CHICAGO BLOG » Reagan http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Spesa o tasse? /2009/12/28/spesa-o-tasse/ /2009/12/28/spesa-o-tasse/#comments Mon, 28 Dec 2009 14:41:24 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4519 Nei commenti al post di Boggero esprimevo la mia perplessità nel constatare che molti liberali (non Boggero) vedono le tasse come un problema più grave della spesa pubblica. Questo è probabilimente il lascito intellettuale di Reagan, che notoriamente con la serietà fiscale non aveva alcun rapporto, e che quasi raddoppiò il rapporto debito/PIL americano. “Dov’è finita la serietà fiscale?”, verrebbe da chiedersi, visto che il debito pubblico, un tempo “eredità poliitca di Mr. Keynes” (Buchanan/Wagner), è diventato il non plus ultra del liberalismo, in genere preceduto da “neo”, che probabilmente in greco significava “si fa per dire”. Si potrebbe dire qualcosa sul rapporto tra tasse, spesa e crescita, ma siccome è un problema molto complicato mi limiterò a considerazioni di carattere politico e non economico: prima politico, cioè ideologico, e poi politologico.

Cominciamo dall’ideologia. Se definiamo il liberalismo come la dottrina secondo cui ognuno dovrebbe “fare ciò che vuole con ciò che possiede”, le tasse o la spesa pubblica limitano la libertà degli individui perché non sono sotto il controllo dell’individuo, ma decise dall’elite politica (che in filosofia politica si chiama stranamente “volontà popolare”: ogni tanto penso che se la Mafia assodasse qualche alto pensatore diventerebbe presto più rispettabile). Tasse o spesa?

Le fonti di introiti dello Stato sono quattro: privilegi monopolistici, tasse (dirette e indirette), signoraggio e deficit. Se escludiamo concessioni e signoraggio, la spesa pubblica si paga con le tasse oppure accumulando debito. Se un’economia produce 100€ e la spesa pubblica è 50€, ogni cittadino ha diritto a scegliere come usare il 50% di quello che produce, mentre subisce le decisioni dell’elite politica / volontà popolare per il rimanente 50%. Che lo Stato raccolga 50€ in tasse, o emetta 50€ in bond, non cambia nulla: la percentuale di risorse controllate dallo Stato è data dalla spesa.

Alcuni dicono che i tagli alle tasse si ripagano da soli, ma questo non l’ho mai visto, mentre altri dicono che i tagli alle tasse limitano la crescita della spesa pubblica, ma anche questo mi sembra dubbio: curve di Laffer e bestie affamate esistono nell’immaginario (neo)liberale, ma un po’ meno nella realtà. In ogni caso, ridurre il peso dello Stato dell’economia richiede di tagliare quei 50€ di spesa, e non i modi in cui viene finanziata: il fine dovrebbe essere chiaro, al di là dei mezzi più o meno adeguati.

Finiamola con l’ideologia, e passiamo alle scienze politiche. Sul piano politico c’è un ottimo motivo per preferire le tasse al deficit: le tasse mostrano al cittadino quanto lo Stato costa direttamente, senza fargli fare quei complicatissimi conti sull’evoluzione del debito pubblico necessari all’equivalenza ricardiana. Purtroppo questo fattore è molto limitato, perché lo Stato crea ad hoc sistemi fiscali così complessi che è impossibile capire chi paga cosa, e, come nel gioco delle tre carte, il cittadino non capisce nulla (e viene fregato: termine tecnico per dire che in presenza di pesanti asimmetrie informative la democrazia difficilmente può funzionare).

Detto questo, credo che uno Stato serio – due parole che assieme non hanno molto senso, per parafrasare il cantante dei Megadeth – debba avere deficit nulli (salvo casi molto eccezionali) e sistemi fiscali estremamente semplici, in modo che ogni cittadino si accorga di quanto lo Stato costi. Altrimenti non è che non c’è libertà, è anche pure la democrazia funziona male (il che non è una novità: io mi stupisco che non funzioni peggio, in genere).

Le tasse sono la parte più visibile dello statalismo: proprio per questo sono il male minore. Il problema è la spesa, e dire ai cittadini “guardate che quello che ottenete (poco) è pagato da voi stessi (tanto)” è preferibile, per quel poco che serve, a sostenere politiche fiscali di deficit strutturali che avrebbero fatto inorridire un liberale senza nei, e scusate il gioco di parole.

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A vent’anni dal muro. Non dimenticare /2009/11/07/a-ventanni-dal-muro-non-dimenticare-2/ /2009/11/07/a-ventanni-dal-muro-non-dimenticare-2/#comments Sat, 07 Nov 2009 16:50:30 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3638  

(Hat tip: L’Arengo)

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Ciao Irving, un grande che se ne va /2009/09/19/ciao-irving-un-grande-che-se-ne-va/ /2009/09/19/ciao-irving-un-grande-che-se-ne-va/#comments Sat, 19 Sep 2009 15:47:40 +0000 Oscar Giannino /?p=2848 A 89 anni è morto Irving Kristol. Sicuramente, uno dei più grandi intellettuali sociali americani del secolo scorso. Un intellettuale deliberatamente e programmaticamente non-accademico, in costante polemica con l’accademia liberal e neoliberal, della quale nei decenni divenne una bestia nera. Un intellettuale costantemente capace di tenersi lontano anche da affiliazioni troppo limitanti alla politique politicienne. Eppure, con riviste come The Public Interest fondata nel 1965, e poi nei decennmi Commentary, Encounter, The Reporter e The National Interest, riuscì a scuotere in profondità i più radicati luoghi comuni dell’America politica. La sua reazione “conti alla mano” alle conseguenze dell’ondata neostatalista della great Society johnsoniana, sviluppata con un concretismo che in Italia si direbbe salveminiano visto che da giovane Kristol era stato di sinistra e anzi di sinistra estrema – trotskysta – finì per diventare negli anni tenace battaglia di smascheramento della triade “Stato nell’economia”, “permissivismo nella cultura”, “arrendismo in politica estera”. Il reaganismo non sarebbe mai esistito, senza Kristol e le sue riviste che, con poche decine di migliaia di copie – The Public Interest iniziò con 10mila dollari di capitale – gettarono i semi di quello che divenne poi il movimento neo conservative. Che ha sbaragliato i democratici da Carter in avanti, fino a Bush figlio e alla sua mesta parabola. A Kristol non piacevano le etichette, come trovate conferma in questo scritto – ripubblicato sul Weekly Standard diretto da suo figlio, Bill  – in cui espone con grande onestà il coacervo di filoni diversi confluiti nella definizione di neo-con. “Dopo che mi han dato nel neomarxista e neokeynesiano, neomaoista e neotrotskysta, alla fine sarò solo neo-trattino-nulla”, dice. Non è così, non sarà mai così. Il suo nome resterà per sempre sulle labbra di coloro che si battono per il mercato, per la libertà, per i valori dell’individuo incarnati nella cultura occidentale. Ciao, Irving.

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Misery (Index) non deve morire /2009/08/30/misery-index-non-deve-morire/ /2009/08/30/misery-index-non-deve-morire/#comments Sun, 30 Aug 2009 14:36:25 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2397 In questo periodo di crisi dell’economia, anche il liberismo non si sente troppo bene. In base all’assunto (discutibile) che il “Washington Consensus”, quella specie di paradigma che sta dietro a buona parte delle riforme economiche degli anni Novanta, sia la prosecuzione del liberismo con altri mezzi, molti hanno sostenuto che a suon di liberismo il mondo si sia ammalato di un male quase insanabile. Da qui, il ritorno prepotente del keynesismo, le beffe agli economisti (che, come tanto tempo fa, viene usato quasi come sinonimo di liberisti), la retorica stimolista e l’assalto regolatorio ai mercati. Però, c’è una cosa che non torna: i dati. Lo dimostra Steve Hanke, economista della Johns Hopkins University e senior fellow del Cato Institute, in un breve ma incisivo articolo pubblicato da Globe Asia. Hanke si concentra sul “Misery Index“, un indice sintetico introdotto da Arthur Okun e modificato da Robert Barro, che sostanzialmente misura – una volta applicato a un dato periodo di tempo, per esempio la durata di un mandato presidenziale – la variazione della miseria, definita in funzione di quattro variabili: l’inflazione; la disoccupazione; il rendimento dei buoni del tesoro a 30 anni; e la distanza tra il trend di lungo termine della crescita del Pil reale e la performance effettiva dell’economia. Il risultato non è soprendente, per chi la pensa come noi dell’IBL, ma pone un grosso problema a tutti gli altri, che quanto meno dovrebbero cercare di argomentare perché, dove, come e quando i dati dicono cose sbagliate.

Infatti, il presidente americano che ha dato il maggior contributo alla riduzione della miseria negli Usa è Ronald Reagan (primo mandato), seguito da Bill Clinton nel secondo mandato e quindi ancora dal secondo mandato di Reagan. Le amministrazioni peggiori sono quelle di Jimmy Carter e di Nixon/Ford. Una curiosità: George W. Bush non fa né bene né male: nel primo mandato ha contribuito a ridurre leggerissimamente il Misey Index, nel secondo lo ha fatto aumentare leggermente. Hanke fa bene, nel commentare questo, a ricordare le parole spese da Clinton nel suo discorso sullo stato dell’unione del 1996:

The era of big government is over.

Lette 13 anni dopo, strappano un sorriso. Ma è un sorriso bonario, dovuto al senno di poi. Perché, se Clinton aveva fattualmente torto, aveva ideologicamente ragione.

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Il repubblicano Zingales e’ un “restauratore”? /2009/07/29/il-repubblicano-zingales-e-un-restauratore/ /2009/07/29/il-repubblicano-zingales-e-un-restauratore/#comments Wed, 29 Jul 2009 15:31:18 +0000 Alberto Mingardi /?p=1805 Oscar Giannino ha gia’ scritto qui del fatto che Luigi Zingales e’ ormai riconosciuto come uno degli “astri” che possono rischiarare il cammino in salita del partito repubblicano in America. Oggi ne scrive anche Zingales stesso sul Sole, in un articolo per nulla compiaciuto ma anzi interessante e ricco di stimoli. Come tutto, ovviamente discutibule.
Riassumendo brevissimamente: Zingales suggerisce ai repubblicani di essere piu’ rigorosi, rispetto alla finanza pubblica, anche accettando un inasprimento fiscale come contropartita per mantenere aperti i circuiti dello scambio internazionale. Nel contempo, suggerisce loro di essere meno pro-business e piu’ pro-market, con argomenti molto diversi (stare dalla parte degli azionisti piu’ che dei manager, non difendere le grosse banche, ma anche accettare un Antitrust piu’ muscolare).
Personalmente, a me sembra un po’ confuso (a cominciare dalla bizzarra citazione di Teddy Roosevelt, non certo un Presidente liberista). Il suo principale difetto e’ che non e’ un articolo “teorico”, non implica una “proposta” netta e chiara all’ipotetico lettore “repubblicano” del Sole (?). Ma al contrario cerca di considerare nelle proposte costo e appeal delle decisioni politiche, con un po’ di strabismo pero’, perche’ esamina poco o punto le domande degli elettori repubblicani in carne ed ossa (sulle quali raccomando questo libro di Grover Norquist). Insomma: non e’ un ragionamento solo sui “simboli”, che poi sono quello che un pensatore puo’ legittimamente offrire a un partito, e neppure e’ un ragionamento sulle motivazioni di voto di aderenti e simpatizzanti del GOP.
Detto questo, a me e probabilmente ai lettori di questo blog verrebbe facile criticare Zingales “da destra”: ma la reazione probabilmente prevalente e’ quella di chi lo addita al pubblico ludibrio come un “restauratore”.
Se il problema numero uno della crisi e’ la “narrazione” che produrra’ sul bilanciamento Stato-mercato, auguri ai reazionari come Zingales. Ne hanno, ne abbiamo, bisogno.

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I politici chissà, ma almeno i banchieri centrali ricordino la Thatcher /2009/05/04/i-politici-chissa-ma-almeno-i-banchieri-centrali-ricordino-la-thatcher/ /2009/05/04/i-politici-chissa-ma-almeno-i-banchieri-centrali-ricordino-la-thatcher/#comments Mon, 04 May 2009 13:35:50 +0000 Oscar Giannino /index.php/2009/05/i-politici-chissa-ma-almeno-i-banchieri-centrali-ricordino-la-thatcher/ Non prevedo facili ripescaggi a breve da parte di politici italiani, europei ed americani dell’eredità della Baronessa Thatcher, e di Ronnie Reagan che insieme a lei compone il binomio di riferimento dei migliori statisti del secolo scorso. L’ebbrezza da panico economico per il ritorno in grande stile dello Stato tende a far dimenticare a tutti che il ruolo pubblico di stabilizzatore del ciclo deve essere intenso quanto si vuole, ma dichiaratamente reversibile con tempi e procedure certe, annunciate all’atto stesso in cui si adottano le misure di intervento straordinario: esattamente ciò che manca in ogni intervento pubblico deliberato al mondo da ottobre 2008 a oggi, praticamente a qualunque latitudine. Pretenderlo dalla sinistra sarebbe forse troppo. Ma il problema è la destra, che confonde quasi in ogni Paese la soddisfazione per il “ritorno della politica” rispetto ai grandi interessi finanziari transnazionali, con un esanime tuffo nel neostatalismo, identificato come unico ambito residuo di una legittimità misurata alle urne ed esercitata con delega discrezionale, spezzando la maldigerita influenza del precedente cosiddetto Washington Consensus degli oggi tanto famigerati “mercati”.
Chi la pensa come noi deve tenere sempre distinta la politica – il pieno rispetto della legittima sovranità esercitata al voto e conquistata con programmi e soprattutto azioni concrete volte alla crescita e alla miglior libera soddisfazione della persona – dall’identificazione della politica nello Stato, nei suoi apparati e nelle sue regolamentazioni. La crisi economica non mi fa cambiare idea. Non mollerò mai la convinzione che in un Paese come il nostro – per la sua tipologia di piccola impresa diffusa e per la percentuale elevatissima di lavoro autonomo sul totale degli occupati – tale distinzione possa costituire la più naturale piattaforma di riferimento per un’azione politica non solo schiettamente liberale e liberista, ma soprattutto votata al successo. Non abbiamo avuto la Magna Charta nel XIII secolo né alcuna Glorious Revolution nel XVII. Lo Stato unitario è prodotto tardivo e recente, subito squassato dall’insuccesso della minoritaria classe dirigente liberale, a fronte dell’immissione delle masse nell’arengo politico veicolata da cattolici e socialisti, mentre fascismo e comunismo praticavano e teorizzavano lo Stato come unico attore della necessitata accelerazione di una storia “olista”. Malgrado tutto, però, le condizioni dell’Italia disegnano un Paese i cui géni restano potentemente antistatalisti: e questo è un bene, checché affermasse la cultura politica eticista nella quale mi sono formato in giovinezza, all’insegna del lamalfiano e amendoliano (nel senso di Giovanni, naturalmente, non del figlio Giorgio) “questa Italia non ci piace”.
Se le basi concrete di policy per un rilancio personalista e liberale oggi appaiono eclissate in Italia e nell’Occidente, ciò malgrado dovremo insistere. E insisteremo, per tutto il tempo necessario: per quanto mi riguarda, questo è il miglior tributo da rendere al trentennale dell’ascesa a Downing Street di Lady Thatcher.
Ma se tra i politici Bismarck vince su Adam Smith, almeno tra i regolatori indipendenti, assai meno soggetti se non – auspicabilmente – del tutto svincolati dai timori degli elettorati, dovrebbe essere praticata qualche migliore ritenzione delle lezioni del passato. Faccio un esempio concreto. Per noi fa testo la Storia monetaria degli Stati Uniti di Milton Friedman e Anna Schwartz. Ma a differenza dei cattivi neokeynesiani non ne abbiamo tratto solo la lezione che il regolatore monetario e dell’intermediazione finanziaria deve mettere in atto l’intera panoplia a sua disposizione, per evitare il collasso bancario e il credit crunch. Ricordiamo bene anche che occorre avere le idee chiare su che cosa in concreto sia, il fantasma tanto temuto della deflazione generale, rispetto invece a riallineamenti di prezzi degli asset che costituiscono autocorrezioni salutari, rispetto a picchi non sorretti da fondamentali.
Tradotto: i neostatalisti inneggiano oggi alla massa monetaria raddoppiata ogni semestre negli Usa mentre il tasso d’interesse è negativo, e attendono tra pochi giorni esiti degli annunciati stress test nelle 19 maggiori banche Usa che non solo non ne decretino la fine di alcuna, ma auspicabilmente anche che lo Stato entri nel capitale di parecchie di loro a cominciare da Bofa. Noi invece, non dimentichi thatcheriani, pensiamo che proprio l’uscita dall’inflazione fu strumento essenziale per debellare la stagflazione. Negli States ci pensò Paul Volcker, che alla Fed sotto Reagan la piantò di dar retta alle lamentazioni sugli effetti di maggior disoccupazione di una stretta monetaria dopo anni di politiche monetarie laschissime,e lasciò lievitare i tassi fino al 21,5%: ma vinse, perché aveva ragione.
Direte voi: ma che cosa c’entra questa reminiscenza storica, caro il mio sprovveduto liberista d’accatto, visto che oggi il main goal del mondo intero è uscire dalla crisi, mentre all’inflazione ci penseremo comodamente dopo, una volta manifestatasi la ripresa? E senza dimenticare che un po’ d’inflazione forse alla fine farà pure bene, perché contribuirà a diminuire il valore reale delle perdite accumulate? Risposta: proprio perché la storia insegna, se la si pensa come noi bisognerebbe chiedere che i regolatori monetari e bancari facessero sfoggio di indipendenza dalla politica. Cioè procedessero pure, se lo ritengono, ad annegare di liquidità i mercati e a tenere su anche per i capelli se necessario il balance sheet bancario. Ma accompagnando ciascuna delle decisioni in materia a un esplicito timing in cui si procederà a decisioni di segno esattamente contrario.
La ripresa dichiarata in anticipo dei tassi anti-inflazione doterebbe il governo dell’intera curva temporale dei rendimenti finanziari di strumenti mai sperimentati prima, più che mai necessari oggi proprio perché la crisi ha bisogno di interventi straordinari non solo “in entrata”, ma anche “in uscita”, se non vogliamo dimenticarci dei guai stagflattivi che rappresentarono per decenni l’eredità dei tardivi interventi di stabilizzazione che posero termine alla Grande Depressione (secondo conflitto mondiale in primis).
Idem dicasi per gli ingressi straordinari dello Stato in banche e imprese. Senza uscite stabilite sin dall’inizio, non solo si pongono le basi per nuove IRI: più semplicemente, al di là della bontà delle future decisioni di manager promossi per designazione o gradimento pubblico-sindacale, si pongono soprattutto le basi per un aumento asintotico della tassazione pubblica, per sostenere i costi crescenti di tanta subitanea espansione della sfera statale. L’esatto opposto di ciò che serve nel medio termine, per riprendere una crescita sana e il più possibile aperta alla libera scelta di milioni e milioni di consumatori e imprenditori, risparmiatori e investitori.
Come dite? Che negli Usa proprio le statistiche ufficiali dicono che la deflazione c’è, e dunque la richiesta è capziosa? Non sono d’accordo. Ha ragione Allan Meltzer. La deflazione non va misurata dagli indici dei prezzi al consumo, da quelli immobiliari e tanto meno da quelli alla produzione (sono col segno meno, negli States). Se si assume il deflatore del Gdp, negli Usa su scala annuale a fine marzo segnava un più 2,3%. La deflazione non c’è, signori miei. Ma anche se ci fosse, il ragionamento resta e così le richieste, da avanzare a politici e regolatori se non vogliamo venir meno a ciò che di buono è venuto al mondo – tanto! – dalla nostra scuola di pensiero. Più che da qualunque altra, nella storia del mondo.

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