CHICAGO BLOG » Scajola http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 N = N(V) /2010/07/27/n-nv/ /2010/07/27/n-nv/#comments Tue, 27 Jul 2010 16:44:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6648 Il polverone che si è sollevato attorno a Umberto Veronesi è una triste dimostrazione delle difficoltà in cui si dibatte il nostro paese. Credo di essere stato tra i primi a proporre il nome di Veronesi come presidente dell’Agenzia, proprio su Chicago-blog. La mia idea era che, tendendo la mano al centrosinistra offrendo il posto a un suo uomo, il governo avrebbe rafforzato quella parte del Partito democratico che nel nucleare ci crede non come una panacea ma, laicamente, come una tecnologia di cui è sciocco fare a meno. La provocazione era stata compresa e rilanciata dalla parte del Pdl che riconosce l’importanza di essere bipartisan, in queste cose. La proposta a Veronesi è infine arrivata, ma con che risultati?

Il quadro politico lo ha ricostruito poco fa Oscar Giannino, col quale mi sono praticamente sovrapposto nello scrivere questo post. Oscar evidenzia una serie di cose molto giuste, per cui non sto a farla lunga. Paradossalmente, indicando Veronesi si è messo il Pd alle strette, tanto che Pierluigi Bersani ha dovuto assumere una contorta e bislacca posizione – lui che, si mormora, in fondo nel nucleare ci crede – chiedendo all’oncologo le dimissioni da senatore. Dimissioni prontamente offerte, ma che non hanno mutato la posizione apparente del Pd. Credo che, in parte, a determinare il crollo degli eventi sia stato anche il modo in cui, nel frattempo, è cambiato il mondo. L’anno scorso, il nucleare era un progetto concreto per costruire il quale era più che necessario, era indispensabile costruire un sentiero di dialogo (come aveva colto perfettamente il responsabile energia e servizi pubblici del partito, Federico Testa).

Da allora è cambiata soprattutto una cosa: Claudio Scajola non è più ministro dello Sviluppo economico. In passato ho espresso tante perplessità sul modo in cui Scajola stava gestendo la faccenda, ma almeno una cosa gli va riconosciuta: la stava gestendo. Le sue dimissioni e lo sconsolante vuoto che hanno lasciato rivelano che, tutto sommato, il nucleare non è nelle priorità dell’esecutivo. Non basta l’impegno del sottosegretario Stefano Saglia: Saglia sarebbe l’uomo giusto, ma non è al posto giusto, nel senso che un sottosegretario è sempre un sottosegretario. Potevano farlo ministro all’Energia, magari scorporando l’Energia dallo Sviluppo economico, e non l’hanno fatto. Ne stiamo pagando le conseguenze (non solo sul nucleare, beninteso).

Il fatto è che tornare al nucleare – cioè costruire l’infrastruttura legale e regolatoria per consentire la costruzione e l’esercizio di impianti atomici – o è una priorità, o non è. Bisogna fare troppo lavoro per svolgerlo nei ritagli di tempo. Non basta darsi buone norme: serve anche credibilità e, per questo, non si può fare senza l’opposizione. La mano tesa del governo, forse allungata fuori tempo massimo ma comunque tesa, è rimasta senza controparte. Credo che questo dimostri, anzitutto, un grave limite del maggior partito d’opposizione: la versione brutale di quello che penso è che Bersani non conti, non abbia il controllo sul partito e dunque ne subisca gli istinti più populisti. La versione diplomatica della stessa cosa è che il Pd non è in grado di ospitare un dibattito interno degno di questo nome e, sulla base di questo dibattito e di quella trascurabile cosa circostante che si chiama “realtà”, di prendere una posizione. Con questa opposizione, verrebbe da dire, chi ha bisogno di una maggioranza: e infatti pure la maggioranza, come vediamo giorno dopo giorno, ha la stessa consistenza di un pupazzo di neve a Ferragosto.

C’è, poi, un altro problema, che emerge anche dalla lettera di Milena Gabanelli sul Corriere, è una scarsa comprensione di quello che il nucleare è. A questo proposito, segnalo l’uscita di un libro molto spiccio e molto chiaro sul tema: Fattore N. Tutto quello che c’è da sapere sull’energia nucleare, di Gino Moncada Lo Giudice e Francesco Asdrubali. Senza troppi fronzoli, Moncada e Asdrubali – due ingegneri e professori di fisica tecnica ambientale – raccontano la verità sul nucleare in quanto tecnologia. Non fanno politica, non appendono gagliardetti. Spiegano come funziona una centrale, che differenza c’è tra le centrali di oggi e quelle di ieri, perché Chernobyl è irirpetibile, quali rischi si corrono e in quali stadi della filiera, eccetera.

Purtroppo, suggerire la lettura di questo libro è, credo, abbastanza inutile, e dunque – mi spiace per Moncada e Asdrubali – inutile è stato scriverlo. Perché nessuno di quelli chiamati a decidere lo leggerà, perché le decisioni sono già state prese e, se l’opposizione le ha prese abdicando al suo ruolo di guardiano responsabile sull’operato del governo (con le dovute, lodevoli, romantiche e pure loro inutili eccezioni), il governo vi ha sostanzialmente abdicato nel momento in cui ha perso gran parte dei primi 2 anni di mandato nei quali si doveva avviare il cantiere istituzionale per il nucleare.

Dunque, N = N(V). Il nucleare (N) può essere - non necessariamente è – essere funzione di Veronesi (V), o di qualunque altro nome preparato e credibile si voglia proporre per la testa dell’Agenzia. Non vi piace l’oncologo? Prendete qualcun altro che abbia competenze, palle e indipendenza (tra pochi mesi ce ne sarà almeno uno disponibile, credo, uno che si è battuto come un leone per rendere il nostro mercato energetico migliore di quanto fosse, e in cambio ha ricevuto pesci in faccia e sgambetti un po’ puerili). Ma un buon presidente non è sufficiente. Ci vuole anche una reale indipendenza, e l’Agenzia di sicurezza nella sua versione attuale non ce l’ha (è di nomina governativa). Ci vuole soprattutto una cultura condivisa: cultura delle istituzioni (non si gioca con gli investimenti) e cultura dell’energia e cultura della tecnologia. Questa cultura condivisa non c’è. Non perché non ci sia una cultura condivisa. Perché non c’è una cultura. E si vede.

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Nucleare entro tre anni. Perché non si può /2010/04/26/nucleare-entro-tre-anni-perche-non-si-puo/ /2010/04/26/nucleare-entro-tre-anni-perche-non-si-puo/#comments Mon, 26 Apr 2010 14:50:30 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5786 Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha spiazzato tutti promettendo che i lavori per la prima centrale nucleare in Italia “saranno iniziati entro tre anni“. La determinazione del Cav. è inedita e lodevole, ma bisogna stare attenti a fare promesse che non si possono mantenere. Sarebbe più utile concentrarsi sui più modesti, ma necessari, obiettivi di breve termine, senza i quali non avremo l’atomo né tra tre, né tra trent’anni.

Sono almeno tre le ragioni per cui promettere che la “prima pietra“, per usare la poetica espressione di Claudio Scajola, sarà messa entro la fine della legislatura. La prima è che, semplicemente, non ci se la può fare. La tempistica per sviluppare e autorizzare un progetto è intrinsecamente più lunga del tempo che ci separa dalla naturale scadenza della legislatura. Lo avevo scritto due anni fa, quando la prima pietra è stata scagliata, e lo confermo oggi. A quelle motivazioni, che restano sostanzialmente valide nonostante gli importanti passi avanti compiuti con la legge 99/2009 e il decreto 15 febbraio 2010, n.31.

In primo luogo, l’Italia, a oggi, non si è ancora dotata dell’apparato regolatorio richiesto, oltre che dal buonsenso, dalle norme internazionali e comunitarie. Se anche un soggetto volesse presentare un progetto, non avrebbe lo “sportello” a cui depositarlo, e non conoscerebbe gli standard tecnici da rispettare. C’è un motivo per cui queste informazioni non esistono: da cinque mesi il paese attende la creazione dell’Agenzia di sicurezza nucleare, il cui statuto continua a rimbalzare tra il ministero dello Sviluppo economico e quello dell’Ambiente senza trovare, per ora, una chiusura. Sebbene le voci di corridoio dicano che la composizione è ormai vicina, niente statuto, niente Agenzia. Peraltro, non di solo statuto è fatta un’Agenzia: servono anche i nomi. Per quel che riguarda il collegio, siamo ancora in alto mare e, se alcuni nodi si sono sciolti (la rosa degli aspiranti presidenti e commissari avrebbe ormai pochissimi petali, alcuni dei quali di indubbio valore), altri restano insoluti.

Sul piano industriale, intanto, continuano le schermaglie: la cordata principale, quella paritetica tra Enel ed Edf, scalpita, ma attorno a essa il mondo è ancora magmatico. Finché Scajola non riuscirà a trovare un ragionevole equilibrio tra gli interessi contrapposti – tanto per citare alcuni comprimari particolarmente vocali, sono al momento a bocca asciutta o quasi A2a e Finmenccanica – la situazione resterà quella, confusa, descritta qualche giorno fa su Repubblica da Luca Iezzi.

Secondariamente, è la stessa tempistica dettata dalle norme oggi approvate che allunga, e non di poco, i tempi. Il nostro Diego Menegon ha fatto i conti in questo Briefing Paper: dal momento in cui le norme sono presisposte, ci vogliono almeno 6-10 mesi perché sia emanata la Strategia energetica del governo, che assieme alle delibere dell’Agenzia dovrebbe delineare il quadro entro cui situare gli investimenti; poi ci vogliono 90 giorni per certificare i siti candidati a ospitare gli impianti, a cui farebbe seguito l’istanza di autorizzazione a costruire impianti, della durata potenziale fino a 14 mesi. Arriviamo così facilmente alla seconda metà del 2011. A questo punto sarà possibile depositare un progetto, per il quale sono necessarie l’Autorizzazione integrata ambientale e la Valutazione di impatto ambientale: a essere ottimisti, ci vorrà un anno, dopo il quale riprenderà la fase concertativa con gli enti locali. Quindi, si potrebbe arrivare alla prima metà del 2013 con un’autorizzazione in mano solo se (a) l’Agenzia e tutti gli altri aspetti normativi fossero immediatamente risolti; (b) l’Agenzia iniziasse subito a lavorare a pieno regime (cosa non scontata data la provenienza eterogenea del personale, non sempre abituato a ritmi di lavoro adeguati); (c) la Corte costituzionale bocciasse, il 22 giugno, il ricorso delle regioni, e contemporaneamente accogliesse quello del governo contro le tre regioni anti-atomo, altrimenti tutto salterebbe per aria; (d) durante l’iter autorizzativo, tutto filasse liscio come l’olio, con progetti a prova di bomba ed enti locali collaborativi; (e) durante e dopo l’iter autorizzativo, nessuno presentasse ricorsi al Tar o simili. Mi sembra che ipotizzare un simile andamento sia del tutto irrealistico. Nel mezzo, ci sarebbero da disinnescare altre mine vaganti come l’individuazione del sito per lo smaltimento delle scorie.

Con questo non voglio fare il pessimista o lo iettatore, ma solo sottolineare che tornare al nucleare è una faccenda dannatamente complessa, che mal si presta a prendere scorciatoie più o meno populiste. Oltre che complesso, creare le condizioni per tornare all’atomo è anche uno sforzo necessario e importante, che richiede la maturità del governo (vabbé) e dell’opposizione (doppio vabbé), oltre che un’adeguata campagna di informazione che sensibilizzi i cittadini dei potenzili siti (vabbé coi fiocchi). Promettere, o enfatizzare, termini che già si sa di non poter rispettare può essere una strategia controproducente, anche se nell’immediato fa molto rumore (tra gli applausi dei supporter e i fischi degli altri). Rischia, però, di essere tanto, troppo rumore per nulla.

PS Ringrazio Antonio Sileo per avermi segnalato un errore sulla tempistica della Corte Costituzionale.

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Più stoccaggi per tutti /2010/04/24/piu-stoccaggi-per-tutti/ /2010/04/24/piu-stoccaggi-per-tutti/#comments Sat, 24 Apr 2010 14:05:27 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5753 Il governo ha approvato ieri, dopo una lunga e incerta trattativa, lo schema di decreto sugli stoccaggi del gas predisposto dal ministero dello Sviluppo economico. Il decreto punta a superare le attuali rigidità del mercato, concedendo all’Eni un margine di flessibilità in più rispetto ai tetti antitrust esistenti (in scadenza alla fine di quest’anno) ma vincolando questa flessibilità alla realizzazione di investimenti adeguati. E’ inoltre prevista la partecipazione di soggetti industriali, direttamente o attraverso consorzi. In questo modo si spera di accompagnare lo sviluppo del settore creando un polmone di dimensioni adeguate, che dia liquidità agli scambi di gas metano, ed erodendo la posizione dominante di Stogit (che sta nel perimetro di Snam Rete Gas, controllata dall’Eni). Sul Sole 24 ore di oggi, Federico Rendina fornisce tutti i dettagli della manovra, e spiega perché essa segna una rivoluzione profonda nel settore. Il decreto introduce sensibili miglioramenti, di cui va dato atto al ministro, Claudio Scajola, e al sottosegretario competente, Stefano Saglia.

Il deficit di capacità di stoccaggio è, infatti, una delle ragioni per cui il mercato del gas, pur formalmente liberalizzato nel 2003, si dimostra asfittico. Nell’anno termico 2008/9, il sistema ha offerto una capacità pari a 13,9 miliardi di metri cubi, di cui circa 5,1 miliardi di metri cubi destinati allo stoccaggio strategico, contro una domanda pre-crisi di quasi 90 miliardi di metri cubi. La quasi totalità di questa capacità (13,5 miliardi di metri cubi) è gestita da Stogit, seguita a distanza siderale da Edison Stoccaggi, con 0,4 miliardi di metri cubi. Un certo numero di società si sono fatte avanti per ottenere la concessione a realizzare ed esercire nuovi siti di stoccaggio – la più rilevante essendo quella di Rivara, da 3 miliardi di metri cubi che potrebbero aggiungere alla disponibilità giornaliera di punta (circa 152 milioni di metri cubi) circa 32 milioni di metri cubi. Tutti i progetti, comunque, sono nelle more dei procedimenti amministrativi.

In questo contesto, è chiaro che un intervento teso a “oliare” il mercato e accelerare la realizzazione di nuove infrastrutture di stoccaggio è come manna dal cielo, sia nell’ottica del funzionamento quotidiano del mercato, sia in quella più di lungo termine della creazione di una borsa del gas degna di questo nome. L’entusiasmo per questo importante passo avanti, il primo dopo anni di tiramolla senza sostanziali sviluppi, è sostanzialmente unanime tra gli stakeholder, compresa Confindustria. Non bisogna, però, confondere un sensibile miglioramento con la soluzione del problema. Resta sul tavolo, infatti, la questione non triviale dei tetti antitrust – strumento odioso ma, nell’attuale assetto del mercato, tristemente necessario a contenere gli abusi, attuali e potenziali. La soluzione potrebbe arrivare solo con la separazione proprietaria degli stoccaggi dall’incumbent, più volte sollecitata, tra gli altri, dal presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis. Infatti,

Circa lo stoccaggio, mentre apprezziamo che ENI sembri apprestarsi volontariamente ad operazioni di cessione (la cui adeguatezza andrà valutata), segnaliamo che le sole misure di regolazione non possono superare gli ostacoli derivanti da un assetto proprietario che vede concentrata in un unico soggetto la massima parte sia degli stoccaggi esistenti sia dei giacimenti potenzialmente riconvertibili a stoccaggio.

Oggi è, dunque, una giornata importante per la travagliata storia della liberalizzazione del gas in questo paese. Soddisfazione ed esultanza sono pienamente giustificati. Sarebbe però ingenuo pensare che qui si chiuda un percorso travagliato e segnato da innumerevoli retromarce e campi minati.

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Scajola, le Regioni e il nucleare /2010/02/04/scajola-le-regioni-e-il-nucleare/ /2010/02/04/scajola-le-regioni-e-il-nucleare/#comments Thu, 04 Feb 2010 18:41:44 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5047 Il governo ha impugnato le leggi regionali anti-nucleari di Puglia, Campania e Basilicata. Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha spiegato che “l’impugnativa delle tre leggi è necessaria per ragioni di diritto e di merito”.

Ha spiegato:

In punto di diritto – ha aggiunto – le tre leggi intervengono autonomamente in una materia concorrente con lo Stato (produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica) e non riconoscono l’esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, della sicurezza interna e della concorrenza (articolo 117 comma 2 della Costituzione). Non impugnare le tre leggi avrebbe costituito un precedente pericoloso perchè si potrebbe indurre le Regioni ad adottare altre decisioni negative sulla localizzazione di infrastrutture necessarie per il Paese». «Nel merito – ha continuato il ministro – il ritorno al nucleare è un punto fondamentale del programma del Governo Berlusconi, indispensabile per garantire la sicurezza energetica, ridurre i costi dell’energia per le famiglie e per le imprese, combattere il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra secondo gli impegni presi in ambito europeo.

La mossa era prevedibile e doverosa. Costituisce anche una risposta indiretta all’attacco uguale e contrario delle regioni che hanno a loro volta impugnato la legge “sviluppo”, con l’argomento di essere state estromesse di fatto dal processo di valutazione e autorizzazione degli investimenti nucleari. Scajola ha fatto bene a replicare duramente, e con le stesse armi, ai governatori che hanno voluto, per primi, interpretare col massimo grado di politicizzazione la questione dell’atomo. Sarebbe auspicabile che, ora che i contendenti si sono mostrati i denti vicendevolmente, procedessero al disarmo. Portare una scelta politica (il ritorno all’atomo) e regolatoria (il modo in cui ciò dovrà avvenire) nelle aule giudiziarie è il modo migliore per affossare le speranze di quanti ritengono che il nucleare debba essere un’opzione a disposizione delle imprese. Si dirà: è proprio questo che le regioni antinucleari vogliono (o dicono di volere, nel caso l’attacco sia puramente strumentale – come in Liguria, regione che non potrà mai ospitare impianti per ragioni morfologiche e che dal disegno scajoliano ha solo da guadagnare, visto il ruolo che nella prospettiva del ministro gioca la genovese Ansaldo).

La domanda che i governatori dovrebbero farsi, e tutti quanti dovremmo farci, è: a che costo? Se il ricorso delle regioni avesse successo, gli investitori (non solo quelli attivi nell’atomo, beninteso) riceverebbero l’ennesimo segnale di un paese che procede a zig zag, incapace di prendere decisioni e quindi sempre pronto a delegarle ad altri (l’Europa) o a strutture tecnocratiche e politicamente irresponsabili (la giustizia, la burocrazia). Come risultato, gli investimenti in tutti i settori ne soffrirebbero, l’attrattività della nostra economia ne soffrirebbe, e in ultima analisi le nostre prospettiva di crescita e, nel breve, di uscita dalla crisi.

Gli avversari del nucleare giocano sistematicamente due carte. Una è quella della sicurezza e dell’ambiente: bene, ma allora perché non cercano di ottenere norme più restrittive? L’altra è quella della presunta non economicità dell’atomo: bene, ma allora perché non si siedono sulla sponda del fiume nell’attesa del cadavere di chi lo fa? La verità è che la parola “atomo” è l’equivalente del drappo rosso agitato davanti al toro, che condensa tutti i tic, tutti i riflessi pavloviani, e tutti i pregiudizi culturali di ecologisti senza scrupoli, nemici del capitalismo senza se e senza ma, piangitori di professione e professionisti della contestazione. Le forze politiche – tutte – dovrebbero superare la loro malattia infantile, entrare – almeno – nell’adoloscenza e prendere sul serio una partita importante e, se bene interpretata, virtuosa. Virtuosa per l’economia, virtuosa per l’ambiente e virtuosa per la credibilità del paese.

Questa volta, dunque, a dispetto delle tante critiche che gli abbiamo rivolto, non possiamo che applaudire a Scajola. Nella speranza che il dibattito sul nucleare si sposti rapidamente sul terreno delle cose e dei fatti, e che potremo finalmente smetterla di affrontarlo come le due tifoserie opposte di un derby calcistico.

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Nucleare. Tre proposte per migliorare il decreto /2010/01/19/nucleare-tre-proposte-per-migliorare-il-decreto/ /2010/01/19/nucleare-tre-proposte-per-migliorare-il-decreto/#comments Tue, 19 Jan 2010 10:14:11 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4836 Oggi inizia, nelle Commissioni parlamentari competenti, l’esame dello schema di decreto approvato dal governo il 22 dicembre 2009, sulla realizzazione e l’esercizio degli impianti nucleari. Il decreto, segnato chiaramente dalla mano del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, rappresenta finalmente un solido elemento di discussione: si cominciano, insomma, a vedere i contorni di un fatto reale, e non più mere parole o promesse. Rispetto alle intenzioni originali, è possibile constatare significativi passi avanti, tesi a calare la tecnologia atomica nel contesto di un mercato liberalizzato. Diego Menegon, in questo Briefing Paper dell’IBL, entra nel merito dei problemi.

Il giudizio è generalmente positivo, soprattutto rispetto alla scelta di lasciare al mercato (cioè agli operatori) l’individuazione dei siti. L’Agenzia per la sicurezza, infatti, emanerà delle linee guida ad excludendum, che consentiranno di definire le condizioni ostative alla creazione di un impianto. Spetterà però a chi è materialmente interessato a investire nell’atomo – in primis la cordata Enel/Edf, a seguire altre eventuali cordate concorrenti – trovare un sito appropriato e presentare un progetto alla roulette autorizzativa. Questo processo è molto più logico del contrario – lo Stato individua i siti e li assegna tramite gara – non solo perché scorre parallelo a quanto avviene per qualunque altro impianto di produzione elettrica, ma anche e soprattutto perché indebolisce, e molto, le possibilità governative di pianificazione numerica e, dunque, di decidere direttamente chi deve fare cosa e quanto.

Restano, però, degli elementi ambigui, che meritano un intervento. I tempi ci sono e, se il governo continuerà a gestire il nucleare in un’ottica di dialogo con l’opposizione, non è improbabile che almeno alcuni punti vengano fissati. In particolare, Menegon avanza tre proposte:

-          ribaltare le regole del dialogo tra poteri pubblici e operatori privati nella definizione delle linee strategiche. Il testo trasmesso al parlamento prevede che l’esecutivo definisca una strategia nucleare alla quale le imprese sono tenute a dare attuazione con propri programmi equiparati per molti aspetti ad atti della pubblica amministrazione. Occorre, invece, chiarire la natura di soft law della strategia nucleare, garantire la partecipazione degli operatori alla sua definizione e liberare i successivi passi della politica nucleare (definizione dei parametri per l’individuazione dei siti e presentazione delle istanze di autorizzazione) dall’adozione definitiva della strategia nucleare.

-          unificare (davvero) il procedimento. Attualmente è previsto un procedimento di certificazione dei siti, su iniziativa degli operatori, distinto dal procedimento autorizzativo degli impianti. Accorpando i due procedimenti si avrebbe non solo una semplificazione ed una significativa riduzione dei tempi (probabilmente di oltre 14 mesi), ma si garantirebbe in modo più efficace la certezza del diritto e il principio di legittimo affidamento; concentrando il momento della concertazione con regioni ed enti locali in alcuni momenti salienti del processo decisionale, infatti, si conterrebbe il rischio di veder sconfessata da una nuova maggioranza politica un’intesa conseguita con l’amministrazione regionale uscente.

-          affidare le attività di smantellamento degli impianti a fine vita agli esercenti. Lo schema di decreto contraddice l’orientamento del legislatore comunitario, conferendo ad un unico soggetto un diritto di esclusiva sull’espletamento delle medesime attività, per altro in un regime di fissazione dei costi che sfugge ad ogni controllo e che espone gli operatori all’impossibilità di poter verificare la giustezza delle richieste economiche loro avanzate. È opportuno, invece, che siano gli operatori a provvedere al decommissioning e che il relativo fondo sia istituito per garantire le risorse in caso di default dell’operatore.

A queste criticità se ne aggiungono altre due, una interna e una esterna al decreto. Quella interna riguarda le modalità di compensazione a favore dei cittadini delle aree interessate. Pensare di applicarle alla bolletta della luce è discutibile, sia per ragioni antitrust, sia perché di fatto significherebbe fiscalizzarle, secondo processi tortuosi e ambigui. Si possono considerare diverse opzioni: io resto persuaso che il modo migliore sia attraverso un contributo cash, che sia una tantum o ricorrente. Il secondo problema è quello dell’Agenzia di sicurezza, il cui ruolo – tecnico e di comunicazione – è, contemporaneamente, la pietra di volta e l’anello debole della catena nucleare. Vuoi per il sottofinanziamento (1,5 milioni di euro nel 2010…), vuoi per la procedura di nomina insufficiente a garantire l’indipendenza (nomina governativa senza ratifica parlamentare a maggioranza qualificata) è forte il rischio che tale organismo venga visto come un’emanazione diretta dell’esecutivo, piuttosto che un ente di garanzia, tecnicamente credibile e socialmente accettato. La qualità delle nomine potrà davvero fare la differenza.

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Ancora sul Cip6. 4.100 megawatt a gennaio, quanti a fine 2010? /2009/12/04/ancora-sul-cip6-4-100-megawatt-a-gennaio-quanti-a-fine-2010/ /2009/12/04/ancora-sul-cip6-4-100-megawatt-a-gennaio-quanti-a-fine-2010/#comments Fri, 04 Dec 2009 08:38:43 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4141 Non sono ancora chiare tutte le conseguenze del decreto Mse sulla risoluzione anticipata volontaria delle concessioni Cip6. Sul Sole 24 Ore di oggi, Jacopo Giliberto parla efficacemente di “uno scivolo agevolato, un prepensionamento incentivato, un’offerta cui non si può dire di no”. Non è ancora chiaro, però, chi ci guadagna e chi ci perde, e dunque chi si adeguerà e chi, invece, proverà a opporsi al caloroso suggerimento che arriva da Via Veneto. Per mettere qualche punto fermo, è utile leggere questo informato e notizioso articolo, pubblicato ieri sulla Staffetta Quotidiana (che ringrazio per l’autorizzazione, qui in originale per abbonati): secondo il decreto, potrebbero chiudersi un massimo di 3.300 megawatt, su un monte complessivo dipotenza assegnabile pari a 4.100 megawatt a inizio anno prossimo. Quanti faranno ricorso alla risoluzione volontaria? E con quali conseguenze per il sistema?

Cip6: 4.100 MW a gennaio, quanti saranno a fine 2010?

Le quote esatte: 17% va ad AU e l’83% al mercato libero. Istanze di risoluzione verosimilmente alla fine del 1° trimestre 2010. Da esse dipenderanno la riduzione del “monte Cip6″ e le modalità di recupero in tariffa Quanti dei 3.300 MW capacità produttiva Cip6 eligibili per la risoluzione anticipata delle convenzioni aderiranno al meccanismo lo si inizierà a capire, almeno in parte, dopo il 21 dicembre, termine per la presentazione delle istanze (non vincolanti) al Gse. E in ragione delle convenzioni che verranno effettivamente interrotte e liquidate in anticipo diminuirà anche il quantitativo di energia Cip6 assegnabile al mercato libero e all’Acquirente Unico nel 2010 – un “monte” di elettricità a prezzo contenuto e prevedibile particolarmente appetito da alcuni grandi consumatori italiani. Le quote esatte previste dal decreto, firmato il 27 novembre scorso dal ministro Caludio Scajola, sono le seguenti: 83% per il mercato libero e 17% per l’AU. Visto il meccanismo di exit strategy dal Cip6, tuttavia, i 4.100 MW iniziali potrebbero ridursi nel corso dell’anno di un massimo di 3.300 MW (le produzioni da gas di processo e combustibili fossili). Secondo il decreto, ogni 20 del mese per il mese successivo il Gse annuncerà il totale di energia assegnabile sulla base delle risoluzioni avvenute fino a quel momento. Queste ultime potrebbero verosimilmente iniziare a dare i loro effetti verso la fine del 1° trimestre. Per il momento infatti è avviata la raccolta delle istanze non vincolanti di risoluzione, che verranno poi trasmesse al Ministero dello Sviluppo entro fine anno. Il Mse dovrà quindi dettagliare le modalità della rescissione delle convenzioni e di erogazione delle liquidazioni (in un unica soluzione o a rate) in un decreto ad hoc. Solo a questo punto, alla luce di tale decreto – che individuerà modalità di chiusura individuali per ogni singola convenzione – i produttori potranno presentare istanze vincolanti di risoluzione. Dalla data delle istanze, le relative convenzioni risulteranno a tutti gli effetti interrotte, e la relativa energia cesserà di far parte del monte Cip6 2010. Da qui ad allora correrà insomma parecchio tempo. Se è verosimile che qualcuno si lamenterà (si può ricordare che proprio sulle assegnazioni annuali del Cip6 scoppiò la “rivolta” degli energivori che portò alla nascita del Tavolo della domanda nel 2007) il mercato è certamente in condizione di prendere le relative contromisure. Altra questione che resta al momento in sospeso è poi come le erogazioni finanziarie legate alla risoluzione delle convenzioni verranno trasferite in tariffa attraverso la componente A3. Su questa gravano oggi gli oneri per sostenere gli incentivi Cip6 vigenti, e la rescissione anticipata “con sconto” permetterà di ridurre l’importo complessivo a carico dei consumatori. Resta però da stabilire, per così dire, il “fattore tempo”.

Quanto rapidamente l’importo delle liquidazioni verrà posto a carico delle bollette? Dipenderà dal numero e dall’entità delle istanze e dalle relative modalità di rimborso scelte. Lo scenario peggiore per i consumatori sarebbe naturalmente che tutti i 3.300 MW siano “risolti” con rimborso in un’unica soluzione. Un’eventualità tutt’altro che scontata però. D’altro canto è anche difficile immaginare che il prelievo A3 resti possa restare del tutto invariato o inferiore rispetto al passato. 

Da Staffetta Quotidiana, 3 dicembre 2009

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Cip6 Bye Bye? /2009/12/03/cip6-bye-bye/ /2009/12/03/cip6-bye-bye/#comments Thu, 03 Dec 2009 11:46:25 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4113 Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha firmato il decreto che, in applicazione della legge Sviluppo, fissa i criteri per la risoluzione anticipata volontaria delle convenzioni Cip6. Si tratta della famigerara delibera del Cipe che, nel 1992, definì un ricco sistema di incentivi a favore delle fonti rinnovabili “e assimilate“, categoria entro cui col tempo è entrata praticamente qualunque cosa. La vicenda del Cip6 – e le ragioni per cui esso è presto diventato uno scandalo, ma in verità lo era fin dall’inizio – è ben raccontata in questo dossier dei Verdi (al netto di alcuni toni, ma depurato dall’attualità è un lavoro ben fatto), mentre dati interessanti sulla dimensione industriale e finanziaria del Cip6 si trovano in questo dossier della Camera (che si basa largamente sui risultati di un’indagine conoscitiva della Commissione Attività produttive della Camera, condotta nel 2003 sotto la presidenza di Bruno Tabacci) e in questo documento dell’Autorità per l’energia. Dopo anni di tira e molla, il decreto Scajola finalmente individua un percorso ragionevole per chiudere questa brutta parentesi. Forse.

Il problema da affrontare era duplice. Da un lato, ovviamente, il Cip6 rappresenta una fetta non irrilevante della bolletta elettrica che tutti i consumatori pagano, e al suo interno stanno impianti inquinanti e costosissimi che non avrebbero mai dovuto essere realizzati, così come impianti che invece sarebbero stati redditivi comunque e quindi non si capisce perché dovessero essere sussidiati. Insomma: dalle fonti verdi agli scarti di raffineria, con tutto quello che ci sta in mezzo. Non solo: la bonanza è andata ben oltre le intenzioni iniziali, ed è durata fino a pochi anni fa. Quindi, dice la logica, prima e più duramente la si chiude, meglio è.

Però. Però, come sempre in questi casi, bisogna andarci cauti. Perché comunque lo Stato si è preso un impegno e non è che possa bellamente ignorarlo. Alcune imprese hanno fatto investimenti sulla base dell’aspettativa che lo Stato li avrebbe remunerati. Senza incentivi, avrebbero messo i loro soldi altrove. Dare un taglio netto era quindi improponibile, come abbiamo scritto a suo tempo. La credibilità del sistema paese è un bene altrettanto importante dell’equità delle nostre bollette. Per quanto fosse giusto e necessario spingere verso una risoluzione – come ha fatto l’Autorità per l’energia, con alterni successi – non si poteva procedere con l’accetta. Anche a prescindere dalle questioni strettamente legali, intendo.

Le ragioni del ministro sono spiegate in una nota del Mse. E’ difficile valutare il provvedimento, anche perché – come sempre – per capirne bene gli effetti bisognerà vederlo in atto. In questi casi, comunque, non esistono soluzioni soddisfacenti. Soddisfacente sarebbe stato non avere il Cip6: i cocci incollati sono e restano cocci incollati. Dunque, esistono solo soluzioni possibili. Se Scajola ne ha trovato una – riuscendo a distribuire equamente l’insoddisfazione tra gli attori interessati – ha reso al paese un servizio importante. Purché alla liquidazione subito – che va bene, se è un modo di chiudere la saracinesca – non segua un nuovo e peggiore sistema di incentivi, come ha evidenziato un confidente di Chicago-blog molto informato dei fatti.

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Fiat e i sindacati nel pallone /2009/11/30/fiat-e-i-sindacati-nel-pallone/ /2009/11/30/fiat-e-i-sindacati-nel-pallone/#comments Mon, 30 Nov 2009 17:09:53 +0000 Andrea Giuricin /?p=4011 L’incontro tra i sindacati della FIAT e il Ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola, in merito alla situazione di Termini Imerese, si è aperto nel modo peggiore. Le parole di  Antonino Regazzi, segretario generale della UILM, che ha affermato di ritenere necessario che “Fiat indichi quali siano le condizioni per aumentare la produzione a 1,5 milioni di auto l’anno” indicano che i sindacati sono completamente al di fuori del mondo produttivo italiano.

Lo scorso anno in Italia sono stati prodotti 659 mila autoveicoli, contro i 5,5 milioni usciti dalle fabbriche tedesche, i 2,2 milioni francesi e i 1,9 milioni inglesi. Tutte queste vetture sono state prodotte dalla casa automobilistica torinese perché, in Italia, nessun gruppo straniero ha il coraggio di investire (forse anche a causa dell’atteggiamento dei sindacati).

In Italia si producono meno auto della Repubblica Ceca e del Belgio e il settore automobilistico è in declino. Fiat ormai ha deciso di diventare un gruppo multinazionale e va a produrre dove le condizioni sono migliori. Condizioni migliori non significano solo costo del lavoro, ma soprattutto semplificazione burocratica e facilità nel fare business.

I sindacati non si sono mai chiesti perché in Gran Bretagna o Spagna, dove non esiste più un gruppo automobilistico nazionale, si producano 3 volte il numero di veicoli che in Italia?

Questa domanda è da rivolgere anche ai diversi governi italiani, che per anni hanno incentivato il settore auto dal lato della domanda. Gli incentivi auto 2009, che hanno dopato il mercato perché in gran parte hanno anticipato una domanda futura, sono costati circa 400 milioni di euro, ma non hanno avuto effetti da un punto di vista produttivo.

I governi Italiani hanno incentivato la domanda, ma mai si sono posti il problema di come aiutare la produzione. Questo doveva essere fatto cercando di favorire l’installazione di produttori esteri, con una semplificazione burocratica e con una maggiore certezza nelle condizioni di business. Non è mai stato fatto e ora ci si trova davanti ad un declino che difficilmente potrà essere recuperato.

Questo non significa che sia impossibile invertire la rotta. Ma al posto di spendere centinaia di milioni di euro in politiche di incentivazione alla domanda, il governo dovrebbe fare delle riforme strutturali per favorire l’arrivo di investitori esteri nel nostro paese.

Una di questa riforma strutturale forse riguarda proprio il mondo sindacale, che con le affermazioni di Regazzi ha mostrato di non comprendere le problematiche italiane.

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Chiudere Termini Imerese? Di Stefano Feltri /2009/11/26/chiudere-termini-imerese-di-stefano-feltri/ /2009/11/26/chiudere-termini-imerese-di-stefano-feltri/#comments Thu, 26 Nov 2009 09:03:46 +0000 Guest /?p=3960 Riceviamo da Stefano Feltri e volentieri pubblichiamo.

Ma c’è qualcuno che ha il coraggio di suggerire che forse Termini Imerese deve chiudere? Il ministro Claudio Scajola parla di “follia”. Il Partito democratico non è molto presente nel dibattito, assai più occupato a nominare la segreteria formale e quella ombra. Ma parlando con la nuova squadra economica di Bersani, sono tutti d’accordo: la fabbrica non deve chiudere.

Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha già spiegato perché quella fabbrica non serve: costa troppo, ogni auto nasce con una tassa da 1000 euro incorporata. E visto che il gruppo cerca di concentrare la produzione e diminuire l’eccessiva capacità produttiva installata, taglia lo stabilimento meno efficiente (o meglio, smette di produrci automobili, cosa ci farà resta un mistero). 

A questo punto ci sono due opzioni di politica industriale: si costringe la Fiat a tenere aperto la stabilimento scaricando, di fatto, sulla fiscalità generale i costi in eccesso in cambio della garanzia che i 1500 posti di lavoro sopravviveranno. Oppure si lascia che la Fiat faccia quello che vuole, usando i soldi pubblici per gli ammortizzatori sociali e per immaginare una politica industriale post-grande industria, per salvare il tessuto economico che sta davvero collassando, quello delle piccole imprese e dei professionisti. Non c’è una soluzione giusta e una sbagliata, ma sono due opzioni da valutare. Invece, su questo dossier, sembra che non ci sia alcuna differenza tra maggioranza e opposizione: il governo è soltanto più esplicito nel dire che la Fiat è in debito perché ha ricevuto gli incentivi alla rottamazione. A una distorsione del mercato, pur legittimata in parte da distorsioni analoghe di cui beneficiavano i concorrenti, si risponde pretendendone un’altra.

Eppure si dovrebbe discutere di cosa succederebbe se la Fiat agisse soltanto con logiche di mercato, delocalizzando e producendo a costi competitivi in Serbia invece che a Termini o a Pomigliano, vendendo auto che costerebbero meno (sia nella produzione che in termini di sussidio pubblico).

Siamo sicuri che l’Italia, nel complesso, ne soffrirebbe? Ci sono i lavoratori, si obietta. Certo: e infatti di loro deve occuparsi lo Stato, sostenendo chi perde il posto, operazione forse più economica di mantenere aperto un intero stabilimento. 

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Un consiglio non richiesto sull’Agenzia nucleare /2009/10/28/un-consiglio-non-richiesto-sullagenzia-nucleare/ /2009/10/28/un-consiglio-non-richiesto-sullagenzia-nucleare/#comments Wed, 28 Oct 2009 18:28:25 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3485 Il primo passo concreto per il ritorno all’atomo - dopo l’approvazione della legge sviluppo, che delega il governo a emanare decreti su una quantità di questioni – è la creazione dell’Agenzia per la sicurezza nucleare. Bozze apocrife dello statuto e quintetti di candidati al momento privi di paternità circolano da un po’, ma i giochi non sono ancora chiusi. E’ significativa e positiva, allora, la mano tesa verso l’opposizione del sottosegretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, che, in occasione del Forum su “Meeting the Challenges of Returning to Nuclear Energy: Italian and US Perspectives” (per gli abbonati a Quotidiano Energia, qui il resoconto di Luca Tabasso), ha avanzato alcune interessanti ipotesi di lavoro.

In particolare, Saglia ha spiegato che

vogliamo sviluppare un confronto con l’opposizione al fine di avere un comune denominatore.

Nella sostanza, questo significa che il governo intende, attraverso le nomine del collegio e di un direttore generale “forte”, dare all’Agenzia quell’indipendenza che, nei fatti e alle apparenze, la legge non le riconosce. Infatti, la nomina dei componenti spetta al governo (il presidente al premier, i membri del board due a testa a ministero dello Sviluppo economico e ministero dell’Ambiente). Non è richiesto alcun parere vincolante, tanto meno a maggioranza qualificata, alle commissioni parlamentari competenti. Quindi, la credibilità dell’agenzia – non essendo garantita dalle procedura di nomina e selezione dei suoi componenti – è legata esclusivamente al loro prestigio.

L’apertura di Saglia, quindi, indica la perfetta comprensione di questo fatto: tanto che il sottosegretario si è spinto a chiedere all’opposizione di indicare una rosa di nomi. Come ha pungolato Giorgio Carlevaro sulla Staffetta (anche qui solo per abbonati) vedremo se sarà il ministero di Claudio Scajola o quello di Stefania Prestigiacomo, a sacrificarsi per spazio alla minoranza. Ma, soprattutto, vedremo se il Pd, regnante Pierluigi Bersani, saprà accettare la sfida. Intanto, dicevo, qualche nome inizia a circolare. E’ coerente con l’auspicio di Saglia? Lascio decidere a voi. Un informato articolo di Luca Iezzi sulla Repubblica di ieri riferisce che in poll position ci sarebbero due nomi: Carlo Jean e Maurizio Cumo.

Il primo è un generale dell’esercito, noto per la sua lucida lettura delle evoluzioni geopolitiche. La sua competenza nucleare (che la legge richiede per i componenti dell’Agenzia) è legata soprattutto all’esperienza come presidente di Sogin, periodo durante il quale non si ricoprì di onore. L’azienda, infatti, non ebbe una performance stellare (tant’è che il cambio-marcia, all’arrivo di Massimo Romano, oggi commissariato, fu evidente). Ma il passaggio più critico della gestione Jean fu il fallimento col deposito per le scorie di Scanzano, che in seguito alle proteste della popolazione fu rapidamente cancellato. Molti ritengono che, all’origine della marcia indietro, stia una fallimentare strategia di comunicazione.

Maurizio Cumo è un ingegnere nucleare sulla cui competenza tecnica nessuno può dubitare, anche lui con un passato da presidente della Sogin durante la gestione Romano.

La mia perplessità su questi due nomi – specie in relazione alla carica di presidente dell’Agenzia – è che, pur non difettando di esperienza e competenza, rischiano di trasmettere la sensazione sbagliata. Come ha detto Saglia, compito dell’Agenzia, specie nelle fasi iniziali, non è solo vigilare sulla realizzazione e l’esercizio degli impianti (a proposito: mancano i soldi e il personale è scarso), ma anche e direi soprattutto “rassicurare l’opinione pubblica”.

Con tutto il rispetto, un ex militare e un ingegnere nucleare non hanno il profilo più indicato per questo. Perché chiunque voglia, anche in malafede, gettare benzina sul fuoco del populismo non dovrà far altro che denunciare il fatto che, per formazione, entrambi sono portati a un “bias” pro-nucleare. Come se ne esce? Secondo me, prendendo sul serio e rilanciando la sfida di Saglia. Cioè trovando un nome – come presidente, non come semplice componente – autorevole, in nessun modo riconducibile al centrodestra, rispettato, stimato e conosciuto. Uno che abbia competenze non tanto relative alla tecnica nucleare – per questo c’è la struttura e ci sono comunque i quattro consiglieri - quanto piuttosto agli aspetti sanitari e ambientali. Uno che la gente comune possa identificare come “uno di cui posso fidarmi”. Uno sicuramente non di primo pelo. Uno, magari, con qualche esperienza politica, ma che si sia distinto per la sua autonomia di giudizio. Magari un anziano e rispettato e indiscutibile oncologo, che proprio in virtù dei suoi studi si è esposto, dal centrosinistra, a favore del nucleare.

Io un nome in mente, in grado di combaciare perfettamente con questo profilo, ce l’avrei anche. E voi?

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