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Posts Tagged ‘ripresa’

La Germania fa boom e rotea lo scettro… da noi invece

13 agosto 2010

La crescita record tedesca nel secondo trimestre annunciata oggi alza di un gradino ulteriore la primazia tedesca sull’intera euroarea. Per almeno tre ragioni. Mostra a tutti gli altri Paesi su quali margini d’intervento rapido di fronte alla più grave crisi del dopoguerra poteva contare chi avesse tenuto in ordine la propria finanza pubblica negli anni migliori precedenti. Stacca tutti – e noi per primi italiani, i diretti concorrenti in questa partita – nell’ammontare, intensità e qualità della domanda estera che Berlino si sta assicurando sui mercati mondiali che più tirano. Nanizza ogni pretesa di una politica comune europea, della domanda e dell’offerta, visto che il gap tra il passo germanico e quello del resto d’Europa si fa più ampio. C’è da riflettere parecchio, venendo alle vicende di casa nostra. Soprattuitto se si pensa che alle elezioni di maggio inNord  Renania Westphalia la Merkel ha perso, perdendo insieme la maggioranza al Bundesrat: epppure nessuno, sia pure nel precipitare dei sondaggi e nella malmostosità del suo stesso partito su cui più volte ha qui scritto Giovani Boggero, si èmesso a pensare a crisi di governo, elezioni, e tanto meno dossier. Prosegui la lettura…

Oscar Giannino commercio mondiale, macroeconomia, ue , , ,

Tre lezioni da Davos. Una su tutte, la politica velleitaria

1 febbraio 2010

  In sintesi sono state tre, le lezioni della quarantesima edizione del World Economic Forum, il grande circo Barnum della globalizzazione messo in piedi da quel geniaccio della comunicazione strategica che è Klaus Schwab. La prima: siamo ancora lontani dal sapere come darci regole nuove condivise per banche e intermediari finanziari. La seconda: possiamo dirlo ufficialmente, a 17 mesi dall’inizio della grande paura con Lehman Brothers, nel mondo post crisi le istituzioni nate a Bretton Woods, Fondo Monetario e Banca Mondiale, hanno perso ogni primazia. Terzo: è inutile illudersi, i timori per la solidità della ripresa in campo europeo sono ancora molto forti. E, quel che è peggio, molto motivati. Prosegui la lettura…

Oscar Giannino Stati Uniti, commercio mondiale, credito, euro, finanza, mercato, ue , , , , , ,

La crisi, le nubi persistenti, Friedman e le riforme

28 dicembre 2009

Il paper Bankitalia sui 100 trimestri di regresso della produzione industriale italiana sui 12-13 di Francia e Germania – di cui ha ottimamente scritto oggi Mario Seminerio – mi induce a qualche considerazione sul 2010, la crisi e l’uscita dalla medesima. Milton Friedman alla fine dei suoi anni amava ripetere che quanto più nella storia americana erano state severe le recessioni, tanto più vigorosa era stata la ripresa che ad esse era succeduta. Se tendete un elastico, più lo tirate più al rilascio la forza accumulata sarà in grado di svolgere un lavoro maggiore, diceva il grande liberista. L’elastico ideale della sua metafora è naturalmente la domanda, la somma cioè della spesa di famiglie, aziende, stranieri e governo. Alla forte ripresa della spesa, le risorse economiche tendono al pieno impiego, cresce la forza lavoro occupata, il capitale si accumula e la tecnologia avanza, in un processo espansivo che di volta in volta porta più avanti il proprio limite. Poiché ogni recessione spinge tendenzialmente l’offerta al di sotto dei livelli di contrazione della domanda, all’arrivo della ripresa l’economia può crescere a un tasso maggiore di quello normale, finché non raggiunge almeno il punto che avrebbe toccato se la crisi non ci fosse stata. Senonché – mi duole molto riconoscerlo, per me è un maestro – la tesi di Friedman non è sempre vera. Rischia di non esser vera questa volta, o almeno non egualmente per le tre macroaree mondiali, Usa, Ue, Asia. Prosegui la lettura…

Oscar Giannino Mercato del lavoro, commercio mondiale, fisco, macroeconomia, ue , , , , , ,

Mercato e debito pubblico italiano

2 novembre 2009

La tesi che ha preso piede nel dibattito pubblico in questi ultimi mesi è che il debito pubblico di un Paese non vada misurato solo in percentuale sul Pil, ma riparametrato anche in ragione del debito privato esistente nello stesso Paese. Poiché il tasso d’indebitamento delle famiglie italiane è tra i più bassi nei Paesi Ocse - pari a un terzo di quelle della “formica” Germania – mentre il tasso di patrimonializzazione è tra i più elevati – al 2007 secondo il World Institute for Development Economics Research dell’Università ONU a Helsinki  eravamo 22esimi al mondo per reddito procapite a parità di potere d’acquisto, ma ottavi per ricchezza procapite davanti a Francia, Germania e Paesi scandinavi, e secondi solo al Giappone per ricchezza mediana per adulto, con il che si indica anche il minor grado di dispersione della ricchezza cioè la minor diseguaglianza sociale quanto a patrimonio - studiosi come Marco Fortis da mesi ripetono che in realtà la mera cifra del debito pubblico fa apparire l’Italia come più malata di quanto non sia davvero, nel contesto internazionale post Lehman (per chi volesse approfondire, qui la recensione del libro di Fortis edito dal Mulino). Se a quello delle famiglie aggiungiamo il debito delle imprese, comunque stiamo meglio di Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Olanda eccetera, sostengono i riparametratori. Non hanno convinto il mercato, però. Almeno sinora, il mercato la pensa diversamente. E poiché è il mercato, a valutare quanto ”rischiano” i debiti e dunque quanto pagano d’interessi, forse bisogna tenerne conto. Ne deve tenere conto sicuramente la politica. Purtroppo, per il mercato stiamo messi parecchio peggio del Giappone. Cerchiamo di capire che cosa può voler dire.   Prosegui la lettura…

Oscar Giannino mercato , , , , ,

Il trucco degli statalisti

7 settembre 2009

Volker Wieland insegna teoria e politica monetaria all’Università Goethe di Francoforte, ed è un tosto scettico dei luoghi comuni ossessivamente ripetuti da statalisti e keynesiani, in merito all’efficacia e alla necessità della spesa pubblica per rilanciare domanda e offerta. Ma poiché è un roccioso tecnico della moneta, preferisce evitare contese ideologiche, per smantellare i luoghi comuni sulla base di paper elaborati e solidamente intessuti di bibliografia. Già tante volte abbiamo scritto della disinvoltura con cui nel corso dell’attuale crisi i keynesiani hanno ripreso a “correggere” i propri modelli – che i più avevano abbandonato – per alzare vertiginosamente l’effetto del moltiplicatore. È il trucco degli statalisti. In questo paper una sua ottima confutazione.    Prosegui la lettura…

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Cernobbio, ciò che non leggerete (e una piccola vittoria)

6 settembre 2009

Si è appena chiusa la rituale tre giorni di Cernobbio, che segna la riapertura del dibattito di politica economica dopo la pausa estiva. Segnalo una nostra piccola vittoria: il fondo straordinario per ricapitalizzare la piccola impresa italiana, l’idea che qui abbiamo lanciato due mesi fa esatti, faticosamente inizia a farsi strada. La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia ne ha riparlato nel suo intervento, il ministro Tremonti l’ha esplicitamente definita un’idea buona e interessante. Vedremo che cosa ne verrà in concreto: lo dico con una punta di diffidenza, ma almeno il nostro compito di modesti suggeritori di buone idee antistataliste abbiamo tentato di svolgerlo. In compenso, vi segnalo l’articolo che da Cernobbio purtroppo non avete letto, sulla stampa italiana. L’ha scritto Ambrose Evans-Pritchard, che era a Cernobbio, sul Telegraph. È ovvio perché. Ai giornali italiani è naturalmente piaciuto l’intervento colbertiano e statalista del premier francese Fillon, salutato da D’Alema come “un vero piano socialista”. Prosegui la lettura…

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Disoccupazione, che fare?

5 settembre 2009

Negli Stati Uniti ferve un dibattito che da noi è molto più in sordina, quello della ripresa senza occupazione. Per esempio stamane era il titolo di due diversi editoriali, del New York Times e del Wall Street Journal. Certo, negli Stati Uniti il dibattito è potentemente aiutato dal fatto che le rilevazioni statistiche sono più frequenti e meglio impostate tecnicamente. Di settimana in settimana viene per esempio aggiornato il numero delle prime richieste di trattamento di disoccupazione, che dalla prima settimana di luglio a oggi è rimasto drammaticamente ancorato intorno a circa 570mila nuove unità. Da noi, simili rilevazioni e tanto frequenti non esistono. Idem dicasi per i diversi aggregati attraverso i quali misurare la disoccupazione per componente – il 9,7% di disoccupati USA in agosto corrispondono al 13% per gli ispanici, al 15% per gli afroamericani, al 25,5% per la componente sotto i 20 anni; ai 26 milioni di americani oggi che non riescono a trovare un lavoro full time bisogna aggiungere un altro 7% di scoraggiati a cercarlo, cioè altri 17 milioni.  Ma non è solo per l’inadeguata monitorazione statistica che qui in Italia il dibattito stenta a decollare. Perché bisognerebbe avere il fegato di dire alcune amare verità. Del tipo: una verticale impennata della disoccupazione potrebbe essere l’altra faccia della medaglia per imprese che, nella crisi, ristrutturino con decisione i propri prodotti e i propri processi, mettendosi prima e meglio nelle condizioni di potersi meglio riposizionare al ripartire della domanda (nel caso italiano, soprattutto di quella estera, perché è nelle manifatturiere esportatrici che si concentra la crisi double digit di fatturato e ordinativi). Al contrario, difendere a tutti i costi la base occupazionale precrisi può essere anche foriero di minori tensioni sociali, ma significa anche che non attuano ristrutturazioni: la produttività resta inchiodata oggi e per il domani. Ancora più grave, in un paese come il nostro che negli ultimi anni, grazie alla maggior flessibilità del mercato del lavoro dalla legge Treu in avanti, ha scelto di estendere la base degli occupati quasi sempre a scapito della produttività.   Prosegui la lettura…

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Rieccomi. Dagli USA e Ue segnali al ribasso

27 agosto 2009

Mi sono dato quattro giorni di pausa, niente giornali né dati, né telefoni né post. Appena rimesso mano al computer, direi che le prime news dall’America non smentiscono il freno tirato che qui abbiamo da qualche tempo, sulla ripresa. L’auto non tira, le banche nei guai aumentano come avevamo previsto, i disoccupati restano tanti. Non mi stupirebbe che riprendesse forza il partito di chi chiede un secondo pacchetto di ancor più sostanziosi aiuti pubblici, come da mesi fa Paul Krugman.

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Politici, deficit e keynesiani

3 agosto 2009

Sulla consunzione della teoria keynesiana del moltiplicatore vi ho già annoiato abbastanza, dunque sapete come la penso. Mi limito qui a segnalarvi un nuovo paper appena rilasciato da Troy Davig, della FED di Kansas City, ed Eric Leeper della Indiana University. È dedicato agli effetti di sostituzione intertemporali e intratemporali di un aumento della spesa pubblica in deficit, e all’effetto ricchezza che s’ingenera a seconda della coerenza tra loro della politica fiscale e di quella monetaria. Una politica monetaria attiva porta poi a inevitabili innalzamenti di contenimento dei tassi d’interesse. Una politica fiscale in passivo induce aspettative di maggiori tasse per il futuro, con contenimento del reddito disponibile rivolto ai consumi. I due studiosi applicano il loro modello alla realtà Usa, ma c’è da riflettere per tutti. Il moltiplicatore della spesa pubblica in deficit diventa maggiore dell’unità solo se “imposto dall’effettiva attuazione di un modello neokeynesiano”, cioè asservendo la politica monetaria a quella della spesa in deficit. E in ogni caso neanche in quello scenario, il moltiplicatore maggiore dell’unità vale per tutti i settori e a prescindere dall’efficacia degli strumenti pubblici attuatori. I politici deficisti hanno di che meditare…

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