CHICAGO BLOG » regioni http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 I tagli alle Regioni e il federalismo promesso /2010/06/28/i-tagli-alle-regioni-e-il-federalismo-promesso/ /2010/06/28/i-tagli-alle-regioni-e-il-federalismo-promesso/#comments Mon, 28 Jun 2010 12:51:52 +0000 Oscar Giannino /?p=6393 Chi ha ragione e chi ha torto tra le Regioni e il Governo, sulla manovra correttiva dei conti pubblici? Le Regioni, se i tagli non vanno insieme a uno schema preciso per l’individuazione di come funzionerà il federalismo fiscale, per premiare le più efficienti. Il Governo, se però si guarda complessivamente al contributo necessario per il contenimento del deficit. Cerchiamo di capire, numeri alla mano.

Le Regioni sostengono che la manovra è irricevibile nella parte che le riguarda. Per quelle a statuto ordinario, la manovra dispone nel 2011-2012 minori trasferimenti per le funzioni loro delegate dalla “Bassanini” – trasporto pubblico, sostegno all’impresa, edilizia residenziale, viabilità, ambiente – di 8,5 miliardi, più un miliardo e mezzo a carico di quelle a statuto speciale. Le Regioni lamentano che a questi tagli si aggiungono altri 7 miliardi per le ordinarie e 1,5 per quelle a statuto speciale, per il giro di vite al Patto di stabilità già disposto l’anno scorso. Dicono le Regioni che i tagli alla loro spesa biennale sarebbero di conseguenza del 13%, solo del 4% per quelle a statuto speciale, del 3% per Province e Comuni, di un misero 1,6% in capo allo Stato. Tutto questo, aggiungono, quando il loro contributo nell’ultimo quinquennio è già stato di un meno 6% alla formazione di debito pubblico, rispetto al meno 3,9% dei Comuni e al più 10%, invece, dello Stato.

Che cosa ribatte il governo? Che ad essere irricevibili sono i calcoli delle Regioni. La Ragioneria dello Stato risponde infatti che, dei poco meno di 40 miliardi di minor deficit disposti per il 2011-2013, il conto va fatto complessivamente, e cioè sul totale sia delle delle minori uscite che pesano per il 60% della correzione, sia dei 25 miliardi maggiori entrate, in parte a compensazione di maggiori spese. Computando insieme sia le minori spese sia l’impopolarità delle maggiori entrate sia le maggiori spese che vengono  dichiarate a  sostegno dello sviluppo, ecco che le Amministrazioni centrali e locali non solo hanno pesi quasi equivalenti, ma è lo Stato ad accollarsi il più della correzione: con 29,6 miliardi rispetto ai 27,3 delle Autonomie.

Tremonti aggiunge poi due argomenti che considera decisivi. Se si considera il totale delle manovre varate dal governo, a cominciare dalla pluriennale di due estati fa, lo Stato e gli Enti che controlla hanno dato il 57% del contributo alla correzione dell’indebitamento netto intervenuto, Regioni ed Enti Locali solo il 41%. Che poi lo Stato continui a indebitarsi di più di loro sui mercati è ovvio, aggiunge Tremonti, visto che il debito pubblico è nazionale, ma comprende appunto anche i trasferimenti alle Regioni: quelle stesse Regioni che, passata loro la competenza sugli invalidi, in un decennio hanno chiuso gli occhi di fronte al lievitare della spesa relativa, da 6 a 16 miliardi di euro.

L’argomento centrale di Tremonti, che lo ha spinto a dire incontrando le Regioni che possono decidere loro come ripartire tra quelle a statuto speciale e ordinario i tagli ma sull’ammontare di questi il governo non transige, sta tutto in queste due cifre: dal 1997 al 2008 la spesa corrente primaria centrale è salita del 38%, nel frattempo la spesa corrente delle Regioni e delle Autonomie è aumentata dell’80%. Anche se ciò ha riflesso in parte i trasferimenti di funzioni dal centro alla periferia col Titolo V della Costituzione nel 2001, è chiaro che si tratta di dinamiche esplosive, che soffocano l’economia e la società, che impediscono ogni speranza di ridurre le imposte.

Dall’altra parte, però, Formigoni ed Errani, alla testa della protesta delle Regioni, non hanno torto quando sottolineano che tagli di queste proporzioni oggi incidono in maniera esattamente contraria a quanto il centrodestra promette da anni con il federalismo fiscale. I tagli senza adozione contestuale del meccanismo del costo-standard, infatti, puniscono di più proprio le Regioni più efficienti. Tanto che la più colpita sarà l’unica Regione che, negli anni 2006-2008, ha ridotto la propria spesa dell’11,4%: la Lombardia, che si vede tagliati in 2 anni 1,4 miliardi aggiuntivi. Idem dicasi per il Veneto, con 640 milioni in meno, malgrado abbia aumentato la propria spesa corrente del 13% in un biennio. Cifra che può apparire alta solo a chi dimentica che nelle Regioni più inefficienti essa nel solo 2006-08 è salita di tre o quattro volte tanto: in Campania del 23%, nel Lazio del 56%, in Molise – la Regione meno toccata dalla manovra, per soli 79 milioni – addirittura del 66%.

Fino ad oggi, il Governo ha avuto un approccio più aperto con i Comuni. Partiti lancia in resta anch’essi contro i tagli della manovra, sedendosi al tavolo con il Governo è stato illustrato ai sindaci lo schema della Service Tax, che con il federalismo fiscale verrà loro attribuita come principale fonte di entrata propria, accorpando diverse imposte attuali di registro e catastali sugli immobili: per circa 25 miliardi, cifra che ha immediatamente rabbonito i Comuni. Ma sul meccanismo del costo standard per le spese primarie delle Regioni, cioè fuori dalla Bassanini – sanità, assistenza sociale e istruzione, l’85% del loro bilancio – il promesso decreto attuativo delle legge delega sul federalismo da una parte è atteso a brevissimo, dall’altra si è ancora indietro sui meccanismi per individuarlo. Tanto che è solo dell’altroieri, l’indiscrezione secondo la quale il compito di elaborarlo verrà attribuito alla Sose, la società fin qui incaricata di elaborare e correggere nel tempo e per andamenti territoriali gli studi di settore, in base ai quali pagano le imposte oltre 200 tipologie di professionisti e lavoratori autonomi. Ma ciò implicherà tempi lunghi: nel frattempo, o alle Regioni virtuose il governo dà garanzie concrete che il costo standard non si applicherà sulla base di spesa ridimensionata dalla manovra, oppure in effetti avrà ragione Formigoni, quando sostiene che la promessa della Lega è stata violata.

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Le regioni in rosso dovranno aumentare le tasse. E chiudere, finalmente, gli ospedali inutili /2010/05/14/le-regioni-in-rosso-dovranno-aumentare-le-tasse-e-chiudere-finalmente-gli-ospedali-inutili/ /2010/05/14/le-regioni-in-rosso-dovranno-aumentare-le-tasse-e-chiudere-finalmente-gli-ospedali-inutili/#comments Fri, 14 May 2010 17:05:17 +0000 Giordano Masini /?p=5991 La notizia che quattro regioni (Lazio, Campania, Calabria e Molise) non riceveranno più i fondi del FAS per ripianare i conti in rosso del proprio sistema sanitario è una buona notizia. Anche se questo significherà necessariamente più tasse (anche per il sottoscritto, ahimé, che risiede nel Lazio nonostante pochi chilometri lo separino da due regioni “virtuose” come Umbria e Toscana).

E’ prevedibile il coro di proteste che si leverà, e si può star certi che in qualche caso si troveranno delle formule per aggirare il niet del ministero. D’altronde il fatto che le amministrazioni in questione si siano appena insediate non può costituire un alibi. I nuovi governatori hanno avuto successo proprio promettendo di mettere fine agli sprechi e risanare i bilanci della sanità. Cominciando quest’opera senza seguire le orme dei predecessori potranno dimostrare la bontà delle loro intenzioni. Quindi, se non vorranno inaugurare il loro mandato mettendo mano al portafogli dei loro elettori, o se vorranno farlo per il tempo più breve possibile, dovranno mettere mano alle forbici, e cominciare a usarle.

Dovranno cominciare a chiudere le strutture inutili come i piccoli ospedali. Come il mio beneamato ospedale di Acquapendente, in provincia di Viterbo, recentemente salvato dall’amministrazione regionale uscente grazie a un provvedimento ad hoc che lo ha trasformato in ospedale montano (“Hanno portato l’ospedale in montagna”, scherzavano in paese).

I piccoli ospedali fanno lievitare i costi del servizio “sanità”, ne peggiorano decisamente la qualità, ma nonostante questo rendono per altre ragioni. In un paese come Acquapendente, infatti, l’ospedale ha creato un indotto di servizi collegati, come mense, catering, fornitori e badanti, oltre ad offrire posti di lavoro stabili per una gran quantità di persone. Per questa ragione, quando si cominciò a ventilare l’ipotesi della sua chiusura, tutte le forze politiche locali, da destra a sinistra, fecero muro.

Eppure i cittadini già evitano, se possono, di servirsene: per arrivare a Orvieto ci vuole meno di mezz’ora di macchina, per le cose serie c’è Viterbo o Siena, e anche prima di andare al pronto soccorso è meglio sapere chi è il medico di turno. Per non parlare del fatto che si viene ricoverati anche per una stupidaggine, probabilmente per poter dimostrare, alla resa dei conti, un numero di degenze sufficiente a giustificare l’esistenza in vita dell’ospedale. In qualche caso, poi, l’aver sostato del tempo al pronto soccorso di Acquapendente, magari in attesa del radiologo reperibile, prima di essere trasferiti in una struttura più adeguata, ha messo a repentaglio la vita dei pazienti.

Il problema è che Orvieto e Siena sono fuori regione, e se le persone si servono di quelle strutture diventano automaticamente un costo per la Regione Lazio. Ma, ovviamente, ai cittadini importa poco dove si curano, ciò che importa loro è di usufruire di un servizio decente, come dimostra il caso calabrese, dove chi se lo può permettere vola a curarsi addirittura a Milano.

Stiamo imparando in questi giorni, su scala maggiore, cosa significa curare il debito con altro debito, e dove si va a finire. Spostare il deficit dal bilancio regionale a quello nazionale attraverso fondi che servono semplicemente da salvagente per chi non ha voluto imparare a nuotare cronicizza il problema, ed è molto più costoso per i contribuenti di una addizionale regionale.

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Il federalismo polis-centrico. Di Mario Unnia /2010/04/08/il-federalismo-polis-centrico-di-mario-unnia/ /2010/04/08/il-federalismo-polis-centrico-di-mario-unnia/#comments Thu, 08 Apr 2010 07:05:19 +0000 Guest /?p=5618 Riceviamo da Mario Unnia e volentieri pubblichiamo.

Quale il ruolo di Milano in una Lombardia schiacciata, come un tramezzino, tra Piemonte e Veneto animati da un forte protagonismo? Si potrà ancora parlare di un primato di Milano, ovvero di una sua egemonia sull’intero Nord? Per rispondere giovano alcune riflessioni proprio sul federalismo di cui si farà un gran parlare nei prossimi mesi.

A sentire il dibattito post elettorale il grande vincitore serebbe il federalismo regionalista e il partito del territorio, grazie ai quali l’Itala si avvierebbe a vivere la sua stagione di progressivo spostamento dell’egemonia politica dallo stato (che pur vive un momento di rilancio, ma solo a causa della crisi)  alle regioni: il tutto presentato come un portato dei tempi.

Il paradosso è che in verità le cose non stanno proprio così, come insegna l’esperienza dei paesi confrontabili con il nostro. Nel grande processo di globalizzazione, rallentato dalla crisi, ma non interrotto e destinato a riprendersi e a sviluppare, non sono né gli stati e tanto meno le regioni, bensì le grandi città i luoghi in cui avviene l’intersezione tra i processi di globalizzazione e le dinamiche culturali, sociali e politiche (le due dimensioni espresse dal vocabolo ‘glocal’). In un mondo strutturato dalle reti, una di queste collega le capitali politiche, un’altra le città finanziarie, una terza le città della scienza e della ricerca, una quarta quelle della comunicazione, e così via. Ma sono i nodi che contano, perché la reti sono a modo loro gerarchiche (come a maggior ragione è gerarchica la ‘grande rete’ per antonomasia, a dispetto di quel che pensano gli ingenui navigatori) . Infatti è l’eccellenza della funzione ad assegnare ad una città la leadership nella rete di appartenenza; senonchè, la vera leadership la guadagna e la mantiene la città che si trova all’intersezione del più alto numero di reti. L’esempio emblematico è Londra, che è al tempo stesso capitale politica, finanziaria, dell’informazione, della cultura, e dello spettacolo.

Ne consegue una forte competizione tra città (dall’Expo alla Formula Uno) all’interno del sistema urbano transnazionale, trasversale rispetto agli stati, che in parte coincide, in parte no, con la competizione tra territori.  Emerge una sorta di confederazione di centri di potere urbani, verrebbe da dire una lega di potenziali città-stato. Le città che non si inseriscono in questo sistema vengono prima  o poi retrocesse a capitali di contado.

La tendenza all’affermazione del sistema urbano transnazionale sinteticamente evocato capovolge i paradigmi concettuali del federalismo, e suggerisce proprio ai fautori del medesimo una pausa di riflessione. E’ un paradosso non solo apparente, ma lo spostamento di fatto, al di là dei desideri e delle ideologie, del peso politico dal territorio ai nodi delle reti, costituiti dalle città, ridimensiona il modello del federalismo regionalista dal momento che non è la regione, e tanto meno la macroregione, il soggetto percepito come soggetto politico principale (vedi il recente comportamento elettorale). Si può aggiungere, altro paradosso solo apparente, che è proprio il territorio il soggetto sconfitto dalla globalizzazione se è privo al suo interno di un nodo di eccellenza, di una città egemone nella rete transnazionale, e questo è vero anche se molti federalisti impiegheranno tempo per rendersene conto. Va da sé che la tendenza in atto rende obsolete le ipotesi secessioniste dei territori; e, terzo paradosso solo apparente, condanna i partiti territoriali proprio nel momento in cui sembrerebbero essere i dominatori dell’arena politica.

Il federalismo cui guardare è dunque il cosiddetto ‘federalismo polis-centrico’. L’obiezione, che il federalismo polis-centrico estremizzi la frammentazione territoriale, non regge, perché proseguirà in futuro la frammentazione degli stati in unità più piccole ed emergeranno alcune città non solo in forza della dimensione, bensì anche della funzione e dell’autosufficienza fiscale. Un’ altra possibile evoluzione è verso l’expanded federalism, che comprende le città-nodo come terzo partner al fianco del governo federale e degli stati. In Usa si discute di federalismo urbano e di federalismo urbecentrico: ambedue i modelli evidenziano il posto che le città occupano nella struttura del sistema federale, tra i governi degli stati e il governo di Washington.

Occorre aggiungere che questo neofederalismo polis-centrico è il prodotto del declino della forma stato dominante nell’epoca moderna, e a modo suo è un ritorno alle origini del federalismo: evidenzia infatti la prevalenza della negoziazione e tendenzialmente del ‘contratto’ tra comunità federate, in primis le città-nodo, piuttosto che del ‘patto politico’. Dalla crisi dello stato emergerebbe  un insieme di contratti, di aggregazioni di diritti e di obblighi che hanno alla base negoziazioni di carattere privatistico, ciò che esisteva nella fase che precedette appunto la formazione e il consolidamento dello stato moderno.

In questa prospettiva Milano può evitare la fine del salame nel tramezzino. Purchè rifletta su se stessa, sui suoi assets, faccia un check up delle sue energie vitali, e si ponga l’obiettivo di diventare davvero una città-nodo nel federalismo transnazionale polis-centrico. Con una classe dirigente all’altezza della partita.

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Scajola, le Regioni e il nucleare /2010/02/04/scajola-le-regioni-e-il-nucleare/ /2010/02/04/scajola-le-regioni-e-il-nucleare/#comments Thu, 04 Feb 2010 18:41:44 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5047 Il governo ha impugnato le leggi regionali anti-nucleari di Puglia, Campania e Basilicata. Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha spiegato che “l’impugnativa delle tre leggi è necessaria per ragioni di diritto e di merito”.

Ha spiegato:

In punto di diritto – ha aggiunto – le tre leggi intervengono autonomamente in una materia concorrente con lo Stato (produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica) e non riconoscono l’esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, della sicurezza interna e della concorrenza (articolo 117 comma 2 della Costituzione). Non impugnare le tre leggi avrebbe costituito un precedente pericoloso perchè si potrebbe indurre le Regioni ad adottare altre decisioni negative sulla localizzazione di infrastrutture necessarie per il Paese». «Nel merito – ha continuato il ministro – il ritorno al nucleare è un punto fondamentale del programma del Governo Berlusconi, indispensabile per garantire la sicurezza energetica, ridurre i costi dell’energia per le famiglie e per le imprese, combattere il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra secondo gli impegni presi in ambito europeo.

La mossa era prevedibile e doverosa. Costituisce anche una risposta indiretta all’attacco uguale e contrario delle regioni che hanno a loro volta impugnato la legge “sviluppo”, con l’argomento di essere state estromesse di fatto dal processo di valutazione e autorizzazione degli investimenti nucleari. Scajola ha fatto bene a replicare duramente, e con le stesse armi, ai governatori che hanno voluto, per primi, interpretare col massimo grado di politicizzazione la questione dell’atomo. Sarebbe auspicabile che, ora che i contendenti si sono mostrati i denti vicendevolmente, procedessero al disarmo. Portare una scelta politica (il ritorno all’atomo) e regolatoria (il modo in cui ciò dovrà avvenire) nelle aule giudiziarie è il modo migliore per affossare le speranze di quanti ritengono che il nucleare debba essere un’opzione a disposizione delle imprese. Si dirà: è proprio questo che le regioni antinucleari vogliono (o dicono di volere, nel caso l’attacco sia puramente strumentale – come in Liguria, regione che non potrà mai ospitare impianti per ragioni morfologiche e che dal disegno scajoliano ha solo da guadagnare, visto il ruolo che nella prospettiva del ministro gioca la genovese Ansaldo).

La domanda che i governatori dovrebbero farsi, e tutti quanti dovremmo farci, è: a che costo? Se il ricorso delle regioni avesse successo, gli investitori (non solo quelli attivi nell’atomo, beninteso) riceverebbero l’ennesimo segnale di un paese che procede a zig zag, incapace di prendere decisioni e quindi sempre pronto a delegarle ad altri (l’Europa) o a strutture tecnocratiche e politicamente irresponsabili (la giustizia, la burocrazia). Come risultato, gli investimenti in tutti i settori ne soffrirebbero, l’attrattività della nostra economia ne soffrirebbe, e in ultima analisi le nostre prospettiva di crescita e, nel breve, di uscita dalla crisi.

Gli avversari del nucleare giocano sistematicamente due carte. Una è quella della sicurezza e dell’ambiente: bene, ma allora perché non cercano di ottenere norme più restrittive? L’altra è quella della presunta non economicità dell’atomo: bene, ma allora perché non si siedono sulla sponda del fiume nell’attesa del cadavere di chi lo fa? La verità è che la parola “atomo” è l’equivalente del drappo rosso agitato davanti al toro, che condensa tutti i tic, tutti i riflessi pavloviani, e tutti i pregiudizi culturali di ecologisti senza scrupoli, nemici del capitalismo senza se e senza ma, piangitori di professione e professionisti della contestazione. Le forze politiche – tutte – dovrebbero superare la loro malattia infantile, entrare – almeno – nell’adoloscenza e prendere sul serio una partita importante e, se bene interpretata, virtuosa. Virtuosa per l’economia, virtuosa per l’ambiente e virtuosa per la credibilità del paese.

Questa volta, dunque, a dispetto delle tante critiche che gli abbiamo rivolto, non possiamo che applaudire a Scajola. Nella speranza che il dibattito sul nucleare si sposti rapidamente sul terreno delle cose e dei fatti, e che potremo finalmente smetterla di affrontarlo come le due tifoserie opposte di un derby calcistico.

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Un ostacolo in meno alla installazione della banda larga /2010/02/04/un-ostacolo-in-meno-alla-installazione-della-banda-larga/ /2010/02/04/un-ostacolo-in-meno-alla-installazione-della-banda-larga/#comments Thu, 04 Feb 2010 18:35:28 +0000 Serena Sileoni /?p=5044 È stata pubblicata questa settimana una sentenza della Corte costituzionale (n. 20/2010) che fuga il dubbio circa l’introduzione di un nuovo ostacolo al faticoso percorso di installazione della banda larga nel nostro paese. Per agevolare la posa della fibra ottica necessaria alla banda larga, il decreto legge sulla competitività n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008, ha previsto delle misure di semplificazione amministrativa. Si tratta di misure puntuali per concludere quell’innovazione tecnologica necessaria al paese, che, pur non essendo la panacea della crisi o dello stallo economici, rappresenta un’infrastruttura necessaria con cui imprese e cittadini potrebbero essere agevolati nel compimento di infinite attività quotidiane e al tempo stesso potrebbero ricevere un’offerta maggiormente pluralistica di servizi di telecomunicazione.
L’articolo 2 del decreto sulla competitività del 2008 prevede appunto la possibilità di installare la fibra ottica nelle proprietà dei soggetti pubblici, senza possibilità di opposizione da parte di questi ultimi, ad eccezione del caso che si tratti del patrimonio indisponibile e che tale attività possa arrecare concreta turbativa al pubblico servizio.
La regioni Toscana e Emilia-Romagna hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale contro questa norma,  poiché hanno ritenuto che la mancata possibilità per le regioni di opporsi all’installazione della fibra nelle loro proprietà fosse incostituzionale e comportasse una “generale e apodittica affermazione di prevalenza dell’interesse dello sviluppo della banda larga rispetto alle legittime pretese delle Regioni titolari dei beni interessati da tale sviluppo”.
Ebbene, la buona notizia è che la Corte costituzionale ha rigettato la questione, sostenendo – contrariamente alle regioni – che rientra nella discrezionalità del legislatore escludere i beni disponibili delle regioni dalla cd. clausola di salvaguardia, ciò tanto più – si legge nella sentenza – “in un settore nel quale è evidente l’interesse collettivo alla sollecita realizzazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica”.
Realizzazione, si può aggiungere, che passa prima di tutto attraverso l’investimento privato, con il quale raggiungere la garanzia di accesso alla banda larga a tutta la popolazione.
L’urgenza del paese di chiudere il digital divide, infatti, non sarà di certo perseguita dagli investitori privati finché ad essi non verrà data garanzia di ritorno economico, di assenza di intralci burocratici e di certezza di poter operare in un ambiente normativo e amministrativo stabile.
La decisione della Corte costituzione sembra fortunatamente muoversi in questa direzione.

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Lo scansa-nucleare ai bordi della legittimità /2010/01/22/lo-scansa-nucleare-ai-bordi-della-legittimita/ /2010/01/22/lo-scansa-nucleare-ai-bordi-della-legittimita/#comments Fri, 22 Jan 2010 10:34:34 +0000 Diego Menegon /?p=4866 Le Regioni si affrettano a dire no al nucleare a casa propria. Chi con legge; chi con un ordine del giorno; chi con i famigerati piani energetico-ambientali regionali.
Mercoledì è stata la volta della Sicilia con un ordine del giorno approvato all’unanimità. Dopotutto la punta dello stivale mostra coerenza e fa perno sullo stesso punto da tempo. Poco importa se uno dei motivi per cui gli Italiani pagano bollette più care del resto d’Europa è rappresentato anche dagli alti prezzi dell’energia in Sicilia ed agli ostacoli posti in passato dalla regione e dagli enti locali allo sviluppo delle infrastrutture energetiche.Gli atti di indirizzo possono essere anche ignorati. Utili espedienti oggi in campagna elettorale, potranno essere dimenticati tra qualche mese. Più problematico un atto con forza di legge che si ponga di fatto in contrasto con la normativa nazionale. La stessa regione siciliana si appresta a votare un disegno di legge dove si stabilisce che “il territorio della Regione Sicilia è precluso all’installazione di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di fabbricazione del combustibile nucleare, di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché di depositi di materiali e rifiuti radioattiva”.
Se gli appelli alla responsabilità, alla trasparenza ed un atteggiamento meno demagogico e irrazionale come quello rivolto nei giorni scorsi da Benedetto Della Vedova nei giorni scorsi non basteranno, saranno probabilmente le sentenze della Corte costituzionale a dirimere la vicenda.
Il testo dell’articolo 117 della Costituzione non è un esempio di limpida saggezza, annoverando l’energia tra le materie immerse nel confuso limbo della competenza concorrente. La scelta infelice ha dato luogo a un fiume di giudizi in via principale che oppongono Governo e regioni (si ricordino a tal proposito, le 11 regioni che hanno impugnato la delega sul nucleare dello scorso luglio).
Ma se in base al dettato costituzionale è la legge statale a dover fissare i principi quadro della disciplina sull’energia, difficilmente l’ammissibilità dell’opzione nucleare può dirsi una norma di dettaglio che può essere contraddetta dalle regioni e che ricade nella loro piena e libera disponibilità. La libertà di stabilimento su tutto il territorio nazionale di un’attività economica ammessa dallo stato è poi un principio che vede un valido appiglio normativo in altri punti della costituzione.
Da un esame dello schema di decreto presentato dal Governo, si evince come le regioni potranno partecipare in modo continuo alla politica nucleare e all’iter di autorizzazione degli impianti e del deposito nazionale. Il problema è semmai quello di concentrare in pochi momenti salienti un processo concertativo protratto in modo indefinito, ripetitivo e sfiancante.
Sarebbe auspicabile che le regioni, quando il 28 gennaio si riuniranno in conferenza unificata con gli enti locali  si occupassero più di migliorare il testo presentato da Governo, anziché attardarsi in preconcetti destinati ad esser spazzati via da una sentenza del giudice delle leggi.
Mettendo da parte derive Nimby e impeti propagandistici, si renderà un miglior servizio ai propri cittadini cercando di salvaguardare l’indipendenza dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, che oggi sembra destinata, unitamente agli operatori, a seguire in via subordinata le linee tracciate dalla strategia nucleare dettata dal Governo. Il momento tecnico della definizione dei criteri di individuazione delle aree idonee ad ospitare siti nucleari è, al pari delle scelte economiche di investimento degli operatori privati, un ambito che va preservato nella sua autonomia.

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Nucleare dove? /2009/07/11/nucleare-dove/ /2009/07/11/nucleare-dove/#comments Sat, 11 Jul 2009 15:01:31 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1484 L’approvazione del ddl sviluppo ha scatenato una pluralità di reazioni, di segno diverso ma generalmente esagerate, sul possibile ritorno dell’Italia al nucleare. Infatti, bene o male, i tre articoli filo-nucleari della legge (gli articoli 25, 26 e 29) delineano l’inizio di un percorso ma si tratta, appunto, dell’inizio. Al di là degli aspetti singolarmente positivi o negativi, comunque, il governo ha dato un segnale importante in merito alla sua reale volontà di procedere su questa strada. Infatti, l’esecutivo ha sei mesi di tempo per mettere nero su bianco il suo progetto – con tanto di definizione degli standard, criteri per l’individuazione dei siti, norme di costruzione, esercizio e smantellamento degli impianti, eccetera. Si poteva fare meglio? Certo: per esempio si poteva evitare di assegnare al Cipe (?) il compito di scegliere la tecnologia, e si poteva creare un’Agenzia di sicurezza degna di questo nome. Si poteva evitare di mettere le mani su Sogin e si poteva evitare di attaccare ripetutamente l’indipendenza dell’Autorità per l’energia (a proposito: appuntamento a settembre per il prossimo round, mi dice la mia sfera di cristallo). Si poteva evitare tutto questo e si poteva fare meglio quel che si è fatto, ma, nella misura in cui il meglio è nemico del bene, qualcosa lo si è fatto e da lì bisogna partire. Quindi, come ha scritto oggi Il Foglio, “tre hurrà per Claudio Scajola” e speriamo che usi la finestra di opportunità che lui stesso ha aperto per mettere i puntini giusti sulle rispettive “i”. A questo punto, le questioni veramente aperte sono due più una. La prima: il lavorio dei tecnici del Mse per rispettare le scadenze e presentare i vari decreti. Cioè, rispondere alla domanda: nucleare come? La seconda: nucleare dove?

E’ ovvio che alla domanda non si può rispondere, per ora. Infatti, i criteri per identificare i siti - e quindi, nella sostanza, la mappatura delle località possibili – fanno parte del pacchetto di decreti che il ministero dovrà predisporre. Però, sotto il profilo politico, qualcosa si sta già muovendo. Alle opposizioni già dichiarate (la Sardegna di Ugo Cappellacci, che su questo aveva calato una carta del suo poker elettorale) e a quelle in qualche maniera scontate (la Puglia di Niky Vendola, che fatica a digerire i rigassificatori, figuratevi le centrali atomiche) se ne sono aggiunte, nelle ultime ore, molte altre. Il Messaggero cita Emilia Romagna (il cui governatore, Vasco Errani, parlando anche da presidente della conferenza delle regioni lamenta la poca attenzione per il ruolo degli enti locali), Piemonte, Toscana, Basilicata e Abruzzo. Il Secolo XIX registra il “no” di Claudio Burlando, presidente della Liguria, che pure si frega le mani per il tesoretto che potrebbe (condizionale molto molto obbligatorio: vedi alla voce tecnologia) andare ad Ansaldo. Contrarie sono pure Marche e Umbria. Sul fronte opposto, hanno manifestato disponibilità, seppure in termini per ora giustamente vaghi, Lombardia, Veneto e Sicilia (sempre sul Messaggero e sulla Repubblica). Il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, si era opposto nei mesi scorsi alla possibilità di ospitare centrali nucleari, ma non ho visto rilanci all’indomani del voto del Senato. In precedenza, si erano chiamati fuori anche dal Friuli Venezia Giulia, mentre la posizione della Campania è ambigua. Non ho trovato prese di posizione significative dei governi regionali di Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Molise e Calabria.

E’ chiaro che le regioni “anti” sono numerose e determinate. Tra di esse, trovo particolarmente significative da un lato la forte chiusura dell’Emilia Romagna, dall’altro la meno netta – ma pur sempre espressa – contrarietà del Lazio. Perché? Perché in Emilia e in Lazio si trovano, rispettivamente, Caorso e Montalto di Castro, sedi di due dei vecchi impianti atomici e località che, oggi, forse sarebbero già in grado, specie la seconda, di ospitarne di nuovi (in realtà la centrale di Montalto non vide mai la luce, perché era in costruzione quando il referendum fece incartare tutto: qui Giuseppe Pennisi ne racconta la triste e surreale vicenda). Infatti, al di là del gradimento della popolazione e dei necessari compromessi politici, e anche al di là di questioni non banali come la distanza dai centri abitati et similia, un impianto nucleare ha bisogno di almeno due cose: la vicinanza di un corso d’acqua o del mare per il raffreddamento (oddio, questo è un problema superabile con una torre di raffreddamento, ma per motivi a me ignoti in Italia non se ne fanno) e adeguate condizioni di rete. Una centrale atomica, infatti, lavora a pieno carico tutto l’anno, non è un giocattolo che si possa accendere e spegnere più o meno a piacimento: quindi la rete deve essere in grado di assorbirne l’intera produzione. Le precarie condizioni della nostra rete non lo rendono possibile in molti dei luoghi che, astrattamente, potrebbero prestarsi a ospitare una centrale. Naturalmente, si può obiettare che i tempi di individuazione di un sito, e poi di licensing e realizzazione dell’impianto, sono sufficientemente lunghi da consentire un rafforzamento della rete ove necessario. Forse è vero. Però, intanto, quello oggi è un vincolo tecnico ineludibile.

Mi hanno fatto sorridere le dichiarazioni, di trionfo o di anatema che fossero, di questi giorni. Il ddl sviluppo segna un passo importante, ma è necessariamente il primo di una strada molto lunga. Il che mi conduce al terzo problema a cui accennavo all’inizio di questo post: il Pd, che fa? E il Pdl, se ne cura? Se non si riesce a trovare un accomodamento – tenendo poi conto che dei tre candidati alla segreteria, Pierluigi Bersani è notoriamente filonucleare in privato ma in pubblico è pieno di distinguo, Ignazio Marino si è detto contrario, Dario Franceschini non so – tutto è fuffa. Insomma, se sul nucleare non si trova un accordo tra maggioranza e opposizione, e tra queste e le regioni, l’atomo rischia di diventare come il fumo: teoricamente è possibile, ma non esiste alcun luogo dove puoi farlo.

La fatica vera inizia adesso. E’ come guidare per dodici ore di fila: se non si accende la macchina è impossibile, ma il semplice gesto di girare la chiave e ingranare la prima è cosa distinta e diversa dall’arrivare al traguardo.

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Carburanti troppo cari? Ditelo ai politici /2009/06/20/carburanti-troppo-cari-ditelo-ai-politici/ /2009/06/20/carburanti-troppo-cari-ditelo-ai-politici/#comments Sat, 20 Jun 2009 15:01:58 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1086 Dopo Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sicilia ed Emilia Romagna, adesso è il turno della Liguria: la giunta regionale ha appena approvato un provvedimento secondo cui ogni nuovo impianto di distribuzione dei carburanti dovrà essere attrezzato anche per almeno uno tra Gpl, metano e idrogeno. Ufficialmente si tratta di una norma concepita per la salvaguardia dell’ambiente eccetera eccetera, ma il sostrato protezionista è chiarissimo. Si tratta della (efficace) risposta della lobby dei benzinai alla manovra liberalizzatrice iniziata dalle “lenzuolate” di Pierluigi Bersani e proseguita l’anno scorso nel collegato alla Finanziaria 2009, chez Claudio Scajola e Giulio Tremonti. La logica della normativa nazionale è quella di rimuovere i maggiori ostacoli al dispiegarsi di una reale competizione nella distribuzione in rete dei carburanti per autotrazione, che a oggi determinano una rete di distribuzione tra le più inefficienti in Europa (i dati fanno letteralmente impallidire). Imponendo l’installazione di Gpl o metano, le regioni di fatto creano una barriere all’ingresso di proporzioni enormi, che non riguarda solo la faccenda dei costi, ma investe una serie di requisiti urbanistici e di sicurezza (banalmente, l’estensione della superficie necessaria è molto maggiore, restringendo il numero degli spazi idonei). Della questione si era occupata, qualche mese fa, la stessa Autorità Antitrust, che in una segnalazione alle Camere e al governo aveva denunciato l’ondata di provvedimenti protezionistici sul tema. L’approccio di Antonio Catricalà e dei suoi è semplice e lineare: trattandosi di norme discriminatorie, che impongono ai nuovi entranti oneri a cui gli incumbent possono decidere se conformarsi oppure no, esse agiscono in direzione anticoncorrenziale. Se le regioni ritengono utile o importante promuovere la diffusione dei carburanti cosiddetti eco-compatibili, possono farlo incentivando l’adeguamento dei punti di rifornimento, siano essi nuovi o vecchi. Si dice che l’albero si riconosce dai frutti: i frutti delle regioni sono ammalati di protezionismo.

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