamente selezionato nel patrimonio genetico dei nostri antenati un sentimento, utile in quell’era per la sopravvivenza, di rancore nei confronti di chi cacciando e raccogliendo più cibo ne toglie la disponibilità agli altri: l’invidia. L’invidia risulta dunque un sentimento utile per la sopravvivenza; e lo stesso uso della violenza (che ai giorni nostri inizia con la coercizione), che nell’invidia ha la sua fonte, ha una giustificazione nell’esigenza di sopravvivenza che è la situazione prima di ogni cosa che vive e che come tale va soddisfatta con ogni mezzo e rispettata.

Questo, dunque, in un’economia come quella descritta, fatta da cacciatori-raccoglitori, consistente in un’attività a somma zero. In cui, per tornare al nostro treno, i posti a sedere sono contati, ed i servizi che si possono avere sono ugualmente limitati: quel che ottiene un passeggero viene necessariamente sottratto ad un altro passeggero. Ma le cose sono cambiate negli ultimi 10.000 anni (dopo il Pleistocene). Per una serie fortunata di combinazioni i nostri antenati hanno cominciato a coltivare la terra a ad allevare gli animali. Ovverosia, hanno cominciato a specializzarsi nello svolgimento di attività dirette alla produzione di beni e servizi. Ed alla specializzazione – alla divisione del lavoro – è seguito lo scambio. Infatti, in mancanza dello scambio la specializzazione nella produzione di un bene – la divisione del lavoro – non avrebbe alcun senso. E, circostanza mai sufficientemente evidenziata, è proprio la capacità di scambiare beni e servizi, capacità che si è sviluppata, non a caso, parallelamente allo sviluppo di quella parte del cervello dei nostri antenati che ci fa “intelligenti”, che distingue la nostra specie dalle altre. Infatti tutti gli animali delle altre specie sono generalisti ed autosufficienti, incapaci di praticare lo scambio, e, prima ancora, di produrre beni e servizi.

Ed a partire dalla acquisita capacità di praticare lo scambio, da questo “miracolo laico”, in conseguenza del quale è felice chi dà e chi riceve, la situazione è completamente cambiata. L’attività degli uomini ha cessato di essere una attività a somma zero per cominciare a diventare un’attività a somma positiva. Ovverosia, l’acquisizione di un bene o di un servizio da parte di un individuo è diventata motivo di ricchezza per un altro individuo, e non più sottrazione di un bene o di un servizio ad un altro individuo. La ricchezza di una persona, dipendendo essenzialmente dalla sua capacità di produrre beni e servizi che le altre persone ritengono per loro utili al punto di essere disposte ad acquistarle o, in tempi passati, a permutarle con beni da loro prodotti (ma è la stessa cosa), è diventata, ben lungi da causa oggettiva di povertà per le altre persone, occasione di ricchezza anche per queste. Il lavoro, che non consiste più nella caccia e nella raccolta di beni che ci offre la natura, ma nella produzione di beni e servizi da scambiare con altri che li ritengano utili, è in realtà l’unica attività “socialmente utile”. E, si ripete, la ricchezza di una persona, nella misura in cui è il frutto di scambi veramente liberi, non corrotti dall’inganno o dall’altrui intervento (intervento esterno a chi scambia), dall’altrui coercizione, rappresenta la vera ed unica occasione per chi è povero di migliorare la propria situazione, di passare dall’ultima classe del nostro treno alle classi dotate di migliori servizi.

Alla luce di queste riflessioni ritengo che fossero fondate sia la mia perplessità circa la correttezza del paragone, della metafora del treno, sia l’osservazione che i poveri preferiscono salire sul primo treno, quello diviso in classi. Compresa la riserva circa la stessa possibilità per i poveri di salire sul secondo treno, a posti fissi e tutti uguali: in questo treno, infatti, o i servizi sono già stati divisi fra i pochi egoisti viaggiatori, e non c’è più posto per altri, né è pensabile, a causa dell’alta imposizione fiscale, creare nuova ricchezza (metafora dei Paesi Scandinavi socialdemocratici), o non sarebbe in ogni caso conveniente salire, in quanto i passeggeri sono tutti ugualmente costretti da una minoranza di conducenti a produrre beni utili per far correre (?) il treno (metafora dei Paesi comunisti).

Peraltro la parabola del treno risulta illuminante sotto un altro aspetto. Serve a spiegare le ragioni per le quali esistono ancora molti socialisti (di destra di centro e di sinistra): immaginano le nostre società come un treno con un numero di posti a sedere limitato e con servizi limitati, ovverosia come società in cui continuano a svolgersi attività a somma zero, come nell’ultimo periodo del Pleistocene, quando i nostri antenati erano cacciatori-raccoglitori. Il treno rappresenta, infatti, bene la situazione di quel periodo, in cui i nostri antenati, cacciatori-raccoglitori, si alimentavano esclusivamente cacciando e raccogliendo quello che la natura donava; ed ogni animale o frutto cacciato, così come ogni posto sul treno o servizio usufruito da un passeggero, significava un animale o un frutto in meno, ovverosia un posto od un servizio in meno, per un altro individuo. Ma, fortunatamente, negli ultimi 10.000 anni le cose sono cambiate. Ed il treno, da luogo a posti fissi ed a servizi limitati, si è trasformato in un treno in continua espansione, con sempre nuovi vagoni e nuovi posti nella prima, nella seconda e nella terza classe; un treno sul quale si possono trovare beni e servizi sempre più numerosi e sempre nuovi, a disposizione di un numero sempre maggiore di passeggeri; un treno sul quale possono salire sempre più persone. E questo processo è destinato ad incrementarsi in proporzione anche all’aumento del numero dei ricchi, ovverosia di coloro che producono beni e servizi che gli altri considerano utili al punto di essere disposti ad acquistarli. E, naturalmente, anche i poveri, e spesso i poveri più degli altri, sono in grado di produrre beni e servizi in concorrenza o originali, tanto da migliorare sensibilmente in pochi anni la propria situazione.

Non a caso la popolazione aumenta soprattutto laddove gli scambi sono maggiormente liberi. Basti pensare ad Hong Kong, almeno prima dell’annessione con la Cina. Ma agli stessi USA.
L’illusione ottica che impedisce di vedere il treno nella sua realtà è la stessa che ha portato in passato ad indugiare sulle sofferenze e la povertà degli operai ammassati nelle periferie delle città-fabbrica inglesi, nel periodo della rivoluzione industriale al fine di indicarne in questa la causa, non vedendo, o forse, oscurando che si trattava di persone che per loro scelta avevano preferito quei sobborghi, con la speranza che portavano, alla inutilmente sperimentata terra.

Ed è la stessa che rende visibili i poveri dei sobborghi delle città USA e non i milioni di poveri che in pochi anni hanno trovato un’occupazione ed i molti poveri che nel giro di poche generazioni hanno acquistato posizioni di prestigio. Si tratta del solito vizio, di guardare il dito che indica, invece di quel che il dito indica.

Chiarito l’arcano del treno ritengo che si possa essere ottimisti e che lo stesso sentimento che alimenta l’invidia, con le distorsioni ottiche che causa e la violenza che ne consegue, sia destinato a diventare sterile; in quanto attualmente non più utile.

Occorre peraltro stare attenti e non dimenticare che la libertà, che ha nella libertà degli scambi la sua massima espressione, è un bene prezioso e non definitivamente acquisito, sempre in pericolo, almeno sino a quando ancora troppe persone vorrebbero costringerci a salire su un treno dove i posti sono contati, i servizi razionati e tutti sono uguali, esclusi loro, che guidano il treno.

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Verso la nuova Pac. Qualcosa da tenere a mente /2010/08/03/verso-la-nuova-pac-qualcosa-da-tenere-a-mente/ /2010/08/03/verso-la-nuova-pac-qualcosa-da-tenere-a-mente/#comments Tue, 03 Aug 2010 15:42:21 +0000 Giordano Masini /?p=6690 Se le parole hanno un significato, la nuova Politica Agricola Comune che dovrebbe vedere la luce nel 2013 potrebbe essere un furto. Un furto ai danni dei contribuenti, e questa non sarebbe una novità, e un furto ai danni degli agricoltori, ai quali verranno sottratte risorse nominalmente destinate a loro ma che verranno in realtà usate per tutt’altri scopi. Un furto con destrezza, a giudicare dai dibattiti che si sono tenuti in questi mesi e che vertono tutti su un unico scopo: come riuscire a dirottare ulteriori risorse dal capitolo degli “aiuti diretti” a quello degli “aiuti allo sviluppo”.

Per capirsi, gli aiuti diretti sono quelli che ogni agricoltore riceve, a prescindere da cosa coltiva. Sono, come ogni sussidio, fortemente distorsivi, specialmente per quel che riguarda i prezzi all’origine, che vengono condizionati al ribasso, e per i valori fondiari, che invece vengono sospinti in alto. Ma quantomeno rappresentano un sostegno al reddito che lascia comunque all’agricoltore la libertà di investire nella direzione che ritiene più opportuna. Gli aiuti allo sviluppo, invece, sono un’invenzione perversa risalente alle precedenti riforme, attraverso la quale la politica è tornata a intervenire pesantemente sulle scelte degli imprenditori agricoli, condizionando l’erogazione di allettanti contributi, specialmente in conto capitale, all’assunzione di precisi impegni. E non solo, perché gli aiuti allo sviluppo non vengono concessi solo alle aziende agricole: alla stessa fonte si abbeverano abbondantemente anche consorzi, trasformatori, confezionatori, e, quel che più conta, enti pubblici, dalle nostre parti soprattutto comuni e comunità montane. Servono a un po’ di tutto, dalla ristrutturazione di casali per attività agrituristiche all’installazione di pannelli fotovoltaici e funghi eolici, dalla manutenzione delle strade rurali e comunali al finanziamento di enti e istituzioni di ricerca e divulgazione scientifica e ambientale, dall’acquisto di impianti e macchinari per la costituzione di consorzi di trasformazione e confezionamento al sostegno ai mercatini rurali, spesa a km 0 e altre amenità del genere.

Tornando all’attualità, il Commissario europeo all’Agricoltura, Dacian Ciolos, ha reso noti i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, contenente le opinioni di seimila cittadini europei a proposito di agricoltura e Politica Agricola Comune. Bene, secondo questo sondaggio la tutela del paesaggio rurale, la lotta ai cambiamenti climatici e, guarda un po’, mantenere prezzi ragionevolmente bassi per i consumatori, dovrebbero essere le priorità della Pac, alla quale ovviamente tutti si dicono favorevoli. In particolare, la stragrande maggioranza degli intervistati (82%) ritiene che l’Europa debba aiutare gli agricoltori a combattere i cambiamenti climatici, dato che una simile percentuale dei medesimi si dice convinta che entro pochi anni gli agricoltori subiranno effetti devastanti dal riscaldamento globale.

Questo sondaggio sarebbe la base per costruire le fondamenta della nuova Pac, e, nella sostanza, garantire quel trasferimento di risorse dalle tasche degli agricoltori a quelle di chissacchì, o comunque per consentire a chissacchì di mettere il becco nelle scelte imprenditoriali delle aziende. Ora, facciamo attenzione: il fatto che un campione di cittadini europei (cittadini, probabilmente, in ogni senso) si dica convinto che il mondo stia per andare a fuoco, e che siano gli agricoltori a doverlo salvare dalle fiamme per loro, non significa ovviamente che le cose stiano esattamente così. Anzi, ci sono molti studi che dimostrano come l’intensificazione agricola abbia avuto effetti positivi sia, come è facilmente comprensibile, sulla distribuzione delle risorse alimentari, sia, e questo è più arduo da far intendere, anche nella gestione più razionale delle risorse del suolo (l’acqua, in primis), fino ad incidere positivamente anche sulle emissioni di gas serra. Ne abbiamo discusso su queste pagine pochi giorni fa.

Ci sono serie possibilità, quindi, che la montagna di denari pubblici che verranno utilizzati nel futuro per indurre gli agricoltori a produrre meno, a rifiutare le biotecnologie, a indirizzarsi verso sistemi produttivi a “basso impatto” e a divenire sempre meno competitivi rispetto al resto del pianeta saranno serviti solo a incidere la lapide sulla tomba dell’agricoltura del vecchio continente. E allora saremo tutti contenti, nel nome della green economy. Illustrando i risultati della ricerca Ciolos si è detto rassicurato del fatto che i cittadini europei si mostrino convinti della necessità della Pac, e ha mostrato idee chiare per il futuro:

Voglio una Pac forte,  a sostegno della diversità di tutti i suoi agricoltori e dei suoi territori, produttrice di quei beni pubblici che la società europea attende.

Beni pubblici che la società europea attende. Parole queste (molto simili a quelle già usate poco tempo fa dall’ex ministro delle Politiche Agricole e attuale presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo Paolo De Castro), che a mio avviso dovremmo tenere bene a mente.

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Milano si agita, ma manca il progetto. di Mario Unnia /2010/07/02/milano-si-agita-ma-manca-il-progetto-di-mario-unnia/ /2010/07/02/milano-si-agita-ma-manca-il-progetto-di-mario-unnia/#comments Fri, 02 Jul 2010 13:39:01 +0000 Guest /?p=6427 Riceviamo da Mario Unnia e volentieri pubblichiamo:

Un entusiasmo progettuale percorre la città dopo tanto letargo. Il Manifesto per Milano promosso dal Corriere della Sera è emblematico: all’elenco chilometrico delle adesioni seguono incontri e assemblee di cittadini che fanno richieste sproporzionate alle risorse e ai tempi necessari. C’è poco da aspettarsi da questa progettazione collettiva se non un’attivazione dell’opinione pubblica a scopo politico, in vista delle elezioni, e forse un incremento delle vendite della testata.

La voce del popolo in quanto tale ha raramente prodotto qualcosa di significativo e di valido, e d’altro canto le classi dirigenti affidabili non hanno bisogno di adunate per sapere cosa fare. E, se non bastasse, è di qualche giorno l’ultima trovata, ‘Sìamo Milano’, che vede riuniti creativi, artisti, intellettuali, o pseudo tali.

In questo clima si sono mossi anche i Radicali con l’iniziativa dei cinque referendum per la qualità dell’ambiente e della vita a Milano. Rispetto all’attivismo velleitario del Manifesto la proposta è migliore sotto il profilo metodologico. Ma purtroppo il referendum consultivo di indirizzo, previsto nello statuto del Comune di Milano, è ben poca cosa. Il Comune entro 60 giorni dall’esito deve dire se è d’accordo e provvedere (i tempi e i modi li sceglie lui, naturalmente), se non è d’accordo deve spiegare il perché. Dunque anche questo strumento di attivazione popolare può dare origine a infiniti dibattiti prima e dopo la consultazione, ma come tutte le modalità di democrazia diretta può favorire una decisione del governo,  però senza vincolarla.

Piuttosto, domandiamoci quale profilo di città evocano i cinque quesiti – mobilità sostenibile, non cementificazione delle aere Expo, riapertura dei Navigli, alberi e verde pubblico, energia pulita. La domanda non è peregrina, e rinvia ad una ricerca fatta dall’associazione ‘Primato Milano’ e presentata nel settembre 2005 in vista delle elezioni comunali. Si trattò di una consultazione tramite questionario scritto di esponenti qualificati della comunità professionale di Milano: l’argomento era duplice, il profilo di metropoli che si immaginava a dieci anni, nel 2016, e di conseguenza il profilo del candidato Sindaco che ne poteva essere il coerente attuatore. I rispondenti furono 230, pari al 53% dei contattati.

Tralascio il profilo del candidato e vengo al profilo della città. Se ne delinearono tre, e ne trascrivo una sintesi dal rapporto finale

Fast Town, la città che compete (indice di convergenza 56%)
Una città con vocazione competitiva, europea, cosmopolita. Centrata sull’ intreccio tra nuova industria e finanza, comprende le attività di ricerca, progettazione, formazione, servizi, e l’apparato terziario, costituito da finanza, borsa, headquarters, authorities. I business portanti sono moda, design, salute, media, università, e il terziario finanziario privato, banche, assicurazioni, fondi e sim. La città privilegia un governo programmatorio e un elevato efficientismo pubblico. Le città di riferimento, citate per la nuova industria, sono Barcellona, Lione, Francoforte, Monaco, e, per la finanza, Londra, Francoforte, Zurigo. Francoforte sembra riflettere l’intreccio “nuova industria e finanza” indicato dagli intervistati.

È tuttavia il modello di città non è esente da contraddizioni. Infatti, è una città mono-dimensionale che rischia di non vedere o addirittura di contrapporsi alle esigenze, ai valori, alle culture, alle etnie diverse o emergenti. È una città che può subire i meccanismi degenerativi della competizione. Da ultimo, è una città più interessata al lavoro che alla qualità della vita. L’impegno nel raggiungimento degli obiettivi economici può mettere in secondo piano il valore della socialità.

Slow Town, la città che vuole la qualità della vita (indice di convergenza 35%)
È un modello di città ‘alternativo’. È una città che auspica e persegue una diversa qualità della vita, valorizza il patrimonio storico-culturale anche come fonte di business, è orientata all’estetica, alle comunità che la costituiscono, al ‘punto di vista del cittadino medio’. È sensibile alle culture e agli stili di vita diversi ed emergenti, al volontariato, in parte alternativa alla tradizione milanese. Lo sviluppo è affidato prioritariamente alle attività culturali ed educative, al turismo, all’entertainment, al non profit. La città privilegia un governo concertativo e caratterizzato dai processi corali/assembleari di gestione del pubblico. Le città citate per la bellezza, il comfort e la qualità della vita sono Ginevra, Amburgo e Copenaghen.

Ma si porta dietro anch’essa alcune rilevanti contraddizioni. Innanzitutto non ha chiaro il profilo di una classe dirigente adatta al suo progetto e privilegia una governance fondata sul metodo della concertazione che comporta eccessive lentezze decisionali. Tende, poi, a non affrontare il problema del come promuovere nuove e adeguate  fonti di ricchezza. E, da ultimo, rischia una diaspora ed uno spezzettamento dei valori.

Hard Town, la città che funziona (Indice di convergenza: 9%)
È sostanzialmente una città austera. Ricerca una fase di assestamento, dopo le stagioni dello sviluppo e della crisi, ed è orientata alla manutenzione migliorativa della situazione esistente. L’obiettivo del buon funzionamento della città prevale sulla volontà competitiva. L’opzione minimalista è suggerita da un realismo conformista. L’equilibrio attuale tra attività e servizi non è soddisfacente, ma non va stravolto, bensì  migliorato. La città privilegia l’efficientismo di una classe dirigente burocratica. Le città di riferimento sono Barcellona e Monaco (evidentemente per ragioni diverse da quelle che sono un riferimento obbligato per la Fast Town) e Stoccolma.
Anche questo modello di città non è esente da contraddizioni. Si tratta, infatti, di un modello di città sostanzialmente anonima, che tende ad essere utilizzata dai cittadini come un bene strumentale e non mostra forti aperture culturali verso il nuovo e il diverso. Di più: è una città che si considera ‘fredda’ ai valori del business, non supporta prioritariamente l’attività imprenditoriale.

E veniamo alle conclusioni. Il lettore può divertirsi a confrontare, a distanza di cinque anni, la Milano di oggi con i tre profili individuati allora dalla ricerca, e scegliere quello che più si avvicina alla realtà odierna. Può anche essere un esercizio utile.

Tornando al documento,  è certamente datato, ma mantiene una sua validità. Innanzitutto ricorda che occorre individuare, attraverso opportuni sondaggi, non una lista di singoli problemi pratici, che sono ben noti a tutti, bensì ‘visioni’ o ‘profili’ della città di Milano. Ciò che manca nel dibattito popolare del Manifesto per Milano e anche nei referendum dei Radicali. I cinque referendum riguardano appunto singoli problemi pratici, ma non delineano un profilo coerente che si richiami, ad esempio, alla Slow Town.

Inoltre ricorda che è velleitario pensare ad una città che ‘armonizzi’ i tre profili indicati: ne risulterebbe un compromesso, e Milano è segnata da una serie di falliti compromessi. Gli alberi in piazza del Duomo o davanti al Cenacolo sono l’ultimo delirio compromissorio. La vocazione della città non può che essere una, preminente, e questa ne definisce la specificità.

Infine, un avvertimento: ogni modello di città richiede una classe dirigente funzionale alla sua vocazione. La scelta della classe dirigente ad hoc presuppone idee chiare nella cittadinanza: ma non sono i Manifesti  né i referendum di basso profilo quello che aiuta i cittadini alla scelta migliore.

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Le aperture agli Ogm evidenziano le contraddizioni della Pac /2010/03/04/le-aperture-agli-ogm-evidenziano-le-contraddizioni-della-pac/ /2010/03/04/le-aperture-agli-ogm-evidenziano-le-contraddizioni-della-pac/#comments Thu, 04 Mar 2010 08:33:16 +0000 Giordano Masini /?p=5306 Prima c’è stata la sentenza del Consiglio di Stato che ha ammesso la coltivazione delle varietà geneticamente modificate iscritte al catalogo comune europeo, poi la notizia dell’iscrizione allo stesso catalogo di una varietà di patata destinata all’uso non alimentare. A giudicare dalla canea di reazioni suscitate da entrambe le notizie potremmo pensare di essere alla vigilia di una vera e propria rivoluzione del settore agroalimentare. In realtà sono solo timidi passi che non scardinano i presupposti su cui si basa la Politica Agricola Comune, ma che ne evidenziano ulteriormente le contraddizioni.

In realtà l’unica varietà Gm della quale è consentita la coltivazione in Europa è il mais BT Monsanto, a cui oggi si aggiunge la patata della Basf. In paragone a ciò che succede nel resto del mondo, dove un agricoltore è libero di scegliere tra tutte le varietà Gm presenti sul mercato, è ben poca cosa, e chi in Europa (tralasciando per un momento il caso disperato dell’Italia) volesse vedere riconosciuto il suo diritto equivalente a poter coltivare grano o pomodori Gm deve aspettare il via libera di Bruxelles.
L’Unione Europea si arroga il diritto, assai poco naturale, di stabilire ciò che è giusto o meno produrre, attraverso divieti (come nel caso degli Ogm, ma anche per quelle produzioni vincolate a “quote”, come vino e latte), oppure attraverso incentivi e sussidi legati in larga parte a vincoli sulle modalità produttive, come il sostegno all’agricoltura biologica o l’enorme quantità di stanziamenti che attraverso i fondi strutturali e i Piani di Sviluppo Rurale delle regioni finanziano le produzioni “di qualità”.
Sono in molti ad avvantaggiarsi di questa situazione: l’industria agroalimentare, che in un mercato drogato dai sussidi si trova spesso a comprare materie prime a prezzo di costo, e la rappresentanza politica e sindacale, che svolge il ruolo (ormai istituzionalizzato) di intermediazione tra agricoltori ed enti erogatori. C’è un bel vantaggio anche per la rendita fondiaria, dato che terreni che rendono poco sul mercato rendono però sussidi e contributi, e continuano ad avere quindi un valore elevato.
Gli agricoltori invece grazie alla Pac sopravvivono, ma rinunciano, in cambio della sussistenza, a sviluppare le loro aziende in libertà. E il costo dell’agricoltura sussidiata, vincolata e certificata ricade quasi per intero sulle spalle dei contribuenti.

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Le zone franche mignon /2009/10/27/le-zone-franche-mignon/ /2009/10/27/le-zone-franche-mignon/#comments Tue, 27 Oct 2009 14:38:16 +0000 Piercamillo Falasca /?p=3464 Catania, Gela, Erice (Sicilia), Crotone, Rossano e Lamezia Terme (Calabria), Matera (Basilicata), Taranto, Lecce, Andria (Puglia), Napoli, Torre Annunziata e Mondragone (Campania), Campobasso (Molise), Cagliari, Iglesias e Quartu Sant’Elena (Sardegna), Velletri e Sora (Lazio), Pescara (Abruzzo), Massa Carrara (Toscana), Ventimiglia (Liguria).
Tutti in doppiopetto, una firma, un lungo applauso ed un brindisi. Mercoledì prossimo i sindaci di questi 22 comuni firmeranno, alla presenza di Scajola e di Berlusconi, un protocollo con il Ministero dello Sviluppo Economico per l’istituzione di altrettante zone franche urbane.

Si legge in una nota del Ministero: “L’iniziativa, che si inserisce nell’ambito del piano straordinario del Governo per il Sud, è volta a rilanciare quartieri caratterizzati da degrado socio-economico stimolando la nascita di piccole e microimprese attraverso esenzioni fiscali e previdenziali per vari anni, favorendo così la formazione di migliaia di posti di lavoro”.

Tralasciamo anzitutto ogni considerazione sul degrado socio-economico di due città meridionali come Massa Carrara e Ventimiglia – peraltro situate nelle province di provenienza di due dei coordinatori nazionali del Pdl e dello stesso ministro dello Sviluppo Economico -  e veniamo al merito.
Per i 22 comuni, è prevista una dotazione complessiva di 50 milioni di euro all’anno, cioè poco più di due milioni di euro a testa. Non saranno soldi da spendere, ma risorse con le quali verrà coperta una parziale detassazione e decontribuzione delle imprese che opereranno sul territorio.
Detto in altri termini: in 22 comuni italiani, di cui 20 al Sud, le imprese pagheranno ognuna qualche centinaio di euro di tasse in meno. Come si produrranno, con questi bruscolini, i migliaia di posti di lavoro di cui parla la nota del Ministero non è dato sapersi.

Il benaltrismo non c’è mai piaciuto e non avremmo avuto nulla da obiettare – anzi, avremmo applaudito – se fossero state istituite vere zone franche a tassazione zero. Avremmo applaudito anche se fosse stata istituita una sola zona autenticamente franca. Ma di fronte ad una mancia di qualche centinaia di euro per impresa, non c’è molto da esultare.

Sostituire i sussidi alle imprese meridionali con politiche di detassazione è auspicabile, affinché si metta la parola fine alla logica dell’assistenzialismo e s’inizi a premiare chi sa fare meglio impresa, ma le misure simboliche servono a poco. Come un disco rotto, noi rilanciamo l’istituzione della No Tax Region per il Mezzogiorno.

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I biocarburanti hanno causato i rincari dei prodotti alimentari? – di Elisabetta Macioce /2009/06/26/i-biocarburanti-hanno-causato-i-rincari-dei-prodotti-alimentari-%e2%80%93-di-elisabetta-macioce/ /2009/06/26/i-biocarburanti-hanno-causato-i-rincari-dei-prodotti-alimentari-%e2%80%93-di-elisabetta-macioce/#comments Fri, 26 Jun 2009 07:39:40 +0000 Guest /?p=1146 Riceviamo da Elisabetta Macioce e volentieri pubblichiamo.

I biocarburanti sono la causa dell’aumento dei prezzi alimentari?
Per poter rispondere a questa domanda analizziamo per primi i prezzi dei feedstock negli ultimi anni. Secondo la FAO l’indice dei prezzi alimentari è cresciuto dell’8% nel 2006 rispetto al 2005, del 24% nel 2007 rispetto al 2006, raggiungendo una crescita percentuale massima (+53%) nel primo trimestre 2008 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Tali aumenti venivano spiegati soprattutto, per il 75%,  con l’aumento della domanda di feedstock e la maggiore allocazione delle colture destinate alla produzione di biocarburanti.
Nel passato gli aumenti dei prezzi erano passeggeri, provocati da una scarsità temporanea. Dopo un raccolto povero gli agricoltori si affrettavano ad approfittare degli alti prezzi di un  prodotto per piantarne di più, così contribuivano ad abbassarne nuovamente il prezzo. Questa volta invece, i prezzi si sono mantenuti alti per tre anni di seguito anche in presenza di un raccolto buono come quello del 2007. Questo perché qualcosa è cambiato anche nei meccanismi del mercato. Il trend rialzista non era limitato ad un settore, ma li ha coinvolti tutti, i futures sulle commodities sono stati sempre in crescita. Possiamo dire che il mercato dei cereali è stato coinvolto dalla speculazione proprio come è accaduto per quello del petrolio, nonostante in questo caso ci sono concause rilevanti. Dopo i forti rialzi dei prezzi che nel mese di giugno 2008 hanno colpito il mais e, di riflesso, i frumenti, nel mese di luglio l’andamento delle quotazioni sui principali mercati internazionali si è contraddistinto per un trend a ribasso. Con l’esplosione della crisi finanziaria, l’inversione di tendenza è stata radicale e nel primo quadrimestre di quest’anno i prezzi dei cerali hanno registrato una riduzione del 46%, tornado ai livelli del 2006.
Lo stesso vale per il mercato delle oleaginose che  dopo i prezzi record raggiunti all’inizio del mese di agosto, ha fatto registrare un calo progressivo delle quotazioni e degli scambi, poiché sono state riviste al rialzo le stime produttive di Argentina, Brasile e Stati Uniti.
Queste riduzioni dimostrano che gli andamenti dei prezzi dei feedstock per produrre biocarburanti seguono la legge della domanda e dell’offerta ma non creano una distorsione del mercato come era stato ipotizzato da diversi organismi internazionali. Anche perché nell’ultimo anno la produzione dei biocarburanti è stata ed è in crescita contrariamente ai prezzi dei feedstock. Inoltre non si può pensare ad una riduzione dei consumi di cereali e dei suoi derivati ad uso alimentare, nonostante il periodo di crisi, perché in tutti gli strati della popolazione non si andranno a ridurre i consumi di quegli alimenti che comunque sono i più economici e che costituiscono l’alimentazione di base delle fasce più povere.
Senza dimenticare poi, che nel caso dei rincari del pane, della pasta e degli alimentare in genere verificatisi lo scorso anno, l’aumento delle materie prime è stato solo un fattore, che per altro ha un peso piuttosto ridotto rispetto a tutti gli altri costi (7- 14%), molto più rilevante è  stato l’aumento dei costi dell’energia e dei trasporti.
Quindi sembra plausibile l’ipotesi secondo cui su questa altalena dei prezzi abbiano influito in parte l’uso di cereali per produrre biocarburanti e per una parte molto più consistente la speculazione finanziaria. Ad oggi con i biocarburanti di seconda generazione, prodotti da materie prime non alimentari e con scarso impatto sull’utilizzo del fattore terra, e le nuove ricerche, le esternalità negative da questi prodotti potrebbero diminuire.
In Brasile, la produzione di canna da zucchero ha raggiunto una efficienza tale da renderlo competitivo con i carburanti fossili e viene abitualmente utilizzato miscelato con i carburanti tradizionali al 70%.
Mentre in diversi paesi equatoriali, l’uso della jatropha  per produrre agrocarburanti potrebbe far scrivere una nuova pagina di storia. Essendo una pianta velenosa, non può essere mangiata, cresce senza particolari cure e non ha bisogno di molta acqua, nel suo habitat naturale ha rese per ettaro molto elevate,  l’estrazione dell’olio ( 30 -35% del frutto) è piuttosto semplice e può essere usato anche grezzo dei motori meno sofisticati (trattori). Se gli studi tuttora in atto confermassero questi primi dati, terreni inutilizzati come i deserti potrebbero essere messi a coltura per produrre biomassa e si eviterebbe il disboscamento di aree verdi incontaminate.

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Consigli americani, errori europei /2009/06/01/consigli-americani-errori-europei/ /2009/06/01/consigli-americani-errori-europei/#comments Mon, 01 Jun 2009 11:56:29 +0000 Carlo Stagnaro /?p=780 Anche Martin Feldstein si schiera contro il capo & trade. L’argomento dell’economista americano è essenzialmente che qualunque sforzo unilaterale americano (o, se è per questo, euro-americano) di riduzione delle emissioni avrebbe un impatto ambientale, cioè un beneficio potenziale, estremamente piccolo, perché comunque le emissioni globali crescerebbero trainate dalle economie emergenti. Esattamente il contrario, quindi, di quanto ha sostenuto un paio di settimane fa Paul Krugman, che ha favoleggiato di possibili accordi globali che gli stessi paesi interessati (Cina e India in primis) hanno esplicitamente escluso. L’altro aspetto evidenziato da Feldstein è ancor più interessante: in pratica, il consigliere di Barack Obama sottolinea che la condizione politica necessaria ad avere uno schema di cap & trade sarebbe quello di distribuire gratuitamente i permessi di emissione, anziché venderli all’asta e utilizzare i proventi per ridurre le tasse o simili. Di fatto si tratta pure della scelta compiuta finora dall’Europa e, per la maggior parte dei settori tranne quello elettrico e a crescere alcuni altri, lo stesso varrà dal 2013 al 2020. Speriamo che le parole di Feldstein trovino una sponda alla Casa Bianca. E magari che anche a Bruxelles ci pensino un po’ su prima che la frittata sia fatta del tutto.

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