Il tornado di piombo sulla “torbida relazione†tra il Cav. e Vlad ha impedito a molti di porsi la domanda più scontata: perché l’Eni vuole il gasdotto russofilo South Stream, anziché quello atlantista Nabucco? Come spesso accade, si è trascurata la risposta più semplice: perché lì stanno i soldi.
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Da quando Wikileaks ha rilanciato i dubbi dei diplomatici americani sul rapporto tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin – dubbi tanto poco riservati che l’ambasciatore Usa, David Thorne, li ha sollevati nella sua prima intervista dopo l’insediamento – tutti i quotidiani italiani fanno la gara a chi, sull’Eni, la spara più grossa. Il comune denominatore della “macchina del fango” è, grosso modo: le strategie dell’Eni in Russia sono dettate dagli interessi personali del Cav., e sono mosse dalla sua amicizia speciale con lo Zar. Credo che questa reazione corale e rabbiosa abbia un che di liberatorio: poiché dell’Eni non si poteva (fino a ieri) dir che bene, e non per nobili ragioni o per le virtù del Cane a sei zampe, adesso non si può dirne che male. Non avendo alcun complesso del genere e non avendo mai avuto atteggiamenti particolarmente teneri, credo di poter dire tranquillamente: avete letto un sacco di sciocchezze. Tutti hanno ricamato sull’inutile, e nessuno ha evidenziato l’ovvio.
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La crisi del gas, quest’anno, è al contrario. Ci sarà crisi, almeno per le principali compagnie europee, se i russi pretenderanno il rispetto letterale delle clausole contrattuali, che obbligano gli importatori a ritirare le quantità negoziate a un prezzo predefinito. Chi non lo fa, paga lo stesso (pur potendo recuperare le quantità non ritirate per un periodo che normalmente va dai tre ai cinque anni). Dopo aver temporeggiato per qualche mese, giusto per vedere che succede, i russi hanno fatto la prima mossa, in Turchia. Da giocatori di scacchi quali sono, gli strateghi di Mosca hanno aperto col cavallo: una pedina molto aggressiva, che può facilmente spostarsi dai lati – dove si trova – al centro. Prosegui la lettura…
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Oggi la città di Mosca ha reso l’ultimo saluto a Yegor Gaidar, l’architetto delle riforme che hanno consentito la transizione della Russia dalla bancarotta del comunismo a un sistema, più o meno, di mercato. Il presidente russo, Dmitri Medvedev, lo ha ricordato per i suoi
passi decisi per riformare i fondamentali del libero mercato e spostare il nostro paese verso un sentiero di sviluppo fondamentalmente nuovo… In un momento di cambiamento radicale, egli si è assunto la responsabilità di misure impopolari, sebbene cruciali.
Non so se le parole di Medvedev siano sincere, né so se Medvedev davvero interpreti – come alcuni sostengono – lo slancio riformista ancora presente nel paese. Di certo, però, ha colto perfettamente la funzione svolta da Gaidar.
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Nonostante una certa cultura sembri talora dimenticarsene, la storiografia è per definizione revisionista. Non c’è quindi nulla di sorprendente nel fatto che ora, a vent’anni dal concludersi di quell’esperienza, vi sia chi punta il dito contro il decennio reaganiano e thatcheriano e contro l’antistatalismo che aveva animato quelle esperienze politiche. Ovviamente tali giudizi sono in larga misura la conseguenza di presupposti culturali: ed in questo senso non è difficile comprendere per quali ragioni i fautori di una società variamente tecnocratica non provino alcuna simpatia per la ventata di libertà che ha segnato il mondo anglosassone durante gli anni Ottanta.
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