CHICAGO BLOG » russia http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Un’ovvietà sull’Eni e Berlusconi /2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/ /2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/#comments Sat, 04 Dec 2010 17:06:29 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7775 Da quando Wikileaks ha rilanciato i dubbi dei diplomatici americani sul rapporto tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin – dubbi tanto poco riservati che l’ambasciatore Usa, David Thorne, li ha sollevati nella sua prima intervista dopo l’insediamento – tutti i quotidiani italiani fanno la gara a chi, sull’Eni, la spara più grossa. Il comune denominatore della “macchina del fango” è, grosso modo: le strategie dell’Eni in Russia sono dettate dagli interessi personali del Cav., e sono mosse dalla sua amicizia speciale con lo Zar. Credo che questa reazione corale e rabbiosa abbia un che di liberatorio: poiché dell’Eni non si poteva (fino a ieri) dir che bene, e non per nobili ragioni o per le virtù del Cane a sei zampe, adesso non si può dirne che male. Non avendo alcun complesso del genere e non avendo mai avuto atteggiamenti particolarmente teneri, credo di poter dire tranquillamente: avete letto un sacco di sciocchezze. Tutti hanno ricamato sull’inutile, e nessuno ha evidenziato l’ovvio.

Perché quello di cui si è parlato sia inutile, lo chiarisce molto bene Massimo Nicolazzi in un lungo articolo sul prossimo numero di Limes, anticipato oggi dal Foglio. Cito:

I governi, in questo non hanno fatto nè da leva nè da filtro. Al più, hanno fornito una qualche forma di assistenza. Le grandi amicizie, per dirla sommessamente, non c’entrano granchè.

E ancora:

La Politica  con questo sviluppo sembra c’entrai assai poco. Per carità, è comunque meglio se il Nostro [Berlusconi] è amico dell’Altro [Putin]. Però siamo alla marginalità del marginale. E’ l’essere nemici che può far danni, e magari farti discriminare; e non è  l’essere amici che da solo crea opportunità.

Infine:

[I russi, a proposito di Yukos, si sono detti:] Facciamola comprare da un amico fidato, col diritto di (ri)comprarcela a cose più chiare. L’amico prescelto fu Eni, che per essersi prestata ad un’operazione parente stretta di un portage si beccà dal Financial Times la patente di ‘utile idiota’.  Idiozia peraltro benedetta (il Financial Times in realta’ era la voce dell’invidia), e dal cui contorno  Eni ed Enel si sono assicurate un importante contributo di riserve di idrocarburi. La scelta di puntare sull’Eni non fu un mirabolante successo della nostra politica estera. Fu un successo dell’Eni. Ci giocarono anni di rapporti… Qualunque governo sensato non avrebbe potuto che incoraggiare.  Un Presidente del Consiglio al posto di un altro non avrebbe fatto differenza alcuna.

Su quest’ultimo passaggio, preciso che io la penso diversamente sull’opportunità di partecipare all’asta per i brandelli di Yukos, ma sono perfettamente d’accordo con Massimo che qualunque governo si sarebbe comportato allo stesso modo di quello presieduto da Berlusconi. E lo avrebbe fatto perché, nella logica un po’ industriale, un po’ politica e solo un po’ economica che muove l’Eni (e dietro di essa i governi italiani) era perfettamente razionale comportarsi così. Il problema è proprio questo: non gli interessi personali di Berlusconi, che – per quanto rilevanti dal punto di vista politico – sono irrilevanti rispetto alla big picture che stiamo osservando. Non è che che Eni e Gazprom vadano d’amore e d’accordo grazie a Berlusconi: al massimo, Berlusconi, grazie alla sua amicizia con Putin, può trarre vantaggio da una relazione che esisterebbe comunque. In altre parole, tutti cercano di ingigantire le dimensioni di una storia che è piccola piccola, rispetto agli investimenti di cui stiamo parlando (a partire dal gasdotto South Stream, la cui vicenda è raccontata con obiettività da Stefano Agnoli). In altre e più nette parole: gli affari di Berlusconi, che siano verità o menzogna, sono importanti per Berlusconi e per il modo in cui lo valutiamo; sono del tutto irrilevanti per le strategie dell’Eni. Per cui, tutto il complottismo di cui avete letto sui giornali è roba da tanto al mucchio.

Ciò che invece conta è quello che non avete letto e che non leggerete. Ossia che c’è, nell’Eni, uno scandalo: uno scandalo che prescinde da Berlusconi e che investe chiunque stia a Palazzo Chigi. Lo scandalo è che l’Eni, essendo contemporaneamente una società controllata dal Tesoro e il più grande gruppo industriale italiano per capitalizzazione di borsa, è un cappio al collo della libertà di mercato in questo paese. Non è che l’Eni subisca la politica: l’Eni fa la politica. E la fa per l’ottima ragione che c’è un perfetto allineamento di interessi tra l’Eni e il governo, da qualunque partito politico sia detenuto. Finché l’Eni fa soldi, il Tesoro incassa dividendi, che sono percepiti ormai come un’entrata parafiscale. E se per far soldi e staccare dividendi, l’Eni deve mantenere il suo ruolo di monopolista, allora i governi italiani – di centrodestra e di centrosinistra, senza alcuna differenza apprezzabile – manterranno e rafforzeranno il suo ruolo di monopolista.

La vera notizia, oggi, non è Wikileaks, ma il fatto che si è messo in moto il processo per cedere i gasdotti internazionali dell’Eni alla Cassa depositi e prestiti: la notizia è che, pur se cambiano formalmente gli assetti proprietari dei gasdotti in risposta alle accuse dell’Antitrust comunitario di abuso di posizione dominante, in realtà nulla cambia. Il conflitto di interesse si sposta semplicemente più a monte, visto che nel frattempo la Cdp è divenuta il maggiore azionista dell’Eni. Il conflitto di interessi c’era, c’è e ci sarà. Solo che tutto questo sui giornali non lo leggerete perché la macchina del fango è, in realtà, una macchina della fuffa: produce, macina e diffonde solo leggerezze che non contano nulla, se non rispetto alle patetiche sceneggiate del nostro teatrino politico, ma non affronta – se non in modo molto obliquo – le questioni che, invece, sono ovvie e centrali.

Perché c’è un solo modo per sanare il conflitto di interessi, peraltro producendo un duplice beneficio: privatizzare l’Eni. Scindere ogni rapporto tra l’azienda e il governo. Trasformare l’Eni in un’azienda come un’altra, le cui scelte – se investire in Russia o su Marte, nel South Stream o altrove – riguardano lei e i suoi azionisti, ma non sono l’oggetto dei buffi cablogrammi dell’Ambasciata americana né di ridicoli dibattiti politici o di inchieste alla marmellata. Privatizzare l’Eni avrebbe un beneficio diretto: cancellare l’ambiguità che sempre circonda le scelte dell’azienda, e che non è mai chiaro a quale titolo vengano prese. Eliminare le distorsioni del mercato e i meccanismi preferenziali che le norme assegnano a Piazzale Mattei per l’unica, ovvia e perfettamente razionale ragione che l’Eni è lo Stato e lo Stato è l’Eni. La privatizzazione non dovrebbe avvenire con la semplice cessione delle azioni Eni in pancia al Tesoro o alla Cdp (a proposito: un giorno dovremo anche chiederci perché la Cdp esista e se abbia senso mantenerla così com’è).

Dell’Eni bisognerebbe fare spezzatino, dividendola in tre: la rete nazionale e le altre infrastrutture; la “oil company” tradizionale; e la utility che commercializza gas ed energia elettrica. In questo modo, non solo si scioglierebbe uno dei più rognosi nodi gordiani della politica e dell’economia italiane, ma si creerebbero anche quelle condizioni di maggiore concorrenza – attuale e potenziale – che solo una rete indipendente può garantire. Inoltre, la vendita dell’Eni frutterebbe al Tesoro (direttamente o attraverso Cdp) un gettito che spannometricamente si potrebbe stimare in circa 23 miliardi di euro (un terzo dell’attuale capitalizzazione), più fino ad altri 16-17 miliardi (un terzo dei 50 miliardi di valore “nascosto” che, secondo il fondo Kinght-Vinke, potrebbero emerge dopo l’annuncio credibile dello “spezzatino”).

Quindi, sotto il tappeto della discussione sterile e rumorosa, si nascondono 40 miliardi di euro che Giulio Tremonti potrebbe raccogliere. E’ un’ovvietà che discende da informazioni pubbliche, valutazioni mai smentite coi numeri (ma solo a parole), e dalle esplicite richieste dell’Autorità per l’energia. Perché tutti perdono tempo con le stupidaggini, e nessuno si occupa delle ovvietà?

]]>
/2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/feed/ 24
Bp. L’epilogo /2010/09/26/bp-lepilogo/ /2010/09/26/bp-lepilogo/#comments Sun, 26 Sep 2010 09:24:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7148 Ora che “quel maledetto buco” è stato ufficialmente tappato, è il momento di interrogarsi sulle cause dell’incidente, e sull’eredità che esso ci lascia. Due post sul mio blog energetico preferito aiutano a porre la questione in una prospettiva “ampia”, astraendo per un attimo dal redditizio business delle compensazioni, e guardando alla lezione di Macondo. Dunque, cosa è andato storto?

L’esplosione nella piattaforma Deepwater Horizon ha una serie di cause prossime: la sfiga e la cultura industriale di Bp, anzitutto. Ma ha anche cause remote che hanno creato un humus fertile perché le cause prossime scatenassero il disastro.

Partiamo da due situazioni estreme: nella situazione A la proprietà del sottosuolo (e delle risorse minerarie in esso contenute) è “pubblica”, nella situazione B è ”privata” (non mi interessa definire come e chi ne ha diritto allo sfruttamento, è sufficiente che sia un soggetto privato e che i suoi diritti siano chiari e riconosciuti da tutti). Nella situazione A mi aspetto fenomeni di sovra- o sotto-sfruttamento, dovuti al fatto che il governo ritiene di dover spremere la rendita mineraria oppure, all’opposto, che pensa che non sia opportuno turbare l’ecosistema con le trivelle. In entrambi i casi il risultato è socialmente inefficiente. Nella situazione B, invece, mi aspetto che le risorse vengano sfruttate nella misura in cui ciò è conveniente (dati i prezzi relativi delle risorse minerarie e dei beni ambientali, naturali e paesaggistici che, per estrarle, possono essere compromessi). Guillermo Yeatts, già manager di diverse imprese attive nella filiera petrolifera e autore dello splendido Subsurface Wealth: The Struggle for Privatization in Argentina, spiega molto bene i vantaggi di B rispetto ad A. Da un lato, in A la rendita mineraria viene sovente utilizzata per puntellare regimi corrotti e dittatoriali, mentre beneficia poco e/o male le popolazioni direttamente coinvolte dalle attività estrattive. In B, è vero il contrario. Incidentalmente, questa è la ragione per cui la scoperta di un giacimento è un dramma sociale con tinte da Guerra di Troia nella foresta Amazzonica, mentre è una bella notizia, chessò, in Oklahoma. Dove le risorse minerarie sono di proprietà pubblica, l’intero beneficio è catturato dal governo e dalle sue clientele (senza contare che i mezzi di produzione sono normalmente inefficienti). Dove invece esso è privato, il benessere tende a estendersi in un clima di relativa pace sociale.

Cosa c’entra tutto questo con Bp? In fondo, ho appena scritto che gli Usa sono più simili a B che ad A. In realtà, come spiega Rob Bradley, un po’ perché l’estensione delle terre di proprietà pubblica è enorme, un po’ perché le aree offshore ricadono sicuramente (attraverso concessioni e altre diavolerie) in questa categoria, un po’ perché la regolamentazione ha fatto il resto, negli stessi Stati Uniti è in atto un processo di surrettizia “pubblicizzazione delle risorse minerarie”. In questo contesto, il ruolo del governo centrale e del Bureau of Ocean Energy Management (l’ex Minerals Management Service) diventa sempre meno di regolazione tecnica, e sempre più di pianificazione centrale. Quel maledetto buco non ci ha lasciato solo un costoso bando sulle trivellazioni offshore: lascia anche una mole di regolamentazione in crescita, che rischia di andare ben oltre la definizione di requisiti di sicurezza più o meno stringenti (che può incentivare o disincentivare l’assunzione di rischio minerario, aumentando o riducendo i costi di ingresso, ma almeno è relativamente meno distorsiva e relativamente meno arbitraria).

Come spesso accade, insomma, la risposta a un disastro è irrazionale e sbagliata: anziché rimuoverne le cause, essa finisce per ingigantirle. Di fatto, il modo in cui l’amministrazione Obama (e altri governi in giro per il mondo) sta gestendo la faccenda lascia prevedere che, se nell’immediato avremo un giro di vite sulla ricerca ed estrazione petrolifera e quindi una produzione subottimale nei paesi Ocse, nel lungo termine potremmo incrementare il disallineamento tra gli incentivi delle compagnie petrolifere e gli interessi “pubblici” (comunque definiti). E avremo una maggiore dipendenza delle decisioni di investimento dal parere, variamente definito e variamente raggiunto, degli uffici pubblici, con l’inevitabile creazione di azzardo morale (se ho tutte le carte bollate a posto, posso fare cose che altrimenti non farei).

Ci troviamo, cioè, di fronte a un doppio effetto Peltzman: c’è un effetto Peltzman “di primo ordine” in virtù del quale imprese e governi reagiranno ai bandi occidentali spostando produzioni e investimenti nei paesi da cui, ogni giorno e ogni ora del giorno, si dice dovremmo dipendere di meno (non lo dico io, che non me ne frega niente: rilevo che quelli che diventano isterici per il petrolio iraniano e il gas russo, non dovrebbero sostenere bandi e vincoli sulle risorse Ocse…). Poi, c’è un effetto Peltzman di second’ordine in virtù del quale chi ottiene permessi si sentirà “blindato” e dunque agirà prestando relativamente meno attenzione ai rischi reali, e relativamente più attenzione agli obblighi burocratici (come è in parte successo a Bp, in fondo, seppure con una serie di aggravanti).

In breve, per minimizzare la probabilità di incidenti spiacevoli bisognerebbe privatizzare in senso proprio le risorse minerarie (cioè il sottosuolo), ridurre le regolamentazioni alla mera definizione di standard tecnici operativi, e cancellare ogni norma che possa collettivizzare i rischi (come il ridicolo limite alla responsabilità civile delle compagnie petrolifere).

]]>
/2010/09/26/bp-lepilogo/feed/ 2
Yegor Gaidar (1956 – 2009). Il coraggio di essere impopolare /2009/12/19/yegor-gaidar-19-marzo-1956-16-dicembre-2009-il-coraggio-di-essere-impopolare/ /2009/12/19/yegor-gaidar-19-marzo-1956-16-dicembre-2009-il-coraggio-di-essere-impopolare/#comments Sat, 19 Dec 2009 16:49:08 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4369 Oggi la città di Mosca ha reso l’ultimo saluto a Yegor Gaidar, l’architetto delle riforme che hanno consentito la transizione della Russia dalla bancarotta del comunismo a un sistema, più o meno, di mercato. Il presidente russo, Dmitri Medvedev, lo ha ricordato per i suoi

passi decisi per riformare i fondamentali del libero mercato e spostare il nostro paese verso un sentiero di sviluppo fondamentalmente nuovo… In un momento di cambiamento radicale, egli si è assunto la responsabilità di misure impopolari, sebbene cruciali.

Non so se le parole di Medvedev siano sincere, né so se Medvedev davvero interpreti – come alcuni sostengono – lo slancio riformista ancora presente nel paese. Di certo, però, ha colto perfettamente la funzione svolta da Gaidar.

Economista, Gaidar ricevette dall’allora Presidente, Boris Yeltsin, il compito di disegnare le fondamenta della nuova Russia, il paese tutto da inventare che sarebbe sorto dalle ceneri dell’Unione Sovietica. Formatosi alla scuola sovietica e a lungo membro del Partito Comunista, Gaidar fu un interprete lucido e freddo della sua epoca, e capì che le condizioni del paese erano tali da richiedere quella che gli occidentali definirono una “terapia shock” – ma lui disse sempre che era il minimo che si potesse fare, e l’unica alternativa realmente disponibile. Nei pochi mesi in cui fu al potere, prima come primo vicepremier e ministro dell’Economia (dal 1991 all’inizio del 1992), poi come ministro delle Finanze (aprile-giugno 1992), infine come primo ministro (giugno-dicembre 1992), quando fu sostituito da Viktor Chernomyrdin, abolì il regime di prezzi controllati, e soprattutto volle una rapida stagione di privatizzazioni, in modo tale da restituire al mercato gran parte degli asset fino ad allora detenuti dal “popolo”.

Gli anni che seguirono furono turbolenti e difficili, e molti ritennero Gaidar responsabile – o ne fecero un utile capro espiatorio. Non è così. Visto il contesto, la Russia avrebbe comunque attraversato una tempesta economica, e comunque avrebbe conosciuto il declino e la fame. Quello che le riforme di Gaidar fecero, fu di porre le premesse per la crescita successiva. E anche se fu anche grazie al modo in cui avvennero le privatizzazioni che nacque la prima ondata di “oligarchi”, il fatto è che la proprietà pubblica dei mezzi di produzione avrebbe avuto conseguenze ancora più perverse. Gaidar – da uomo di teoria e uomo della pratica, assieme – sapeva e capiva quel che accadeva, e capiva e sapeva che era inevitabile. Le cose hanno poi preso una piega diversa, come è noto, e l’avvento al potere di Vladimir Putin (che pure in una prima fase tenne come capoeconomista al Cremlino uno dei più stretti collaboratori di Gaidar, Andrei Illarionov), specie durante l’accelerazione nazionalista post-Yukos, contribuì a cancellare alcune delle speranze aperte dall’operato di Gaidar. Incidentalmente, nel suo libro Collapse of an Empire, Gaidar metteva in guardia proprio dalla tentazione del nazionalismo, economico e politico. Però, gli onori che gli sono stati tributati al momento della morte – testimoniati dall’ampia e sostanzialmente favorevole copertura garantita dal Moscow Times - provano come, ora che la polvere delle polemiche si è posata e che Gaidar aveva accettato la marginalità in cui era stato costretto, il giudizio sul suo operato sia, naturalmente, positivo.

Un aspetto non irrilevante è quello dell’onestà, intellettuale e personale, di Gaidar, giustamente sottolineato dall’Economist: un uomo che, in un paio d’anni, sovrintese al passaggoi di mano dell’intera potenza industriale sovietica, avrebbe potuto facilmente arricchirsi. Non lo fece. Nè fu, per questo, compensato dalla popolarità: essendo un tecnico, fu spesso indicato come il responsabile di tutti i mali che accadevano al paese, bersagliato dall’opposizione e sostenuto solo in modo volubile da Yeltsin. Grazie all’onestà e al rigore fu, tuttavia, in grado di comprarsi la libertà di parola e di critica, che non sempre e non a tutti sono garantite in Russia. Che lui a questa libertà ci tenesse, e volesse usarla fino in fondo, lo dimostra, per esempio, questo recente paper distillato per l’American Enterprise Institute. L’operato di Gaidar non è, ovviamente, esente da critiche: all’indomani delle sue riforme, Nikolai Petrakov scriveva sul Cato Journal che la liberalizzazione dei prezzi, in assenza di una compiuta competizione, non avrebbe portato nulla di buono. C’è del vero, in questo, ma resto convinto che, con la prospettiva che il tempo ci consegna, le decisioni di Gaidar non possano che essere giudicate positivamente. Chi si sporca le mani con le decisioni concrete, inevitabilmente commette degli errori. Il punto è se fosse possibile, in quel momento e in quelle condizioni, evitarli. La mia sensazione è che no, non fosse possibile.

E ogni paese avrebbe bisogno di un suo Gaidar: un uomo fedele alle idee di mercato, a cui è arrivato attraverso un percorso intellettuale coraggioso, e soprattutto pronto a metterle in pratica, pur sapendo che sarà considerato responsabile dei contraccolpi immediati, senza veder riconosciuto – almeno dall’opinione pubblica – il merito dei benefici di lungo termine.

]]>
/2009/12/19/yegor-gaidar-19-marzo-1956-16-dicembre-2009-il-coraggio-di-essere-impopolare/feed/ 4
La guerra dei tubi – Reloaded /2009/10/06/la-guerra-dei-tubi-reloaded/ /2009/10/06/la-guerra-dei-tubi-reloaded/#comments Tue, 06 Oct 2009 07:36:50 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3123 E voi tifare per Nabucco o South Stream? Non è un derby, ma spesso il confronto, acido e violento, tra politica e interessi nel mondo del gas viene descritto così. Assieme a Francesco Sisci, Massimo Nicolazzi e Stefano Agnoli, speriamo di aver dato un piccolo contributo a capire meglio cosa c’è in ballo, con questo dibattito nato quasi per caso via email e finito sulle pagine web della rivista Limes.

]]>
/2009/10/06/la-guerra-dei-tubi-reloaded/feed/ 4
Benzina: in tutto il mondo è cartello? /2009/07/31/benzina-in-tutto-il-mondo-e-cartello/ /2009/07/31/benzina-in-tutto-il-mondo-e-cartello/#comments Fri, 31 Jul 2009 08:55:26 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1856 Parrebbe di sì, a leggere quanto riferiva un paio di giorni fa il Moscow Times. L’Antitrust russo sta affilando le armi contro il presunto cartello composto dai colossi petroliferi privati, semiprivati e affini: Rosneft, Lukoil, Tnk-Bp e Gazpromneft, accusati di cospirare per mantenere artificialmente alti i prezzi dei carburanti.  L’accusa si concentra sulla apparente lentezza con cui essi si sono adeguati al calo delle quotazioni del greggio. La cosa divertente, almeno per noi che leggiamo da qui, è che il litro di benzina a Mosca costa l’astronomica cifra, si fa per dire, di 23 rubli, pari a circa 52 centesimi di euro, ossia meno della sola accisa sulla benzina (56,4 centesimi) e poco più di quella sul gasolio (42,3 centesimi) in Italia.

Del resto, così come le accuse contro i petrolieri fanno parte da noi dell’orizzonte delle cose certe, lo stesso vale in Russia. L’Antitrust ha erogato multe per circa 300 milioni di euro, all’inizio del 2008, a cui si aggiungono ulteriori sanzioni per circa 35 milioni a testa ai quattro maggiori operatori più tardi nell’anno. Le imprese si difendono accusando il sistema fiscale russo, a loro avviso costruito all’unico scopo di generare gettito anziché fornire una corretta e stabile regolazione del settore.

E’ sicuramente vero, comunque, quanto dice l’economista Igor Nikolayev:

La prima, fondamentale ragione perché abbiamo un’inflazione a due cifre [si stima 12,5 per cento nel 2009], un fenomeno pressoché sconosciuto durante questa crisi, è che abbiamo un problema di competizione… E’ un problema a cui abbiamo dedicato poca attenzione durante gli anni grassi e favorevoli e, come risultato, ne subiamo le conseguenze negative nel momento peggiore, cioè durante una crisi.

Ha naturalmente ragione, ma viene da chiedersi se, nel paese dei prezzi amministrati e nel quale è impossibile per un investitore straniero operare in modo decente, il problema siano davvero le presunte condotte abusive delle uniche cose vagamente simili a soggetti privati. Tanto che lo stesso Igor Artemyev, capo del garante russo per la concorrenza, riconosce che la maggior parte delle violazioni deriva da scelte dei funzionari pubblici. Ed è interessante che, anche sulla scorta del populismo putiniano, la Duma abbia approvato una norma che ne impone il licenziamento. La legge aspetta la firma del presidente, Dimitri Medvedev: arriverà mai?

]]>
/2009/07/31/benzina-in-tutto-il-mondo-e-cartello/feed/ 0
GM si riprenderà prima della Opel “russa” /2009/07/10/gm-si-riprendera-prima-della-opel-russa/ /2009/07/10/gm-si-riprendera-prima-della-opel-russa/#comments Fri, 10 Jul 2009 17:05:44 +0000 Oscar Giannino /?p=1475 I media Usa oggi sono tutti dedicati all’uscita di GM dalla procedura di bancarotta, durata a malapena 40 giorni, con le nuove decisioni di tagliare 450 manager, interi marchi, e un calendario che viene annunciato come ”serrato”, per iniziare e restituire le decine di miliardi di dollari pubblici  gentilmente messi a disposizione dall’Amministrazione USA. Un’impresa da far tremare le vene ai polsi, possibile solo se a questo punto Fritz Henderson e i restanti manager davvero incidono il corpaccione dell’inefficienza GM a colpi di accetta. Improbo sì, però comunque un compito meno improbabile di quello che graverà sulla spalle della ormai ex branch europea di GM, la Opel avviata alla partnership con la cordata  austriaca di nome – Magna – ma russa di sostanza - il gruppo automobilistico Gaz più Sberbank. Le follie recenti di Gaz le trovate descritte qui con abbondanza di particolari. Chiedere per favore ai francesi di Renault, che a inizio 2008 hanno speso un miliardo di dollari per rilevare il 25% di Avtovaz. Il gruppo russo ha perso 800 milioni di dollari su 6 miliardi di fatturato nel 2008, le sue vendite a fine giugno da inizio anno sono inferiori del 47% a quelle del 2008, e i revisori del bilancio lo scorso 2 luglio con grande scorno di Putin hanno scritto nero su bianco di avere a questo punto molti dubbi, sulla capacità aziendale di far fronte alle rate del debito pari a 1,7 miliardi di dollari…

]]>
/2009/07/10/gm-si-riprendera-prima-della-opel-russa/feed/ 1
7 luglio 2009. Crisi del gas? /2009/07/02/7-luglio-2009-crisi-del-gas/ /2009/07/02/7-luglio-2009-crisi-del-gas/#comments Thu, 02 Jul 2009 14:23:25 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1319 Ancora una volta, allarme rosso sulle forniture di gas dalla Russia via Ucraina. In conclusione della riunione del Gruppo coordinamento gas, la Commissione europea ha invitato gli Stati membri a “riempire gli stoccaggi” e prepararsi a eventuali interruzioni “nelle settimane o mesi a venire”. A monte di tutto, la consueta querelle tra Mosca e Kiev sul pagamento degli arretrati. Sul tappeto c’è il prestito da 4 miliardi di dollari che l’Ucraina ha chiesto all’Occidente, per far fronte ai suoi obblighi (anche se, come anticipato qualche giorno fa da Quotidiano Energia, probabilmente un paio di miliardi basterebbero a tranquillizzare i russi).

Il nostro paese, come già lo scorso inverno, non si trova in condizioni critiche. Secondo i dati resi noti da Stogit, la società (recentemente fusa con Snam Rete Gas) controllata dall’Eni che gestisce la maggior parte dei nostri stoccaggi, il livello delle scorte è buono. Inoltre, in questo momento la domanda termoelettrica (che probabilmente salirà con l’acuirsi del caldo estivo) è perfettamente gestibile, e i consumi industriali, pure presumibilmente in ripresa rispetto ai mesi passati, sono lontani dai picchi pre-crisi. Più nel medio termine, entro la fine dell’anno dovrebbe entrare in funzione il rigassificatore di Rovigo, che, assieme allo sbottigliamento dei tubi dall’Algeria, dovrebbe garantire una capacità sufficiente a far fronte a qualunque problema che non sia davvero drammatico.

Se però l’Italia non piange, mezza Europa trema. Molti paesi, soprattutto nell’Est, dipendono integralmente o largamente dagli import dalla Russia, e le dorsali europee non sono sufficienti a garantire l’implementazione di efficaci meccanismi di solidarietà. Peraltro, se l’integrazione infrastrutturale del continente fosse sufficiente, la solidarietà neppure servirebbe, perché basterebbe il mercato: gli effetti dei mancati rifornimenti si “spalmerebbero” sull’intero spazio comunitario, rendendo molto più semplice gestirli e minimizzarne gli impatti. Questo conduce alla domanda che sempre, come un disco rotto, noi dell’IBL poniamo: a che serve l’Europa, se non riesce a promuovere un livello accettabile di integrazione dei mercati, soprattutto in quei mercati che sono naturalmente portati ad avere una dimensione ben più ampia di quella nazionale?

Si arriva così al tema del ruolo delle istituzioni europee, soprattutto in un momento di ampia maretta. Nonostante l’inspiegabile (per me) endorsemente dell’attuale presidente della Commissione, José Manuel Barroso, da parte del Wall Street Journal di oggi, l’attuale Commissione si è caratterizzata per una disarmante timidezza di fronte all’esigenza di piegare le resistenze degli Stati membri alle liberalizzazioni: dal terzo pacchetto energia alla miserabile fine della Direttiva Bolkestein, è tutto un triste elenco di occasioni perdute, come emerge, per esempio, dal modo agrodolce in cui viene trattato dallo Spiegel. Anzi, alle accuse di socialisti e verdi che lo tacciano di estremismo liberista (bum!), Barroso risponde che “non è un crimine essere liberali, ma io non sono un liberale”. Non potrei essere più d’accordo.

Se questo è il contesto, è difficile aspettarsi dal suo secondo mandato (a meno che gli irlandesi non gli diano il benservito votando contro Lisbona) innovazioni. Al massimo, farà peggio, insistendo sempre più sul dirigismo europeo (che per lo più, ma non solo, passa per le regolamentazioni ambientali, che sono il sentiero di minore resistenza da parte dei governi nazionali) e sempre meno sull’apertura dei mercati. Il che implica che, quando (non dico se: dico quando) le beghe tra Mosca e Kiev si ripresenteranno a dicembre, e poi al dicembre successivo, e così via fino alla fine dei tempi, la risposta che Bruxelles saprà e potrà dare resterà: “si salvi chi può”.

Non è una magra consolazione poter dire che, nonostante tutto, è probabile che l’Italia sia fra quelli che si possono salvare.

]]>
/2009/07/02/7-luglio-2009-crisi-del-gas/feed/ 0
Mamma li russi /2009/06/15/mamma-li-russi/ /2009/06/15/mamma-li-russi/#comments Mon, 15 Jun 2009 07:55:53 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1022

]]>
/2009/06/15/mamma-li-russi/feed/ 0
I russi non mangiano più i petrolieri? /2009/05/12/i-russi-non-mangiano-piu-i-petrolieri/ /2009/05/12/i-russi-non-mangiano-piu-i-petrolieri/#comments Tue, 12 May 2009 15:03:24 +0000 Carlo Stagnaro /?p=569 Per qualche accidente della sorte, il numero del 20 aprile di Oil & Gas Journal mi è arrivato solo oggi. Altrimenti avrei dato prima questa notizia che mi pare rilevante: dopo qualche anno di bullismo (come hanno imparato Bp e Shell), complice la crisi, la Russia comincia a rivedere l’atteggiamento aggressivo che ne ha contraddistinto i rapporti con le compagnie petrolifere private. Sulle pagine del settimanale americano, Grigory Vygon (direttore del dipartimento di economia e finanza del ministero delle Risorse naturali e dell’ambiente) spiega le nuove strategie del governo per rendere il paese di nuovo appealing per le major. Il dato di partenza, impressionante, è che tra il 2005 e il 2008, nonostante l’impennata dei prezzi del petrolio, il “free cash flow” dell’upstream è sceso da 7,4 dollari al barile a 2,9, mentre i costi operativi sono raddoppiati (da 9 a 18 dollari al barile) e le entrate fiscali sono cresciute ancor più rapidamente (da 20,1 a 45,3 dollari al barile). Quindi,

le principali ragioni per la riduzione dell’attrattività delle attività esplorative sono un sistema fiscale sfavorevole e l’assenza di stimoli per le regioni per finanziare direttamente tali attività.

Vygon enuncia quindi le nuove linee d’azione del paese che, pur continuando a ritenere “strategici” i grandi giacimenti di petrolio e di gas (che dunque dovranno sempre essere operati da consorzi in cui la maggioranza relativa è in mano a un’impresa pubblica del paese), intende tornare ad aprire le porte agli investimenti privati. L’obiettivo è ambizioso: se il ministero stima in 180 miliardi di dollari l’ammontare complessivo degli investimenti necessari da qui al 2020, il 90 per cento di tali risorse dovranno arrivare da tasche private. Come?

Anzitutto, riscrivendo la normativa fiscale, rendendola più semplice e meno onerosa – e in particolare spostando il peso della tassazione dai ricavi ai profitti delle compagnie petrolifere. Anche la svalutazione del rublo (da un rapporto di 23:1 col dollaro nel 2008 si è passati a 33:1 ad aprile di quest’anno) mira a ridurre i costi del capitale, soprattutto per le piccole e medie compagnie petrolifere private (russe e straniere), che hanno la maggior parte dei costi denominati in valuta russa, i ricavi in moneta americana.  Oltre a questo, il ministero vorrebbe, tramite una normativa ad hoc, stimolare un maggior coinvolgimento delle regioni nelle attività esplorative, spingendole a farsi promotrici di nuove campagne attraverso una compartecipazione significativa al gettito delle aste per ottenere le concessioni esplorative. Infine, il Cremlino ammette l’enorme problema infrastrutturale, per cui si impegna a una vasta opera di ristrutturazione delle pipelines e alla realizzazione di nuovi oleodotti e gasdotti laddove necessari.

Non è del tutto chiaro se questo mutamento di attitudine sia dovuto all’effetto che la crisi sta avendo sulle finanze pubbliche del paese, o se sia – come sembra – il segno di un aggiustamento del tiro più di lungo termine (reso necessario anche dalle buie prospettive di produzione, che rischiano di rendere insufficiente la produzione di gas, come spiegano molto bene Michael Economides e altri). E’ nell’interesse di tutti, russi compresi, un superamento dell’attuale fase di inaffidabilità del paese. Se davvero il crollo del fettito fiscale sarà la molla che ha determinato un’evoluzione a lungo attesa, per una volta si può dire che la recessione non è arrivata invano.

]]>
/2009/05/12/i-russi-non-mangiano-piu-i-petrolieri/feed/ 2