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Posts Tagged ‘Reagan’

Spesa o tasse?

28 dicembre 2009

Nei commenti al post di Boggero esprimevo la mia perplessità nel constatare che molti liberali (non Boggero) vedono le tasse come un problema più grave della spesa pubblica. Questo è probabilimente il lascito intellettuale di Reagan, che notoriamente con la serietà fiscale non aveva alcun rapporto, e che quasi raddoppiò il rapporto debito/PIL americano. “Dov’è finita la serietà fiscale?”, verrebbe da chiedersi, visto che il debito pubblico, un tempo “eredità poliitca di Mr. Keynes” (Buchanan/Wagner), è diventato il non plus ultra del liberalismo, in genere preceduto da “neo”, che probabilmente in greco significava “si fa per dire”. Si potrebbe dire qualcosa sul rapporto tra tasse, spesa e crescita, ma siccome è un problema molto complicato mi limiterò a considerazioni di carattere politico e non economico: prima politico, cioè ideologico, e poi politologico. Prosegui la lettura…

Pietro Monsurrò Senza categoria , ,

A vent’anni dal muro. Non dimenticare

7 novembre 2009

Ciao Irving, un grande che se ne va

19 settembre 2009

A 89 anni è morto Irving Kristol. Sicuramente, uno dei più grandi intellettuali sociali americani del secolo scorso. Un intellettuale deliberatamente e programmaticamente non-accademico, in costante polemica con l’accademia liberal e neoliberal, della quale nei decenni divenne una bestia nera. Un intellettuale costantemente capace di tenersi lontano anche da affiliazioni troppo limitanti alla politique politicienne. Eppure, con riviste come The Public Interest fondata nel 1965, e poi nei decennmi Commentary, Encounter, The Reporter e The National Interest, riuscì a scuotere in profondità i più radicati luoghi comuni dell’America politica. La sua reazione “conti alla mano” alle conseguenze dell’ondata neostatalista della great Society johnsoniana, sviluppata con un concretismo che in Italia si direbbe salveminiano visto che da giovane Kristol era stato di sinistra e anzi di sinistra estrema – trotskysta – finì per diventare negli anni tenace battaglia di smascheramento della triade “Stato nell’economia”, “permissivismo nella cultura”, “arrendismo in politica estera”. Il reaganismo non sarebbe mai esistito, senza Kristol e le sue riviste che, con poche decine di migliaia di copie – The Public Interest iniziò con 10mila dollari di capitale – gettarono i semi di quello che divenne poi il movimento neo conservative. Che ha sbaragliato i democratici da Carter in avanti, fino a Bush figlio e alla sua mesta parabola. A Kristol non piacevano le etichette, come trovate conferma in questo scritto – ripubblicato sul Weekly Standard diretto da suo figlio, Bill  – in cui espone con grande onestà il coacervo di filoni diversi confluiti nella definizione di neo-con. “Dopo che mi han dato nel neomarxista e neokeynesiano, neomaoista e neotrotskysta, alla fine sarò solo neo-trattino-nulla”, dice. Non è così, non sarà mai così. Il suo nome resterà per sempre sulle labbra di coloro che si battono per il mercato, per la libertà, per i valori dell’individuo incarnati nella cultura occidentale. Ciao, Irving.

Oscar Giannino liberismo , ,

Misery (Index) non deve morire

30 agosto 2009

In questo periodo di crisi dell’economia, anche il liberismo non si sente troppo bene. In base all’assunto (discutibile) che il “Washington Consensus”, quella specie di paradigma che sta dietro a buona parte delle riforme economiche degli anni Novanta, sia la prosecuzione del liberismo con altri mezzi, molti hanno sostenuto che a suon di liberismo il mondo si sia ammalato di un male quase insanabile. Da qui, il ritorno prepotente del keynesismo, le beffe agli economisti (che, come tanto tempo fa, viene usato quasi come sinonimo di liberisti), la retorica stimolista e l’assalto regolatorio ai mercati. Però, c’è una cosa che non torna: i dati. Lo dimostra Steve Hanke, economista della Johns Hopkins University e senior fellow del Cato Institute, in un breve ma incisivo articolo pubblicato da Globe Asia. Hanke si concentra sul “Misery Index“, un indice sintetico introdotto da Arthur Okun e modificato da Robert Barro, che sostanzialmente misura – una volta applicato a un dato periodo di tempo, per esempio la durata di un mandato presidenziale – la variazione della miseria, definita in funzione di quattro variabili: l’inflazione; la disoccupazione; il rendimento dei buoni del tesoro a 30 anni; e la distanza tra il trend di lungo termine della crescita del Pil reale e la performance effettiva dell’economia. Il risultato non è soprendente, per chi la pensa come noi dell’IBL, ma pone un grosso problema a tutti gli altri, che quanto meno dovrebbero cercare di argomentare perché, dove, come e quando i dati dicono cose sbagliate.

Infatti, il presidente americano che ha dato il maggior contributo alla riduzione della miseria negli Usa è Ronald Reagan (primo mandato), seguito da Bill Clinton nel secondo mandato e quindi ancora dal secondo mandato di Reagan. Le amministrazioni peggiori sono quelle di Jimmy Carter e di Nixon/Ford. Una curiosità: George W. Bush non fa né bene né male: nel primo mandato ha contribuito a ridurre leggerissimamente il Misey Index, nel secondo lo ha fatto aumentare leggermente. Hanke fa bene, nel commentare questo, a ricordare le parole spese da Clinton nel suo discorso sullo stato dell’unione del 1996:

The era of big government is over.

Lette 13 anni dopo, strappano un sorriso. Ma è un sorriso bonario, dovuto al senno di poi. Perché, se Clinton aveva fattualmente torto, aveva ideologicamente ragione.

Carlo Stagnaro liberismo , , , , ,

Il repubblicano Zingales e’ un “restauratore”?

29 luglio 2009

Oscar Giannino ha gia’ scritto qui del fatto che Luigi Zingales e’ ormai riconosciuto come uno degli “astri†che possono rischiarare il cammino in salita del partito repubblicano in America. Oggi ne scrive anche Zingales stesso sul Sole, in un articolo per nulla compiaciuto ma anzi interessante e ricco di stimoli. Come tutto, ovviamente discutibule.
Riassumendo brevissimamente: Zingales suggerisce ai repubblicani di essere piu’ rigorosi, rispetto alla finanza pubblica, anche accettando un inasprimento fiscale come contropartita per mantenere aperti i circuiti dello scambio internazionale. Nel contempo, suggerisce loro di essere meno pro-business e piu’ pro-market, con argomenti molto diversi (stare dalla parte degli azionisti piu’ che dei manager, non difendere le grosse banche, ma anche accettare un Antitrust piu’ muscolare). Prosegui la lettura…

Alberto Mingardi liberismo , , , , ,

I politici chissà, ma almeno i banchieri centrali ricordino la Thatcher

4 maggio 2009

Non prevedo facili ripescaggi a breve da parte di politici italiani, europei ed americani dell’eredità della Baronessa Thatcher, e di Ronnie Reagan che insieme a lei compone il binomio di riferimento dei migliori statisti del secolo scorso. L’ebbrezza da panico economico per il ritorno in grande stile dello Stato tende a far dimenticare a tutti che il ruolo pubblico di stabilizzatore del ciclo deve essere intenso quanto si vuole, ma dichiaratamente reversibile con tempi e procedure certe, annunciate all’atto stesso in cui si adottano le misure di intervento straordinario: esattamente ciò che manca in ogni intervento pubblico deliberato al mondo da ottobre 2008 a oggi, praticamente a qualunque latitudine. Pretenderlo dalla sinistra sarebbe forse troppo. Ma il problema è la destra, che confonde quasi in ogni Paese la soddisfazione per il “ritorno della politica” rispetto ai grandi interessi finanziari transnazionali, con un esanime tuffo nel neostatalismo, identificato come unico ambito residuo di una legittimità misurata alle urne ed esercitata con delega discrezionale, spezzando la maldigerita influenza del precedente cosiddetto Washington Consensus degli oggi tanto famigerati “mercati”.
Chi la pensa come noi deve tenere sempre distinta la politica – il pieno rispetto della legittima sovranità esercitata al voto e conquistata con programmi e soprattutto azioni concrete volte alla crescita e alla miglior libera soddisfazione della persona – dall’identificazione della politica nello Stato, nei suoi apparati e nelle sue regolamentazioni. La crisi economica non mi fa cambiare idea. Non mollerò mai la convinzione che in un Paese come il nostro – per la sua tipologia di piccola impresa diffusa e per la percentuale elevatissima di lavoro autonomo sul totale degli occupati – tale distinzione possa costituire la più naturale piattaforma di riferimento per un’azione politica non solo schiettamente liberale e liberista, ma soprattutto votata al successo. Non abbiamo avuto la Magna Charta nel XIII secolo né alcuna Glorious Revolution nel XVII. Lo Stato unitario è prodotto tardivo e recente, subito squassato dall’insuccesso della minoritaria classe dirigente liberale, a fronte dell’immissione delle masse nell’arengo politico veicolata da cattolici e socialisti, mentre fascismo e comunismo praticavano e teorizzavano lo Stato come unico attore della necessitata accelerazione di una storia “olista”. Malgrado tutto, però, le condizioni dell’Italia disegnano un Paese i cui géni restano potentemente antistatalisti: e questo è un bene, checché affermasse la cultura politica eticista nella quale mi sono formato in giovinezza, all’insegna del lamalfiano e amendoliano (nel senso di Giovanni, naturalmente, non del figlio Giorgio) “questa Italia non ci piace”.
Se le basi concrete di policy per un rilancio personalista e liberale oggi appaiono eclissate in Italia e nell’Occidente, ciò malgrado dovremo insistere. E insisteremo, per tutto il tempo necessario: per quanto mi riguarda, questo è il miglior tributo da rendere al trentennale dell’ascesa a Downing Street di Lady Thatcher.
Ma se tra i politici Bismarck vince su Adam Smith, almeno tra i regolatori indipendenti, assai meno soggetti se non – auspicabilmente – del tutto svincolati dai timori degli elettorati, dovrebbe essere praticata qualche migliore ritenzione delle lezioni del passato. Faccio un esempio concreto. Per noi fa testo la Storia monetaria degli Stati Uniti di Milton Friedman e Anna Schwartz. Ma a differenza dei cattivi neokeynesiani non ne abbiamo tratto solo la lezione che il regolatore monetario e dell’intermediazione finanziaria deve mettere in atto l’intera panoplia a sua disposizione, per evitare il collasso bancario e il credit crunch. Ricordiamo bene anche che occorre avere le idee chiare su che cosa in concreto sia, il fantasma tanto temuto della deflazione generale, rispetto invece a riallineamenti di prezzi degli asset che costituiscono autocorrezioni salutari, rispetto a picchi non sorretti da fondamentali.
Tradotto: i neostatalisti inneggiano oggi alla massa monetaria raddoppiata ogni semestre negli Usa mentre il tasso d’interesse è negativo, e attendono tra pochi giorni esiti degli annunciati stress test nelle 19 maggiori banche Usa che non solo non ne decretino la fine di alcuna, ma auspicabilmente anche che lo Stato entri nel capitale di parecchie di loro a cominciare da Bofa. Noi invece, non dimentichi thatcheriani, pensiamo che proprio l’uscita dall’inflazione fu strumento essenziale per debellare la stagflazione. Negli States ci pensò Paul Volcker, che alla Fed sotto Reagan la piantò di dar retta alle lamentazioni sugli effetti di maggior disoccupazione di una stretta monetaria dopo anni di politiche monetarie laschissime,e lasciò lievitare i tassi fino al 21,5%: ma vinse, perché aveva ragione.
Direte voi: ma che cosa c’entra questa reminiscenza storica, caro il mio sprovveduto liberista d’accatto, visto che oggi il main goal del mondo intero è uscire dalla crisi, mentre all’inflazione ci penseremo comodamente dopo, una volta manifestatasi la ripresa? E senza dimenticare che un po’ d’inflazione forse alla fine farà pure bene, perché contribuirà a diminuire il valore reale delle perdite accumulate? Risposta: proprio perché la storia insegna, se la si pensa come noi bisognerebbe chiedere che i regolatori monetari e bancari facessero sfoggio di indipendenza dalla politica. Cioè procedessero pure, se lo ritengono, ad annegare di liquidità i mercati e a tenere su anche per i capelli se necessario il balance sheet bancario. Ma accompagnando ciascuna delle decisioni in materia a un esplicito timing in cui si procederà a decisioni di segno esattamente contrario.
La ripresa dichiarata in anticipo dei tassi anti-inflazione doterebbe il governo dell’intera curva temporale dei rendimenti finanziari di strumenti mai sperimentati prima, più che mai necessari oggi proprio perché la crisi ha bisogno di interventi straordinari non solo “in entrata”, ma anche “in uscita”, se non vogliamo dimenticarci dei guai stagflattivi che rappresentarono per decenni l’eredità dei tardivi interventi di stabilizzazione che posero termine alla Grande Depressione (secondo conflitto mondiale in primis).
Idem dicasi per gli ingressi straordinari dello Stato in banche e imprese. Senza uscite stabilite sin dall’inizio, non solo si pongono le basi per nuove IRI: più semplicemente, al di là della bontà delle future decisioni di manager promossi per designazione o gradimento pubblico-sindacale, si pongono soprattutto le basi per un aumento asintotico della tassazione pubblica, per sostenere i costi crescenti di tanta subitanea espansione della sfera statale. L’esatto opposto di ciò che serve nel medio termine, per riprendere una crescita sana e il più possibile aperta alla libera scelta di milioni e milioni di consumatori e imprenditori, risparmiatori e investitori.
Come dite? Che negli Usa proprio le statistiche ufficiali dicono che la deflazione c’è, e dunque la richiesta è capziosa? Non sono d’accordo. Ha ragione Allan Meltzer. La deflazione non va misurata dagli indici dei prezzi al consumo, da quelli immobiliari e tanto meno da quelli alla produzione (sono col segno meno, negli States). Se si assume il deflatore del Gdp, negli Usa su scala annuale a fine marzo segnava un più 2,3%. La deflazione non c’è, signori miei. Ma anche se ci fosse, il ragionamento resta e così le richieste, da avanzare a politici e regolatori se non vogliamo venir meno a ciò che di buono è venuto al mondo – tanto! – dalla nostra scuola di pensiero. Più che da qualunque altra, nella storia del mondo.

Oscar Giannino Senza categoria , , , ,