CHICAGO BLOG » recessione http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Che culo, c’è la recessione /2010/10/13/che-culo-ce-la-recessione/ /2010/10/13/che-culo-ce-la-recessione/#comments Wed, 13 Oct 2010 12:55:34 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7277 L’Italia è uno dei tre paesi dell’Ue15 – assieme ad Austria e Danimarca – che devono rimboccarsi le maniche per raggiungere l’obiettivo di riduzione delle loro emissioni. Per il resto, l’Unione europea brinda oggi alla luce del più recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente. Infatti, Kyoto è vicino, anzi,

large drop in emissions seen in 2008 and 2009 gives EU-15 a head start to reach and even overachieve its 8 % reduction target under the Kyoto Protocol.

Infatti, l’Ue ha potuto contare sul sostegno di un grande alleato: la recessione.

Questa ambiguità non è nuova a Bruxelles. A maggio, quando la commissaria per il clima, Connie Hedegaard, tentò di alzare l’asticella spostando l’obiettivo di riduzione per il 2020 al 30 per cento,le organizzazioni industriali del vecchio continente andarono su tutte le furie perché la bozza di comunicazione predisposta dalla Commissione di fatto accreditava l’idea che il calo osservato l’anno scorso, e dovuto al crollo della produzione industriale, fosse in qualche modo un vantaggio. Scrisse all’epoca la Confindustria tedesca, in un documento interno:

La minore crescita economica non dovrebbe essere celebrata come uno strumento per la protezione del clima.

(Qui un commento sull’episodio). Adesso lo stesso atteggiamento pauperista e anti-crescita ritorna, alla grande, per bocca dell’Agenzia europea dell’ambiente, la quale nota, non senza una certa soddisfazione, che l’obiettivo di Kyoto (-8 per cento nel 2012) è terribilmente vicino, “grazie” alla sostanziale riduzione osservata nel 2008-2009. Nel 2009, in particolare, l’Ue27 ha visto ridursi il suo Pil del 4,2 per cento, e le emissioni del 6,9 per cento. Il nesso tra queste due variazioni è talmente stretto, evidente e chiaro che neppure la stessa Eea riesce a tacerlo, anche se lo confina all’ultimo punto nei suoi key findings (ritenendolo forse meno importante dell’auto-incensamento per il grandioso risultato raggiunto). La quale addirittura si spinge a sottolineare che la recessione ha contato meno, nel determinare questa tendenza, rispetto all’effetto delle politiche di contenimento delle emissioni. Infatti,

Return to economic growth could temporarily level off or even reverse the decline in emissions, but the declining trend is expected to continue.

Non mi è chiaro in base a cosa si possa sostenere una simile tesi. Non c’è comunicato dell’Agenzia degli ultimi dieci anni che non abbia riconosciuto che le due variabili fondamentali dietro l’andamento delle emissioni sono il tempo (inverno freddo emissioni alte, e viceversa) e la performance economica (crescita sostenuta emissioni alte, e viceversa). In questo senso, trovo abbastanza sconcertante che, se da un lato si magnificano i risultati raggiunti, dall’altro non si esprima la più piccola preoccupazione per il modo in cui, in larga parte, sono stati ottenuti. Elogiare la recessione (o anche solo accettarla come un fatto) è un approccio due volte autolesionista. Anzitutto perché, se nell’immediato essa può effettivamente contribuire a ridurre le emissioni, nel lungo termine un impoverimento generalizzato riduce la capacità di investimento dei paesi europei sia in innovazione, sia nelle mitiche fonti rinnovabili (basta guardarsi in giro per vedere ovunque il tentativo di abbassare gli incentivi, e senza incentivi bye bye green economy). La recessione fa pure emergere il lato più distorsivo degli incentivi: schermando la remuneratività delle fonti verdi dagli alti e bassi del mercato (e questo è vero in particolare per le tariffe feed-in) essi tendono a scaricare il calo della domanda unicamente sulle produzioni convenzionali, spingendo così i prezzi effettivi per i consumatori e i costi di generazione per il sistema verso l’alto, in una spirale pro-ciclica di cui l’economia non ha certo bisogno.

Il sostanziale fallimento delle politiche climatiche è pure evidente dalla figura chiave, che si trova a p.32 del rapporto linkato sopra. La figura è la seguente (cliccare per ingrandire).

Il grafico di sinistra mostra lo scenario base; quello di destra illustra invece lo scenario di riferimento nel caso tutte le speranze (aka “scenario libro dei sogni” o “promessa elettorale”). In entrambi i casi, due aspetti sono evidenti: 1) sotto una ragionevole ipotesi di crescita economica, buona parte della riduzione delle emissioni nel 2009 è destinata a essere riassorbita (al contrario di quanto scritto nel comunicato stampa); 2) la maggior parte delle presunte riduzioni sono attese nei settori “non Ets”, cioè quelli che non sono soggetti al mercato dei fumi. Un aspetto interessante: nei settori Ets lo shock della crisi verrà riassorbito solo in minima parte, segno che l’effetto della recessione sulle produzioni ad alta intensità di energia rischia di essere permanente. In questo, le politiche europee possono effettivamente giocare un ruolo: rendendo strutturale un impatto che, almeno in parte, era solo congiunturale. In altre parole, la crisi è stata una sorta di trigger, spingendo le imprese a delocalizzare sia per fronteggiare il calo della domanda, sia per prevenire il potenziale ulteriore aumento dei costi energetici o della confusione amministrativa, o di entrambi, dovuta alle nuove politiche europee, tanto più che lo scenario internazionale lascia intuire un acuirsi dell’asimmetria tra l’Ue, virtuosa e fessa, e il resto del mondo. In breve, la bontà della recessione non viene solo riconosciuta nelle parole dei funzionari europei: la recessione viene consapevolmente (e colpevolmente) integrata tra le politiche climatiche del Vecchio Continente.

Qualche elemento di curiosità desta, poi, il club dei cattivi: di cui fa parte, come sempre, l’Italia (le cui virtù un giorno emergeranno ché, almeno per l’elettrico, abbiamo il parco di generazione più pulito d’Europa), ma anche, a sorpresa, due paesi simbolo delle politiche verdi: Austria e Danimarca. Che è successo? In Austria, molto semplicemente, la sensibilità ambientale si è tradotta più nella meticolosa cura del territorio, che nella lotta alla crescita economica. Anzi: una crescita rapida e sostenuta ha allontanato il paese dagli obiettivi di Kyoto, costringendolo ad acquistare una montagna di crediti sul mercato europeo (e, dal punto di vista degli austriaci, grazie a Dio che costavano poco). Dell’Italia sappiamo tutto: il punto più importante è che ci siamo trovati in una situazione simile a quella austriaca (seppure senza essere particolarmente corti di permessi) ma per ragioni molto diverse; cioè, non per la crescita alta e prolungata (che non c’è stata) ma perché siamo stati penalizzati dalla scelta del 1990 come anno di riferimento. L’Italia è un paese, sotto il profilo delle emissioni, che era virtuoso prima di Kyoto e che dunque è svantaggiato dal modo in cui i meccanismi sono stati implementati. E la Danimarca? Il paese dei green jobs e del wind power? Probabilmente, Copenhagen ha fallito perché aveva assunto un obiettivo irrealistico (-21 per cento, mentre attualmente si trova a -9,2 per cento). Questo suggerisce che ad impossibilia nemo tenetur dovrebbe essere un principio scolpito nella roccia. Tra l’altro, la Danimarca sta già pagando un pesante tributo alla sua fama di paese verde, come abbiamo spiegato qui e come viene più nel dettaglio approfondito qui.

In conclusione, ancora una volta l’Europa dimostra, nel modo in cui affronta le sue politiche ambientali, tutto il suo strabismo. Fissare obiettivi costosi e sostanzialmente privi di benefici ambientali, intonare il mantra dei loro presunti benefici economici pur sapendo che essi sono inesistenti, e usare tutto ciò come un surrogato della ricerca identitaria è il modo peggiore di affrontare un problema che di per sé può essere serio. Ma arrivare al punto da considerare la recessione una benedizione divina è la prova provata che a Bruxelles si è completamente perso interesse per qualunque considerazione di efficacia ed efficienza.

(Il post gemello si trova qui).

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Non fidatevi degli economisti /2010/01/28/non-fidatevi-degli-economisti/ /2010/01/28/non-fidatevi-degli-economisti/#comments Thu, 28 Jan 2010 11:02:46 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4949 Il Cato Institute ha pubblicato un grafico che confronta la realtà economica con le previsioni degli economisti.

Parrebbe che gli economisti sono in grado di fare previsioni solo quando non succede nulla di interessante, cioè quando anche il mio trisavolo ci sarebbe riuscito senza computer e senza database. Quello che il Cato non nota è che gli errori crescono a dismisura durante le recessioni, e cheg li economisti tendono in questi frangenti a sminuire la gravità della crisi: nel 1990, nel 2000 e nel 2007 gli economisti sono stati colti sistematicamente di sorpresa, e pur senza grafici si può dire che lo stesso sia accaduto negli anni ’70 e con la crisi del ’29.

Il problema è capire perché.

Problemi intrinseci

Le crisi sono inevitabili e ricorrenti, e tutto sommato se fossero perfettamente prevedibili forse non accadrebbero. Se sono imprevedibili, è inutile aspettarsi che gli imprenditori si comportino come se lo siano, e quindi bisogna accettare che possano esistere dei cluster di errori sistematici imprenditoriali, come nella teoria austriaca. Tutto sommato, se sia gli imprenditori che gli economisti sovrastimano la robustezza dell’economia e sottostimano le crisi, evidentemente i secondi non possono stupirsi dei primi: se gli economisti fossero stati imprenditori, avrebbero fatto esattamente gli stessi errori.

Una seconda riflessione è che non solo non esistono strumenti affidabili per valutare il rischio di crisi in termini quantitativi, ma neanche dei proxy moderatamente affidabili. Se si pensa alla teoria austriaca del ciclo economico, si afferma che il turning point del boom è inevitabile, ma non si danno strumenti per prevederlo, né strumenti operativi per osservarne la dinamica interna. La teoria manca di strumenti operativi, e non è affatto detto, anzi, io sono convinto di no, che tali strumenti possano esistere.

Non prendiamocela troppo con gli economisti, perché hanno di fronte un sistema complesso e hanno un problema di informazione e complessità: Mises e Hayek se la comandano. L’unica critica che si potrebbe fare è che gli economisti sembrano sovrastimare la loro capacità di previsione: se fossero razionali, notando che sottostimano sempre le recessioni, capirebbero ex ante che quando si aspettano una recessione di una certa entità, ce ne sarà quasi certamente una più grave di quanto credono, un po’ come gli stupidi di Carlo Maria Cipolla, la cui concentrazione è sempre sottostimata.

Problemi teorici

La parte precedente era piuttosto superficiale, però serviva a chiarire una cosa: né io né nessun altro possiamo fare previsioni migliori, non è una questione di essere bravi coi numeri o con le teorie. Non è mia intenzione proporre un modello Markov Chain Montecarlo Method basato sul Metodo Generalizzato dei Momenti che attraverso un Vector Error Correction faccia meglio degli economisti: faccio solo notare che quegli errori mostrano un’evidente bias.

Però occorre porsi una domanda fondamentale: ci sono problemi teorici nel modo in cui la crisi viene analizzata dalla maggior parte degli economisti, cioè dai new-keynesiani? Secondo me sì, e ne farò una breve lista.

L’output gap è considerata una grandezza fondamentale, ma in realtà non è misurabile: durante il boom l’output cresce troppo, e se la politica monetaria è accomodante il boom può durare a lungo, quindi possiamo aspettarci periodi di sovraproduzione sufficientemente lunghi da creare un bias nella stima dell’output gap. Se c’è crescita economica, un boom insostenibile può sembrare più sostenibile, perché la crescita reale diminuisce i trade-off produttivi: l’economia potrà crescere troppo e non accorgesene per diversi anni, e alla fine ci si aspetterà una crescita economica sostenibile di un certo tipo quando in realtà sarà ben inferiore.

Il tasso naturale di interesse che gioca un ruolo fondamentale in molti modelli quantitativi non è osservabile: nessuno sa quanto valga, nessuno sa quando varia. In molti paper ho notato che si considera il tasso naturale di interesse come costante, e pari alla media temporale di una qualche grandezza ottenuta tramite fitting dei dati. Questa ipotesi è teoricamente insostenibile: basterebbe leggere “Investment that raises the demand for capital” di Hayek, scritto nel 1937, per rendersi conto che il tasso di equilibrio può variare, ed effettivamente varia, proprio assieme al ciclo, e ciò comporta problemi di identificazione che forse (non sono in grado di argomentare oltre: non me la cavo con la calibrazione dei modelli DSGE né coi dettagli più formali dei modelli new-keynesiani) rende molti di questi modelli inservibili. A volte pare che la matematica è usata per ottenere risultati a tutti i costi, e non per ottenere risultati significativi, e quando l’applicabilità cozza con la significatività, vince spesso la prima.

La terza cosa fondamentale è che nell’economia teorica tradizionale non esistono problemi strutturali: l’economia è efficiente a meno di uno o due fattori di disturbo, come i menu costs. Non esiste motivo per cui una recessione debba durare o essere grave per motivi strutturali perché non esiste una struttura economica. La politica monetaria non ha effetti strutturali e non influenza i prezzi relativi, ma ha effetti sul livello assoluto dei prezzi e quindi permette di “risolvere” i problemi dei prezzi non perfettamente flessibili. Esiste una sola teoria strutturale del ciclo economico, ed è quella di Mises ed Hayek, anche se pare che negli ultimi due decenni una serie di teorie degli sectoral shocks (che però non conosco) siano risputate in letteratura.

Misurare l’immisurabile, osservare l’inosservabile e analizzare la dinamica dell’economia senza tener conto della sua struttura sono dei must in economia teorica, sin dai tempi di Keynes e dei suoi aggregati che trascuravano tutti i meccanismi dinamici dell’economia. Non sembra ci siano stati progressi successivamente, e a furia di fare qualche ipotesi semplificativa quando serve per ottenere un bel modello quantitativo, un passo alla volta si accumulano problemi strutturali… la politica economica sembra essere tanto scientifica quanto l’alchimia.

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La lezione di Ryanair sulla crisi /2009/12/09/la-lezione-di-ryanair-sulla-crisi/ /2009/12/09/la-lezione-di-ryanair-sulla-crisi/#comments Wed, 09 Dec 2009 18:05:41 +0000 Marco Mura /?p=4222 Intervistato oggi dal Wall Street Journal, Michael O’Leary, amministratore delegato di Ryanair impartisce una lezione su come funzionano i mercati a colleghi, politici ed economisti “di professione”. Le recessioni sono occasioni d’oro, dice, quando le si sa affrontare con strumenti di mercato. È vero, il WSJ non gli chiede se anche la sua Ryanair goda di sussidi da parte di governi locali e società portuali per attirare traffico negli scali, come ringhiano i vettori nazionali tradizionali. Però la sua filosofia è da manuale.

La crisi ci affossa, piangono in Italia i responsabili di Alitalia? Niente affatto, risponde idealmente il vulcanico imprenditore irlandese. Ai suoi occhi, la recessione è una fantastica opportunità di arricchimento: «abbiamo abbassato le tariffe, i costi e aumentato gli affari di un’ulteriore 15%».

Il tutto, udite, udite, senza dover ricorrere a quelle “robuste ristrutturazioni”, spauracchio dei governi e delle compagnie aeree parastatali di mezza Europa.

Il fatto che nell’Isola di smeraldo il tasso di deflazione sia al 5% permette alla compagnia di congelare gli stipendi dei propri dipendenti. Quasi tutti giovani e motivati, i quali di tale congelamento non hanno che da beneficiare, potendo conservare – anzi, accrescere – il loro potere d’acquisto.

Dove intervenire quindi? Ci sono ancora voci a cui mettere mano? Sì, il risparmio sul check in, ad esempio, senza dimenticarsi di quell’idea di tagliare i bagni o prevedere posti (ancora più economici) in piedi. Solo alcune anticipazioni delle tante idee che – garantisce il manager che nel suo settore meglio incarna l’idea del mercato in continua evoluzione – si susseguiranno per i prossimi 20 anni. Senza dimenticarsi di sfruttare la debolezza del dollaro per abbattere i costi di gestione, of course.

Giù il cappello per l’ennesima lezione esemplare impartita a chi – “colleghi”, politici, economisti di professione – certe cose ignora o, peggio, finge di ignorare per mancanza di coraggio.

C’è solo una cosa in grado di minacciare la soddisfazione mai paga di chi rifugge dal sedersi sugli allori: il confronto con la politica, sempre ruvido e motivo d’insofferenza. E non c’è da stupirsi visto che anche in quel di Dublino i governi sono ostaggio della prepotenza dei sindacati, della mancanza di una valida prospettiva economica di analisi e della propria indolenza.

È solo per questi motivi che la compagnia dell’arpa non è riuscita a rompere il monopolio dell’aeroporto di Dublino, né – nonostante i due tentativi – ad acquisire l’intero pacchetto della sgangherata “concorrente” Aer Lingus (già Ryanair per il 29,82%) di cui l’impacciato governo di Brian Cowen decide le sorti, detenendone il 24% delle quote. Una prova della «stupidità» del governo irlandese.

Ryanair non è una di quelle compagnie che sembra preoccuparsi di ogni dettaglio – snack, bibite, giornali in omaggio – salvo poi scordarsi i fondamentali. Che ricordano un po’ il paradosso del welfare state – di cui non è un caso siano diretta emanazione – che si perde dietro ogni fronzolo sia ritenuto di qualche valore sociale per poi fallire nei compiti fondamentali.

Una filosofia di business perfettamente in linea con le semplici pretese dei passeggeri consumatori: decollare e atterrare con il minor ritardo possibile, evitare cancellazioni e perdite di bagagli, il tutto a prezzi sempre più bassi. Anche noi, «amiamo le recessioni», quando c’è qualcuno che ce ne faccia innamorare.

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Senza manovra sul debito pubblico, crisi peggiore /2009/12/04/senza-manovra-sul-debito-pubblico-crisi-peggiore/ /2009/12/04/senza-manovra-sul-debito-pubblico-crisi-peggiore/#comments Thu, 03 Dec 2009 23:09:38 +0000 Oscar Giannino /?p=4135 Stephen Cecchetti è uno dei più meticolosi e affidabili economisti dell’intermediazione finanziaria che io conosca, cresciuto alla grande scuola dell’Ufficio Studi della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, l’istituzione alla quale ho spesso reso omaggio come una delle pochissime che abbia cercato – inascoltata – di mettere sull’avviso dal 2002 in avanti dei rischi d’instabilità enormi “accesi” dai bassi tassi praticati da Greenspan. Nel suo più recente paper, Cecchetti e due junior della BRI approfondiscono che cosa oggi rischiamo. Paradossalmente, il costo della crisi è peggiore se non si realizzano crisi dei debiti sovrani. Può sembrare un controsenso, da parte di un’istituzione  che presiede alla stabilità. Al contrario, dà l’idea dei tempi pazzi che viviamo: grazie ai governi al potere, che aggiungono in proprio errori a quelli dei regolatori precrisi. Studiate in maniera comparative 40 diverse crisi di origine bancaria negli ultimi 30 anni, e osservato naturalmente che quella in corso è la più grave, le conclusioni sono tre. La prima è che le crisi che hanno origine non nella liquidità inadeguata, ma nella sfiducia reciproca dell’intermediazione finanziaria, hanno conseguenze in termini di perdita di prodotto e di occupati più durature nel tempo. La seconda è che tali conseguenze negative sull’economia reale sono ancor più profonde e durature per i Paesi che vi accompagnano una crisi valutaria: conclusione che si traduce oggi a svantaggio degli Usa e del Regno Unito, le cui valute cadono creando apparente maggior competitività e dunque riduzione del valore reale dei debiti esteri, ma in realtà con un effetto-droga di mascheramento attraverso euforia apparente degli effetti concomitanti, in termini di peggioramento dell’output e soprattutto del reddito disponibile procapite. La terza conseguenza è quella su cui c’è più da riflettere: quando il debito pubblico esplode per gli effetti della droga che i governi mettono in circolo spesa pubblica massiccia aggiuntiva, al fine di evitare il più possibile il riallineamento dei valori degli asset e le ristrutturazioni necessarie a ripartire al meglio - più magri, più efficienti e con gli azionisti che incorporano senza aiuti pubblici le conseguenze dei propri errori – le conseguenze della crisi sull’economia reale sono ancor più protratte nel tempo, quanto più i paesi evitano ristrutturazioni forzate del debito pubblico, passando per default pilotati dai quali si esce con operazioni straordinarie. È una conclusione che vale molto per l’Italia, che ha un debito pubblico elevato precrisi e che sta spendendo assai meno dei paesi concorrenti, ma che cresceva già troppo poco rispetto a tutti i Paesi avanzati. Politici seri, oggi, metterebbero in conto seri sgravi fiscali in concomitanza di una manovra straordinaria sul debito pubblico. Non si vede né l’una né l’altra cosa, all’orizzonte italiano. A tempi straordinari, risposte straordinarie. Non il mero galleggiamento, spacciato per virtuosa prudenza.

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Che figata, la recessione /2009/11/10/che-figata-la-recessione/ /2009/11/10/che-figata-la-recessione/#comments Tue, 10 Nov 2009 14:30:29 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3691 Finora, a ritenere la recessione un felice evento erano solo quei pazzerelli della decrescita. Adesso, ci si mette anche l’Agenzia internazionale dell’energia, che dedica buona parte del suo World Energy Outlook 2009 (o, almeno, del sommario, liberamente accessibile online) alle virtù bucoliche del mondo senza carbonio. Ecco un piccolo e non esaustivo florilegio.

La recessione, riducendo drasticamente l’aumento delle emissioni di gas a effetto serra, puó facilitare il compito di trasformare il settore energetico, offrendoci una breve finestra temporale senza precedenti, per poter concentrare gli investimenti su tecnologie a basse emissioni di CO2.

La crisi finanziaria ha gettato un’ombra sulla possibilità di mobilitare tutti gli investimenti necessari per soddisfare il crescente fabbisogno energetico.

Estendere l’accesso all’energia moderna ai poveri del pianeta rimane una questione prioritaria. Si stima che 1,5 miliardi di persone – ben oltre un quinto della popolazione mondiale – non abbiano ancora accesso all’elettricità.

Nello Scenario 450 dimostriamo come ciò [la stabilizzazione della CO2 atmosferica a 450 ppm] sia possibile attraverso un’azione politica radicale e coordinata nelle varie regioni.

Le riduzioni di emissioni di CO2 legate al consumo energetico richieste nello Scenario 450 (rispetto a quelle previste dallo Scenario di Riferimento) entro il 2020 – tra soli 10 anni – sono straordinarie, ma la crisi finanziaria offre quella che potrebbe rivelarsi un’opportunità unica per assumere i provvedimenti adeguati seguendo il mutamento degli orientamenti politici.

Le misure atte a incoraggiare i risparmi energetici, migliorando per  esempio l’efficienza nel consumo di gas e incentivando le tecnologie a basse emissioni di CO2, riducono la domanda di gas.

Tutte queste affermazioni sono contraddittorie oppure orribili, o entrambe le cose. Contraddittorie, perché non si può sostenere, al tempo stesso, la necessità di un mondo meno fossile, e l’urgenza di ulteriori investimenti nelle fonti fossili. Né si può sostenere, contemporaneamente, che va ridotta la povertà energetica, e che bisogna contenere la domanda. L’affermazione più paradossale, per l’accurata scelta delle parole che la rendono tanto indiscutibilmente vera quanto fottutamente paracula, è la seguente:

Il costo degli investimenti addizionali, indispensabili per indirizzarci lungo lo Scenario 450 ppm, è compensato, almeno parzialmente, dai benefici ottenibili sul versante economico, della sicurezza energetica e della salute.

Possiamo prenderci in giro quanto vogliamo, e anche fare finta che non sia così. Ma a casa mia, che è in provincia di Genova e dunque è una casa particolarmente attenta quando si parla di soldi, dire che qualcosa sarà compensato “almeno parzialmente” dai benefici significa dire che i benefici saranno comunque inferiori ai costi. Va benissimo spendere, perfino spendere tanto, per salvare il mondo: se ci credete, fate pure. Ma bisogna aver chiaro che bisogna pagare il biglietto, che anche questo pranzo non è gratis. Se si mette a sistema questa bizzarra e contorta ammissione con l’elogio delle virtù salvifiche della recessione, l’Aie sta dicendo: Il crollo della produzione industriale ha ridotto le emissioni, e va preservato. Per ridurre ulteriormente le emissioni, il costo dell’energia salirà ulteriormente, quindi – a parità di altri elementi – la crescita futura sarà negativa o comunque inferiore allo scenario tendenziale.

Insomma: l’Agenzia di Parigi ammette che il mondo del futuro sarà o più caldo, o più povero. Certamente non più freddo e più ricco. Dopo di che, vedete voi.

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Dieci domande a Giulio Tremonti /2009/09/18/dieci-domande-a-giulio-tremonti/ /2009/09/18/dieci-domande-a-giulio-tremonti/#comments Fri, 18 Sep 2009 15:44:51 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2839 Ieri sera ho guardato la prima puntata della nuova stagione di Ballarò. Il dibattito è stato a suo modo divertente, ma alla fine anche inconcludente. Ne è nato uno scambio di sms con un amico, col quale ci siamo divertiti a immaginare le domande che ci avrebbe fatto piacere poter porre al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che al di là di ogni ragionevole dubbio ha dominato il dibattito. Solo che nessuno lo ha messo di fronte ai problemi reali del paese, né di fronte ai passaggi più eroici del suo ragionamento. Ecco, quindi, quello che avremmo voluto chiedergli.

1. Signor ministro, Lei sostiene che l’Italia soffre meno di altri paesi. In base a cosa è in grado di affermarlo? Si tratta di un confronto relativo solo all’intervallo di crisi che si è svolto fino a oggi, oppure include anche le differenze nei punti di partenza?

2. Ammesso e non concesso che l’Italia soffra meno degli altri, come spiega il nostro presunto “vantaggio competitivo”? Quali scelte politiche o istituzioni sono responsabili della nostra presunta “tenuta”? In particolare, se si riferisce al sistema bancario, come mai solo pochi mesi prima della recessione – ma dopo lo scoppio della bolla dei subprime – Lei ne aveva criticato i presunti extraprofitti, tanto da volerli punire includendo gli istituti di credito tra le vittime della Robin Hood Tax?

3. Il sistema non ha più bisogno di riforme? Se sì, quali? Se no, in che modo il passaggio della crisi fa venir meno esigenze che erano prima ritenute improrogabili, dalle liberalizzazioni alla riforma fiscale?

4. Se è vero che l’Italia esce meglio dalla crisi, siamo diventati più competitivi? In base a cosa è possibile dirlo? E si tratta di un guadagno di competitività transitorio, oppure ritiene che l’Italia ripartirà davanti agli altri nel momento in cui gli effetti della recessione saranno stati superati?

5. Come si spiega che negli ultimi 15 anni abbiamo accumulato un gap enorme in termini di crescita? Ritiene fosse tutto frutto dell’illusione finanziaria? Se sì, pensa che sia stato meglio non crescere e perdere meno durante la crisi, oppure sarebbe stato meglio creare più ricchezza pur sapendo che almeno una parte sarebbe andata dispersa a causa della recessione?

6. Molti altri paesi stanno utilizzando la crisi come strumento per ristrutturare i loro sistemi economici. Pensa che anche il capitalismo italiano, da Lei più volte aspramente criticato, sia attraversando un simile processo di ristrutturazione? In base a cosa lo può sostenere?

7. Si dice spesso che una crisi è un ottimo momento per effettuare delle riforme. Lei cosa ne pensa? Come mai il governo ha scelto di non intervenire su alcuna delle leve strutturali che, ancora in campagna elettorale, venivano indicate come necessarie per rilanciare lo sviluppo economico? In particolare, pensa che possa essere ancora utile parlare di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, riduzione della pressione fiscale, apertura del mercato del gas, e integrazione dei mercati europei?

8. Prima della crisi, Lei è stato tra quanti hanno sostenuto che la competizione da Est avrebbe prosciugato le risorse dell’Occidente industrializzato. Ne è ancora convinto? Pensa ancora che l’Europa dovrebbe proteggere il suo tessuto industriale dalle importazioni da paesi come l’India e la Cina?

9. Nell’ambito dei dibattiti sulla crisi, Lei ha sempre posto la questione delle regole. Può chiarire quali delle regole attuali ritiene inadeguate e perché, e quali nuove regole ha in mente? Gli errori regolatori del passato dipendono, a Suo avviso, dalla troppa libertà di manovra lasciata ai soggetti privati, oppure dal fatto che inducevano comportamenti sbagliati e dunque distorcevano i segnali che il mercato avrebbe altrimenti mandato?

10. In una recente intervista con Aldo Cazzullo, Lei dice che “la riforma delle riforme è il federalismo fiscale“. Cosa risponde a chi sostiene che l’attuale progetto di federalismo fiscale rischia di produrre un aumento della pressione fiscale? Intende implementare un serio progetto che responsabilizzi le amministrazioni locali, sia dal lato del prelievo che da quello della spesa? In che modo questa intenzione è compatibile con l’abolizione dell’Ici, di fatto l’unico strumento di autofinanziamento dei comuni? E, infine, nella prospettiva di lungo termine del federalismo fiscale, ritiene che se un ente pubblico si troverà sull’orlo della bancarotta dovrà essere lasciato fallire oppure immagina meccanismi di salvaguardia analoghi a quelli attuali, col rischio di lasciare irrisolto il problema dell’azzardo morale?

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Una recessione alle porte? /2009/09/17/una-recessione-alle-porte/ /2009/09/17/una-recessione-alle-porte/#comments Thu, 17 Sep 2009 11:25:46 +0000 Pietro Monsurrò /?p=2795 Non si fa in tempo a dire che la recessione sia finalmente finita che “il lungo urlante ed inamabil gufo” di macphersoniana memoria fa capolino, stavolta incarnandosi in questo articolo del Telegraph, che sostiene che M1 sta calando, M2 sta calando, M3 (come fanno a saperlo lo ignoro) sta calando, i prestiti delle banche stanno calando, e quindi ristiamo al ’29.

Un rapido controllo mi ha convinto che i dati non sono campati per aria, e quindi parrebbe che ci siano condizioni di stress in molti aggregati monetari e creditizi americani, anche senza tirare in ballo la disoccupazione, che ormai ha raggiunto livelli europei. E’ possibile dunque che la discesa non sia ancora finita e che ci saranno nuove crisi da qualche parte, anziché la tanto auspicata ripresa.

In ogni caso, diciamocelo, una buona volta: questa storia del ’29 ha un po’ stufato. La depressione che è seguita alla crisi del  ’29, senza pressioni (sin dai tempi di Hoover) a non tagliare i salari, senza protezionismo,  senza le spinte a rafforzare i sindacati e i cartelli, sarebbe stata così grave e così duratura? Probabilmente non ci sarebbe stata la disoccupazione al 20% fino al ’41 senza le grandi riforme del salvatore della patria dell’epoca, Barack… no, volevo dire F. D. Roosevelt. Il resto è più difficile da dire, e in letteratura credo di aver contato quasi una dozzina di spiegazioni possibili (e non credo di aver esaurito la lista), ma, essendo il ’29 un unicum nella storia economica, non bisogna esagerare con i paragoni.

Di rischi ce ne sono, ovviamente, ma non bisogna vedere la grande depressione guardando solo agli aggregati monetari e finanziari: c’era molto di più, purtroppo per loro e per nostra fortuna. Che quel di più torni, sfortunatamente, non me la sento, comunque, di escluderlo. Voglio essere ottimista, e quindi il paragone tra Smoot-Hawley Act e pneumatici cinesi non ho intenzione di farlo: nel primo c’erano 20,000 merci.

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L’accordo Abi-imprese di oggi ultimo intervento-tampone. Per settembre, tre punti strutturali /2009/08/03/laccordo-abi-imprese-di-oggi-ultimo-intervento-tampone-per-settembre-tre-punti-strutturali/ /2009/08/03/laccordo-abi-imprese-di-oggi-ultimo-intervento-tampone-per-settembre-tre-punti-strutturali/#comments Mon, 03 Aug 2009 18:26:51 +0000 Oscar Giannino /?p=1881 Diciamolo: per i mercati il mese di luglio è stata una manna. L’indice FTSE All World – che tiene conto di tutte le Borse mondiali, ciascuna per il proprio peso relativo – è cresciuto di quasi 9 punti in quattro settimane. Dall’inizio dell’anno, Il MIB italiano ha guadagnato il 30%, il 27% Francoforte, il 26% Parigi, il 24% Madrid, Londra il 23%. Svezia e Norvegia hanno guadagnato 35 punti, ma anche la scassata Irlanda ha totalizzato un apprezzabile più 14%. Negli States, il Dow Jones ha guadagnato 24 punti percentuali, il Nasdaq 28. Quel che conta di più, è che tra fine giugno e luglio ormai i due terzi delle aziende quotate americane hanno annunciato al mercato la loro seconda trimestrale, e nel 74% dei casi i risultati hanno battuto in meglio le attese di analisti e mercati. La fiducia è generalmente in salita. Il petrolio risale oltre i 70 dollari, “annusando” un utilizzo degli impianti meno basso del 65% a cui si era attestato negli Usa e nella maggior parte dei paesi Ocse. Siamo ancora in recessione, ma ammettiamolo: in molti sperano che l’economia reale piano piano abbia iniziato a risalire. È proprio questo, il momento più delicato per un paese come l’Italia.

Nell’ultimo trimestre 2008 e nei primi due dell’anno in corso, abbiamo saggiamente deciso di astenerci dalla corsa generale al maggior deficit pubblico a sostegno del ciclo, grazie innanzitutto al fatto che non c’erano banche in pericolo da salvare. Ora che i motori della crescita  riprendono poco a poco a girare, il rischio è che i difetti storici del sistema italiano rendano la ripresa di velocità della nostra economia più lenta di quella dei più dei nostri concorrenti.

Spero per questo che agosto porti consiglio. Sin qui , il governo ha esteso gli ammortizzatori sociali, e da settembre-ottobre bisognerà farlo ulteriormente e molto onerosamente, poiché scadranno i primi 12 mesi di loro utilizzo per migliaia e migliaia di lavoratori. L’esecutivo ha riallocato decine e decine di miliardi di euro in spese di competenza  per infrastrutture e investimenti, senza aggiungere un euro in più. E di questo i risultati si vedranno nei prossimi anni, visti i tempi dell’apertura-cantieri nel nostro Paese.  Tremonti ha varato una batteria di misure dall’incentivo fiscale a chi investe in macchinari, alla moratoria per le rate di capitale che le imprese hanno avuto in prestito dalle banche. Si è preferito saggiamente constatare l’effetto che la crisi ha su composizione  e ammontare delle entrate. In questo, Tremonti ha mille volte ragione.

Ora, però, inizia il tempo degli interventi il cui fine non è “contenere” al minimo costo gli effetti della crisi, ma accrescere strutturalmente la velocità della nostra economia. Non sottovaluto la questione Mezzogiorno, ma sono per un’agenzia snella che coordini i fondi e inizi a pensare al 2013, quando le risorse europee verso l’Italia si abbatteranno di molto. Ma non è questo, il pistone che va sostituito: il Sud è questione nazionale dai tempi più lunghi e di soluzioni federaliste, l’ho già scritto.

Almeno tre problemi strutturali mi sembrano  prioritari. C’è un’emergenza rappresentata dalla domanda interna troppo debole: come al solito l’unico settore in cui è in forte ripresa è l’auto grazie agli incentivi. Poiché non possiamo pensare a incentivi all’acquisto generalizzato, serve più reddito disponibile nelle tasche dei lavoratori dipendenti. In altre parole, serve una nuova tranche di defiscalizzazione del salario di produttività che sarà in questi mesi alla sua prima prova, e che rischia di non decollare proprio perché le aziende hanno poco da distribuire ai lavoratori, nel 2009. Quella di luglio 2008 è servita solo a incoraggiare imprese e sindacati  firmare l’intesa. Ora, per far decollare davvero i contratti decentrati e non far vincere i no della Cgil, serve di più.

Il secondo problema riguarda la patrimonializzazione delle aziende italiane, storicamente uno dei loro talloni d’Achille considerata la loro esigua dimensione media. È in tema solo sfiorato, dal punto specifico contenuto nell’avviso comune firmato oggi tra Abi, imprese e governo (di questa misura, sono disposto a scommetterlo, trarranno vantaggio soprattutto le banche che interrompono “ufficialmente” d’ora in avanti ciò che già facevano da mesi senza dirlo, e cioè l’ordinato procedere a incagli e sofferenze degli impieghi a prenditori in difficoltà: e oltre al vantaggio patrimoniale e di minori accantonamenti, ci lucreranno pure un ulteriore incentivo fiscale che Tremonti ha promesso oggi solo quando vedrà che le banche la attuano davvero, la moratoria).  Continuo a credere che per la patrimonializzazione delle imprese servirebbe molto meglio allo scopo un maxi fondo equity collegato allo scudo fiscale, con un secondo pilastro di raccolta di capitale aperto alle banche e con un terzo  ad apporti  dalla Cdp, che non “fa” deficit per Bruxelles.

Il terzo problema riguarda una miglior sostenibilità generale dei conti pubblici italiani. Ci risiamo con le pensioni da riformare, oltre il primo passo – timido – imboccato per le donne nel settore pubblico? Sì. Ma non solo. Un modello federalista di nuovo sostegno al Sud, “dal basso”, si incrocia con le scadenze generali del federalismo fiscale e del sessennio di finanziamenti europei 2014-2020.  Torna d’attualità, per me, l’idea di attribuire alle Regioni – e all’Agenzia per il Sud, comunque la si voglia chiamare ma  basta che sia snella – una parte di patrimonio fatta di cospicue fette degli attivi pubblici italiani. Lo si può fare senza mettere in crisi la sostenibilità del debito pubblico, visto che esso è superato dagli  attivi per un multiplo che, a seconda di come lo si calcola,  va da 1,4 a 1,8.

Troppa fantasia? No. Dalla crisi non si esce guardando per terra ma in cielo. Se si ha la schiena dritta, certo. Ma questo è un altro paio di maniche.

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Impieghi bancari, tre giornali per tre verità /2009/07/29/impieghi-bancari-tre-giornali-per-tre-verita/ /2009/07/29/impieghi-bancari-tre-giornali-per-tre-verita/#comments Wed, 29 Jul 2009 12:06:51 +0000 Oscar Giannino /?p=1782 Oggi è uscita la Bank Lending Survey trimestrale della BCE. Sono 41 pagine abbastanza per addetti ai lavori ma non troppo, non tali cioè da non essere comprensibili anche se non siete banchieri. Il rapporto rileva ed elabora le risposte di 118 banche dell’euroarea, dunque i dato sono solo di estrazione bancaria ed autoasseverati, rispondendo ai questionari inviati dalla BCE. In sintesi: la stretta al credito c’è ancora. Le banche rilevano che la stanno attenuando in termini generali, poiché dal 43% di esse che dichiaravano di stringere i cordoni della borsa ai loro clienti si passa al 21%. Ma per gli impieghi alle famiglie la restrizione passa solo dal 28% al 22, e dal 26% al 22 per i crediti al consumo. Quanto alle imprese, basta dare un’occhiata alla chart n.4 di pagina 7 per constatare che la domanda è passata da un -40 e più per cento a malapena a un meno 30 e rotti, rispetto alle attese di chi immaginava che risalisse fino a un meno 15%, mentre quanto all’accordato le banche che dichiarano di essere in netta restrizione passano dal 42 al 21% per la piccola  e media impresa, e dal 48 al 25% per la grande.  Il sito del Sole 24 ore titola: “Area euro, banche più liquide, si allenta la stretta al credito”. Al contrario il sito del WSJ: “Euro-zone Banks Tighten Credit Standards”, con un lead ancor più pessimistico, “European banks continued to lend only reluctantly at the mid-year point, frustrating policies attempting to reverse the economic downturn by providing banks with new liquidity to facilitate more lending. Banks in the 16-country euro zone further tightened their credit standards in the second quarter, and companies and households may even face slightly tougher requirements in the current quarter, the European Central Bank said in a report on bank lending released Wednesday”. Il FT: “ECB sees ‘turning point’ in lending conditions”. Conclusione: le due testate anglosassoni sono sicuramente meno filobancarie della nostra, e il più corretto di tutti è FT che riporta come della BCE e a sua responsabilità, il giudizio sul fatto che davvero si debba considerare tali dati una “svolta”. Restano infatti terribili, a mio modesto giudizio.

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Altro che fine della crisi… /2009/07/28/altro-che-fine-della-crisi/ /2009/07/28/altro-che-fine-della-crisi/#comments Tue, 28 Jul 2009 17:13:23 +0000 Oscar Giannino /?p=1780 Trovate qui la più aggiornata ed esauriente sintesi in slides degli andamenti di tutti i mercati USA: dall’immobiliare al manifatturiero, dal mercato del lavoro agli andamento dei prezzi, al mercato monetario. Una lettura che consiglio a tutti coloro che immaginano il peggio sia alle nostre spalle…. Cominciate da pagina 66: malgrado la massa monetaria più che raddoppiata a 2mila miliardi di dollari, il moltiplicatore monetario è sceso del 50%, cioè la velocità del circolo monetario e degli impieghi finanziari col cavolo che sta rispondendo alla cura Bernanke. La conclusione è che la recessione è ancora saldamente tra noi. Keep in mind the noise is easy to uncover – it blares at your all day long from the mainstream media - the signal is much more difficult to trace, and usually involves a substantial dose of contrarian skepticism.

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