CHICAGO BLOG » Stato http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Il sadismo del debito pubblico — di Ernesto Felli /2010/11/17/il-sadismo-del-debito-pubblico-%e2%80%94-di-ernesto-felli/ /2010/11/17/il-sadismo-del-debito-pubblico-%e2%80%94-di-ernesto-felli/#comments Wed, 17 Nov 2010 09:25:16 +0000 Guest /?p=7627 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Ernesto Felli:

Ci mancava solo il conta-debito-pubblico di IBL e Chicagoboys. Quelli di IBL e Chicago-blog non solo sono mercatisti, antistatalisti e teapartisti. Sono pure sadici, perfidi e un pochettino diabolici. Spiattellarci in tempo reale le tredici cifre, in continua espansione, del debito pubblico italiano è appunto una manifestazione di cattiveria e mancanza di pietas.

Gli economisti di professione come me, e tutti gli addetti ai lavori, conoscono la dimensione del debito pubblico italiano, ma preferiscono esprimerla in percentuale del pil, o, se proprio sono costretti ai valori assoluti, si aiutano con le aggregazioni. In questo caso con i trilioni, che è un termine che esiste nella lingua italiana ma che nessuno è abituato ad usare. Il debito pubblico italiano è pari a (circa) 1,8 trilioni di euro. Detto così fa meno impressione, sono solo due cifre. E, senza il contatore di IBL, si fa persino fatica a concettualizzare un trilione – di certo appare meno minaccioso di mille miliardi. 1,8 trilioni.

Vuoi mettere con le tredici cifre spiattellate sul blog, che uno non riesce nemmeno a compitare. Ti metti paura, cominci a sudare freddo, ti prende il panico. Ce n’era proprio bisogno? Non viviamo già a sufficienza nell’incertezza? Però, ogni buona pedagogia è intrisa di un po’ di sadismo. E perciò, dopo la paura, il sudore e il panico, comincia inevitabilmente la riflessione. E riflettere su questo spaventoso fardello è necessario. Forse anche utile. A patto che non ci si faccia prendere dallo scoraggiamento. Perché una possibile risposta all’oppressione che si impadronisce di noi di fronte ad un fardello simile, è il rigetto. Nel caso specifico, il ripudio. Il ripudio del debito pubblico. Che, come si sa, è uno dei possibili modi per risolvere la faccenda.

Che c’entriamo noi con questo debito? Non potremmo semplicemente sbarazzarcene e ricominciare da capo, stando più attenti questa volta? Eh già, ma come la mettiamo con i creditori? Alcuni dei quali (molti) stanno tra di noi, sono i risparmiatori italiani. Né loro, né tutti gli altri stranieri che hanno sottoscritto fiduciosi i titoli del debito pubblico italiano, la prenderebbero bene, ovviamente. Non la prenderebbero bene nemmeno i famosi mercati. E l’Italia, che già non se la passa bene a causa di questo fardello, sarebbe duramente punita.

Dunque, ripudiare il debito non si può.

E allora? Cosa facciamo?

Tutte le possibili soluzioni hanno in comune un elemento. La riduzione della dimensione dello stato. Questa è la medicina. E non è indolore. Ma è l’unica, e si dà il caso che sia anche giusta. Perché è anche il modo attraverso il quale l’economia italiana potrebbe tornare a crescere.

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Spiare la preda, di Gerardo Coco /2010/06/13/spiare-la-preda-di-gerardo-coco/ /2010/06/13/spiare-la-preda-di-gerardo-coco/#comments Sun, 13 Jun 2010 17:50:53 +0000 Guest /?p=6267 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gerardo Coco:

Si sono salvate banche, si sono salvati settori industriali. Ora si dovranno salvare gli Stati. Come si salveranno le economie? Si crede ancora che i governi possano riuscirci? Pensare questo significherebbe ammettere che i virus possano migliorare la salute umana.

Che i governi fossero dei parassiti lo si è sempre saputo. L’economia privata è la condizione della loro esistenza e il loro compito è inaridire questa forma permanente di ricchezza.

Adam Smith così si esprime sul governo:

“I paesi non sono mai impoveriti dalla cattiva gestione dei privati, mentre lo sono da quella dei governi. La totalità o quasi del reddito pubblico è impiegata nella maggior parte per mantenere il lavoro improduttivo. Quando questo aumenta in modo eccessivo, può consumare una quota così grande del prodotto nazionale da non lasciarne abbastanza per il mantenimento del lavoro produttivo che dovrebbe riprodurla…. consumare una parte così rilevante del reddito totale costringendo un numero così grande di persone ad intaccare i loro capitali è una violenta e forzata usurpazione”. (A. Smith, La ricchezza delle nazioni).

Tuttavia, scrive Smith, se

“le grandi spese del governo hanno senza dubbio ritardato il naturale cammino dei paesi verso la ricchezza e il progresso, esse non hanno però potuto arrestarlo.” (ibid.)

Ma ai tempi del grande economista e filosofo scozzese il debito (tutto lavoro improduttivo) del mondo civilizzato non viaggiava verso il 100% del reddito prodotto con la conseguenza di arrestarne il progresso. I titoli del debito pubblici che misurano l’entità di questo immane spreco hanno trasformato gli Stati stessi in subprime, ormai maturi per l’esplosione.

Nel Global Financial Stability Report dello scorso aprile, l’IMF scriveva chiaramente che “il rischio governo” è la minaccia per l’economia globale. I governi, osservava l’IMF, (carrozzone peraltro fallimentare ma bravo a scrivere rapporti) non solo si sono caricati di debiti inesigibili di istituzioni private, contratti con la complicità degli stessi governi, ma essendo questi ultimi malati di elefantiasi hanno la necessità di continuare ad indebitarsi per i prossimi anni. La situazione, concludeva candidamente l’ IMF, “potrebbe andare fuori controllo”…

Ma è già da decenni che è fuori controllo! Ora siamo alla resa dei conti.

I tagli di spesa, le misure, le manovre, le riforme annunciate e sbandierate per mantenere il controllo dei debiti, per lo sviluppo, sono solo specchietti per cacciare le allodole cioè per ingannare gli ingenui con lusinghe e prospettive di ripresa a patto che tutti si sacrifichino. Ma tutti già si stanno sacrificando, sono già stati sacrificati, hanno perso il lavoro, chi lo ha perso non lo ritroverà perché in condizioni di crisi e incertezza nessuno investe e interi settori industriali sono all’agonia.  Se fosse il governo ad “investire” aumenterebbe ancora di più il debito il che equivarrebbe a sparare sul paziente. Per ridurre l’esposizione in termini reali, i prodotti nazionali dovrebbero crescere molto più velocemente dei debiti per pagare quote capitale, interessi, e ammortizzare tutta la spazzatura che i governi hanno in pancia. Ma rebus sic stantibus, questo è impossibile.

Poiché la necessità di fondi illimitati costituisce la chiave di volta della politica economica degli stati assoluti occidentali, per risanare i debiti si applicherà il metodo di sempre: tassare.

Per cui, dopo aver devastato le economie, la loro mano avida si ficcherà in ogni angolo e fenditura della società ghermendo le spoglie dei cittadini. I governi stanno preparando nuove invenzioni e pretesti di tassazione e sorveglieranno la formazione del capitale e dei redditi come la loro preda. Infatti, i governi, da parassiti si sono trasformati in predatori che uccidono la preda allo scopo di cibarsene. D’ora in poi, il loro motto sarà “sorvegliare e punire” come dal titolo di un famoso saggio di Michel Focault sulla prigionia. I governi si sono appropriati dell’economia e i cittadini sono dei condannati, condannati a stipendiare un’amministrazione di burocrati e funzionari rapaci che non hanno eletto e che non vogliono, come accadeva una volta nei governi asiatici che li sottomettevano ad una confisca sistematica. Possedere ricchezze o essere sospettato di possederle comporterà il rischio non soltanto di vedersele portate via ma anche di subire maltrattamenti, vessazioni, galera.

L’obiettivo dei governi è stanare gli evasori. Ma, onestamente come si fa a condannarli se la morale è questa:

i contribuenti che subiscono danni devono pagare tasse inique agli stessi autori dei danni perché possano continuare indisturbati a farne altri. È davvero una morale depravata quella di voler far pagare le tasse non per erogare servizi utili ma per riparare ai guasti di una dissipazione e corruzione senza fine e freni.

Ma, si ripete, se le tasse le pagassero tutti, tutti pagherebbero meno tasse. Illusorio! Perché questo extra, prima o poi servirebbe a finanziare altra spesa pubblica e altra dissipazione. E’ una legge: Il costo della amministrazione statale cresce inesorabilmente sia nei governi di destra che di sinistra, indipendentemente da situazioni di sviluppo o recessione. Il costo ha una traiettoria incrementale. Si può eliminare un partito, un’intera classe politica ma mai di intere nomenclature amministrative predatorie. Alla fine i cittadini arriveranno ad accontentarsi del necessario per la sussistenza poiché avere di più significherebbe attrarre il predatore. Non è peregrina ormai l’ipotesi che gli Stati diventino i datori di lavoro di ultima istanza guidati da governi totalitari. Non si chieda pertanto protezione da parte del governo, ma la si chieda, con impegno civico, contro il governo.

Al diavolo quindi le nauseanti chiacchiere sulle riforme strutturali, sui chimerici pacchetti di rilancio, sugli incentivi, sulla stabilità (leggi: ristagno), sulle ridicole architetture e ingegnerie finanziare proposte con un’ insopportabile idioma da economisti da cattedra che, cercando di coprire la vergogna di un fallimento reale, mascherano con astuzie truffaldine (del tipo: tassare le cose e non le persone…) nuovi artigli per afferrare le “prede”.

C’è un’unica vera riforma da attuare: tagliare drasticamente le tasse sui capitali e sui redditi senza se e senza ma. Sono i capitali ad anticipare salari e stipendi, investimenti, a creare la domanda di lavoro e aumentarne la produttività. Tassare i capitali significa tassare i risparmi, scoraggiarne la formazione e diminuire la domanda di lavoro e l’occupazione. Sono capitale e profitti a consentire l’innovazione, a creare nuovi prodotti elevando gli standard di vita.

Tassare capitale e profitti significa non solo diminuire la domanda di lavoro ma equivale a tassare direttamente e indirettamente i lavoratori dipendenti ed indipendenti produttivi, cioè coloro che non solo reintegrano il valore del proprio consumo, ossia il capitale che li impiega, ma avanzano un surplus per mantenere l’amministrazione predatoria improduttiva che, non riproducendo un valore uguale al proprio consumo, deve essere mantenuta dalla produzione annua dei lavoratori produttivi.

Tagliare le tasse su capitali e profitti significa, invece, permettere alla piccola impresa di diventare media, e alla media di diventare grande, liberando le energie creative della società. Questo è lo sviluppo economico. Minimizzare il carico fiscale ai capitali ne arresterebbe la fuga e ne attirerebbe di nuovi rendendo i paesi più ricchi, aumentando, in ultima analisi, il “fondo” a disposizione per tutte le imposte e quindi il gettito complessivo. Non esisterebbe la caccia all’evasione e i capitali si accumulerebbero spontaneamente se i paesi non ne facessero oggetto di confisca ma ne riconoscessero il ruolo di motore di sviluppo. È il processo di accumulazione di capitale la chiave della prosperità e che ha permesso duecento anni fa la rivoluzione industriale. È il processo di accumulazione che ha permesso nel dopoguerra la rinascita delle economie e la cosiddetta rivoluzione del marketing, il pluralismo dei consumi, gli stili di vita, lo sviluppo della tecnologia, le infinite gamme di prodotti e tutto il benessere materiale e psicologico che ne è derivato. O si pensa forse che tutto questo lo abbiano creato i governi con spese pubbliche, deficit e indebitamenti?

È il processo di accumulazione che ha permesso ad una moltitudine di diseredati come i cinesi di trasformarsi in potenza economica, nel giro di una sola generazione. E questo, paradossalmente, è anche merito dei paesi occidentali che gli hanno fornito il capitale necessario allo sviluppo che nelle loro patrie di origine viene invece penalizzato.
Obiezione: bisogna colpire le rendite speculative, cioè tutti i proventi patrimoniali e dagli investimenti borsistici perché parassitari. Ma parassitari nei confronti di chi o cosa? Le rendite costituiscono risparmio e capitale e se si considera l’economia, schematicamente, come composta da due fondi, il “fondo capitale” ed il “fondo consumo”, il primo, al fine di alimentare il secondo, deve essere continuamente ricostituito dal risparmio altrimenti si imbocca la strada del sottosviluppo. Le famigerate rendite fanno parte del risparmio complessivo di un paese, che va automaticamente ad alimentare il suo fondo capitale, cioè direttamente o indirettamente attraverso la borsa, l’universo delle imprese che sono le istituzioni che creano e mantengono l’occupazione. Una tassazione punitiva non le ridistribuirebbe a favore della produzione ma a beneficio del predatore. È la rendita perpetua degli governi, garantita dagli iniqui regimi impositivi, ad essere parassitaria perché consuma il fondo capitale altrui senza ricostruirlo.

La riforma per la liberazione dal fisco predatore non avverrà mai per iniziativa di questi governi ed il loro apparato repressivo continuerà nella sistematica opera di spoliazione dei paesi.

Venite pure avanti predatori! Fatevi sotto avvolti! Ma ricordatevi che non durerete a lungo perché, come dice un vecchio detto anglosassone non puoi divorare la preda e dopo averla ancora.

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Chi è più corruttore, lo Stato o l’evasore? /2010/06/07/chi-e-piu-corruttore-lo-stato-o-l%e2%80%99evasore/ /2010/06/07/chi-e-piu-corruttore-lo-stato-o-l%e2%80%99evasore/#comments Mon, 07 Jun 2010 14:44:20 +0000 Oscar Giannino /?p=6218 Chi è più corruttore, lo Stato o l’evasore? Per me lo Stato. E poiché è un giudizio tagliente, abbisogna di considerazioni adeguate, per non sembrare provocazione o difesa di illegalità. Il punto è che lo Stato, in Italia, è l’illegalità.

Non c’è peggior vizio di quello che si traveste da virtù. Nel campo della morale politica, un terreno assai scivoloso che quasi sempre viene evocato dagli attori dell’azione pubblica per far guadagnare consensi alle proprie posizioni  con battute a effetto, non c’è luogo comunque più efficace che invocare “l’interesse collettivo” o l’”interesse generale”, a seconda che il predicatore sia di reminiscenze socialiste oppure un democratico radicale giacobin-roussoiano.  In entrambi i casi, l’esperienza pluridecennale mi ha insegnato a diffidare. Mi esaltavo a sentir parlare di interesse generale, quando ero giovane. Dopo un bel pezzo di tempo passato a toccar con mano e studiare ciò che in Italia in concreto si realizza, con la scusa dell’interesse generale, mi si rizzano subito le antenne quando sento le magiche parolette.

Inizio con un po’ di filosofia spicciola, perché la peggior colpa della politica non è affatto, con credono i più, quella di perseguire interessi, bensì proprio di aver abbandonato la filosofia. Più gli interessi rappresentati e perseguiti in politica sono manifesti, meglio è per tutti. Quando evocando gli  “interessi generali” si tende a dire che una cosa o l’altra è nell’interesse di tutti, l’assenza di filosofia rende la politica incapace di alcuna dialettica. E dunque si finisce dritti nella deontologia: per cui chi si oppone sta con le le forze del male. E’, anzi, il male.

Nell’Italia di oggi, il ritornello quotidiano è quello contro i famigerati evasori fiscali. I nemici della Repubblica intesa come quella d’Italia, non  quell’altra di Largo Fochetti che ogni giorno tende a sussumere la rappresentanza etica della prima. Chiunque non imbracci la tonante scomunica verso gli evasori è sospetto come gli untori nella Milano della peste. Con mio stupore, anche il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, nelle sue considerazioni annuali una settimana fa, ha imbracciato il fucile. “Sono gli evasori, i veri responsabili della macelleria sociale”, ha detto, evocando un’altra formuletta che mi fa accapponare, col suo carico di sangue rappreso da vocabolario barricadiero, più che da banchiere. Mi è bastato criticare duramente lo sciopero dei magistrati – che hanno in automatismo nell’Italia di oggi progressioni di carriera, di retribuzione superiori a quelli dei prefetti – per veder apparire sul mio Chicago-blog una bella reprimenda di signori procuratori che duramente mi incalzavano chiedendo quanto mai guadagnassi e quante tasse pagassi io, visto che osavo criticare loro. Tra la partita IVA e le due società, il 66% del reddito lordo sarà quest’anno, ho risposto. Che ne dite: può bastare, per allontanare da me il sospetto di parlare per fatto personale?

Diciamola fuori dai denti, allora, senza paura di essere considerati politicamente scorretti. Molti cittadini sono in buona fede, quando ripetono a voce spiegata che i signori evasori sono il male del secolo italiano, perché se non ci fossero loro non avremmo il debito pubblico al 118% di Pil né il deficit pubblico annuale, visto che con 100 o 120 miliardi di entrate in più – la stima corrente del mancato gettito da evasione – saremmo oggi in surplus. Ma una classe dirigente seria no, non può dirlo in buona fede. A meno di tre casi. Il primo è che condivida in realtà l’effetto vero che dispiega lo Stato oggi nella società italiana. Il secondo è che ritenga tale effetto un problema secondario, rispetto al fatto che prima tutti devono ottemperare, e solo dopo aver diritto di giudicare ciò che lo Stato è davvero. Il terzo è che in ogni caso lo Stato viene prima, rispetto alla persona.

Parto dal confutare la terza posizione, perché è appunto quella filosofica. Per ogni liberale personalista (idem se per fede è un cristiano e un cattolico), c’è un assunto invalicabile, quello che nella geometria euclidea si definirebbe un postulato. La persona con i suoi diritti naturali – vita, libertà, proprietà  – che spettano inviolabilmente in quanto persona e non in quanto garantiti da un qualsivoglia ordinamento, viene prima dello Stato. Di ogni Stato, e di qualunque statuizione del suo diritto positivo.

Intendiamoci bene: ribadire questa primazia della persona e dei suoi diritti naturali sullo Stato non significa affatto desumerne che ciascuno può comportarsi come crede, rispetto agli obblighi di legge. Compresi quelli fiscali, naturalmente. Significa solo che tre secoli di Stato moderno, dai tempi della Glorious Revolution e di Hobbes e Locke, e poi della Rivoluzione francese e di Stati etici rossi e neri nel sanguinoso Novecento, ci hanno insegnato il dovere a stare sempre sul chi vive, di fronte a ogni pretesa di “interesse generale” avanzata e affermata dallo Stato. E a sempre, quotidianamente e incessantemente,  porci il problema, se per caso i diritti inviolabili della persona non ne risultino coartati, calpestati e denegati.

Se e per chi vale questo postulato,  prendiamo infine la questione dell’evasione per le corna, entriamo nel merito. Alla domanda: chi è più corruttore, nell’Italia di oggi? Gli evasori? Oppure lo Stato? La mia risposta è netta: lo Stato. Non dipende affatto, tale opinione, dalla diffidenza verso lo Stato annessa al postulato numero uno di cu sopra. Dipende da una fatturale e concreta analisi di che cosa in concreto lo Stato faccia, oggi, nella società italiana, coi 53 punti di PIL destinati nel 2009 in spesa pubblica, e i suoi 47 punti di Pil di entrate fiscali tributarie, contributive, e a titolo diverso.

I 25 punti di Pil che vanno in sanità, assistenza e istruzione, disegnano di fronte a noi la seguente realtà. Una sanità gravata da pesantissime intromissioni politiche e partitiche, vastissime inefficienze sui costi a fronte della impari qualità offerta sul territorio, ritardi intollerabili – fino ad anni interi – nei pagamenti ai fornitori. Se la commissione per il federalismo fiscale adotterà come standard il livello costi-efficienza della regione Lombardia, si risparmierebbero 18 miliardi su 125 del fondo sanitario nazionale. Se invece si adotterà come standard quello della media di quattro Regioni, Veneto Emilia e Toscana oltre alla Lombardia per non imporre rientri energici a Lazio e Sud dove si concentra il problema, ecco che i risparmi e le maggiori efficienze si ridurranno a 2,4 miliardi. E il federalismo fiscale, a quel punto, sarà presa pei fondelli dopo 20 anni di polemiche.

Quanto all’istruzione, a furia di privilegiare gli insegnanti da assumere sulla qualità del servizio, e a furia di incentrare sulla scuola di Stato invece che sulla libera scelta delle famiglie l’allocazione delle risorse per premiare la migliore offerta formativa, il quadro è quello che ci vede perdenti in tutte le graduatorie internazionali.  Nel welfare, l’ipertutela ai lavori dipendenti a tempo determinato taglia fuori giovani e donne, e ha imposto un doppio status dal quale non si esce con meno flessibilità ma con tutele nella flessibilità a chi non le ha, con meno privilegi a chi troppi ne ha goduto. La famiglia e la fecondità sono i nemici pubblici numeri uno del fisco e del welfare italiano: dovunque in Europa, con sistemi diversi, esse sono scoraggiate assai meno che in Italia., e ne va appunto dei diritti naturali di persone e famiglie, oltre che della sostenibilità dei conti intergenerazionali del nostro Paese. Idem dicasi del 16% di Pil speso in pensioni, con generazioni a venire per le quali il tasso di sostituzione dei nuovi trattamenti sarà anche di 20 punti inferiore a quello delle generazioni precedenti, senza che il fisco senta la necessità di premiare energicamente forme aggiuntive di impiego del risparmio a questo fine. Degli 11 punti di Pil spesi in stipendi ai pubblici dipendenti, voglio solo dire che da anni sono tutti d’accordo sulla bassa produttività delle logiche gestionali di una pubblica amministrazione che ci impone le posizioni più arretrate in ogni graduatoria internazionale, sui tempi delle procedure, licenze, gare e concessioni, come su sprechi e inefficienze dalle 600mila e oltre auto blu, agli emolumenti insopporabilmente elevati dei 250mila politici di professione.

Non è un caso e tanto meno frutto di deficienza antropologica dei loro cittadini, che il più dell’evasione fiscale, sull’IVA come sui redditi personali e d’impresa come sui contributi previdenziali, secondo ogni serio studio nazionale  e internazionale, si annidi in 6 Regioni italiane del Sud, a cominciare da Calabria e Basilicata, Puglia, Campania e Sicilia. Sono le aree del Paese in cui politica e Stato hanno avuto la pretesa in 65 anni di esercitare il massimo dell’intermediazione discrezionale dei redditi locali, attraverso trasferimenti diretti alle persone e alle imprese a fondo perduto, con la scusa dello sviluppo e del gap da sanare che è rimasto invece totalmente insanato, mentre la Germania in 20 anni risolveva i due terzi delle disparità di reddito procapite tra Est e Ovest. Il risultato è sotto i nostro occhi. Sono lo Stato e la politica, a Sud, con  loro logiche di patronnage clientelare, intromissivo e discrezionale,ad aver radicato il male dell’illegalità diffusa.

Per tutto questo penso, dico e ribadisco che in Italia oggi la corruzione è lo Stato, non gli italiani. La lezione di decine di Paesi, avanzati e in via di sviluppo, è che dovunque uno Stato sia meno intrusivo ed esoso, dovunque l’adesione spontanea dei cittadini all’ordinamento, alle leggi e alle tasse, migliora e si innalza. Chiunque dica che sono gli italiani a doversi vergognare, chiunque ripete la balla che le tasse sono alte perché ci sono gli evasori – un falso assoluto, se gli evasori pagassero le tasse non scenderebbero, salirebbe solo la pressione fiscale che da noi ha sempre inseguito la spesa pubblica crescente decisa dalla politica, per sfamare se stessa e i  suoi apparati – chiunque divida gli italiani in una costante guerra civile tra redditi dipendenti soggetti alla tasse ed autonomi e professionisti invece evasori certi e conclamati, chiunque faccia questo, se appartiene alla classe dirigente consapevole dei numeri italiani, non può essere che in malafede. Sognare ancora più Stato dimenticando che da noi sarebbe solo più corruttore e inefficiente. Oppure, semplicemente, ha paura di chi esercita il potere protempore, e preferisce scomunicare gli evasori invece dei politici.

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Ferrovie: la nazionalizzazione inglese e l’illusione política dell’efficienza /2009/11/30/ferrovie-la-nazionalizzazione-inglese-e-l%e2%80%99illusione-politica-dell%e2%80%99efficienza/ /2009/11/30/ferrovie-la-nazionalizzazione-inglese-e-l%e2%80%99illusione-politica-dell%e2%80%99efficienza/#comments Mon, 30 Nov 2009 16:32:22 +0000 Andrea Giuricin /?p=4008 Tra circa due settimane, il 13 dicembre, una parte delle ferrovie britanniche passerà in mano allo Stato. Questa rinazionalizzazione è un grosso passo indietro ed è dettata dalle difficolta economiche dell’operatore East Coast Railways. Il sistema di trasporto ferroviario britannico è stato privatizzato a metà degli anni ’90 e dopo un periodo di difficoltà si è rivelato essere il più efficiente in Europa, tanto da diventare un punto di riferimento anche nell’Unione Europea.

In un primo momento la privatizzazione della rete aveva provocato un sottoinvestimento dei privati e, in seguito a dei gravi incidenti ferroviari, la rete era tornata ad essere gestita dallo Stato. Le compagnie ferroviarie continuano ad essere invece in concorrenza e il livello di competizione è estremamente elevato. Questo sistema è attualmente il più sicuro, secondo i dati Eurostat è quello più efficiente da un punto di vista dei costi operativi.

La Francia, che pur ha investito 3 volte tanto nel trasporto ferroviario, ha avuto uno sviluppo inferiore a quello inglese.

Spesso si confondono i prezzi dei biglietti con i costi ed infatti una delle maggiori critiche al sistema britannico è che i biglietti sono cari. Tuttavia in Gran Bretagna i ricavi dai biglietti coprono l’85 per cento dei costi, mentre solo il 15 per cento del servizio è sussidiato dallo Stato. In Italia i biglietti costano meno, ma il 70 per cento del servizio ferroviario è pagato dalla tassazione generale.

La nazionalizzazione è stata seguita dal plauso dei sindacati britannici, che vedono questa manovra del Governo inglese con favore.

Il Ministro dei Trasporti inglese ha affermato che la nazionalizzazione porterà solo benefici ai consumatori con il miglioramento dei servizi. Questo potrebbe anche essere vero, ma quel che è certo che i costi di tale operazione saranno molto elevati per i contribuenti britannici. E’ interessante vedere come la politica parla di benefici, ma non parli mai dei costi necessari per avere dei benefici.

Il Governo inglese vuole gestire per due anni direttamente le linee ferroviarie per poi rivenderle ai privati. Questo intervento statale diretto è l’ennesimo passo indietro che si compie con la “scusa” della crisi.

Quel che è certo è che lo Stato imprenditore in Gran Bretagna, nel settore ferroviario, non solo aveva provocato una caduta del numero di passeggeri chilometri, ma si era rivelato estremamente inefficiente.

Il Governo laburista ha inoltre approvato l’alta velocità verso la Scozia, con un notevole costo per i contribuenti britannici. Questa scelta politica va contro ogni legge economica.

In Gran Bretagna lo sviluppo del trasporto aereo ha reso inutile lo sviluppo dell’alta velocità, che molto probabilmente sarà un ottimo metodo di redistribuzione per dare ai “ricchi”, che si potranno permettere l’alta velocità, togliendo ai “poveri”(contribuenti) che utilizzano le compagnie low cost. Infatti il progetto AV inglese non è finanziato da investitori privati, ma dalle casse statali.

Questa scelta mostra quanto la politica, per raggiungere obiettivi propri (evitare licenziamenti dovuti alla ristrutturazione della compagnia ferroviaria in difficoltà), prenda decisioni inefficienti. La gestione pubblica della compagnia ferroviaria costerà ai contribuenti britannici centinaia di milioni di sterline.

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Fenomenologia dello statalismo /2009/11/23/fenomenologia-dello-statalismo/ /2009/11/23/fenomenologia-dello-statalismo/#comments Mon, 23 Nov 2009 11:09:27 +0000 Ugo Arrigo /?p=3882 L’espansionismo dello stato nella sfera economica si sviluppa per stadi successivi:
1. Il primo stadio è lo stato che redistribuisce il reddito.
2. Il secondo stadio è lo stato che eroga direttamente prestazioni specifiche di welfare.
3. Il terzo stadio è lo stato che produce direttamente i servizi oggetto di erogazione pubblica.
4. Il quarto stadio è lo stato che, in assenza di una burocrazia pubblica forte e indipendente dalla politica e di una politica dagli alti obiettivi, permette l’appropriazione da parte di interessi privati delle risorse produttive destinate alle finalità di cui allo stadio 3, o comunque la loro distrazione dalle finalità originarie, generando in tal modo una razionale (dal punto di vista dello specifico sistema) inefficienza produttiva e allocativa. Si realizza in tal modo il minimo del mercato col massimo della ‘privatizzazione’.
Sino al terzo stadio possiamo trovarci in una socialdemocrazia nordeuropea ma per arrivare al quarto è necessario scendere in Italia.

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Chi riduce le tasse? /2009/10/25/chi-riduce-le-tasse/ /2009/10/25/chi-riduce-le-tasse/#comments Sun, 25 Oct 2009 22:12:11 +0000 Ugo Arrigo /?p=3441 Per ridurre le tasse bisogna ridurre lo stato. Per ridurre lo stato bisogna ridurre la politica.
Chi può ridurre la politica per ridurre lo stato e per ridurre le tasse? I politici, ovviamente.
Lo faranno? Ovviamente no.

P.S.: Spero di sbagliarmi ma il caso dell’abolizione (mancata) delle province è una cartina al tornasole.

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Tasse, libertà e populismo mediatico /2009/10/21/tasse-liberta-e-populismo-mediatico/ /2009/10/21/tasse-liberta-e-populismo-mediatico/#comments Wed, 21 Oct 2009 14:41:16 +0000 Oscar Giannino /?p=3388 Caveat preventivo: attualmente campo anche grazie a una collaborazione a tempo con il gruppo Sole 24 ore, per La versione di Oscar dalle 9 alle 10 dal lunedì al venerdì sull’emittente radiofonica confindustriale. Detto questo, vorrei invitarvi a riflettere su un esempio che considero di cattiva informazione, sul delicato tema delle tasse, della presunta evasione, dei diritti dei contribuenti e dei limiti ai quali, in un ordinamento che si pretende liberale, bisogna ottenere che lo Stato si attenga. Il fatto che ciò avvenga sul quotidiano di Confindustria rende la cosa, ai miei occhi, ancora più significativa. E, se mi si può perdonare l’aggettivo, almeno dal “nostro punto di vista”: più grave. “L’avvocato gratis all’evasore? Lo garantisce lo Stato”, recita oggi il titolo a cinque colonne del taglio basso in prima del Sole.  un titolo che evoca inequivocabilmente un paradosso bruciante: sarebbe lo Stato a farsi amico e cooperante degli evasori, proprio mentre dichiara di volerli mettere nel mirino in Italia e nei paradisi fiscali. ”Beffa in Cassazione”, recita l’occhiello. Sarebbe dunque la Suprema Corte, rea di concedere la mano benevola dello Stato ai perfidi evasori. Perché mi permetto di dire che si tratta di un esempio di populismo mediatico? Perché la vicenda concreta è tutt’altra. Non c’è nessuna beffa. Se a cavalcare l’onda della demagogia antievasiva è il quotidiano di Confindustria, vuol dire che non c’è speranza.  Che cosa hanno deciso di tanto scandaloso, i giudici della Cassazione? Cerchiamo di capirlo.

La premessa è che, nel nostro ordinamento, per effetto dell’articolo 91 del testo unico sulle spese di giustizia – Dpr 115/02 – i reati di evasione fiscale sono indicati tra quelli per i quali, in caso di procedimento che li contesti, viene esclusa la possibilità di ammettere l’imputato ai benefici del gratuito patrocinio, previsto dalla legge 217 del 1990 per i non abbienti. Piccolo inciso: per un liberale questa esclusione rappresenta una violazione del diritto naturale e costituzionale. Del diritto naturale perché le garanzie procedurali – penali, civili e amministrative- ex art. 2 della Costituzione devono essere intese a tutelare l’individuo da ogni eventualità di eccesso di potere dello Stato nei confronti dell’indagato e dell’imputato, non come strumenti a tutela dello Stato rispetto alla persona. In termini costituzionali, ne va del principio di eguaglianza ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione, e dei diritti giurisdizionali ai sensi dell’articolo 111. Faccio questo inciso perché dal mio punto di vista, se fossi un giudice chiamato ad applicare l’esclusione del gratuito patrocinio in un procedimento in cui si contestano reati di evasione fiscale a un imputato, solleverei eccezione sulla norma davanti alla Corte costituzionale. Fino a sentenza in giudicato, infatti, l’imputato deve potersi difendere dalle accuse – anche di evasione fiscale, ci mancherebbe – su piede paritario con tutti gli altri cittadini a cui si contestino reati diversi, se non abbienti. Così non avviene, nel nostro ordinamento. Il che la dice lunga sullo status di “delitto ostile alla civiltà” di cui ha finito per godere il reato fiscale, nella legislazione e nella giurisprudenza italiana, per meglio soddisfare le fameliche esigenze dello Stato assetato di entrate.

Tuttavia, naturalmente, poiché questo prescrivono le leggi vigenti, finché non fossero modificate si tratta di applicarle per quanto dispongono.  Vi ha contravvenuto, la Corte di Cassazione che desta tanto scandalo al Sole?  No. Neanche per idea.  Il Sole ricorda infatti che già in passato, con giurisprudenza che il quotidiano confindustriale considera censurabile, la Suprema Corte aveva riammesso ai benefici del gratuito patrocinio imputati di reati diversi dall’evasione che tuttavia, in passato, fossero incorsi in condanne per evasione fiscale passate in giudicato.  Decisione giustissima, quella della Corte, visto che la condanna in un procedimento, con esclusione prevista di beneficio in quel procedimento stesso, non può e non deve riverberarsi in una gogna a vita e in una minor tutela in processo per altri fatti. Ma ora la Corte di Cassazione  ha fatto di più. In un procedimento davanti al Tribunale di Potenza, il GIP competente aveva escluso dal gratuito patrocinio un imputato al quale si contestavano reati diversi da quelli di evasione, e al quale l’evasione era stato appioppato come reato indotto e collegato, per via degli accertamenti conseguenti alle fattispecie primarie per il quale era stato aperto il fascicolo dal pm. L’imputato, tuttavia, nel richiedere il gratuito patrocinio, l’aveva riservato ai reati primari contestati diversi dall’evasione, non l’aveva chiesto per l’evasione stessa. Si era attenuto alla legge. Ora la Corte di Cassazione, con sentenza 40589, ha revocato l’ingiusta decisione del GIP di Potenza.

Dal punto di vista del diritto costituzionale e di quello positivo, la Suprema Corte si attiene alle norme vigenti e correttamente – per una volta, verrebbe voglia di dire – interpreta le garanzie come dovute alla parte più debole del processo, cioè all’imputato, rispetto al prepotere statuale.  Lo scandalo vero non sta nella decisione della Corte. Ma nel fatto che il giornale degli industriali invochi procedure illiberali a sostegno della demagogia imperante, in materia di fisco.

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Il posto fisso è orrendo. Ma non è in primo luogo un confronto tra Eraclito e Parmenide… /2009/10/20/il-posto-fisso-e-orrendo-ma-non-e-in-primo-luogo-un-confronto-tra-eraclito-e-parmenide/ /2009/10/20/il-posto-fisso-e-orrendo-ma-non-e-in-primo-luogo-un-confronto-tra-eraclito-e-parmenide/#comments Tue, 20 Oct 2009 10:47:54 +0000 Carlo Lottieri /?p=3370 La minuscola pattuglia dei liberisti (che nel clima culturale in cui viviamo pare ormai quasi pronta a suicidi a ripetizione, sul modello dei dipendenti della France Telecom) ha giustamente reagito inorridita dinanzi all’ennesima esternazione del ministro Giulio Tremonti, ormai uso a farsi più comunista dei comunisti, e solo per tagliare l’erba sotto i piedi dell’opposizione o di ciò che ne  resta. E molti miei amici difensori del mercato hanno reagito sottolineando in primo luogo – l’hanno fatto Oscar GianninoPiercamillo Falasca su questo blog, e quest’ultimo anche intervistato dal Foglio, ad esempio, e pure Alberto Mingardi intervistato sul Giornale da Vittorio Macioce o Carlo Stagnaro su Libero e sul Foglio, e altri ancora – come la vita sia dinamismo e cambiamento, come una società aperta implichi anche e soprattutto mobilità sociale, e infine come sia antistorico e infine del tutto “novecentesco” – per usare espressioni impiegate da Renato Brunetta – questo tentativo di rigettare l’aleatorietà e l’incertezza che caratterizzano ogni società.

Sono argomenti che sottoscrivo interamente, e che mostrano quanto la mentalità comune e lo statalismo intellettuale siano in rivolta contro la vita stessa e la sua complessità. Tutti i dibattiti degli ultimi decenni sul “principio di precauzione” e sull’idea di un’esistenza senza rischi (e quindi, ma questo pochi lo capiscono, senza opportunità) rinviano a schemi difensivi: il welfare State ha prodotto una società chiusa, pessimista, che teme ogni novità perché è persuasa che sarà quasi certamente di segno negativo.

Tutto questo è giusto, ma forse non tocca la questione centrale. Perché in fondo, se non si pretende di costruire su ciò una filosofia politica e una teoria della giustizia che incarichi lo Stato di ingessarci tutti, si può anche prediligere l’Essere al Divenire. Io vivo in una città in cui un anziano professore di filosofia teoretica è fermamente persuaso che nulla muti, mai, e che in realtà la sola idea che qualcosa appaia e scompaia è una fatale manifestazione di nichilismo. Essere parmenidei potrà anche essere bizzarro e certamente espone a molteplici critiche di natura filosofica, ma è del tutto legittimo. A qualcuno piace il movimento, ad altri la stasi: punto e a capo.

La questione del posto fisso è però un’altra, perché l’idea del nostro ministro è che chi oggi ha un posto debba mantenerlo indipendentemente dal fatto che quel posto sia accompagnato ad un servizio. In un mercato libero, un’azienda che avesse deciso di produrre floppy disk o qualche altro prodotto ora uscito di mercato si troverebbe ora di fronte a un bivio: chiudere o fare altro. In un mercato libero, i posti permangono nel tempo se sono “produttivi”, cioè se sono associati a un lavoro che altre persone apprezzano e gradiscono. Sopravvivono se sono “sociali”. Se rispondono a domande e quindi ad esigenze altrui.

Il tremontismo non è tanto una teoria della stasi o della conservazione, e neppure una semplice preferenza (in fondo anch’essa legittima) per i bei tempi andati (le stufe a legna, la famiglia patriarcale, le case senza televisione ma con la toilette all’aperto, e via rammentando), ma semmai è una teoria del parassitismo. È una concezione intimamente violenta dei rapporti sociali, in cui chi ha conquistato una posizione – quale essa sia – pretende di detenerla a scapito degli altri: usando la cogenza della forza pubblica e della redistribuzione economica per sottrarre “valore-lavoro” – usiamo un vocabolo che sta nel linguaggio marxiano: chissà che qualcuno capisca – ad altre persone. (Sulla questione del parassitismo politico si veda questa bella lezione di Alessandro Vitale tenuta di recente a Torino per il Cidas.)

Non è allora questione di stabilità vs. movimento, perché va anche detto che ci sono buone cose anche nella stabilità: purché essa non sia il risultato di procedure aggressive. In linea di massima, gli imprenditori temono moltissimo – ad esempio – la mobilità dei loro dipendenti, perché se uno di loro se ne va, con lui si perde anche un insieme di conoscenze e garanzie. Si deve selezionare e assumere un nuovo dipendente, formarlo, aspettare che cresca. Gli imprenditori che amano la stabilità, però, non possono pretendere di incatenare il dipendente alla propria azienda: sul libero mercato questo non può avvenire.

Nel suo populismo, invece, Tremonti propone qualcosa di simile. Se volesse davvero realizzare la propria utopia statocentrica, dovrebbe costringere chiunque a lavorare perpetuamente per la collettività, affinché chi ha solo un posto, e non svolge alcun servizio al prossimo, rimanga dove è ora. E certo a poco gli servono psicologismi e sociologismi per mascherare la vera natura delle sue tesi.

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La dialettica distinzione tra conservative e libertarian /2009/10/16/la-dialettica-distinzione-tra-conservative-e-libertarian/ /2009/10/16/la-dialettica-distinzione-tra-conservative-e-libertarian/#comments Fri, 16 Oct 2009 19:02:55 +0000 Oscar Giannino /?p=3331 Non siamo i soli, a discutere e confrontarci sull’ipotesi “realismo” rispetto a quella “avversione”, in materia di Stato e governo da una parte e individui e mercati dall’altra. A noi è capitato oggi sulla Banca per il Mezzogiorno, ma in termini aristotelici l’argomento concreto è l’accidente, mentre la sostanza è un’altra. E’ l’equilibrio non troppo stabile tra l’anteporre la libertà dell’individuo e delle sue aggregazioni d’indole e interesse - sulle diverse issues della vita sociale attraverso associazioni e corpi intermedi, come nell’impresa attraverso i contratti - e l’osservanza invece al contempo dovuta alle statuizioni dell’ordinamento pubblico, dello Stato come di ogni sua altra espressione.

Questo secondo ambito ne comprende e abbraccia inevitabilmente un sottoinsieme logico, che identifica modalità, fini ma anche limiti della partecipazione – individuale e collettiva – al processo di formazione e modificazione della volontà politica, fino alla sua traduzione nelle codificazioni normative di ogni livello, nonché nell’applicazione e interpretazione della norma stessa, funzione che è divenuta sempre più centrale in ogni ordinamento - non solo in quelli di common law in cui è sempre stato naturale,  ma in ragione della complessità mutevole  ed evolutiva delle fattispecie anche nei sistemi di diritto codificato (la lunga lotta tra Berlusconi e l’ordine giudiziario italiano ricade in pieno in tale categoria più generale). L’individualista libertario e il liberal-moderato , o anche, e da quegli distinto, il liberal-conservatore, che credono entrambi questi ultimi comunque nello Stato, vivono tra loro in un rapporto dialettico che a volte è destinato a diventare anche polemico. Potrei citare tantissime pagine “classiche”, sul tema, di autori che fanno parte della nostra bibioteca di elezione.  Scelgo invece dai blog odierni a noi più vicini. In particolare questo post di Arnold Kling su EconLog.  Mi riconosco senz’altro nell’aurea conclusione.

On the issue of respect for authority, I would like to see people respect rules and norms of the groups and organizations with which they interact. I think that respect for a governmental judicial system is a good thing. However, I will go no farther than that. The state is not divine. My opinion is that the state historically derives from gangs of thugs demanding protection money from settled farmers and herders. It has evolved to be less overtly gangsterish in some respects. However, its evolution has not been entirely positive. The government has become a prime status prize for which individuals and groups contend. The results of this status contest for most ordinary individuals are decidedly mixed.  

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Il falso problema del Pil: creatività keynesista /2009/09/14/il-falso-problema-del-pil-creativita-keynesista/ /2009/09/14/il-falso-problema-del-pil-creativita-keynesista/#comments Mon, 14 Sep 2009 19:04:13 +0000 Oscar Giannino /?p=2705 Oggi mi trovo d’accordo con Joe Stglitz quando dice che tra banca e finanza stiamo messi quasi peggio di un anno fa, visto che considerando gli asset attuali di Bank of America e Citigroup c’è da farsi venire i brividi, e non serve la crescita in Borsa propulsa dalla FED a farseli passare. Disaccordo pieno invece per la solita solfa anti-Pil, rilanciata da Stiglitz insieme a Fitoussi, Amartya Sen, e la pomposa commissione per la miglior misurazione del progresso socio-economica istituita da quella delusione crescente e permanente che si è rivelato sin qui il presidente Sarkozy (taglio delle imposte alle imprese escluso, naturalmente). Da anni e anni, i keynesisti predicano che il Pil è roba superata, troppo quantitativa, insopportabilmente premiante gli Stati Uniti e i Paesi mercatisti, mentre invece a contare dovrebbero essere indicatori di armonia e benessere sociale, minor dispersione dei redditi, tutela ambientale, trattamento dei malati e via almanaccando. Naturalmente, l’Europa finirebbe in testa o quasi, ragionando così. Perché il PIB – il prodotto interno di benessere – inevitabilmente alzerebbe la media di chi ha più Stato nell’economia. Da liberista, faccio presente che anche nel PIL attuale tanto odiato lo Stato è purtroppo iperpremiato, visto che più sono  numerosi i dipendenti pubblici e più sono pagati, più il PIL nominalmente cresce, anche se tutto ciò si risolve quasi sempre in crowding out del risparmio privato e nell’abbassamento generale di produttività. Ma di qui ad adottare un criterio per il quale spesa pubblica=civiltà, posso solo sperare che la comunità degli statistici resista con la forza e le barricate.

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