CHICAGO BLOG » scuola austriaca http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 La teoria austriaca del ciclo economico: un po’ di chiarezza /2010/05/27/la-teoria-austriaca-del-ciclo-economico-un-po%e2%80%99-di-chiarezza/ /2010/05/27/la-teoria-austriaca-del-ciclo-economico-un-po%e2%80%99-di-chiarezza/#comments Thu, 27 May 2010 12:21:06 +0000 Guest /?p=6070 di Anthony J. Evans

Questo articolo è stato pubblicato originariamente il 25 maggio 2010 sul blog dell’Institute of Economic Affairs, che ringraziamo per la gentile concessione alla ripubblicazione su chicago-blog.

Il mese scorso Martin Wolf si è chiesto sulle pagine del Financial Times: «L’economia “austriaca” spiega le crisi economiche meglio delle altre scuole di pensiero?».

Dopo aver ammesso che i modelli neoclassici «non si sono certo segnalati per la capacità di prevedere la crisi e di proporre le possibili risposte», Wolf ha evidenziato che alcune tesi “austriache” sono state convalidate dai fatti: «una politica monetaria mirante a mantenere un livello prefissato d’inflazione è intrinsecamente destabilizzante; il sistema della riserva bancaria frazionaria crea esplosioni di credito impossibili da gestire; il “malivestimento” globale che ne consegue spiega il successivo crollo del sistema finanziario».

Disgraziatamente, a questo punto Wolf commette l’errore di confondere le cause della crisi con il dibattito sulle politiche più idonee ad innescare la ripresa: «gli austriaci affermano inoltre – esattamente come i loro predecessori negli anni Trenta – che la risposta giusta consiste nel permettere la liquidazione di tutti i rami secchi, continuando a mantenere il pareggio di bilancio mentre l’economia va a rotoli. È questa ricetta che trovo poco convincente».

Per iniziare, se si spera di trovare nella teoria austriaca del ciclo economico una spiegazione teorica esauriente di: (1) il boom artificiale, (2) la recessione economica e (3) le politiche più idonee ad alimentare nuovamente la crescita, è probabile rimanere delusi. Ma se sarebbe assurdo pensare che una sola scuola di pensiero (per giunta sconosciuta ai più) possa fornire una risposta conclusiva a tutte le questioni proposte, sarebbe irragionevole rifiutare le parti che reggono alla prova dei fatti solo perché non riescono a spiegare tutto.

I concetti “austriaci” equivalgono sostanzialmente ad una teoria dei boom economici non sostenibili indotti dalla disponibilità di credito. Si tratta pertanto di una teoria non applicabile a tutti i cicli di espansione e contrazione e originariamente non aveva neppure lo scopo di indagare il processo di ripresa economica (Hayek aveva etichettato questa parte “deflazione secondaria”, lasciando intendere che il problema primario era un altro, ossia il malinvestimento di beni capitali). Le più famose storie della Grande Depressione in chiave austriaca si sono occupate della fase di espansione, più che della crisi e della recessione: The Great Depression di Lionel Robbins è stato pubblicato nel 1934 e America’s Great Depression (La grande depressione, Rubbettino 2008) di Murray N. Rothbard si ferma al 1932. Consiglierei quindi a Martin Wolf di non considerare le idee austriache alla stregua di sostituti di tutte le altre spiegazioni, ma di seguire un sistema più opportunistico: la teoria austriaca spiega il boom, mentre per spiegare la recessione sono necessarie anche le idee di Keynes e dei monetaristi.

In secondo luogo, Wolf offre un’immagine falsata delle spiegazioni che gli austriaci danno delle depressioni economiche. La tesi del “liquidare tutto” è falsa, giacché molti economisti austriaci riconoscono che riuscire ad evitare una contrazione monetaria può prevenire una spirale deflazionistica che porterebbe alla depressione. In virtù della complessità di questa politica, il ragionamento tende a spostarsi dalla politica monetaria ai regimi monetari, giacché gli austriaci hanno un programma di riforme del settore bancario che in futuro potrebbe prevenire le crisi. Il problema è che solo gli austriaci affrontano a viso aperto la dura realtà economica che nessun pasto è gratis: una volta che i malinvestimenti sono stati fatti, la correzione di rotta è onerosa. Ciò non significa che gli esponenti politici debbano limitarsi a “non far nulla”, ma solo che ogni sforzo deve concentrarsi sulla capacità dei mercati di funzionare come dovrebbero.

Per convincersene, prendiamo la replica di Paul Krugman alla domanda di Wolf: «perché non si verifica una disoccupazione analoga durante la fase di espansione, quando i lavoratori vengono trasferiti alla produzione di beni?». Beh, in realtà durante il boom la disoccupazione esiste: secondo un recente studio, ogni anno nel Regno Unito vengono perduti 2,65 milioni di posti di lavoro nel settore privato (ma tendiamo a non accorgercene, perché ne viene creato un numero superiore). Concentrarsi sul livello di occupazione “complessivo” impedisce di rilevare gli aggiustamenti che vengono continuamente effettuati, mano a mano che gli individui passano da un posto di lavoro all’altro al variare delle condizioni economiche. In effetti anche Krugman dà l’impressione di credere che alla fase di espansione debba corrispondere una “sovrainvestimento”. Sebbene ciò non sia del tutto sbagliato, la tesi austriaca è che durante il boom vi sia un problema di malinvestimento: esaminare le variabili nell’aggregato impedisce di cogliere queste sottili differenze.

Il problema è che gli economisti neoclassici credono in un modello di flusso circolare che fa astrazione dal tempo. Gli austriaci, viceversa, sono consapevoli del fatto che gli investimenti in beni capitali avvengono al passare del tempo. Come ha detto Roger Garrison: «la specificità e la durevolezza del capitale di lungo periodo non permette in generale una tempestiva inversione di rotta». Ovvero, per citare Arnold Kling, «ogni boom è lento e ogni crollo è repentino» (è interessante osservare che John Hicks ha commesso lo stesso errore nella sua critica agli austriaci: si direbbe che Krugman non se ne sia accorto e che non conosca la letteratura secondaria che ciò ha prodotto).

In sintesi, il contributo delle idee austriache dipende dalla nostra opinione in merito alla solidità dell’economia prima della crisi. Come spiega Garrison, vi sono due concezioni alternative: «il crollo è avvenuto: (a) nel pieno di una fase di sana crescita a causa della completa inettitudine della banca centrale; oppure (b) sul finire di un’espansione indotta politicamente intrinsecamente insostenibile e nel marasma della confusione in merito alla natura del problema e dei mezzi migliori per affrontarlo?».

Se rispondete (a) siete un monetarista e non è un caso che le idee austriache vi appiano strane. Ma se rispondete (b), il mio consiglio è di imparare qualcosa di più su una teoria che spiega le crisi economiche con tanta maestria.

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Non fidatevi degli economisti /2010/01/28/non-fidatevi-degli-economisti/ /2010/01/28/non-fidatevi-degli-economisti/#comments Thu, 28 Jan 2010 11:02:46 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4949 Il Cato Institute ha pubblicato un grafico che confronta la realtà economica con le previsioni degli economisti.

Parrebbe che gli economisti sono in grado di fare previsioni solo quando non succede nulla di interessante, cioè quando anche il mio trisavolo ci sarebbe riuscito senza computer e senza database. Quello che il Cato non nota è che gli errori crescono a dismisura durante le recessioni, e cheg li economisti tendono in questi frangenti a sminuire la gravità della crisi: nel 1990, nel 2000 e nel 2007 gli economisti sono stati colti sistematicamente di sorpresa, e pur senza grafici si può dire che lo stesso sia accaduto negli anni ’70 e con la crisi del ’29.

Il problema è capire perché.

Problemi intrinseci

Le crisi sono inevitabili e ricorrenti, e tutto sommato se fossero perfettamente prevedibili forse non accadrebbero. Se sono imprevedibili, è inutile aspettarsi che gli imprenditori si comportino come se lo siano, e quindi bisogna accettare che possano esistere dei cluster di errori sistematici imprenditoriali, come nella teoria austriaca. Tutto sommato, se sia gli imprenditori che gli economisti sovrastimano la robustezza dell’economia e sottostimano le crisi, evidentemente i secondi non possono stupirsi dei primi: se gli economisti fossero stati imprenditori, avrebbero fatto esattamente gli stessi errori.

Una seconda riflessione è che non solo non esistono strumenti affidabili per valutare il rischio di crisi in termini quantitativi, ma neanche dei proxy moderatamente affidabili. Se si pensa alla teoria austriaca del ciclo economico, si afferma che il turning point del boom è inevitabile, ma non si danno strumenti per prevederlo, né strumenti operativi per osservarne la dinamica interna. La teoria manca di strumenti operativi, e non è affatto detto, anzi, io sono convinto di no, che tali strumenti possano esistere.

Non prendiamocela troppo con gli economisti, perché hanno di fronte un sistema complesso e hanno un problema di informazione e complessità: Mises e Hayek se la comandano. L’unica critica che si potrebbe fare è che gli economisti sembrano sovrastimare la loro capacità di previsione: se fossero razionali, notando che sottostimano sempre le recessioni, capirebbero ex ante che quando si aspettano una recessione di una certa entità, ce ne sarà quasi certamente una più grave di quanto credono, un po’ come gli stupidi di Carlo Maria Cipolla, la cui concentrazione è sempre sottostimata.

Problemi teorici

La parte precedente era piuttosto superficiale, però serviva a chiarire una cosa: né io né nessun altro possiamo fare previsioni migliori, non è una questione di essere bravi coi numeri o con le teorie. Non è mia intenzione proporre un modello Markov Chain Montecarlo Method basato sul Metodo Generalizzato dei Momenti che attraverso un Vector Error Correction faccia meglio degli economisti: faccio solo notare che quegli errori mostrano un’evidente bias.

Però occorre porsi una domanda fondamentale: ci sono problemi teorici nel modo in cui la crisi viene analizzata dalla maggior parte degli economisti, cioè dai new-keynesiani? Secondo me sì, e ne farò una breve lista.

L’output gap è considerata una grandezza fondamentale, ma in realtà non è misurabile: durante il boom l’output cresce troppo, e se la politica monetaria è accomodante il boom può durare a lungo, quindi possiamo aspettarci periodi di sovraproduzione sufficientemente lunghi da creare un bias nella stima dell’output gap. Se c’è crescita economica, un boom insostenibile può sembrare più sostenibile, perché la crescita reale diminuisce i trade-off produttivi: l’economia potrà crescere troppo e non accorgesene per diversi anni, e alla fine ci si aspetterà una crescita economica sostenibile di un certo tipo quando in realtà sarà ben inferiore.

Il tasso naturale di interesse che gioca un ruolo fondamentale in molti modelli quantitativi non è osservabile: nessuno sa quanto valga, nessuno sa quando varia. In molti paper ho notato che si considera il tasso naturale di interesse come costante, e pari alla media temporale di una qualche grandezza ottenuta tramite fitting dei dati. Questa ipotesi è teoricamente insostenibile: basterebbe leggere “Investment that raises the demand for capital” di Hayek, scritto nel 1937, per rendersi conto che il tasso di equilibrio può variare, ed effettivamente varia, proprio assieme al ciclo, e ciò comporta problemi di identificazione che forse (non sono in grado di argomentare oltre: non me la cavo con la calibrazione dei modelli DSGE né coi dettagli più formali dei modelli new-keynesiani) rende molti di questi modelli inservibili. A volte pare che la matematica è usata per ottenere risultati a tutti i costi, e non per ottenere risultati significativi, e quando l’applicabilità cozza con la significatività, vince spesso la prima.

La terza cosa fondamentale è che nell’economia teorica tradizionale non esistono problemi strutturali: l’economia è efficiente a meno di uno o due fattori di disturbo, come i menu costs. Non esiste motivo per cui una recessione debba durare o essere grave per motivi strutturali perché non esiste una struttura economica. La politica monetaria non ha effetti strutturali e non influenza i prezzi relativi, ma ha effetti sul livello assoluto dei prezzi e quindi permette di “risolvere” i problemi dei prezzi non perfettamente flessibili. Esiste una sola teoria strutturale del ciclo economico, ed è quella di Mises ed Hayek, anche se pare che negli ultimi due decenni una serie di teorie degli sectoral shocks (che però non conosco) siano risputate in letteratura.

Misurare l’immisurabile, osservare l’inosservabile e analizzare la dinamica dell’economia senza tener conto della sua struttura sono dei must in economia teorica, sin dai tempi di Keynes e dei suoi aggregati che trascuravano tutti i meccanismi dinamici dell’economia. Non sembra ci siano stati progressi successivamente, e a furia di fare qualche ipotesi semplificativa quando serve per ottenere un bel modello quantitativo, un passo alla volta si accumulano problemi strutturali… la politica economica sembra essere tanto scientifica quanto l’alchimia.

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Hayek vs Keynes, hip hop version /2010/01/26/hayek-vs-keynes-hip-hop-version/ /2010/01/26/hayek-vs-keynes-hip-hop-version/#comments Tue, 26 Jan 2010 09:25:36 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4932 Russ Roberts and John Papola hanno prodotto un pezzo hip hop molto interessante, in cui Keynes e Hayek parlano di crisi economica. Il video si trova qui. Qui il sito col testo (che comunque si capisce molto bene).

Il principale problema delle idee in politica è che quelle sufficientemente semplici da essere comprese da tutti e sufficientemente interventiste da favorire la classe politica hanno successo, mentre l’aver ragione o meno è irrilevante.

Qui il testo:

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

[Keynes Sings:]

John Maynard Keynes, wrote the book on modern macro
The man you need when the economy’s off track, [whoa]
Depression, recession now your question’s in session
Have a seat and I’ll school you in one simple lesson

BOOM, 1929 the big crash
We didn’t bounce back—economy’s in the trash
Persistent unemployment, the result of sticky wages
Waiting for recovery? Seriously? That’s outrageous!

I had a real plan any fool can understand
The advice, real simple—boost aggregate demand!
C, I, G, all together gets to Y
Make sure the total’s growing, watch the economy fly

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

You see it’s all about spending, hear the register cha-ching
Circular flow, the dough is everything
So if that flow is getting low, doesn’t matter the reason
We need more government spending, now it’s stimulus season

So forget about saving, get it straight out of your head
Like I said, in the long run—we’re all dead
Savings is destruction, that’s the paradox of thrift
Don’t keep money in your pocket, or that growth will never lift…

because…

Business is driven by the animal spirits
The bull and the bear, and there’s reason to fear its
Effects on capital investment, income and growth
That’s why the state should fill the gap with stimulus both…

The monetary and the fiscal, they’re equally correct
Public works, digging ditches, war has the same effect
Even a broken window helps the glass man have some wealth
The multiplier driving higher the economy’s health

And if the Central Bank’s interest rate policy tanks
A liquidity trap, that new money’s stuck in the banks!
Deficits could be the cure, you been looking for
Let the spending soar, now that you know the score

My General Theory’s made quite an impression
[a revolution] I transformed the econ profession
You know me, modesty, still I’m taking a bow
Say it loud, say it proud, we’re all Keynesians now

We’ve been goin’ back n forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Keynes] I made my case, Freddie H
Listen up , Can you hear it?

Hayek sings:

I’ll begin in broad strokes, just like my friend Keynes
His theory conceals the mechanics of change,
That simple equation, too much aggregation
Ignores human action and motivation

And yet it continues as a justification
For bailouts and payoffs by pols with machinations
You provide them with cover to sell us a free lunch
Then all that we’re left with is debt, and a bunch

If you’re living high on that cheap credit hog
Don’t look for cure from the hair of the dog
Real savings come first if you want to invest
The market coordinates time with interest

Your focus on spending is pushing on thread
In the long run, my friend, it’s your theory that’s dead
So sorry there, buddy, if that sounds like invective
Prepared to get schooled in my Austrian perspective

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

The place you should study isn’t the bust
It’s the boom that should make you feel leery, that’s the thrust
Of my theory, the capital structure is key.
Malinvestments wreck the economy

The boom gets started with an expansion of credit
The Fed sets rates low, are you starting to get it?
That new money is confused for real loanable funds
But it’s just inflation that’s driving the ones

Who invest in new projects like housing construction
The boom plants the seeds for its future destruction
The savings aren’t real, consumption’s up too
And the grasping for resources reveals there’s too few

So the boom turns to bust as the interest rates rise
With the costs of production, price signals were lies
The boom was a binge that’s a matter of fact
Now its devalued capital that makes up the slack.

Whether it’s the late twenties or two thousand and five
Booming bad investments, seems like they’d thrive
You must save to invest, don’t use the printing press
Or a bust will surely follow, an economy depressed

Your so-called “stimulus” will make things even worse
It’s just more of the same, more incentives perversed
And that credit crunch ain’t a liquidity trap
Just a broke banking system, I’m done, that’s a wrap.

We’ve been goin’ back n forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No it’s the animal spirits

“The ideas of economists and political philosophers, both when they are right and when they are wrong, are more powerful than is commonly understood. Indeed the world is ruled by little else. Practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influence, are usually the slaves of some defunct economist.”

John Maynard Keynes
The General Theory of Employment, Interest and Money

“The curious task of economics is to demonstrate to men how little they really know about what they imagine they can design.”

F A Hayek
The Fatal Conceit

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Due visioni del mercato /2010/01/18/due-visioni-del-mercato/ /2010/01/18/due-visioni-del-mercato/#comments Mon, 18 Jan 2010 16:52:15 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4832 Il precedente post di Giannino apre una serie di questioni fondamentali su cui probabilmente tornerò una volta letto Ahdieh: per il momento mi limiterò a riflettere sul rapporto tra la visione walrasiana dei mercati e quella austriaca. Il legame, tenue, è che entrambe le visioni sono totalmente individualistiche, anche se con profonde differenze, e le differenze interessanti sul piano della visione walrasiana vs visione mengeriana del mercato sono molto importanti.

Solita premessa: l’idealtipo neoclassico non esiste, esiste una retorica neoclassica e soprattutto un modo neoclassico di insegnare l’economia che fa perdere di vista alcuni temi fondamentali in nome di determinati errori teorici e metodologici. Il perfettismo traspare nelle interviste a Fama o nelle equazioni di Prescott, nei testi di Sargent o nei ragionamenti di Becker, però nessuno rispetta perfettamente la parte. L’idealtipo neoclassico, come tutti gli idealtipi, è una forzatura sociologica.

Nell’economia standard (equilibrio generale walrasiano) l’agente ha una razionalità illimitata e ha in mente una struttura completa (in genere descritta probabilisticamente) del mondo che lo circonda. La sua immagine dell’universo coincide con l’universo stesso, non c’è incertezza ma solo rischio, non c’è errore ma solo correzioni a posteriori dovute all’arrivo di nuova informazione, non c’è mancata coordinazione ma solo un aggiustamento ottimale a fenomeni che sono sempre e comunque reali. Ovviamente esistono modelli di fallimento di mercato, ma i modelli sopra descritti sono la base della visione del mondo dei “liberisti”. Ripeto: sarebbe una forzatura dire che questa è la Scuola di Chicago: gli scritti di Friedman o Phelps non mostrano nulla di questo perfettismo (al contrario, la tradizione più formalistica, per non dire manieristica, è più tipica di certi neokeynesiani). Però le equazioni formali dicono questo, e a questo punto tanto vale prenderle alla lettera e vedere l’effetto che fa.

Nell’economia austriaca ci sono agenti eterogenei con razionalità limitata, che si fanno un’idea del resto del mondo grazie al sistema dei prezzi, e cercano di coordinarsi attraverso di esso usando la propria informazione privata. Ogni novità genera un cambiamento, e lo sfruttamento delle opportunità di profitto e la rimozione delle perdite fa sì che gli imprenditori pian piano riescano a coordinarsi. Esistono gli errori, ovviamente, ed esiste anche almeno un meccanismo sistematico di creazione di errori, la manipolazione del tasso di interesse e del premio del rischio (moral hazard) che fa sì che gli imprenditori siano preda di esternalità sistematiche che portano a risultati imbarazzanti. Il mercato austriaco non è mai all’equilibrio finale, perché la coordinazione richiede tempo (richiede sia movimenti dei prezzi che movimenti delle risorse reali): esistono sempre opportunità di mutuo vantaggio dalla divisione del lavoro ed esistono problemi organizzativi (costi di transazione) che occorre minimizzare in modo da garantire che i vantaggi potenziali della divisione del lavoro siano realizzati al meglio.

Nel modello neoclassico tutto ciò manca. Una delle conseguenze è che non c’è alcun motivo a priori per credere che un politico ben intenzionato possa amministrare l’economia dall’alto. Se veramente ogni agente è massimizzante in quel modo, allora non esiste il problema del calcolo economico di cui parlavano Mises e Hayek. In un mondo dove l’equilibrio walrasiano non è una curiosità intellettuale ma una realtà, non c’è motivo di credere che la pianificazione centralizzata dell’economia sia impossibile. Esistono solo problemi di incentivi, ma i problemi di questo tipo si possono risolvere, magari disegnando qualche “meccanismo”.

In un modello del genere non c’è neanche bisogno della moneta e dei prezzi come strumento di coordinazione (la moneta è neutrale salvo trucchi modellistici ad hoc): l’economia monetaria walrasiana è superflua, perché ogni merce può essere unità di conto, e non c’è veramente bisogno di mezzi di scambio, e manipolare la moneta non ha alcun effetto. L’economia monetaria cerca di spiegare una cosa che per le sue stesse assunzioni è inutile attraverso ipotesi ad hoc riguardo le transazioni o l’utilità della moneta. Poi la Fed fa un disastro e nessuno sa perché: che sorpresa.

La visione dell’economia che viene fuori prendendo alla lettera i modelli walrasiani è poco adeguata a trattare fenomeni come la moneta o capire problemi come la pianificazione economica. Gli agenti dovrebbero essere onniscienti prima ancora di iniziare gli scambi, oppure il banditore walrasiano dovrebbe coordinare gli agenti prima che inizino gli scambi. Senza questo deus ex machina esistono solo scambi di non-equilibrio, e questi porteranno ad una dinamica diversa (come in “The complexity of exchange” di Axtell: wealth effects, path dependency…). Il sistema walrasiano è possibile solo se si conosce l’esito finale del mercato prima di iniziare ad operare sul mercato, errore su cui gli austriaci (si pensi a “Economics & Knowledge” di Hayek) hanno detto moltissime cose fondamentali.

La matematica è una tecnica di trasformazione di tautologie. L’economia walrasiana parte dalla tautologia che esseri onniscienti riusciranno a coordinarsi in maniera efficiente. L’economia keynesiana parte dalla tautologia che se i prezzi non si muovono allora dovranno muoversi le quantità reali (i neokeynesiani sono diventati sofisticati, abbastanza da chiamare i NAS, direbbe Frankie Hi-NRG, ma l’idea è rimasta fondamentalmente la stessa), a meno che un governo onnipotente, onnisciente, infinitamente buono e misericordioso (Nirvana fallacy, si direbbe) non governi la domanda aggregata.

L’economia walrasiana ha superato la sua utilità: esistono fenomeni che si possono comprendere assumendo che certi problemi non esistono, che la moneta è superflua e che gli agenti sanno tutto ciò che è rilevante, ma usare una teoria così limitata e specifica per capire ogni fenomeno economico non ha granché senso, a meno che non viviamo veramente in un mondo walrasiano, cosa del tutto assurda.

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Regime uncertainty /2010/01/11/regime-uncertainty/ /2010/01/11/regime-uncertainty/#comments Mon, 11 Jan 2010 11:56:20 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4710 Di recente sono usciti un articolo sul WSJ e un post su O&M che parlano di regime uncertainty. L’articolo del WSJ, di Becker e Murphy, come il post di Pirrong che cita una prima formulazione della teoria da parte di Schumpeter, applicano una teoria che può essere approfondita leggendo questo articolo di Robert Higgs sulla Grande Depressione.
Io non sono minimamente sorpreso dalla crisi, sapevo che sarebbe avvenuta (non quando) e sapevo che linee avrebbe preso, più o meno (tranne per il fatto che solo di recente mi sono fatto un’idea di cosa ci sia nei mercati finanziari). Non mi stupisco della durata né della profondità della recessione, non mi stupisco dell’elevata disoccupazione né della crisi bancaria né dell’incertezza delle previsioni su ciò che avverrà nel breve-medio termine.
Non me ne stupisco perché vedevo il mondo con gli occhi della cosiddetta “teoria austriaca del ciclo economico”, che, se non fosse stata sviluppata negli anni ’30, si direbbe essere una teoria ad hoc fatta per spiegare la crisi odierna, essendo un “fit” pressoché perfetto delle recenti dinamiche dei mercati reali.
La teoria austriaca dice che la crisi è il riaggiustamento reale ad una insostenibilità reale della struttura produttiva. L’attuale crisi è anche un riaggiustamento reale all’insostenibilità reale della struttura finanziaria, idea che negli austriaci è sempre stata tenuta in formalina, ma che è una naturale estensione della teoria standard degli anni ’30. Tra tutte le teorie del ciclo economico, quella austriaca è l’unica che concepisce la possibilità dell’inconsistenza strutturale del sistema economico, creata in genere (non necessariamente ma quasi sempre) dall’abuso della politica monetaria, e ne deriva le conseguenze economiche.
Non ne risulta però che tutti e soli gli strumenti concettuali austriaci bastino a spiegare ogni crisi: nella Grande Depressione il regime uncertainty di Higgs e Schumpeter e la rigidità dei salari indotta da Hoover e Roosevelt, come anche il protezionismo e la cartellizzazione dell’economia, i programmi di spesa pubblica ed espansione del credito per scavare buche e riempirle (specialità giapponese, negli ultimi due decenni, roba da Mai Dire Banzai) giocarono un ruolo fondamentale nel rendere la crisi profonda e lunga.
Gli articoli linkati precedentemente cercano di spiegare l’attuale crisi allo stesso modo. Io non escludo e, anzi, sono convinto, che si tratti di un’ottima spiegazione, però è una spiegazione complementare a quella di riassetto strutturale tipica degli austriaci.
Solo su una cosa non condivido lo scritto di Becker e Murphy: il far pensare che l’ampiezza del rebound del 1983 sia prova che oggi si sia sbagliato qualcosa per via del regime uncertainty. In realtà, la crisi del 1983 e anni precedenti fu una crisi di ristrutturazione, in cui l’economia passò da una dinamica insostenibile ad una sostenibile. Dov’è questa ristrutturazione oggi? L’economia sembra esser forzata a non ristrutturarsi, per evitare una crisi acuta, col risultato che nel lungo termine l’inefficienza e l’irresponsabilità continueranno a giocare un ruolo chiave nelle dinamiche macroeconomiche.
Il paragone giusto è con la ripresa del 2001: anche quella fu jobless e lenta, come l’attuale. Eppure non c’era certo regime uncertainty: non avevamo il nuovo Roosevelt, Obama, a trasformare gli USA in una socialdemocrazia scandinava. Come mai allora la ripresa fu lenta anche nel 2001? La gravità dell’attuale crisi è che i problemi strutturali del 2007 erano maggiori di quelli del 2000. La lentezza della ripresa nel 2001 fu dovuta al fatto che i problemi strutturali del 2000 erano più gravi di quelli del 1990. Tutto qui: la crisi può essere resa peggiore dal regime uncertainty, ma la causa primaria è l’insostenibilità strutturale. Abbiamo bisogno di Mises, e non di Schumpeter, per capire questo.
Il regime uncertainty spiega un problema, ma non tutto il problema. Spiega che una politica miope e statalista renderà le cose ancora peggiori, ma anche se non ci fosse il regime uncertainty la crisi sarebbe grave, e non è certo colpa di Obama se l’attuale crisi è così profonda: la colpa è di chi ha messo Greenspan a capo della Fed nel 1987, semmai, e cioè Reagan, e di chi ce lo ha lasciato, e cioè Bush I, Clinton e Bush II. Venti anni di follia sono troppi per avere un solo colpevole, del resto.

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Contro l’Austro-masochismo /2010/01/05/contro-laustro-masochismo/ /2010/01/05/contro-laustro-masochismo/#comments Tue, 05 Jan 2010 14:49:57 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4617 Questo post è il seguito del precedente in quanto parlo dei problemi interni della Scuola austriaca, un corpus di dottrine con un ottimo potenziale per spiegare fenomeni quali i cicli economici, ma che da qualche decennio vivacchia in sordina. La Scuola austriaca era parte del mainstream negli anni ’30, ma successivamente è scomparsa dalle riviste che contano, dai libri di testo, e dai programmi delle università, tanto che quasi nessun economista contemporaneo di rilievo ha assorbito le idee della Scuola austriaca nel suo complesso. Questa è l’evidente sintomatologia di un fallimento, ma qual è la diagnosi?

Possiamo distinguere tra cause endogene, autoimposte, e cause esogene. Tradizionalmente, gli austriaci si sono focalizzati sulle seconde, come eventuali bias interventisti delle politiche che fanno sì che solo i keynesiani arrivino nelle università. Non nego che questi fenomeni possano avere un fondamento, ma, se Friedman, Lucas e Prescott un posto l’hanno avuto, il problema non può essere posto solo in questi termini. Focalizzare l’attenzione sulle cause esogene è solo una forma di autoassoluzione, e non serve a niente.

In questo post mi occuperò delle cause endogene, con una particolare attenzione alla teoria del ciclo, perché è l’argomento che conosco meglio. Ogni Scuola è sia una realtà sociologica che un insieme di idee: sebbene ci siano problemi su entrambe i fronti, mi focalizzerò sui problemi sociologici. Infine, di Scuole austriache ce ne sono due: quella ortodossa, diciamo il Mises Institute, e quella eterodossa, diciamo la George Mason University. Quando si parla di Scuola austriaca su internet si intende sempre la prima, e parlerò soprattutto di questa.

Primo problema: mancanza di sviluppi. Dagli anni ’40 in poi non ci sono stati sviluppi interessanti, e diversi temi potenzialmente rilevanti come il ruolo delle istituzioni finanziarie non-bancarie, i flussi di capitale internazionali, i mercati finanziari, e il ruolo del moral hazard sono stati o del tutto trascurati oppure trattati superficialmente.

Secondo problema: sottospecificazione teorica. Esistono una serie di punti della teoria che non derivano logicamente dalle premesse: ad esempio, perché e come gli imprenditori siano tratti in inganno dalla politica monetaria è un tema ancora aperto sul piano teorico. Mises negli anni ’50 diceva che si trattava di una generalizzazione empirica e non di un fenomeno microfondato teoricamente, e ancora oggi stiamo allo stesso punto. Come altro esempio, gli austriaci non hanno mai voluto riflettere sul ruolo della velocità di circolazione della moneta e dei mezzi di scambio non monetari (creditizi) nello squilibrio economico. Le uniche eccezioni sono Hayek, che si dimenticò del problema negli anni ’30, e Horwitz, la cui trattazione è a parer mio insoddisfacente.

Terzo problema: lotte intestine sterili. Chiunque abbia letto il dibattito sul calcolo economico tra difensori e critici di Hayek probabilmente si sarà annoiato senza imparare granché. A voler semplificare, gli ortodossi affermavano, contro ogni evidenza, che Mises e Hayek dicevano cose opposte, mentre gli eterodossi si rendevano conto della complementarità, quando non della somiglianza, tra le due analisi. Il dibattito è stato violento, ma soprattutto sterile. Il dibattito sul free banking non è stato migliore: ognuno argomenta contro tesi che gli altri non difendono e dimentica di analizzare i temi realmente fondamentali, e così gli ortodossi continuano a ragionare come se fosse provato che ogni espansione del credito monetario, e solo questa, generi instabilità, e gli eterodossi come se il problema non esistesse (col risultato che alla fin fine non rimane nulla di austriaco nelle loro costruzioni teoriche).

Quarto problema: incapacità di interagire con l’economia contemporanea. Non è utile continuare a criticare Keynes, Friedman e Arrow-Debreu nel 2009: nel frattempo è successo molto in tutti i campi. Mentre non conoscere una Scuola eterodossa può non essere un problema, non conoscere il mainstream è masochistico: sarebbe come fare ricerca scientifica in italiano anziché in inglese. Le critiche austriache al mainstream sono spesso antiquate, manieristiche e poco informate. Se si vuole esser presi sul serio dagli altri, occorre imparare a prendere gli altri sul serio.

Quinto problema: mancanza di operazionalizzazione e di lavori empirici. L’operazionalismo è la dottrina secondo cui ogni teoria scientifica va espressa usando concetti verificabili, osservabili, e misurabili: in forma pura l’operazionalismo ucciderebbe ogni teoria economica, visto che questi desiderata non sono ottenibili. Ciononostante, operazionalizzare, ove possibile, è fondamentale: nessuna teoria è impiegabile per analizzare fatti storici se non è possibile verificare le ipotesi sottostanti ad essa. Questo problema è legato a noiosi dettagli esegetici dell’opera di Mises, letta in termini iperrazionalistici sia da Hayek che da Rothbard, con opposte ma ugualmente erronee conclusioni, su cui non dirò nulla per motivi di spazio.

Queste mie critiche sono quasi tutte concentrate alla Scuola che ho chiamato “ortodossa”, ma sul piano teorico sono molto più vicino alle teorie difese dal Mises Institute che non agli sviluppi difesi dagli eterodossi. Ciononostante, il problema vero è che ci sono problemi interni gravi: la GMU, sul piano sociologico, sta più avanti nella soluzione di questi problemi, mentre sul piano teorico è vero il contrario. In ogni caso, la Scuola austriaca, con questi problemi, si autocondanna all’irrilevanza anche senza bisogno di dubbie cospirazioni stataliste tese a negare un posto in accademia ai “liberisti”. La Scuola austriaca ha sviluppato una sociologia simile a quella delle Scuole marxiste, post-keynesiane o sraffiane, e soltanto il fatto che le teorie difese sono in realtà buone rende la prima diversa dalla altre. Il che, però, è doppiamente un peccato. Occorre smettere di farsi del male da soli, per il bene di tutti.

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Problemi di coordinazione /2010/01/04/problemi-di-coordinazione/ /2010/01/04/problemi-di-coordinazione/#comments Mon, 04 Jan 2010 10:30:20 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4601 Il blog di Boettke e di altri ‘austriaci’ della George Mason University ha cambiato nome: da Austrian Economists è diventato Coordination Problem. Mentre il titolo originale era facilmente riconducibile ad un corpus di dottrine con una ben precisa identità, il nuovo titolo, ispirato al libro di Gerald O’Driscoll “Economics as a coordination problem: the contributions of Friedrich A. Hayek”, non è altrettanto semplice da leggere.
Non mi intendo di marketing e non mi interesso di dibattiti nominalistici, però passare da un’etichetta riconoscibile ad una incomprensibile ai più è una mossa apparentemente strana e su cui quindi occorre riflettere.

Il post che spiega le ragioni della scelta si lamenta che il termine “austriaco” è diventato una palla al piede per il progresso delle idee della Scuola omonima, provocando confusione politica (immagino che il riferimento sia alla confusione con il libertarianism, e all’uso fattone da politici come Ron Paul).
Inoltre ci si lamenta delle innumerevoli (e spesso violente) dispute dottrinali di tipo identitario che indubbiamente hanno fatto sprecare una quantità enorme di tempo e di risorse, e che dall’esterno (e anche dall’uscio, come nel mio caso) danno spesso più l’idea di guerre settarie che non di dialogo teso allo sviluppo della conoscenza scientifica.
In quest’ottica, l’uso di un titolo “incomprensibile” ai non addetti ai lavori è forse più un vantaggio che altro: la Scuola austriaca deve reclutare economisti promettenti, e non blogger politicamente esaltati (io ovviamente mi colloco esattamente a metà strada), con tanto di codazzo imbarazzante (antisemiti, complottisti, signoraggisti…).
Un’altra ragione del cambiamento del titolo è probabilmente la convinzione, che in parte condivido, che il paragidma new-classico non sia più forte come un tempo e che l’economia BRICE, Bounded rationality, Rule following, Information, Cognition & Evolution (Koppl) sarà sempre più importante nel futuro, e su queste cose gli austriaci hanno molto da dire. Qui c’è però un pitfall: passare dal banditore walrasiano agli animal spirits non sarebbe un trionfo degli austriaci, ma dei (post)keynesiani, come mostrato ad esempio dall’articolo di De Grauwe da me discusso tempo fa. In ogni caso, c’è molto del buono in queste teorie, e personalmente ho apprezzato molto alcuni paper di Robert Axtell sull’analisi computazionale dei mercati e sui modelli ad agenti eterogenei: era economia misesiana espressa in linguaggio informatico.
Per il resto, il post rende chiaro che le posizioni austriache in senso dottrinale rimangono comunque al centro degli interessi degli autori del blog, e quindi si tratta di una ricollocazione di marketing e non certo di una rivoluzione di teoria economica: si tratta di comunicare meglio determinate idee, oltre che svilupparle (e qui il lavoro da fare è ancora enorme, visto che, secondo me, di progressi in campo macroeconomico, all’interno della Scuola austriaca, se ne vedono pochini da decenni, con la sola eccezione di Roger Garrison).
Gli eventi degli ultimi due anni potrebbero spianare la strada alla Scuola austriaca: mentre i new-keynesiani portavano l’economia al disastro, e i new-classici non dicevano nulla perché non avevano gli strumenti teorici per capire cosa stesse succedendo, che qualcosa di orribile dovesse accadere lo si poteva capire leggendo libri del 1912 come la “Teoria della moneta” di Mises… non è possibile essere teoricamente irrilevanti se alla fine in pratica si ha sempre ragione.
Anche se la crisi molto probabilmente produrrà un rafforzamento delle cause stesse della crisi, cioè della discrezionalità new-keynesiana, una serie di nuove opportunità teoriche potrebbero dischiudersi. Dal collasso della macroeconomia contemporanea, che deve a Keynes più di quanto una scienza rispettabile dovrebbe, potrebbe risorgere un modo più realistico e profondo per vedere il processo di mercato. Ma per fare ciò, non si potranno non rivalutare le teorie di Menger, Mises e Hayek.
Non sarebbe il primo treno che gli austriaci perdono, però: negli anni ’30 il mondo impazzì e dette ascolto ad un ciarlatano dalle idee imbarazzanti, negli anni ’70 reagì al ciarlatano incartandosi però in una concezione “perfettistica”, in senso ricossiano, dei mercati, che merita l’aspro commento di Roger Garrison “L’economia new-classica si è impelagata nella costruzione di modelli la cui sterilità è insuperata”.
Forse la sconfitta dottrinale degli anni ’70 fu dovuta al settarismo della Scuola, particolarmente forte nei seguaci di Murray Rothbard, a cui si devono in prospettiva la maggior parte delle brutte abitudini della Scuola, e forse cambiare strategia di marketing oggi potrà fare in modo che non si rimarrà intellettualmente indifesi di fronte agli apprendisti stregoni keynesiani e alle loro pseudosoluzioni dalle conseguenze di lungo termine disastrose.
L’economista Axel Leijonhufvud disse che la Scuola austriaca ha difeso un corpus di dottrine tutto sommato valido che altrimenti sarebbe stato dimenticato, ma l’ha difeso con toni spesso settari che hanno danneggiato la credibilità delle dottrine stesse. E’ sicuramente auspicabile risolvere i problemi di settarismo della Scuola austriaca, e l’importante è solo non buttare il bambino con l’acqua sporca. E’ forse ora che la Scuola austriaca rientri nel mainstream, invece di impazzare tra blogger semialfabetizzati e ristagnare senza progressi nell’ortodossia settaria: ammesso che ce ne sia mai stato, non c’è più bisogno ora di rinchiudersi in una setta.
Per motivi giornalistici ho fatto delle semplificazioni: non tutti i neo-keynesiani sono per la discrezionalità, e non tutti i new-classici credono che le politiche economiche discrezionali siano innocue in quanto neutrali (si pensi ad esempio alla teoria della time inconsistency, probabilmente la più grande scoperta teorica degli ultimi decenni). Le mie sono quindi almeno in parte forzature, e questa è un’ottima cosa: l’innesto di idee austriache nell’ortodossia teorica non potrà che essere meno traumatico. In effetti non credo che sia necessaria una “revolution in economics affairs”: del resto fino agli anni ’30 la Scuola austriaca è stata parte integrante della teoria economica standard, e una volta che gli errori intellettuali della macroeconomia keynesiana, del positivismo friedmaniano e del perfettismo new-classico saranno ricusati, la frattura si sarà ricomposta (con pressoché totale trionfo delle tesi di Mises e Hayek, a mio parere).
L’economia sta abbandonando il binario morto keynesiano (Garrison) o si sta impelagando ancora di più in esso? Le conseguenze economiche dell’attuale crisi dipenderanno molto dalla capacità degli austriaci di innestarsi nel dibattito accademico di qualità e arricchirlo. Viviamo in un’epoca molto interessante, e altrettanto pericolosa.

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Paul Samuelson: grande un tempo, poi meno /2009/12/14/paul-samuelson-grande-un-tempo-poi-meno/ /2009/12/14/paul-samuelson-grande-un-tempo-poi-meno/#comments Mon, 14 Dec 2009 12:18:07 +0000 Oscar Giannino /?p=4300 Con Paul Samuelson, morto a 94 anni, scompare uno dei più grandi economisti del secolo scorso. Nessun altro ha venduto cinque milioni di copie di un manuale, come Samuelson con il suo “Economia”, per 50 anni aggiornato dopo la prima edizione, del 1948. Almeno 40 milioni di laureati in economia in tutto il mondo, si calcola, hanno studiato sul suo manuale. E nessun premio Nobel per l’economia, fu il primo americano a riceverlo nel 1970, ha mai esercitato un’influenza così profonda non solo sulla sua materia, ma sul dibattito pubblico americano e mondiale come Samuelson è stato capace di fare. Negli anni ’60 e ’70 l’unico a contendergli il primato fu Galbraith, ma Samuelson da primo grande allievo di Schumpeter lo eclissò, collaborando con John Kennedy “perché l’economia in mano ai politici è cosa troppo seria, per lasciarla a Galbraith”, come ebbe a dire. Non c’è stata praticamente grande testata americana, dal New York Times a Newsweek, per cui non abbia scritto. Come giudicarlo, in questo ricordo che non è per tecnici ma magari per chi non lo ha mai conosciuto? Grande all’inizio e per decenni. Poi, un po’ meno. Anzi: parecchio meno. Almeno questa è la mia opinione.Difficile incasellare in formule decenni di attività poliedrica di un vero guru della vita pubblica, come è stato Samuelson. Proviamoci comunque. Distinguendo tre aspetti. Il suo contributo teorico più rilevante, tra i tanti. La sua evoluzione nel tempo. Infine, il suo giudizio sulla politica economica, negli ultimi anni e nella crisi attuale.

Nella storia del pensiero economico, Samuelson resterà per quella che di solito si definisce “sintesi neoclassica”. La realizzò nel 1947 con la sua opera più profonda, I Fondamenti dell’Analisi economica. Suo obiettivo era unire il meglio di Keynes e della sua Teoria Generale, incentrata sul ruolo essenziale della domanda pubblica per equilibrare il ciclo economico, con il meglio della teoria marginalista di Marshall e degli austriaci, nell’analisi dell’equilibrio tra domanda e offerta e nell’interpretazione degli impulsi all’azione nel mercato di individui e imprese. A tal fine, Samuelson fece un salto in avanti nelle formalizzazioni matematiche applicate alla teoria economica. Dopo di lui, l’economia diventò una volta per sempre una disciplina nella quale se non c’è la formalizzazione di un problema sub specie di analisi matematica, allora semplicemente quello non è un problema economico. Applicò i principi della termodinamica all’equilibrio del mercato. Innestandovi la curva di Phillips sulla relazione tra inflazione e disoccupazione, Samuelson divenne l’economista di riferimento del grande balzo americano negli anni Sessanta. Ma rimase inascoltato, di fronte alle conseguenze dei deficit pubblici accumulati per via del Vietnam. E apparentemente sembrò perdere ai punti, quando Milton Friedman a nome del monetarismo di Chicago profetò l’avvento della stagflazione, cioè della somma di inflazione e recessione, che si sarebbe manifestata con gli shock petroliferi.

Ma Samuelson anche in un altro campo, la teoria delle scelte pubbliche, si differenziò fortemente dai liberisti. Per questi ultimi, l’essenziale è che individui e imprese abbiano buone informazioni dai regolatori, per far funzionare bene i mercati. Per Samuelson come per il suo amico Kenneth Arrow, valeva invece prioritariamente cioè che per gli offertisti vale comunque ma sotto alcune condizioni si può attenuare: cioè il principio dell’impossibilità di scelte razionali, sotto la contraddittoria pressione di informazioni incomplete e influenze improprie. Di conseguenza, per la politica e per i regolatori pubblici – della moneta e dei mercati – secondo Samuelson continuavano a valere obblighi d’intervento assai più incisivi che per i liberisti i quali ispirarono Reagan prima, con le sue deregulation, e Bush padre e figlio poi (meno gli ultimi due, in ogni caso: molto ma molto meno).

Anche per questo, Samuelson fino a poche settimane fa, nelle innumerevoli interviste che ha continuato a rilasciare sulla terribile crisi apertasi col fallimento di Lehman Brothers, è stato uno dei più sferzanti critici dei vent’anni alle nostre spalle. A suo giudizio, lo Stato aveva abdicato ad almeno tre ruoli fondamentali, dei quali Samuelson si era convinto negli anni della sua gioventù, quando la grande crisi del 29 aveva sprofondato milioni di americani nella miseria. Lo Stato deve impedire differenze di reddito troppo elevate attraverso il welfare, diceva. Lo Stato deve impedire che banche e intermediari realizzino una redditività del capitale finanziario troppo a lungo maggiore di quella dell’economia reale, aggiungeva prendendosela coi bonus miliardari dei banchieri. E state attenti alla Cina, perché si stancherà presto di comprare i titoli pubblici di un’America troppo squilibrata nella finanza privata e pubblica, ripeteva negli ultimi mesi.

Era dichiaratamente scettico verso alcuni nuovi filoni di ricerca degli ultimi decenni, dalla Neuroeconomy di Kahneman all’istituzionalismo di Douglas North, e tanto meno gli piaceva la scuola delle aspettative razionali di Bob Lucas e Thomas Sargent, che pure molto gli dovevano in gioventù – e sempre glie lo hanno riconosciuto – per i suoi approfondimenti sulla scuola austriaca. Insomma, Samuelson era finito negli ultimi tempi per diventare un paladino del ritorno allo Stato come elemento riequilibatore, come in tutto l’Occidente avviene da un anno a questa parte. Questa, la sua rivincita. La speranza è che i politici sappiano anche ricordare le tante prediche di Samuelson contro i loro eccessi, ora che si accumulano i deficit pubblici. Perché “la storia ha dimostrato che i capitalisti vanno carichi di ottimismo anche al loro funerale”, ripeteva Samuelson. E dunque dagli errori dei politici, a volte, i buoni economisti servono a metterci in guardia più di quanto possa fare chiunque altro. Più di quanto facesse lo stesso Samuelson, negli ultimi tempi. Esaltava Obama, infatti, e sposava le posizioni di Krugman: che afferma di essere il suo miglior erede…

]]> /2009/12/14/paul-samuelson-grande-un-tempo-poi-meno/feed/ 23 Di angeli e amebe /2009/11/10/di-angeli-e-amebe/ /2009/11/10/di-angeli-e-amebe/#comments Tue, 10 Nov 2009 13:11:27 +0000 Pietro Monsurrò /?p=3682 Vado forse un po’ O.T. con un post più teorico che pratico, però i temi in gioco sono fondamentali anche per le potenziali conseguenze pratiche, nella fattispecie di politica economica.

Ad una recente conferenza tenutasi a Munich, l’economista Paul De Grauwe ha presentato un suo lavoro in cui confronta la macroeconomia standard, detta top-down, con un nuovo approccio, da lui chiamato bottom-up, che dovrebbe essere più realistico.

Il contributo di De Grauwe ha due componenti: una pars destruens e una pars costruens.

La pars destruens è secondo me impeccabile. De Grauwe ritiene che i modelli di equilibrio generale alla base delle teorie macroeconomiche moderne (sia new-classiche che new-keynesiane) presuppongono troppo sul piano cognitivo: ritengono cioè che ogni singolo agente economico abbia in testa sufficienti informazioni per capire in ogni dettaglio la struttura del mondo in cui vive, tranne al massimo la realizzazione di un qualche shock stocastico, e sia in grado di risolvere problemi di ottimizzazione mostruosamente complessi per coordinarsi in modo “walrasiano” con miliardi di suoi simili riguardo milioni di merci, semilavorati e fattori di produzione. La migliore analisi economica che evita questo problema è, secondo De Grauwe – e, per quel che conta, secondo chi scrive – è quella di Hayek (si dice sempre Hayek, ma in realtà bisognerebbe dire Mises-Hayek), riguardo l’uso della conoscenza della società e i problemi di coordinazione legati al processo di mercato e al sistema dei prezzi.

Insomma: serve una nuova visione dell’economia che vada oltre l’irrealistico modello walrasiano e tenga debitamente conto della razionalità limitata degli agenti (il sistema dei prezzi effettua “la divisione intellettuale del lavoro”, diceva Mises nel 1920), della complessità e dell’eterogeneità dei processi di mercato, e della limitazione delle nostre informazioni (come sottolineato appunto da Hayek sviluppando la teoria del suo maestro).

Poi si passa alla pars construens, e qui però sorge il dubbio che sarebbe meglio tenersi stretto Walras, Arrow e Debreu e tutta la collezione di modelli più o meno avulsi dalla realtà economica che hanno originato. Infatti, la soluzione di De Grauwe è di modellare la razionalità limitata degli agenti considerandoli quasi completamente idioti: invece che risolvere a costo zero l’irrisolvibile problema di coordinazione walrasiana, gli agenti si limitano a scegliere tra due algoritmi di predizione del futuro (il metodo inerziale di considerare il futuro come il passato e il metodo fondamentale di prendere alla lettera gli obiettivi dei policymaker) in base all’ottimizzazione di una funzione di utilità. Il risultato è che nella pars construens riciccia la parte più post-keynesiana del pensiero keynesiano, cioè la parte che Hicks tralasciò nel  modello IS/LM: gli animal spirits.

L’economia teorica rischia di passare dall’irrealistica assunzione aprioristica di onniscienza ad una altrettanto irrealistica assunzione aprioristica di demenza da parte degli agenti economici. Questo perché la via di mezzo, l’imprenditore creativo che vede un problema e cerca, non sempre perfettamente ma raramente per niente, di risolverlo, non è matematicamente modellizzabile, forse per via dell’ignoranza delle moderne scienze riguardo i processi cognitivi del cervello umano.

Passare dall’economia degli angeli all’economia delle amebe potrebbe non essere un vantaggio sul piano teorico. Almeno l’economia degli angeli spiega come si comporterebbe il mercato in condizioni ideali, e almeno tiene in considerazione (esagerando) i tentativi degli imprenditori di raggiungere lo “stato finale” di perfetta coordinazione.

Che da questa crisi si impareranno lezioni di economia teorica è probabile. Che si imparerà la lezione giusta, visto il precedente keynesiano durante la crisi degli anni ’30, non è invece scontato.

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Salario minimo, salario giusto? /2009/09/03/salario-minimo-salario-giusto/ /2009/09/03/salario-minimo-salario-giusto/#comments Wed, 02 Sep 2009 22:32:58 +0000 Giovanni Boggero /?p=2452

Quanto del valore incorporato in un’automobile sarebbe andato al disegnatore della carrozzeria, quanto all’ingegnere progettista del motore, quanto al manovale adibito al trasporto delle lamiere, perché ognuno di essi potesse conseguire il prodotto integrale del proprio lavoro, senza appropriarsi del prodotto del lavoro altrui? Bruno Leoni

Dopo le pensioni, un altro piccolo regalino elettorale in zona Cesarini targato Große Koalition. Nella giornata dell’altro ieri la commissione paritetica del Ministero del Lavoro (Tarifauschuss), composta da politici, rappresentanti delle organizzazioni datoriali e dei lavoratori, ha infatti stabilito che in tre nuovi settori- già inseriti nella legge ad hoc votata ai primi dell’anno dal Parlamento (Arbeitnehmerentsendegesetz)- verrà introdotto il famigerato salario minimo (Mindestlohn). Alla decisione della commissione dovrà ora fare seguito un’ulteriore ordinanza di approvazione da parte del Ministro del Lavoro, il socialdemocratico Olaf Scholz. I settori in questione sono le grandi lavanderie, le miniere e le imprese di nettezza urbana, che insieme impiegano circa 200.000 persone. Nulla di fatto, invece, nell’ambito delle attività che forniscono servizi di sicurezza -corpi di polizia privati, bodyguard e via di seguito.

Lo scenario rappresentato dai sindacati confederati (DGB) pare- a dire il vero- quello di metà Ottocento, con giovani e pallide lavandaie sfruttate, costrette a lavorare venti ore al giorno vicino ad imberbi minatori ampiamente “sottopagati” e in pessime condizioni psicofisiche. Al di là del fatto che il salario minimo per i lavoratori meno qualificati costituisce un inutile aggravio di costi per le imprese in tempi di crisi ed è risaputo portare in breve tempo a maggior lavoro nero e a un più alto di disoccupazione; ebbene, a parte tali considerazioni di ordine fattuale e statistico, mi pare sia molto più importante arrivare al nocciolo della questione, peraltro già toccata da Alberto Mingardi in un suo precedente post. Se infatti si considera che tra capitale e lavoro non possa esservi armonia, ovvero se si nega che al momento della conclusione di un contratto di lavoro, datore di lavoro e lavoratore abbiano interessi convergenti -”preferenze temporali inverse”, direbbe chi se ne intende- e che ciascuno di essi si metta volontariamente a servizio dell’altro; ebbene, allora porre un limite all’arbitrio del “padrone” che fissa salari “troppo bassi” rispetto alla inalienabile aspirazione del proletario di poter vivere del proprio lavoro, non soltanto è giustificato, ma è anche meritorio. Il problema sta insomma tutto lì: nell’idea ancora oggi in voga che i prezzi incorporino delle quantità di lavoro oggettive e che esista un prezzo giusto. E duole davvero dover ammettere che ad aver contribuito a diffondere una simile fandonia sia stato il caro buon vecchio Adam Smith. Eppure un’ora di lavoro nella lavanderia di Francoforte sul Meno non è mai uguale ad un’ora di lavoro in una lavanderia di Stoccarda o di Schwerin. Le condizioni di lavoro sono mutevoli, le circostanze in cui ci troviamo a lavorare pure, le stesse aspettative delle lavandaie non sono uguali per il mero fatto che tutte quante svolgono lo stesso lavoro. Una lavandaia che proviene da zone meno ricche considererà il prezzo del proprio lavoro in maniera completamente diversa da una lavandaia indigena. Il valore dello stipendio giusto non è quantificabile, è semplicemente soggettivo e dinamico. Si dirà: tutto ciò è vero sulla carta, ma non si può comunque accettare che vi siano persone che vivono con una paga da tre o quattro euro all’ora. Verissimo. Ed infatti nessuno costringe nessuno ad accettare tali offerte di lavoro. Altri diranno che è inumano e cinico approfittare del bisogno di persone in difficoltà. Si potrebbe rispondere che, seguendo questo ragionamento, è altrettanto inumano e cinico, quando si ha fame e si desidera una pagnotta, dover dipendere da un gretto fornaio che ci spilla due euro dal portamonete. Tutti quanti noi abbiamo maledettamente bisogno. E per colmare questo bisogno c’è sempre qualcuno che soccorre con la propria offerta. Prendere o lasciare. Nessun pasto è gratis.

Qui il documento del 2006 con cui l’FDP, il partito liberale tedesco, ha categoricamente respinto al mittente l’ipotesi di salari minimi.

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