CHICAGO BLOG » riforma http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 La liberalizzazione delle rette universitarie, per togliere ai ricchi e dare ai poveri /2010/10/05/la-liberalizzazione-delle-rette-universitarie-per-togliere-ai-ricchi-e-dare-ai-poveri/ /2010/10/05/la-liberalizzazione-delle-rette-universitarie-per-togliere-ai-ricchi-e-dare-ai-poveri/#comments Tue, 05 Oct 2010 12:48:06 +0000 Piercamillo Falasca /?p=7215 Pubblicato anche su Libertiamo.it - Partiamo da un dato: le rette universitarie sono molto inferiori al costo che lo Stato sopporta per erogare ad ogni studente l’istruzione universitaria. Come scrive Francesco Giavazzi su lavoce.info, uno studente universitario costa allo Stato circa 7mila euro l’anno, mentre le rette raramente superano i 3mila euro l’anno. Non giriamoci intorno: con ‘prezzi’ tanto più bassi del costo dell’istruzione, si riduce l’incentivo a studiare e pretendere una elevata qualità del servizio.

Ma c’è di più. Un punto cruciale delle tesi di Roberto Perotti nel suo libro “L’università truccata”  (Einaudi, 2008) è il seguente: rette uguali per tutti, o poco differenziate, sono di fatto un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. L’argomento dell’economista è il seguente: circa un quarto degli studenti universitari proviene dal 20 per cento più ricco delle famiglie; e meno di uno studente su dieci proviene dal 20 per cento più povero. Numero più numero meno – il libro di Perotti usa dati del 2006, ma le cose non sono mutate – la sostanza è questa: all’università vanno soprattutto i figli dei più abbienti, che potrebbero pagare rete più alte, mentre la loro laurea viene finanziata con le tasse di tutti, incluse i contribuenti più poveri, che solo eccezionalmente mandano i loro figli all’università.

E invece, con il risparmio derivante dall’innalzamento delle rette universitarie sarebbe possibile garantire non solo una migliore qualità complessiva, ma anche l’accesso gratuito dei poveri all’istruzione superiore attraverso borse di studio e prestiti d’onore. All’ombra dell’ideologica concezione della giustizia sociale, insomma, prospera la vera ingiustizia dell’accademia pubblica italiana.

Come nasce il problema? Gli atenei non sono liberi di determinare le loro rette, perché per legge (l’articolo 5 del DPR 306 del 1997) la contribuzione studentesca non può superare il 20 per cento dei trasferimenti statali ordinari. Con la conseguenza diabolica che la riduzione dei trasferimenti statali finisce per ridurre in proporzione anche l’ammontare delle risorse reperibili attraverso le rette. Da tempo Francesco Giavazzi e Roberto Perotti (ma l’argomento è da molti anni un cavallo di battaglia di Antonio Martino, per fare un esempio) sostengono che il taglio dei trasferimenti statali alle università – una costante di questa legislatura – è sostenibile e ‘intellettualmente onesto’ solo se accompagnato dalla concessione alle stesse di piena autonomia nella determinazione delle rette. E da tempo il governo fa orecchie da mercante, forse timoroso delle inevitabili proteste dei tanti che, quando parlano di giustizia sociale, non sanno guardare oltre il proprio naso.

Con un emendamento firmato da tre deputati di Futuro e Libertà (Barbaro, Della Vedova e Di Biagio) la proposta di liberalizzazione delle rette arriva oggi in Commissione Cultura alla Camera, dove è appunto in discussione la riforma dell’università. Difficile che la maggioranza si apra, ed altrettanto difficile che il centrosinistra sostenga l’iniziativa, ‘catturato’ com’è in questi ambiti dal peggior sindacalismo studentesco. Ma l’emendamento di FLI è come una goccia di benzina: di per sé non serve a far girare il motore, ma un piccolo incendio nel dibattito lo può provocare. Soprattutto se chi ha davvero a cuore il futuro dell’università italiana farà sentire la propria voce a supporto.

Accanto alla proposta di eliminazione del tetto alla contribuzione studentesca, i tre deputati hanno presentato un’altra misura a nostro giudizio interessante: la deducibilità all’80 per cento delle donazioni private alle università, potenzialmente una spinta decisiva per una vera autonomia degli atenei. Vedremo.

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Il punto sulla Spagna – La riforma del lavoro di Zapatero /2010/09/11/il-punto-sulla-spagna-%e2%80%93-la-riforma-del-lavoro-di-zapatero/ /2010/09/11/il-punto-sulla-spagna-%e2%80%93-la-riforma-del-lavoro-di-zapatero/#comments Sat, 11 Sep 2010 15:05:43 +0000 Andrea Giuricin /?p=6999

È arrivata questa settimana la riforma spagnola del mercato del lavoro. Celestino Corbacho, ministro del lavoro e tutto il governo Zapatero hanno approvato in solitudine un cambiamento necessario. Senza dubbio vi era bisogno di una riforma, perché come “certificato” anche dal World Economic Forum, la Spagna ha un mercato del lavoro estremamente complicato. La posizione nel ranking mondiale stilato dal WEF registra che il Paese iberico si trova al 130esimo posto su 139 Stati in classifica per quanto riguarda la flessibilità del mercato del lavoro. Questo dato potrebbe sorprendere, poiché in Spagna circa il 95 per cento dei nuovi contratti è a tempo determinato. Ma vi sono altri elementi che rendono la Spagna anti-competitiva in questo campo e che hanno portato il Paese ad avere un tasso di disoccupazione superiore al 20 per cento. Anche nelle regioni più ricche, quali la Catalogna o la Regione di Madrid si registrano tassi di disoccupazione superiori al 15/16 per cento. Un’anomalia europea.In primo luogo vi sono il costo molto elevato del licenziamento e la disparità dell’indennizzo di licenziamento tra contratti determinati e indeterminati. Questo argomento è al centro della riforma di Zapatero ed è un elemento che ha creato molta discussione.

Gli imprenditori ritengono che le innovazioni della nuova legge siano insufficienti, così come il partito d’opposizione il Partito Popolare, mentre i sindacati l’hanno giudicato contrario agli interessi dei lavoratori. Per questa ragione il 29 settembre è stato convocato uno sciopero generale da parte dei principali sindacati in un Paese nel quale gli scioperi non sono molto frequenti (come in Italia e Francia).

L’indennizzo per il licenziamento è stato abbassato a 33 giorni lavorativi per anno lavorato nei contratti a tempo indeterminato dai 45 giorni precedenti. Nei contratti a tempo determinato l’indennizzo è stato elevato a 12 giorni per anno lavorato. È stata introdotta inoltre la possibilità, per le aziende in difficoltá economica, di ridurre tale indennizzo a 20 giorni per anno lavorato anche nel caso di contratti a tempo indeterminato. Tale procedura dovrà tuttavia passare da un giudice e molti sono i dubbi sulla reale applicazione.

In questo campo la riforma fa un passo in avanti verso una maggiore flessibilità, anche se rimane una forte dualità tra contratti a tempo determinato e indeterminato.

La flessibilitá del mercato del lavoro spagnolo tuttavia ha altri punti deboli. In primo luogo continua ad esserci una contrattazione collettiva e la riforma non tratta minimamente questo punto. In Italia è stata introdotta la possibilità di stipulare contratti di secondo livello, mentre in Germania il 40 per cento dei contratti di lavoro non segue nessun contratto di lavoro collettivo.

Il sussidio di disoccupazione è un altro punto debole che non è affrontato nella riforma del Partito Socialista al Governo. Questo continua ad essere molto elevato. Inoltre non si sono introdotte clausole molto restrittive per rifiutare altri posti di lavoro da parte del disoccupato. Molti di questi “senza lavoro” preferiscono rimanere nel “paro” e ricevere per tre anni un sussidio molto elevato. La legge che prevede un aiuto di 426 euro al mese per i disoccupati di lunga durata è stata rinnovata un’altra volta, in un Paese nel quale il salario minimo è di poco superiore ai 600 euro.

Vi è un abuso del sussidio di disoccupazione, mentre il salario minimo, che introduce una rigidità del mercato del lavoro, non è mai stato al centro dell’attenzione del Governo.

La riforma è un piccolo passo in avanti, ma si comprende perché è stata criticata da tutte le parti sociali. Quella approvata è una riforma in solitario che difficilmente permetterà una discesa rapida della disoccupazione.

La Spagna continua ad avere un mercato del lavoro poco flessibile e vi sarebbe stato bisogno di una riforma più coraggiosa per scendere rapidamente a tassi di disoccupazione europei.

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Authority: la frittata è fatta, ma non trasformiamola in un menù fisso /2009/12/14/authority-la-frittata-e-fatta-ma-non-trasformiamola-in-un-menu-fisso/ /2009/12/14/authority-la-frittata-e-fatta-ma-non-trasformiamola-in-un-menu-fisso/#comments Mon, 14 Dec 2009 12:04:35 +0000 Piercamillo Falasca /?p=4297 La frittata è ormai fatta, ma sarebbe meglio non trasformarla in un menù fisso. Il nuovo sistema à la Robin Hood di finanziamento delle Authority – si ruba ai ricchi per dare ai poveri – ha probabilmente risolto i problemi quotidiani di quelle amministrazioni in endemica difficoltà finanziaria (come la Commissione per gli scioperi, l’Antitrust e il Garante per la Privacy), ma non ha certo risolto la questione strutturale: come rendere finanziariamente indipendenti tutte le autorità indipendenti, come peraltro richiesto dalle direttive europee, oltre che dal buonsenso? Benedetto Della Vedova ha presentato un ordine del giorno collegato alla Finanziaria affinché il Governo s’impegni ad individuare entro un anno dall’entrata in vigore della manovra economica fonti di finanziamento che consentano ad ogni authority la piena autonomia. E’ auspicabile che maggioranza e opposizione sostengano l’atto d’indirizzo di Della Vedova. A meno che non si voglia rendere permanente la precaria soluzione perequativa, sarebbe bene che tutti gli interessati si sedessero intorno ad un tavolo, chiudessero a chiave la porta, se le dessero di santa ragione ed uscissero con proposte concrete. Se invece le authority continuano a dividersi tra ricche e povere, con le seconde che brigano con la politica per togliere soldi alle prime, rischiano di finire tutte come i capponi di Renzo, nel pentolone del Governo.

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TPL: è necessaria una riforma “all’inglese” /2009/06/01/tpl-e-necessaria-una-riforma-%e2%80%9call%e2%80%99inglese%e2%80%9d/ /2009/06/01/tpl-e-necessaria-una-riforma-%e2%80%9call%e2%80%99inglese%e2%80%9d/#comments Mon, 01 Jun 2009 09:35:38 +0000 Andrea Giuricin /?p=775 Le dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in occasione delle Considerazioni Finali 2009 tenutesi a Roma lo scorso venerdì 29 maggio, sono state molto forti in ambito dei servizi pubblici locali.

In questo settore, tanto importante per l’economia, quanto ancora “fuori mercato”, ricordava il Governatore, è necessario rivedere la riforma apportata lo scorso anno dal Parlamento Italiano.

Lo stesso appunto era stato fatto pochi giorni prima dall’Istituto Bruno Leoni in occasione della presentazione dell’Indice delle Liberalizzazioni 2009.

Le problematiche della riforma, che riguardano tutti i servizi pubblici locali, sono evidenti in diversi punti.

In particolare il decreto legge 112 del 2008 prevede l’assegnazione del servizio tramite gara,  tuttavia con la possibilità di introdurre deroghe laddove il mercato non riesca ad essere ”utile ed efficace a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento”. In questo modo si lascia un’enorme discrezionalità ai diversi Enti Locali di scegliere la modalità in house, poiché non esiste alcuna precisazione circa le “peculiari caratteristiche”.

Le tempistiche delle gare, laddove previste, sono inoltre particolarmente lunghe; infatti il Decreto Legge prevede che le gare dovranno essere effettuate non oltre la fine del 2010, cioè oltre due anni dopo l’emanazione del decreto stesso.

Non ci sarebbero cambiamenti significativi rispetto alla tragica situazione attuale, anche laddove si procedesse ad un miglioramento della riforma a causa diquesta ulteriore motivazione; attualmente l’Ente Locale che fa la gara, possiede anche il principale operatore del servizio, l’incumbent. Questo è particolarmente vero nel trasporto pubblico locale, dove l’inefficienza italiana è stata evidenziata da diversi studi internazionali. Anche se una modifica della legislazione dovesse introdurre l’obbligatorietà delle gare per l’assegnazione del servizio, rimarrebbe il conflitto d’interesse tra Ente Locale regolatore e produttore di servizio.

Troppo spesso, per non dire sempre, le gare di assegnazione di concludono con la vittoria dell’incumbent, poiché l’Ente Locale, pone delle condizioni cosi restrittive che la gara diventa “su misura”.

Esiste una soluzione alternativa che possa totalmente cambiare il panorama nel trasporto pubblico locale e che possa portare ad una riduzione negli sprechi?

Si ricorda infatti che il costo di produzione del trasporto pubblico locale in Italia è più che doppio rispetto ai migliori casi europei, la Gran Bretagna (all’esterno della conurbazione Londinese) e la Svezia.

Nel Regno Unito, dopo la riforma di Margaret Thatcher (questa sì una riforma) del trasporto pubblico locale a metà anni ’80, si è deciso di liberalizzare interamente il settore, introducendo un vero mercato.

In tutta l’Inghilterra, ad eccezione di Londra, attualmente c’è una vera competizione tra gli operatori e il costo di produzione del servizio è il più basso in Europa.

Questa riforma ha distrutto il settore lasciandolo in balia del “mercato selvaggio”?

A questa domanda è facile rispondere, senza pregiudizi, ma con dei semplici dati. L’offerta di veicoli chilometri dei bus locali dal 1970 al 1986 (in ottobre avvenne la deregolamentazione) era diminuita del 22 per cento, evidenziando una crisi profonda. Dal 1986 al 2007 vi è stato un cambiamento radicale e l’offerta è aumentata del 35 per cento. Negli ultimi 10 anni il settore, non solo non ha perso posti di lavoro, bensì ne ha guadagnati circa 30 mila, principalmente grazie a questo aumento di offerta.

Vi sono delle zone particolarmente svantaggiate territorialmente? Il sistema inglese si prende carico di queste differenze ed ha introdotto un sistema simile agli oneri di pubblico servizio del trasporto aereo, andando a “coprire” circa il 22 per cento dei servizi non di mercato.

Una delle principali obiezioni al sistema inglese è legato all’elevato costo dei biglietti. Questo punto è certamente vero, ma è necessario guardare con la lente adatta per non distorcere l’analisi.

Non bisogna confondere il costo del biglietto con il costo di produzione del servizio. In Gran Bretagna i biglietti sono cari, poiché essi coprono circa l’85 per cento dei costi totali. In Italia, al contrario, i biglietti costano meno, per il semplice motivo che essi sono pagati dalla tassazione generale; infatti nel nostro Paese i ricavi dai biglietti coprono solo il 30 per cento dei costi.

Analizzando con la lente adatta dunque,  si evidenzia in Italia un costo di produzione del servizio per veicolo chilometro più che doppio rispetto all’Inghilterra, esclusa Londra.

Questo significa che in Italia con un sistema efficiente come quello inglese e con dei trasferimenti dalla tassazione generale così elevati, il prezzo del biglietto potrebbe essere senza alcun problema pari a zero e anzi, ci potrebbe essere un ulteriore abbassamento nel livello dell’imposizione fiscale.

Una riforma dei servizi pubblici locali è dunque necessaria.

Nel trasporto pubblico locale, sarebbe meglio introdurre una logica di mercato che possa finalmente portare all’eliminazione degli sprechi che attualmente pesano non solamente sui pendolari, ma soprattutto sui contribuenti.

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