CHICAGO BLOG » statalismo http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Perché da noi si mistificano i Tea Parties /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/ /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/#comments Tue, 09 Nov 2010 15:55:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7534 Ancora una volta, negli Stati Uniti il pendolo elettorale si è potentemente spostato. E ancora una volta lo ha fatto in una maniera che in Italia e nel più dell’Europa continentale risulta incomprensibile. Ve ne fornisco una modesta riprova.

Ho condotto un’indagine registrando sul mio pc 276 articoli dell’intero spettro della stampa quotidiana nazionale e locale italiana dal manifesto a Libero e comprese 15 testate locali più importanti, articoli dedicati alla presentazione delle elezioni di midterm nella settimana che ha preceduto le consultazioni, e oltre 350 nei tre giorni successivi, a commento del risultato. In queste elezioni la grande novità è rappresentata dalla storia e dalla posizione dei Tea Parties, che hanno invertito la polarità come il Contratto con l’America di Newt Gingrich fu la base del lunghi anni di Congresso repubblicano, da metà mandato di Clinton fino alla rivincita democratica sotto Bush figlio. Ebbene, su un totale di oltre 600 articoli, circa 480 davano conto dei Tea Parties come una rete potentemente sostenuta dalle grandi corporations, pressoché agli ordini o quanto meno astutamente strumentalizzata da Karl Rove – il mago della mobilitazione repubblicana sotto Bush padre e figlio – nonché come un movimento in cui abbondavano pazzi e spostati, razzisti del Sud armati fino ai denti, antiabortisti visionari e ballisti predicatori di castità come Christine O’Donnel, che ha finito per perdere disastrosamente in Delaware. Dettagliate e più corrette – a mio giudizio, naturalmente, non ho alcuna pretesa di parlare a nome di presunte “verità” – ricostruzioni dei Tea Parties come movimento che nasce si diffonde localmente, come protesta spontanea dal basso innanzitutto contro le politiche stataliste e salvabanche seguite da Bush figlio ben prima ancora che Obama vincesse le elezioni, prima del voto sono state offerte ai lettori italiani a malapena in una cinquantina di articoli, meno cioè del 10%.

Solo all’indomani del voto, la percentuale di analisi meno estreme dedicate ai Tea Parties si è leggermente equilibrata, soprattutto grazie a vittorie di personaggi di spicco come Marc Rubio in Florida, comunque descritto come politico di lungo corso abile nel cavalcare la protesta ma estraneo alla vera natura del movimento. Gli accenti già mutavano quando si passava alla descrizione di Rand Paul, il giovane oftalmologo vittorioso grazie soprattutto al fatto di essere figlio di Ron Paul, figura di riferimento dell’elettorato libertario pronto anche a candidarsi come indipendente nella gara per le ultime presidenziali, con proposte che in Europa lo fanno passare come matto quali l’abolizione della FED e il ritorno in sua vece al regime del gold standard. Tra parentesi, nella nuova Camera dei Rappresentanti a nettissima maggioranza repubblicana è proprio Ron Paul, il candidato senior repubblicano numero uno alla carica di presidente del sottocomitato alla politica monetaria che è l’interfaccia parlamentare al quale la FED di Bernanke risponde direttamente, visto che nell’ordinamento americano l’autonomia e l’indipendenza del regolatore monetario non lo sottrae a uno stretto regime di audizioni parlamentari, nelle quali i congressmen passano al setaccio le decisioni e gli orientamenti della banca centrale.

Commentando il voto nel mio appuntamento quotidiano con gli ascoltatori di Radio24, ho chiesto esplicitamente al direttore della Stampa, Mario Calabresi, che sul suo giornale insieme al Foglio di Giuliano Ferrara a mio personalissimo giudizio ha dato le informazioni più estese e corrette sui Tea Parties, se non pesasse un pregiudizio tutto italiano e per molti versi europeo, nel leggere i fenomeni spontanei della società americana attraverso lenti deformanti e spesso addirittura caricaturali. Mi ha risposto di sì, che anche nella sua esperienza di corrispondente dagli USA aveva spesso toccato con mano che questo pregiudizio c’è eccome.

Non è questione di malafede, o di voler artatamente leggere la politica americana con l’occhio italiano ed europeo, che è abituato a considerare i partiti politici come unici veri attori della politica e, di solito, con una forza o un polo a maggioranza moderato-cristiano alla quale si oppone un grande partito o un’alleanza progressista-socialista. Un doppio binario che negli States è fuorviante: perché lì la mobilitazione dal basso indipendentemente dai partiti è costitutiva dell’idea stessa dell’Unione, il socialismo non c’è mai stato, e l’impronta religiosa e cristiana vive e influenza pesantemente entrambe le basi e le dirigenze sia democratiche sia repubblicane, con accenti diversi ma a volte assolutamente trasversali su temi come l’aborto, la bioetica e la ricerca sulle cellule staminali.

C’è qualcosa di più profondo ancora del vizio politologico. E’ un difetto culturale, quello che tanto spesso ci impedisce di capire l’America profonda. Perché siamo pronti a comprendere l’America liberal, quella delle élite accademiche, mediatiche e e degli affari della costa orientale come californiana che da sempre costituiscono il bastione del pensiero progressista americano, favorevole all’intervento pubblico e alle politiche redistribuzioniste, alla forte impronta statalista nella sanità come nel campo ambientale. Sono quelle èlite, sommate a un forte scontento per la guerra in Iraq e in Afghanistan, che nel 2008 si mobilitarono per una riuscitissima campagna dal basso e di raccolta fondi online che risultò decisiva per la vittoria del primo presidente nero contro l’accoppiata McCain-Palin. Una vittoria della quale il primo fattore era l’elevata partecipazione al voto, perché tradizionalmente più si alza l’afflusso alle urne dei ceti a basso reddito, migliori diventano le chances dei democratici.

Ma come siamo tradizionalmente propensi ad avvertire l’impegno delle èlite progressiste americane come qualcosa di familiare a quanto avviene nella politica europea, restiamo invece diffidenti e incapaci di capire una mobilitazione dal basso che non passa affatto dalle élite e che anzi le contesta apertamente, a cominciare dal campo conservatore e da quelle del partito repubblicano. E’ esattamente questo il segno originale dei Tea Parties, che in tutti i sondaggi di cui i lettori italiani hanno letto poco o nulla hanno visto impegnati in maniera crescente elettori che si dichiaravano indipendenti fino a percentuali del 40%, meno lontani dai repubblicani ma comunque per un 16-17% dei casi dichiaratamente ex elettori democratici e non solo alle presidenziali per Obama, ma tradizionalmente al Congresso o per governatori dello Stato.

Che cos’è, allora, a impedirci di capire l’anelito libertario prima che liberista che viene espresso questa volta dai Tea Parties, ma che è una componente permanente e ricorrente dell’impegno civile americano fuori dai partiti e dalla lobbies, siano delle grandi banche che da decenni si sono “comprate” il regolatore USA odelle grande compagnie di ogni genere e settore, dal petrolio agli armamenti, dall’auto a Internet? Essenzialmente tre cose, tre valori, tre princìpi che sono fondanti per decine di milioni di americani nella loro vita quotidiana, prima ancora di ogni giudizio politico sull’amministrazione temporaneamente in carica. I tre princìpi riguardano la proprietà, la libertà e l’eguaglianza. Per moltissimi americani, queste tre parole hanno e manterranno un significato profondamente diverso da come suonano ormai a noi italiani ed europei.

Per noi, la libertà non è più minacciata da alcuna tirannide, e la proprietà privata costituisce non più un bene da affermare come diritto naturale pre esistente a qualuqnue pretesa dell’ordinamento positivo, dello Srato e della politica. La proprietà privata ormai da tempo, nel nostro Paese e nella generalità dell’Europa continentale e scandinava, è anzi un limite sempre più pesante al perseguimento dell’eguaglianza. Per milioni di americani al contrario, anche tra coloro a bassissimo reddito e con le qualifiche più basse nel mondo del lavoro – ce n’è un’infinità nei Tea Parties, non sono ricchi avvocati o rancheros texani – la libertà è per sua stessa natura non egualitaria, perché gli esseri umani differiscono tra loro per forza, intelligenza, ambizione, coraggio e per tutti i più essenziali ingredienti che contribuiscono al successo. Come ha scritto Richard Pipes nel suo bellissimo “Proprietà e libertà”, le pari opportunità e l’eguaglianza di fronte alla legge – nel senso enunciato da Mosè nel Levitico 24,22, “ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per il cittadino del Paese, poiché io sono il Signore vostro Dio” – sono non solo compatibili con la libertà, ma essenziali per la sua sopravvivenza. Ma la parità dei compensi e degli averi – tanto cara a noi – invece non lo è. Anzi essa è del tutto innaturale e pertanto raggiungibile solo attraverso la coercizione. E non c’è coercizione buona quando essa è esercitata in mille modi dagli incentivi e disincentivi pubblici o dalla fiscalità progressiva esercitata dallo Stato, perché al contrario tale coercizione stabilita e perseguita da chi esercita il potere per mandato elettorale risulta ancor più dispotica e inaccettabile di quella esercitata con la forza da un tiranno.

Per quei milioni di americani che si sono mobilitati nei Tea Parties gridando basta all’eccesso di debito pubblico acceso da Obama, ancora insufficiente per i liberals come Paul Krugman e potentemente monetizzato dalla ossequiente FED di Bernanke, l’uguaglianza redistributrice è subdola e inaccettabile perché alzerà ulteriormente le tasse, intaccherà ancor più gravemente le libertà naturali dell’individuo, attribuirà alle persone incaricate di garantirla una serie di privilegi che li innalzeranno ancor più al di sopra del popolo.

Un intero filone della storia americana continua a considerare l’eguaglianza come primo e vero nemico della libertà. E diffida dello Stato e del suo welfare invasivo. Per quegli americani, i diritti economici di libertà indidividuale – cioè la proprietà, e questo spiega anche il diritto a portare armi – resteranno sempre più forti dei diritti civili a un equo trattamento stabilito dall’alto. Per loro, la proprietà privata è l’essenza stessa della diseguaglianza, e al tempo stesso procurarsi una proprietà col successo personale è la più importante delle libertà.

L’Europa, dopo il crac della finanza ad alta leva che spingeva milioni di americani a procurarsi proprietà attraverso l’eccesso di debito, ha pensato che fosse venuto il momento di una vittoria epocale. Finalmente l’anelito proprietario e libertario americano era spezzato per sempre. Lo Stato e le sue politiche redistribuzioniste erano l’unica risposta, l’unica via alla civiltà che tempera l’individuo nel nome degli interessi generali. Che sciocca illusione roussoiana, questa europea. I Tea Parties ci dicono il contrario. L’America profonda sa che crescerà più e meglio di noi con meno Stato o senza Stato tra i piedi. Come è sempre stato. Per questo, del resto, negli USA per ogni cittadino che vive solo del proprio ce n’è non più di 0,6 che percepiscono un qualche reddito integrato o corrisposto dal settore pubblico, mentre in Europa la percentuale è più che doppia da noi, tripla in Francia e quadrupla in Svezia. NOI Siamo figli dell’idealismo organicista, in chiave solidarista cristiana o socialista. La maggioranza degli americani ne resta immune. Quando lo capiremo sarà sempre troppo tardi per noi. Perché, oltre a crescere meno, per questo errore culturale avremo anche subìto più del giusto gli effetti di un’egemonia americana che, nel mondo nuovo, è soggetta sì a potenti ridimensionamenti. Ma portati dalla Cina, non dalla vecchia Europa appesantita dalle sue illusioni.

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Voteremo Nord vs Sud (finalmente) – di Mario Unnia /2010/11/06/voteremo-nord-vs-sud-finalmente-%e2%80%93-di-mario-unnia/ /2010/11/06/voteremo-nord-vs-sud-finalmente-%e2%80%93-di-mario-unnia/#comments Sat, 06 Nov 2010 16:57:40 +0000 Guest /?p=7481 Se le cose andranno come sembrano andare, il traballante bipolarismo politico si scioglierà nell’acido del multipolarismo, con effetti sulla governabilità che ci faranno rimpiangere la bassa performance degli ultimi governi. Ma per un bipolarisno che se ne va, un altro si consoliderà e occuperà l’intera scena politica: il bipolarismo socio-territoriale, chiamiamolo così, con un Nord dalle Alpi a Siena e un Sud dall’Alto Lazio in giù, isole comprese.

Alcuni partiti si schiereranno senza equivoci nei campi avversi: Lega, Idv, Sel. Tutto il Sud ha gettato la maschera, fa discorsi di tono autonomista, in Sicilia addirittura separatista, ma in realtà vuole annettere la capitale nel polo meridionalista. I cantori della nazione barricati a Roma avranno un unico ruolo possibile, essere la punta di lancia delle rivendicazioni del Sud che coincidono con le loro, dal momento che la capitale è già  risucchiata nel gorgo meridionale e la sua funzione nazionale convince solo il presidente della Repubblica e parte della sinistra.

Il Terzo Polo, se ci sarà, si attribuirà il ruolo salvifico dell’unità d’Italia, rimediando consensi tra illusi e transumanti. Se non ci sarà, Fini e Casini, emiliani ma romani di elezione, si candideranno separatamente al ruolo di salvatori della patria, riecheggiando appelli ecumenici oltreteverini. I grandi partiti, Pdl e Pd, non si pronunceranno nella contesa Nord vs Sud, la negheranno a metà strizzando però l’occhio ai vecchi elettori per farsi perdonare. Ma il bipolarismo socio-territoriale si manifesterà nelle liste e nell’esito del voto, perché al Nord e al Sud dovranno imbarcare candidati sintonici ai sentimenti polarizzati dei territori.

Insomma, fatte le elezioni potremmo trovarci in parlamento un nuovo bipolarismo, quello Nord Sud trasversale al multipolarismo espresso dalle etichette dei partiti. Vien da dire ‘speriamo che succeda’. Sarebbe un buon funerale della Seconda Repubblica, e la premessa di interessanti evoluzioni.

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Il succo del voto midterm USA: Hayek contro Keynes /2010/11/02/il-succo-del-voto-midterm-usa-hayek-contro-keynes/ /2010/11/02/il-succo-del-voto-midterm-usa-hayek-contro-keynes/#comments Tue, 02 Nov 2010 15:23:10 +0000 Oscar Giannino /?p=7450 Il voto in corso negli USA avrà effetti notevolissimi in tutti i Paesi avanzati. Riequilibrerà l’eccesso di debito pubblico e di politiche delle banche centrali volte a monetizzarlo. O almeno questa è la nostra esplicita speranza, dopo due anni di illusione keynesiana che ha portato nei fatti il tasso di crescita USA a rallentare fortemente dopo l’apparente forte ripresa, e l’Europa a incagliarsi nella crisi dell’eurodebito e relativo dibattito tra rigoristi e deficisti. Qui una suggestiva maniera rappata di rappresentare l’eterno confronto tra Hayek e Keynes, dopo il fortunatissimo video che in qualche mese è stato scaricato da oltre due milioni di internauti. “Quando dopo le recessioni e l’esplosione dei debiti pubblici bisogn rimettere le copse a posto, allora Hayek ha molto da dirci”, ecco la prima lezione ricordata nel brevissimo panel che segue il rap. La seconda: nelle crisi si riallinea l’eccesso di capacità, determinato dai molti investimenti facilitati dalle oplitiche monetarie lasche che gonfiavano in bolla consumi e andamento degli asset quotati, riportandolo verso una domanda naturale non più artifciosamente sostenuta da politiche fiscali in deficit e politiche monetarie eterodosse, come il QE 2.0 che molti si aspettanop domani il FOMC della FED riprenda in grande stile per 500 miliardi di dollari, seguito dalla Bank of Japan che potrebbbero estenderlo dagli acquisti di bond anche a quello di tuitoli azionari. Un errore, a nostro modestissimo avviso. Un errore perché ancora inadeguato e insufficiente, dicono gli iperkeyenesiani alla Krugman. Tra poche ore capiremo che cosa ne pensano gli elettori americani. Buona visione.

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La vera bussola: l’orologio del terrore debito pubblico /2010/11/01/la-vera-bussola-lorologio-del-terrore-debito-pubblico/ /2010/11/01/la-vera-bussola-lorologio-del-terrore-debito-pubblico/#comments Mon, 01 Nov 2010 18:18:27 +0000 Oscar Giannino /?p=7429 Da qualche giorno sul sito dell’Istituto Bruno Leoni e su questo blog – in alto a destra – trovate una novità. Abbiamo deciso di introdurla proprio perché la situazione politica sta visibilmente e tangibilmente precipitando. Questa volta, fa molta fatica a funzionare il consueto meccanismo reattivo di addossare il tentativo di delegittimare il premier all’opposizione strenua di procure e media ostili – ci sono entrambi, a mio giudizio è un fatto costitutivo della Costituzione materiale italiana dacché Berlusocni è in campo, e lui le ha del resto anche deliberatamente alimentate con continuie sfide per polarizzare il Paese. Vedremo che avverrà della telefonata del premier al gabinetto della Questura di Milano, per rilasciare la minorenne Ruby dopo l’avviso personale dato al premier da una prostituta brasiliana. Da ormai vecchio osservatore della politica, mi limito a notare che questa volta l’accorruomo di tutto il centrodestra a difesa del premier fatica anch’esso visibilmente a scattare. La Lega è nervosa. Al Senato, dopo il documento dei 25, il Pdl da solo non sembra più di fatto avere una maggioranza autonoma dai finiani, come aveva pensato tre settimane fa. L’assenza di dibattito esplicito nel Pdl per la sua natura carismatica rende il partito soggetto, nelle malaparate, a improvvise cadute, fughe in avanti e fughe laterali di parlamentari e amministratori.  Quel che si diffonde d’ora in ora è una sensazione peggiore dell’incertezza: siamo tra il panico del che fare, e la rassegnazione sussurrata de ‘”l’avevo detto io”, tranne il fatto che a dirlo in pubblico al Capo non era stato naturalmente nessuno. Poiché in tali condizioni può avvenire in effetti pressoché di tutto, abbiamo deciso come liberisti antistatalisti di dare un piccolo contributo perché tutti – classi dirigenti come ogni singolo cittadino – abbiano una bussola sicura alla quale guardare. La bussola è il nostro spaventoso debito pubblico. Per questo abbiamo elaborato il contatore del debito pubblico italiano, che come vedete cresce di più di 2 mila e 700 euro ogni secondo che Dio manda in terra (vedte l’aggiornamento moltiplicato per tre perchè avviene appunto ogni 3 secondi). Ci stiamo dando da fare per installarlo in qualche piazza di grande città del Paese, a costo di cercare denari tra sostenitori volontari per ammortizzarne il costo. La rivoluzione della serietà italiana non può che partire dal basso. E per questo bisogna che ciascuno abbia ben chiara l’idea del debito pubblico che pende in continua crescita sulle nostre teste, e conosca minuto per minuto il pessimo regalo che ci fa la politica del famelico statalismo sciupone. Vi aggiungeremo un contatore individuale, ancor più esplicito dei troppi zeri dell’ammontare complessivo. Fin da ora vi diciamo: dateci una mano.

Naturalmente, non ci siamo inventati niente. Era il 1989, quando l’immobiliarista newyorkese conservatore Seymour Durst ebbe l’idea di installare un public debt clock all’angolo tra Times Square e la 42a Strada. Dopo l’interruzione per qualche anno, quando il debito inizio a ridursi, oggi è sulla Sixth Avenue. Seymour è morto da 15 anni, ci pensa suo figlio a continuarne la mabnuitenzione: dal’89 a oggi il debito pubblico USA è quadruplicato.  Sia per Bush figlio, sia per l’immensa botta di deficit pubblico di Obama. Quella che Paul Krugman giudica tutti i giorni insufficiente e inadeguata. E che mi auguro costi invece il controllo del Congresso ai democratici, nel midterm di domani.

Noi siamo tra quelli che pensano che debito pubblico e banche centrali che lo monetizzano siano la via alla stagnazione e all’instabilità. Una strada maestra è quella di tagliare la tanta pessima e inutile spesa pubblica, abbattere le tasse con energia e in maniera credibile – cioè in modo che famiglie e imprese non debbano temere che si gtratti di un esperimento a tempo dopo il quale le tasse risaliranno più di prima, per fronteggiare magari il deficit ulteriormente accresciuto. Per questo – assumendo come certo l’imperfettismo dell’uomo e l’inaffidabilità dei suoi impegni, e massime se è uomo politico – i tedeschi si sono messi un bel vincolo in Costituzione, al deficit e alle tasse. Io vorrei la stessa cosa.

Penso che la stragrande maggioranza degli italiani paghi altissime tasse senza rendersi conto davvero, di quanto immenso sia il debito pubblico e di quanto nulla si faccia per diminuirlo, e molto invece per continuare ad accrescerlo.  Per questo, a Berlino per esempio un analogo contatore sovrasta il portone di un’associazione di contribuenti, il Bund der Steuerzahler. Penso che da noi l’idea dovrebbe essere venuta ad associazioni d’impresa di tutti i tipi, industriali commercianti e artigiani, alle rappresentanze dei professionisti e dei lavoratori autonomi, delle partite IVA come agli stessi sindacati. Ma se non ce l’ha avuta nessuno, anche perché purtroppo la vita pubblica italiana è un continuo tentativo di assicurarsi per sé fette crescenti di risorse del contribuente con la scusa di questo o quell’incentivo, allora ci pensiamo noi.

Diffido e anzi dispero, che la politica italiana imbocchi la strada di una energica riduzione del debito pubblico e delle tasse. Le modalità concrete ci sono, ne abbiamo parlato e le abbiamo illustrate mille volte, dalla vendita del patrimonio all’uscita dal perimetro pubblico di grandi comparti di servizi che possono essere meglio roganizzati e offerti al pubblico se gestiti da privati e con personale privato, nel rispetto di rigorosi e semplici standard invigilati da autorità di settore.

Ma proprio perché la politica italiana non lo ha fatto finora e assai difficilmente lo vorrà fare ora, che a Berlusconi anzi si appioppa tra gli altri difetti anche quello di aver accresciuto di troppo poco il deficit pubblico, allora ecco a che cosa serve il nostro orologio. E’ un orologio del terrore che ci riguarda assai più da vicino di quello che misurava durante la Guerra Fredda il tempo che ci separava da una guerra nucleare. Di fronte al contatore del terrore fiscale italiano, una volta che le mettessimo in qualche piazza, ogni anno saremmo pronti a contarci il giorno in cui si finisce di lavorare per lo Stato ladro e corruttore, che spende e anzi in larga misura dilapida il 52,5% del PIl italiano. E a giurare ogni volta il nostro impegno a opporci, con parole e opere perché l’opinione pubblica capisca e reagisca, protesti e si ribelli. Saremmo in pochi all’inizio, inutile iludersi: ma è così che iniziano le rotture nella storia. Pochi apparenti pazzi, che svegliano con la loro testa dura il senno addormentato e rassegnato dei più. Perché non è lo Stato che fa l’uomo, come dannatamente si pensa ormai nel nostro Paese e i tutti quelli colpiti dall’ondata di statalismo keynesista, ma l’uomo lo Stato.

Ps: Una nota metodologica, per rassicurarvi su come sono elaborate le cifre dell’orologio del terrore fiscale. Abbiamo stimato il tasso medio di incremento stagionale, che correggiamo ogni mese sulla base dei dati Bankitalia del mese precedente. In sostanza partiamo dall’assunzione – rozza, per questo la dichiariamo – che se in passato il debito cresceva più nel mese x che nel mese y secondo gli andamenti del ciclo della spesa pubblica, anche in futuro probabilmente lo farà. L’errore però è contenuto perché, non appena esce il dato “vero” sul mese x, noi ne teniamo conto in 2 modi: a- correggendo manualmente il contatore (cioè se il dato vero è 100 e noi abbiamo stimato 99 o 101, inseriamo manualmente 100): in questo modo sappiamo che, qualunque errore dovesse essere riportato sul valore assoluto, non può durare più di un mese; b- usiamo il dato reale sullo stock del mese x naturalmente anche per correggere la stima sul tasso di incremento a venire.

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Basta con gli sregolati. Rimettere le regole al centro /2010/10/28/basta-con-gli-sregolati-rimettere-le-regole-al-centro/ /2010/10/28/basta-con-gli-sregolati-rimettere-le-regole-al-centro/#comments Thu, 28 Oct 2010 15:49:37 +0000 Oscar Giannino /?p=7427 Tutti siamo servi della legge perché possiamo essere liberi, scriveva Cicerone nell’ Oratio pro Cluentio. Proprio per questo il magistrato romano si rivolgeva all’assemblea con una formula di rito, per la quale se nella legge si fosse successivamente scoperto che qualcosa vi era di illegittimo, l’approvazione sarebbe stata nulla. Può sembrare anticaglia, ricordarlo. Invece, è essenziale. In un Paese come l’Italia, dove si stima che il mancato rispetto della rule of law e l’incertezza del diritto ci costino l’equivalente di 400 miliardi di mancato Pil ogni anno cioè quasi un terzo della ricchezza prodotta, riporre le regole al centro della vita pubblica è una strategia di successo sicuro per la crescita. Ed è questo, ciò che propone Roger Abravanel con il suo nuovo libro, intitolato proprio “Regole”, dopo il grande successo della sua precedente opera, dedicata alla meritocrazia, e che tanto ha fatto discutere politica ed economia. Viene facile immaginare il contrasto immediato, tra chi vuole mettere buone regole al centro di un tentativo di ripresa dell’Italia, e il panorama di sregolatezza assoluta – privata e pubblica – che ci propone la politica da qualche tempo a questa parte. Ma su questo non mi soffermo, lascio a ciascuno tutta la riprovazione del caso per una politica ridotta a budoir, dossier, inchieste, appartamentini, amanti e serietà consimili. Preferisco restare al punto, e parlare delle regole nuove.

Solo che per “regole” bisogna intendersi: per noi antistatalisti haykyani, l’ipernormativismo dirigista è un errore altrettanto se non più grave che avre poche regole sbagliate.  Dal nostro punto di vista, isogna tornare cioè alla saggezza antica e a quella della vera civiltà liberale. Non alla prevalenza della legge positiva su quella efficace perché espressione del convergere della società e dei suoi corpi intermedi. Non alla prevalenza dello Stato sulla società, della macro sulla microeconomia, l’unica fa crescere davvero perché si fonda sull’effetto che incentivi e disincentivi esercitano nelle scelte di lavoro, consumo, risparmio e investimento di milioni e milioni di individui.

Dal disordinato prevalere dell’iperproduzione legislativa nata dall’errore socialista e kelseniano, che identificava legge e decisione dello Stato, bisogna tornare alla legge come processo di scoperta invece che come puro atto decretato. Per chi volesse approfondire la fondamentale distinzione, qui un dialogo di Hayek assolutamente illuminante. In questo processo, giocoforza non è più tanto o solo il politico – lontano e spesso ignorante dei processi produttivi e dei veri mali che ritardano la crescita italiana – ma l’uomo d’impresa e chi ha cognizione di economia e sviluppo, a proporre “dal basso” in un processo di ordine spontaneo le nuove regole più efficaci per la crescita.

Analogamente – anche se fino a un certo punto, perché in realtà su questo anch’egli cede a qualche forma di dirigismo -  Abravanel nel suo libro lancia una sorta di appello, perché proprio nel mondo economico e nella società civile anche in Italia si trovi l’equivalente dei 25 baroni che nel 1215 imposero al Re d’Inghilterra la Magna Charta Libertatum. Abravanel non si limita alla dimostrazione di come e quanto perdiamo per la trasgressione e l’illegalità diffuse in tutta la società italiana, figlie non di un DNA deviato ma di un circolo vizioso di cattiva regolazione ed eccessiva invadenza pubblica. L’autore avanza cinque proposte concrete.

Ma, prima dell’analisi, due premesse. La prima è che il passaggio in corso da anni dalle regole per lo sviluppo industriale a quello sempre più basato sui servizi non si risolvono solo in deregulation e semplificazione, ma in una vera e propria riregolazione, cioè in norme nuove che devono presiedere ai cambiamenti che nel mondo nuovo attendono settori come sanità, ambiente e finanza. E’ la grande lezione della crisi mondiale.

La seconda premessa è che sono assai meno categorico di Abravanel nell’identificare come una delle cause essenziali delle cattive regole la piccola impresa italiana. Anzi, sono in pieno dissenso. Quando Abravanel scrive “piccolo è brutto, anzi bruttissimo”, identifica tout court nel più della piccola impresa l’evasione di massa, la bassa produttività e l’alto tasso di concorrenza sleale con le aziende che competono invece grazie a legalità e innovazione. Ma così si rischia di cadere nello stesso errore di decenni fa, quando s’immaginò che anche l’Italia dovesse incamminarsi obbligatoriamente verso crescite dimensionali delle aziende del tipo americano e tedesco.

Da quell’errore nacque per esempio un sistema fiscale che, intendendo favorire la grande impresa finanziarizzata, le fa pagare anche 30 punti di tax rate meno di quanto chiede invece ai piccoli. Ma l’effetto è stata la decrescita verticale dei grandi gruppi italiani nelle graduatorie comparate mondiali. La piccola impresa italiana resta in molti settori capace – malgrado tutti questi ostacoli – di adattarsi ad alta velocità al mutare della domanda, ed è grazie a lei che la quota dell’export manifatturiero nel commercio mondiale è stata difesa anche in questi ultimi due terribili anni. E’ verop che piccola impresa significam meno patrimonio, meno investimenti,l meno ricerca, ostilità al passaggio proprietario gebnerazionale aprendosi al mercato e ai manager. Ma per ovviare a questi difetti bisogna pensare a nuove regole adatte per il tessuto reale dell’impresa italiana e accompagnarla alla crescita per più investimenti e innovazione, bisogna invece evitare di replicare regole inadeguate al nostro caso. Altrimenti, oltretutto,  l’intera rappresentanza d’impresa italiana non potrà sposare questa rivoluzione, visto che i piccoli prevalgono dovunque e si sentono – sono, a mio avviso – assai più vittime che colpevoli.

Veniamo alle proposte di Abravanel. La prima è nell’ambito dei servizi pubblici locali. La frammentazione attuale nelle oltre 7mila società controllate localmente dalle Autonomie italiane impedisce a settori come la raccolta dei rifiuti – vedi il disastro napoletano – e i servizi idrici efficienza e scala d’impresa tale da generare investimenti. E sin qui siamo perfettamente d’accordo. Per questo, la proposta è di riattribuire centralmente allo Stato la concessione, disegnando autorità nazionali indipendenti per nuove regole su ambiti operativi che abbiano più senso della parcellizzazione per singolo Comune. L’obiettivo è quello di gare poi per attribuire le concessioni su più vasta scala a soggetti che abbiano taglia d’impresa paragonabile ai giganti esteri come la francese Veolia, un po’ come si fece con l’energia elettrica ai tempi della riforma Bersani. Stante che la privatizzazione di massa che noi proponiamo non passa in nessun Comune né di destra né di sinistra, forse la proposta di Abravanel ha più chanche. Lo scandalo della monnezza e dell’acqua inefficiente in teoria glòi dà ragione. Ma col federalismo in corso d’attuazione scommetto che tutte le Autonomie griderebbero all’esproprio.

La seconda proposta riguarda il turismo. Realizzare in aree vocate l’accorpamento del frazionamento proprietario offrendo concessioni edilizie a lungo termine su aree di grandi dimensioni, in modo da consentire investimenti per alzare la qualità dell’offerta e preservare insieme il territorio. Come avvenne in Costa Smeralda e come a Ortigia sta provando da anni Ivan Lo bello, il presidente di Confindustrria Sicilia che proprio della legalità e della lotta ai collusi ha fatto la nuova bandiera di Confindustria nazionale. Su questa sono pienamente d’accordo. ma scommetto che media e ambientalisti griderebbero come un col suomo alla cementificazione speculativa, invexce di capire che poli turistici di livello hanno bisogno di economie di scala e investimenti adeguati, che sono collegati alla tutela ambientale invece che al disastro delle nostre coste attuali, disastro che è figlio del fai-da-te.

Terza proposta: estendere a tutti i livelli i test per misurare i risultati di docenti e studenti, rimettere al centro il potere del Ministero con un corpo di veri ispettori per verificare i risultati del sistema. Decentrare alle Regioni l’elaborazione di un vero piano dell’offerta formativa assorbendo i provveditorati, e aprendosi a esperienze come quelle dei voucher alle famiglie, nelle Regioni in cui esiste un mercato vero dell’offerta. Il capitolo è lungo: concordo, ma immagino la reazione dei sindacati e dei docenti.

Quarta proposta, nella giustizia civile, che vale più di quella penale come freno allo sviluppo e che ci vede nelle graduatorie al 156° posto sotto Guinea e Gabon: estendere a tutti i livelli la forma organizzativa della delivery unit già sperimentata con successo da Mario Barbuto, presidente di Tribunale di Torino e oggi di Corte d’Apello, che è riuscito a smaltirne l’arretrato in pochi mesi di anni. D’accordissimo. Immagino però la reazione delle correnti dell’ANM, agli occhi delle quali sin qui ogni criterio oggettivo di verifica di produttività e merito configura un rischio che la politica ne faccia uso per metter toghe alla berlina.

Quinta proposta di Abravanel: spezzare la logica della cattiva informazione iperpoliticizzata a partire da dove essa è più parossistica, cioè la Rai, abolendo commissione di vigilanza e governance di partuiti, e frapponendo una fondazione indipendente – con nominati con incarichi a scadenze diverse per limitare lo spoil system – tra proprietà pubblica e reti e testate, sul modello di Trust BBC. Io qui sono per la privatizzazione netta, invece: non credo possibile che la politica italian per come essa è non aggirerebbe anche il filtro di una fondazione di cui essa disegnerebbe le regole.

Come si vede, sono comunque proposte molto diverse dal tono generale della politica odierna e da ciò che propone. C’è da augurarsi che almeno qualcuna di queste venga posta al centro di una seria agenda italiana.  Ne dispero profondamente, però.

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Ritardati pagamenti PA: punire i politici /2010/10/27/ritardati-pagamenti-pa-punire-i-politici/ /2010/10/27/ritardati-pagamenti-pa-punire-i-politici/#comments Wed, 27 Oct 2010 12:57:51 +0000 Oscar Giannino /?p=7404 Evviva, la pubblica amministrazione è finalmente obbligata a saldare i suoi debiti in 30 giorni come termine ordinatorio, ed entro 60 al massimo perentoriamente. Dopodiché scattano interessi dell’8%. E’ la direttiva approvata tre giorni fa dal Parlamento Europeo, e subito si è stappato champagne. Nell’Italia odierna la media dei pagamenti della PA è salita dai 128 giorni del 2009 ai 140 quest’anno, attestano Confindustria e Rete Italia. Con settori in cui si superano i 180, afferma l’Associazione Nazionale dei Costruttori. E sacche di debito insoluto – per esempio nel settore sanitario, in alcune Regioni del Centrosud – in cui il ritardo arriva a 800, 900 e anche più di 1000 giorni. E’ uno scandalo italiano che si misura in anni, non in settimane. La classica misura dell’inefficienza, approssimazione e illegalità corruttrice dello Stato italiano. Ho un’ideuzza a sorpresa, per attuare la norma…

Il rispetto alla lettera della nuova regola porterebbe in poche settimane dai 50 ai 70 miliardi di euro nelle casse delle imprese. Per molte di loro, una boccata d’ossigeno decisiva. Per non poche, la differenza tra sopravvivere e continuare a dipendere dalla sola moratoria bancaria. Ma è inutile illudersi. E non solo perché Strasburgo lascia a ogni governo sino al 2013 per la messa in regola.

Il realista pensa che resterà una grida manzoniana. L’ottimista testone – eccomi – aggiunge: a meno che… Vediamo. Per realismo, va ricordato che le norme di contabilità pubblica prevedono che il debito pubblico sia tale solo alla scrittura di un mandato di pagamento, o della concessione di una garanzia reale che riconosca il debito come escutibile o scontabile in banca o su un mercato secondario (come capita ai Bot). La contabilità pubblica è per cassa, non per competenza. A molti sembrerà strano, ma se avete vinto una gara bandita dalla PA per la prestazione di un servizio o l’acquisito di un bene, ai sensi del diritto privato siete tutelati a ricevere il compenso dovuto. Ma per la contabilità pubblica quel debito della PA non esiste sinché non viene certificato o pagato almeno in parte. Poiché moltissime Autonomie locali non riescono fronteggiare i debiti per i vincoli del Patto di stabilità interno, il rispetto testuale dei 30 giorni porterebbe automaticamente all’emersione di debito pubblico per 3 o 4 punti aggiuntivi di Pil. Si può immaginare la giusta contrarietà di Tremonti.

A meno … a meno di immaginare un meccanismo che unisca tre diversi pilastri – rigore, trasparenza e prevenzione – facendo contenti sia imprese sia Tesoro. Qualunque garanzia pubblica sul debito insoluto oltre i 60 giorni può essere reperita nell’ambito della Cassa Depositi e Prestiti, il cui bilancio sta fuori dal recinto del debito pubblico per Bruxelles, esattamente come per gli analoghi istituti tedesco e francese. L’intero debito sarebbe immediatamente bancabile senza aggravi per il Tesoro. Per le Autonomie non in linea col patto di stabilità, si imporrebbe però un controllo di legittimità preventivo da parte della sezione specializzata della Corte dei Conti. E infine una doppia penalizzazione automatica: sui futuri impegni di spesa dell’Ente pubblico fino a regolarizzazione del debito avvenuta, ma anche – sorpresa! – in termini patrimoniali e personali per gli assessori e i politici che deliberano spese senza aver denari in cassa. Solo se rendiamo responsabili coloro che spendono in deficit, limitandoli e colpendoli a tempo nel loro patrimonio, evitiamo che a risponderne siano poi gli incolpevoli successori. E non ditemi per favore che a quel punto è come dire che politica la possono fare solo i ricchi, perché bastano sanzioni commisurate allo stock di patrimonio detenuto e al reddito dichiarato, oltre che alle attività partecipate o controllate. Che ne pensate?  Non è dal basso, che bisogna fare efficienza e rigore?

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Meno tasse, l’idea del banchiere centrale (ad Auckland però) /2010/10/06/meno-tasse-lidea-del-banchiere-centrale-ad-auckland-pero/ /2010/10/06/meno-tasse-lidea-del-banchiere-centrale-ad-auckland-pero/#comments Wed, 06 Oct 2010 10:59:16 +0000 Oscar Giannino /?p=7230 La politica italiana faccia pure quel che che crede, alterni pure rotture e armistizi nel centrodestra che s’inabissa davanti ai suoi elettori, la sinistra apra al papa straniero Montezemolo come si legge sul Riformista, si sogni pure come rimedio il ritorno al proporzionale e alla frammentazione così che ciascuno comandi nella casetta sua ritenendosi indispensabile. Intanto nel mondo vivo e vero c’è chi pensa a cose serie per crescere. Per esempio nella mia amata Nuova Zelanda, in testa di lista insieme alla Svizzera come Paese dove esercitare l’exit dall’Italia per chi non  ne potesse più dello statalismo corrotto e corruttore e di politici autistici. Ne è un buon esempio la proposta del presidente della Banca Centrale neozelandese, l’economista Arthur Grimes, (in Nuova Zelanda non è il governatore che Alan Bollard, in carica dal 2002).

Con la legge sulla banca centrale del 1989, la Nuova Zelanda si era messa alla testa dei sistemi più avanzati per ancorare a parametri diretti la responsabilità dei banchieri centrali in ordine all’inflation targeting e alla stabilità: comprese sanzioni personali in caso di mancato ottenimento dei risultati, argomento tabù quando sui trratta di FED, BCE e Bank of Japan (Israele ha qualcosa di analogo, chissà perché si tratta di Paesi che reggono megluio alle crisi….), La scorsa settimana il governatore Bollard aveva dovuto ammonire il governo, che sta pensando a tagli fiscali per la crescita, a non assumerli in deficit perché in quel caso la banca cengtrale avrebbe dovuto riconsoderare la sua politica di tassi bassi: ed è così che deve essere un banchiere centrale, indipendente davvero, non assecondare i deficit e i debiti pubblici avalanda come capita oggi nel resto del mondo con la scusa della crisi e del neokeynesismo imperante, scavalcato in statalismo dal krugmanismo che ne è la più tarda variante irresponsabile ma con neodiscepoli purtroppo anche nell’ex campo monetarista.

Lanciato il suo ammonimento, la banca centrale però crede nella linea del meno tasse per crescere, purché assunte nella stabuilità finanziaria complessiva del Paese cioè senza accrescere strutturalmente il deficit. Così ha avanzato una sua controproposta. Non il governatore, ma il presidente, più defilato, Grimes appunto. La proposta è di abbattere la progressività del sistema fiscale che attualmente rpevede un’aliquota marginale sui redditi al 39%, con un sistema di flat tax imperniato su zero tasse fino a 9.500 dollari nz di reddito annuo, 10% di aliquota fino a 38.500$, e 205 alioquota massima per chi ha reddito suoperiore. Il 20% diventerebbe aliquota di convergenza anche per la tassazioen del reddito d’impresa. Ma per impedire che il deficit pubblico salga per minor gettito iniziale, prima che si manifesti cioè quello da emersione di evasione e da crescita aggiuntiva attraverso l’inmcentivo a maggior offerta e domanda di lavoro e consumo, Grimes propone di affiancare alla flat tax una patrimoniale straordinaria pari all’1% del valore delle proprietà. E’ uno dei tre casi proposti dai liberali classici per la patrimoniale, quello di misura di accompagnamento allo shift strutturale verso un sistema a minor prelievo sui redditi (gli altri due sono in caso di sconfitta bellica per livellare i profitti di guerra, o all’indomani di un default sovrano e monetario quando si tratta di ripartire da zero in termini di fiducia pubblica internazionale). Come si capisce bene, non ha niente a che vedere con lla patrimoniale redistributiva da sempre in testa ai marxisti e socialisti, che la fanno coesistere con la progressività tributiva e contributiva sui redditi e ammazza crescita.

Queste sono proposte serie, questo è il modo vero di dare risposte alla crisi stando con gli occhi aperti e i piedi ben saldi nel mondo che cambia.

E’ troppo pensare anche da noi a una campagna elettorale con proposte così? Perché non aggiungere a questo un doppio testo costituzionale alla spesa pubblica e al prelievo, alla tedesca?perché bisogna rassegnarsi a questa immondizia intellettuale quotidiana? Non era questo, ciò che da 16 anni chiede chi vota centrodestra in Italia, al di là gli stia più simpatico Berlusconi, Fini o Bossi? E non la pensa così anche la maggioranza più ampia degli italiani, anche tra chi vota o ha votato centrosinistra?  Io penso di sì. Io non penso affatto, che l’Italia possa crescere senza misure energiche di questo tipo o analoghe, assunte con occhio attentissimo al deficit e agli spread dei nostri titoli. Io ne ho le scatole piene, di chi racconta ogni giorno che è tutto impossibile, sconsiderato, avventurista. E poi di fatto ci lascia col culo appoggiato ai talloni, dicendo che la colpa è sempre di qualcun altro.

Io, per un partito così e per leader capaci di questo e con qualche almeno superficiale congnizione di economia, mercato e produttività comparata, sarei disposto pressoché a tutto.

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La pianta del tè /2010/08/29/la-pianta-del-te/ /2010/08/29/la-pianta-del-te/#comments Sun, 29 Aug 2010 08:10:42 +0000 Alberto Mingardi /?p=6880 Oggi Washington è stata letteralmente invasa dagli ammiratori di Glenn Beck, per una manifestazione enfaticamente intitolata “Restoring Honor”, pensata a sostegno delle forze armate Usa ma anche dei valori di “fede, speranza e carità” incarnati da figure esemplari della società civile. L’evento è stato in prima battuta un fund raiser per la Special Operations Warrior Foundation – e poi un test per la popolarità del conduttore radiofonico. In diversi hanno associato questa manifestazione ai “Tea Party” ma effettivamente si è trattato di un evento molto diverso da quello che lo scorso 12 settembre ha visto un numero straordinario di americani correre nella capitale per dire il loro “no” alla cultura dei bail-out.

L’evento di Beck è stato una manifestazione bella e imponente. Il colpo d’occhio era spaventoso (vedete le foto nel post scattate col cellulare, ma anche e soprattutto quelle sul sito ufficiale), ad essere bella era la gente, i partecipanti.

Persone normali, pulite, semplici. Nonne e nonni coi nipotini, mamme coi passeggini, veterani e ragazzine acqua e sapone con una “Liberty Bell” tatuata a pochi centrimetri dall’ombelico. È vero, come hanno scritto i media mainstream, che era a dir poco difficile trovare un partecipante di colore (pur avendo navigato la folla in lungo e in largo, ne avrò visti sì e no una decina, di cui uno con la maglia di Balotelli). Ma è anche vero che c’erano persone diversissime, per età, background, e soprattutto reddito. Gente che per venire a Washington s’è fatta sedici ore di macchina, dormendo sul sedile posteriore. Madri di famiglia che nella capitale non c’erano mai state, e nel pomeriggio hanno preso d’assalto i musei. E smaliziati manager abituati a passare da un lounge d’aeroporto all’altro. Tutti assieme, confusamente, con un grande senso di solidarietà, una forma di rispetto profonda, riuniti da un’amicizia imprevista ma non banale. Non s’è sentito uno slogan razzista, ma anzi grandi applausi e profonda commozione nel ricordo di Martin Luther King.

Lo show (costato un paio di milioni di dollari) era tecnicamente perfetto. A me non era mai capitato di ascoltare Beck, ma non faccio fatica a capire perché gli riesca facile mobilitare tanta gente. Sul messaggio, si può discutere. Può piacere o non piacere. Nel mio caso, davvero non era “my cup of tea”: in quaranta minuti ho fatto il pieno di Dio, patria, famiglia e onore per i prossimi tre anni.

Detto questo, guardandosi attorno, interrogando questi “compagni di gita” e standoli a sentire,  l’impressione era davvero quella di stare in una manifestazione della “maggioranza silenziosa”.

La stessa maggioranza silenziosa che poi si è sciolta e riunita a grappoli per eventi più piccoli, quelli sì organizzati da gruppi vicini ai Tea Party. In questi eventi, anziché nominare Dio invano si faceva più modestamente ma anche più costruttivamente riferimento alla Costituzione e ai padri fondatori. L’obiettivo di queste organizzazioni è schiettamente politico: andare a influenzare l’esito delle elezioni di Novembre, all’interno del partito repubblicano di cui perseguono “un’opa ostile” (così Matt Kibbe e Dick Armey nel loro “Tea Party Manifesto”). Da alcuni punti di vista, l’enfasi “religiosa” di Beck fa persino pensare che la sua manifestazione sia stata un tentativo di fare rientrare nella politica americana proprio quei temi che i Tea Party avevano contribuito a mettere fra parentesi, focalizzando l’attenzione di nuovo sulle intrusioni dello Stato nella vita economica. Va detto però che gli appelli al Signore di Beck non sono in nessun caso diventati indicazioni politiche (pro o contro il matrimonio omosessuale, l’eutanasia, l’aborto….) – ma hanno preso piuttosto la forma di un richiamo etico-religioso.

Circa i patiti del tè: attenzione a non esagerare descrivendo come fossero una realtà omogenea i Tea Party, che invece sono contraddittori e plurali come inevitabilmente tutti i movimenti che crescono dal basso e restano acefali. Alcuni gruppi grass-roots (FreedomWorks e Americans for Prosperity su tutti) cercano di dare loro un’infarinatura di cultura politica, come ha ben documentato Kate Zernike sul New York Times, dopo aver partecipato ad uno di questi seminari). L’impressione è che effettivamente mobilitino persone che sono rimaste fino a pochissimo tempo fa “politicamente apatiche”. L’opinione pubblica, anche da noi, è nettamente divisa: da una parte gli ammiratori acritici, dall’altra gli animosi critici.

Avendo seguito una delle convention tenutesi a Washington in questi giorni, posso solo dare alcune impressioni:

  • i consumatori di tè tendono ad essere, almeno retrospettivamente, critici dell’amministrazione Bush – e alcuni di essi arrivano a leggere le scelte stataliste di Obama in sostanziale continuità con essa. In Italia, alcuni commentatori paventavano l’“isolazionismo” dei Tea Party. A me farebbe piuttosto paura la tendenza a difendere a scatola chiusa tutte le decisioni di politica estera della passata amministrazione repubblicana. Alcuni consumatori di tè lo fanno. Non tutti, per fortuna;
  • i consumatori di tè sono un gruppo molto eterogeneo, sia per età che per reddito. La cosa notevole però è che l’eterogeneità non produce la stessa “divisione del lavoro” che si vedeva in passato: i ricchi che ci mettono i soldi, i poveri che ci mettono le braccia. Al contrario. Anche fra persone di ceto elevato, c’è molta voglia di contribuire donando tempo e passione. Anche fra persone di mezzi modesti, c’è il desiderio di mettere il proprio, per quanto piccolo, obolo a disposizione;
  • i consumatori di tè sono un gruppo numericamente consistente. Se preferite l’opera ai concerti rock, è naturale che i loro meeting vi mettano un po’ a disagio. Il volume della musica  è molto alto, si tende a parlare per slogan, si urla e si applaude. Non troverete fra i consumatori di tè analisi politiche particolarmente raffinate. È normale. Perché un movimento di massa dovrebbe funzionare come un covnegno?
  • se c’è una cosa che unisce i consumatori di tè (anche nella variante del tè aromatizzato al Glenn Beck), è la preoccupazione per un fatto che risulta palmare quando vi mettete a girare per i tanti negozi che a Washington vendono merchandise politico. Quali che siano le sue posizioni in politica estera, Obama impersona come nessuno prima la “presidenza imperiale”. C’è un culto della personalità che travalica in manifestazioni imbarazzanti. Alla Union Station di Washington potete comprare un fumetto sulla vita di Barack, “child of hope”, e un libretto da colorare sulla “Obama family”. I bevitori di tè sono preoccupati dal fatto che un Presidente così popolare possa finire per accentrare e consolidare enormemente il potere;
  • i libertari da sempre sottolineano come sia irrazionale separare libertà “economiche” e libertà “civili”. È vero, ma è un dato di fatto che nella più parte del mondo le persone che desiderano pagare meno tasse sono anche quelle che vogliono che la marijuana sia illegale. Non sarà una grande prova di intelligenza, ma bisogna prenderne atto. Gruppi come FreedomWorks e Americans for Prosperity fanno un eccellente lavoro nel canalizzare queste energie sul fronte delle libertà economiche, cercando di far sì – il meccanismo è noto da tempo – che nei diversi collegi si affermino non solo dei “repubblicani”, ma dei repubblicani fiscalmente responsabili. È un meccanismo che estende per scala quanto in passato aveva già provato a fare il “Club for Growth”.

È possibile immaginare qualcosa del genere anche in Italia? Qualcuno ci sta provando – per esempio Tea Party Italia e il Movimento Libertario.

Inoltre, per ora, da noi manca l’evento catalizzatore: che in America è stato sostanzialmente lo “stimolo” obamiano. Inoltre, le differenze fra noi e gli Usa sono fin troppo ovvie. Rispetto al “metodo” (influenzare le elezioni collegio per collegio) è evidente che è impossibile pensare di procedere nello stesso modo, grazie alla nostra sciagurata legge elettorale.

Questa “maggioranza silenziosa” è tale perché è cresciuta in un orizzonte simbolico nel quale sono centrali Costituzione e Dichiarazione d’indipendenza. Al netto di qualsiasi, più approfondita discussione fra federalisti/antifederalisti, etc, queste persone leggono i documenti fondamentali della storia americana come un manifesto del governo limitato. Potranno giocare a fare i rivoluzionari, ma a tenerli uniti è l’idea che ci sia una “tradizione” degna di essere preservata. “Restore” America contro un “change” presuntuoso e socialisteggiante: ancora, al netto di qualsiasi “inquinamento” di quella tradizione politica che possa esserci stato dal New Deal in poi (non è certo Obama ad aver fatto degli Stati Uniti uno Stato tutto fuorché “minimo”).

Che dire? Il messaggio forse è semplice, ma il fatto che sia semplice non significa che non possa essere giusto. Gli obiettivi del movimento sono ambiziosi. Staremo a vedere se davvero i Tea Party riusciranno prima a fare eleggere dei candidati effettivamente sostenitori del governo limitato, e poi soprattutto se sapranno vigilare contro l’inevitabile tendenza al compromesso che quelli stessi candidati potrebbero sviluppare, una volta eletti.

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Preparatevi all’oppressione finanziaria, dice Morgan Stanley /2010/08/27/preparatevi-alloppressione-finanziaria-dice-morgan-stanley/ /2010/08/27/preparatevi-alloppressione-finanziaria-dice-morgan-stanley/#comments Fri, 27 Aug 2010 18:54:25 +0000 Oscar Giannino /?p=6871 Da due giorni i blog finanziari rilanciano questo report che Morgan Stanley ha commissionato ad Arnaud Marés, ma non pubblicato se non molto dopo che il testo già girava.  In effetti, vale la pena. La tesi è che è “del tutto ottimistico dare per scontato che la tutela dei bondholders pubblici (e bancari, oops!) possa proseguire ad libitum escludendoli da perdite patrimoniali come unica costituency integralmente protetta”. Alla luce dei debiti pubblici e soprattutto della sottostima della sfida fiscale che sta di fronte a molti Paesi avanzati “c’è un’alternativa al semplice default sovrano: l’ ‘oppressione finanziaria’, cioè l’imposizione ai creditori di tassi reali di ritorno dell’investimento negativi o artificialmente bassi, strumento più volte usato nella storia in circostanze analoghe”. E’ meglio che gli investitori si preparino, la mesta conclusione.E’ vero che in passato i debiti pubblici dei Paesi elader hanno toccato vette elevatissime. E la storia successiva sembra rassicurante. Gli Usa alla fine del secondo conflitto mondiale avevano un debito pubblico superiore al 110% del GDP, il Regno Unito superiore al 250%, la Francia superiore al 280%, e non sono falliti.  Anzi il debito pubblico britannico ha una media storica in realtà superiore al 100% dacchè esiste, cioè dal 1693. La Francia stessa è fallita una sola volta, nel 1797, dacchè esiste il suo debito pubblico moderno, cioè dal 1789.

Ma le buone notizie finiscono qui. Perché in realtà la tecnica vigente di rapportare il debito pubblico al Pil è fallace e menzognera. Sottostima passività pubbliche contrattuali esistenti, a cominciare dalla promessa previdenziale futura (nel solo Regno Unito, un 58% di debito pubblico aggiuntivo).  In più, non è tanto il rapporto sul Pil a rilevare, quanto il rapporto rispetto al gettuito attuale e potenziale. E in questo caso i rapporti cambiano molto. I Paesi col prelievo alto  hanno storicmente una miglior sostenibilità, la loro economia è più abituata a essere “strozzata” dal fisco esoso e dalla politica dissipatrice. Di conseguenza, il rapporto tra debito e gettito vede l’Italia passare dal 115,8% del Pil a fine 2009 al 187,5% delle revenues, ma la Francia passa dal 77,6% al 161,7% e la Germania dal 73,2% al 165,3%: gli Stati Uniti, che hanno un gettito federale pari a soli 14,8% di GDP, vedono il loro debito pubblico a fine 2009 schizzare al 358% del gettito…

Invito inoltre a considerare con attenzione il grafico 4: rielaborando il debito pubblico a valore netto, cioè con un calcolo attuariale che comprenda tutto l’attivo e il passivo, tra asset mobiliari e immobiliari,  il valore netto delle future spese primarie secondo le vigenti leggi nonché i costi pubblici del bilancio integenerazionale e demografico atteso, come più volte ci è capitato di richiamare si nota i effetti la conseguenza positiva nel loungo termine delle riforme previdenziali attuate in Italia dalla Dini in avanti: il valore netto della posizione del governo italiano è praticamente pari al livello attuale cioè negativa per 1,2 volte il suo Pil, quello della Germania è negativo per 5 volte il suo Pil, quello della Francia 6 volte, quello degli USA 8 volte,  il regno Unito negativo 10 volte. Spagna Irlanda e Grecia stanno tra le 14 e le 16 volte.

Prima conclusione: anche senza default  i governi non hanno altermativa a rendimenti bassi e bassissimi dei titoli pubblici, negativi rispetto all’inflazione che si creerà. Seconda conclusione, più sociale: ci sarà un problema crescente per gli anziani, classicamente i maggiori detentori di Bonds pubblici, ma contemporeamente coloro che avanzeranno più pretese di trattamenti sociali pubblici. La posizione del creditore-debitore non è mai molto agevole.

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Il mattone di Stato porta a fondo /2010/08/24/il-mattone-di-stato-porta-a-fondo/ /2010/08/24/il-mattone-di-stato-porta-a-fondo/#comments Tue, 24 Aug 2010 19:35:58 +0000 Oscar Giannino /?p=6844 Il mercato americano si attendeva oggi  una vendita mensile di nuove abitazioni pari a 4,6 milioni, e invece quelle davvero avvenute sono state inferiori del 20%, fermandosi a 3,8 milioni. E’ il dato più basso da maggio 1995, una nuova doccia gelata che sposta gli indicatori della crisi immobiliare americana a 12 anni prima dell’inizio della crisi. La notizia ha portato al ribasso i listini europei, oltre a quelli statunitensi, ma mai come questa volta è l’America, il problema. Un’America che sta vedendo il mito di Obama, almeno in economia, squagliarsi come neve al sole.

Eppure la crisi era nata proprio dal sogno americano – sbagliato – di sostenere oltremisura gli acquisti di case da parte di chi aveva pochi dollari ed era già molto indebitato, oltre il proprio reddito disponibile. Tassi d’interesse troppo bassi e disinvolte tecniche finanziarie di ripiazzamento dei mutui a bassa sostenibilità hanno regalato al mondo intero la più grave crisi del dopoguerra. Senonché, a distanza di tre anni, l’America non ha ancora imparato la lezione.

A differenza che da noi, i massicci acquisti di case avvenivano con la garanzia di giganti parapubblici, Freddie Mac e Fannie Mae. A differenza che da noi, l’errore della loro maxi esposizione è stato curato con un nuovo salvataggio ancora pubblico, garantendo l’equivalente di 6 trilioni di dollari, l’equivalente del 50% dell’intero Pil nordamericano . Si è detto per tre anni che la mano pubblica era necessaria per garantire che il prezzo delle case americane non cadesse troppo, e che dunque milioni di altri mutui ancora non rescissi dai contraenti continuassero ad essere garantiti da un valore adeguato dell’immobile sui quali erano stati contratti. Ma il mercato non ha creduto alla prima garanzia pubblica, e non crede nemmeno a quest’ultima. La presenza dilagante della mano pubblica fa solo pensare a tutti che le cose andranno di male in peggio, e dunque tra i privati nessuno se la sente ancora di rischiare, facendo ripartire il mattone.

Aggiungete a questo che l’economia privata americana non crede più alla crescita per effetto del debito aggiuntivo per un altro trilione di dollari votato dall’amministrazione Obama a sostegno dell’economia. Esauriti gli effetti delle assunzioni pubbliche aggiuntive, che avevano spinto la ripresa USA oltre il 3% annuo, i profitti delle società quotate americane nel secondo trimestre sono andati meglio delle aspettative, ma si devono ancor a tagli dei costi e a licenziamenti, non alla ripresa di ordini. Per questo il ritmo della crescita americana è in caduta, verso il 2% annuo, probabilmente anzi già al di sotto, se anche il terzo trimestre si chiuderà com’è cominciato..

La lezione è che a crescere di più nel mondo avanzato – la Cina e l’India e il Brasile sono un mondo a parte – sono i Paesi in cui si è tagliato di più il deficit pubblico, come Germania e Regno Unito, non quelli come l’America che continuano a seguire la ricetta deficista keynesiana, si tratti del debito pubblico o dell’invadente e distorcente presenza dello Stato nell’immobiliare. Nei mercati globali, alla vecchia ricetta di ispessire il ruolo e l’intervento pubblico nelle crisi, gli attori privati dell’economia reagiscono dopo un po’ iniziando a far di conto su quante tasse aggiuntive costerà la nuova massa di debito pubblico aggiunta dalla politica a quella precedente.

Il paradosso è che tutto ciò avvenga in America, cioè in un Paese che siamo da sempre abituati a considerare come a bassa presenza pubblica nel mercato. E che la lezione non venga capita malgrado che la crisi sia nata lì, e di lì si sia diffusa in altri parti del mondo, che per carità avevano anch’esse le loro colpe e i loro squilibri.

All’immobiliare di Stato e all’eccesso di deficit pubblico si somma infine un ruolo della FED e della politica monetaria anch’esso al traino della prevalenza pubblica, e anch’esso attualmente sempre più alle corde. La FED aveva iniziato a limitare i suoi acquisti di titoli pubblici e privati sui mercati, la modalità d’intervento a cui era ricorsa per sostenere il debito federale e per tirare su le Borse. Ma Obama e le sue politiche in sempre maggiori difficoltà hanno costretto la FED a tornare indietro, e a riprendere gli acquisti. Il mercato però, a differenza di prima, interpreta questa marcia indietro come un segno di debolezza della FED verso la politica e come un segno di disperazione della politica stessa. I mercati dunque vanno giù. E i rendimenti dei titoli pubblici USA vanno ancora più giù, mostrando che il mercato ricrede alla minaccia della deflazione.

Ecco spiegata la giornata di ieri. Che colpisce anche i mercati europei perché il dollaro è la moneta mondiale. Ma noi per fortuna non abbiamo lo Stato nel mattone, abbiamo fatto meno deficit pubblico di tanti altri, e mi auguro che presto avremo una BCE che con tassi adeguati spinga la politica a essere ancora più virtuosa.

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