Possibile che dopo cinque anni, un governo, un paio di ministri, un passaggio di mano dell’azienda e miriadi di progetti e proclami, ci ritroviamo ancora a discutere di come nazionalizzare la rete Telecom? Possibilissimo, ahinoi. E non dovrebbe sorprendere che nell’interminabile gioco dell’oca che è la politica digitale italiana ci si ritrovi repentinamente alla casella di partenza.
Certo, Romani non è Rovati ed è mutato il contesto tecnico-finanziario: con ciò cambiano anche i dettagli del piano, che suggerisce il conferimento del rame nella società della rete e non l’acquisto diretto da parte della Cassa Depositi e Prestiti. Non cambia invece il respiro dell’operazione, che tenta di combinare la volontà di controllo con l’esiguità delle risorse disponibili.
Ancor più discutibile è il presunto significato industriale del conferimento, che – nonostante le preoccupazioni espresse dai piccoli azionisti di Telecom – appare oltremodo favorevole all’ex monopolista, garantendo un sussulto di redditività ad un asset che lo switch-off priverebbe di alcun valore, e persino attribuendo al gruppo un’opzione per l’acquisto dell’intera FiberCo.
Il rischio è cioè quello di sopravvalutare oggi la partecipazione di Telecom, permettendole domani di ottenere il controllo totalitario delle nuove infrastrutture proprio in virtù di questo sussidio mascherato. Il che – per restare alla nostra metafora – ci riporterebbe non già alla casella Rovati, ma almeno un paio di giri più indietro: in piena era monopolistica.
Non appare azzardato intravvedere nell’ultima versione del progetto una risposta all’insofferenza espressa da Franco Bernabè – peraltro con argomenti assai condivisibili – poche settimane fa. Non è però chiaro perché gli operatori alternativi dovrebbero imbarcarsi in un’iniziativa che non offre alcuna garanzia duratura per la concorrenza, per i consumatori, e in ultima analisi per un paese che volta le spalle al futuro per l’attrazione irresistibile degli errori del passato.
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Lo trovate qui. L’analogo rapporto inglese era stato pubblicato dopo pochi giorni: da noi ci è voluto un generoso emulo di Arsenio Lupin. Strano paese, l’Italia.
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Spesso nelle grandi crisi si affermano nuove grandi idee e cambi radicali di paradigmi, prima imperanti, ma rivelatisi esplosivamente sbagliati. Altrettanto spesso, però, la tendenza è quella di rispondere alle grandi crisi cercando di rispolverare vecchie idee che in precedenza erano state già messe da parte, proprio perché alla prova dei fatti non avevano retto. Esempio: quando all’apertura delle rotte oceaniche e alla ridislocazione verso Spagna e Nordeuropa dei flussi commerciali la Serenissima Repubblica di Venezia pensò bene di impedire ai suoi maestri d’ascia la realizzazione di caracche prima e galeoni poi, convinta che galee e galeazze di piccolo cabotaggio e non pelasgiche costituissero una specializzazione ancor più necessaria per difendere il monopolio del Mediterraneo, rimase abbarbicata a una nicchia perdendo di vista il mondo nuovo.
Lo stesso avviene oggi con il ritorno in grande stile dello statalismo. Per combatterlo, bisogna che tiriamo un po’ più energicamente fuori gli artigli, cari tutti voi che mi leggete.
Consiglio intanto due letture al volo. il bel saggio di Ian Bremmer sull’ultimo numero di Foreign Affairs – “State Capitalism Comes of Age: The End of the Free Market?” – ricco di numeri e dati comparati sulla forza solo pochissimo tempo fa del tutto impensabile che lo Stato ha ripreso ed esercitare nell’economia mondiale (i dati su riserve di energia sono impressionanti, le compagnie private hanno meno del 3% delle riserve attualmente stimate). Poi continuate con l’editoriale dell’ex senatore repubblicano dell’Oregon Bob Packwood sul New York Times di oggi, a proposito dei limiti al prelievo fiscale negli Usa in relazione al modello sociale che Obama intende perseguire. Sono considerazioni che valgono anche per noi in Italia: tradotto in altri termini, sono per aprire un conflitto vero e aperto con il centrodestra italiano, su questi temi, perché non può bastare che le tasse non le alzi, deve mantenere le promesse di abbassarle oppure sia guerra.
Infine, son curioso di sapere come la pensate su un tema: Telecom Italia. La mia tesi è che chi la pensa come noi dovrebbe battersi e sperare che sai accinga a fare come la Fiat di Marchionne, “annegarsi” in un abbraccio con Telefonica per impedire l’abbraccio soffocante della politica sulla rete “universale” e connesso mucchettismo della necessità di controllo pubblico per ovviare a investimenti inadeguati. Voi che ne dite?
Oscar Giannino Senza categoria rete fissa, statalismo, tasse, Telecom Italia, Telefonica