CHICAGO BLOG » pubblico impiego http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Tagli lineari e preferenza ‘L’ /2010/09/14/tagli-lineari-e-preferenza-l/ /2010/09/14/tagli-lineari-e-preferenza-l/#comments Tue, 14 Sep 2010 13:23:12 +0000 Giordano Masini /?p=7036 Ho ripreso i contatti con una mia vecchia amica, L., con la quale è in corso un’interessante scambio di mail nelle quali ci stiamo raccontando ciò che ci è successo nei lunghi anni in cui non siamo stati in contatto e, dato che, ognuno a modo suo, non riusciamo a tenere fuori le valutazioni generali dalle vicende personali, la discussione finisce spesso “in politica”, ambito nel quale abbiamo visioni radicalmente divergenti. Per fortuna siamo entrambe persone curiose, tolleranti e reciprocamente convinte della buona fede dell’interlocutore, quindi ne è venuta fuori una discussione stimolante della quale voglio riportare qualche spunto.

Qualche giorno fa, mentre si parlava di mercato del lavoro, ho menzionato le cosiddette “categorie protette”, e la sua reazione, come mi aspettavo, è stata piuttosto risentita. Mi scrive che se mi riferisco al pubblico impiego, settore di cui L. fa parte, non le sembra che se la stiano passando troppo bene, e mi porta a conferma qualche dato personale a riprova dell’assunto.

Dunque, L. fa l’assistente sociale in un municipio (non ricordo quale) di Roma. Il lavoro che fa L. (nel modo in cui lo fa L) è un lavoro utile e necessario. Perché i servizi sociali fanno parte di ciò che la pubblica amministrazione deve garantire. E’ anche un lavoro produttivo, nel senso che ciò che L. offre alla comunità ha grande valore, e perché il lavoro che fa L. non lo può fare chiunque. Bisogna studiare, e parecchio, avere spalle larghe e stomaco di ferro, oltre a un’innata e non comune dose di sensibilità. A naso mi verrebbe da dire che il lavoro che fa L. dovrebbe essere pagato a peso d’oro, e che probabilmente molti si dovrebbero contendere la sua professionalità.

Eppure L. guadagna quattro lire, le sue possibilità di fare carriera sono pressocché nulle, e con 46 anni e una discreta anzianità di servizio ancora non riesce a permettersi una casa nella città in cui vive. Mi scrive:

E io sono una fortunata: ho una madre che ha a sua volta una casa di proprietà e che mi vuole abbastanza bene per sacrificarsi a 75 anni per amor mio a cambiare casa ancora una volta. In questo sono nello stesso vergognoso, umiliante sistema che mi addolora vedere nei miei utenti: siamo un mondo che dipende dalle generazioni precedenti; siamo una generazione che sembra non riesca mai a raggiungere l’autonomia, l’autosufficienza; siamo una generazione senza dignità. E non si può proprio dire che sia una scelta.

Il problema è che nello stesso edificio in cui lavora L. (e in altre centinaia di edifici del genere sparsi per Roma e per l’Italia) ci sono tante altre persone (non oso azzardare una cifra) che per lo stesso stipendio di L. svolgono mansioni assai meno utili e produttive. Tanto per fare un esempio, se il lavoro di L. valesse 10, e quello delle quattro signore che siedono stancamente al protocollo valesse 5, e guadagnano tutte 6, sarebbe evidente che L. paga 1/6 dello stipendio delle quattro del protocollo, mentre loro le sottraggono quasi metà dello stipendio.

Viene tolto (ope legis, vedi CCNL) valore al lavoro di L. in modo che il danaro che le spetterebbe possa fare acquisire valore alle mansioni di altri. Passano gli anni, e la situazione, invece di migliorare, peggiora. La competenza di L. viene sempre più svilita, il suo carico di lavoro diviene sempre più pesante e ci sono sempre meno fondi a disposizione per le cose di cui si occupa. Neanche le condizioni di vita dei colleghi degli altri uffici migliora, ma il problema è comunque alla radice, perché quella dignità che L. lamenta di non avere ancora raggiunto in realtà ce l’ha, eccome, è roba sua, conquistata con la sua competenza, professionalità e con l’alta produttività delle mansioni che svolge. Ma le viene regolarmente rubata.

Le cose potrebbero migliorare (ce lo siamo ripetuti fino alla nausea) se si decidesse di affrontare la cosa una volta per tutte: questo non significa necessariamente licenziare una valanga di dipendenti pubblici (cosa che in qualche caso potrebbe anche servire – ne parlava giorni fa Giulio Zanella su nFA), ma più semplicemente la pubblica amministrazione dovrebbe gestire meglio le risorse umane e rivedere le sue priorità: ci sono cose che la pubblica amministrazione deve fare, e bene, altre che sono meno necessarie, altre ancora che non lo sono affatto. Finché ci saranno casi di mansioni create appositamente per impiegare del personale (scavate le buche, poi riempite le buche…) e nessuno dovrà prendersi la responsabilità di impiegarlo in maniera produttiva, le risorse per coprire i costi di queste mansioni le fornirà L., come una tassa nascosta e vigliacca.

Tutto ciò mi porta a due conclusioni: primo, quando si parla di “categorie protette” sarebbe bene ricordare che il costo di questa protezione non lo pagano solo coloro che stanno fuori da queste categorie, ma che all’interno di uno stesso settore c’è chi paga per gli altri. Secondo, e diretta conseguenza del primo: quando, come di questi tempi, si fanno i cosiddetti “tagli lineari” o “tagli orizzontali”, chiamateli come volete, non si risolve un fico secco, anzi, il costo di questi tagli verrà pagato sempre e comunque dalle persone sbagliate, almeno fino a che non si deciderà di prendere il toro per le corna pagandone anche, se è il caso, lo scotto elettorale nel breve periodo.

Se si continua a ritenere che la soluzione ai problemi della pubblica amministrazione sia quello di agire semplicemente e semplicisticamente sul rubinetto, senza mai porsi il problema della direzione del getto, non si uscirà mai dal meccanismo che ci conduce inesorabilmente verso quella preferenza ‘L’ (dove ‘L’ non è più l’iniziale della mia amica, ma la preferenza low, contrapposta ad high) di cui parlava efficacemente Oscar Giannino nel suo post l’altroieri. Perché tagliando la spesa “ad minchiam” continueremo a caricare sulle spalle di L. il costo delle mansioni delle signore del protocollo, la cui reale produttività nessuno si prenderà mai la briga di controllare, e che continueranno a sedere proprio sotto il getto del rubinetto, lasciando agli altri solo gli schizzi. Il lavoro di L. sarà sempre meno gratificante, avrà sempre meno risorse a disposizione, sarà fatto inesorabilmente sempre peggio in un meccanismo che compensa con nuovi costi (che derivano da servizi necessari fatti male) l’eventuale risparmio per le casse dello Stato. Risparmio che il prossimo Visco di turno potrà comunque vanificare agendo di nuovo, semplicemente, sul rubinetto.

E scoraggeremo sempre di più ragazzi e ragazze dal ricercare nello studio e nelle professioni la preferenza ‘H’ che L. inseguiva quando studiava con passione e si lanciava nel mondo del lavoro con l’entusiasmo e la dedizione che le ricordo. A conti fatti, anche se so che L. non sarà d’accordo, non ne valeva la pena.

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Perché non copiare la Polonia? /2009/08/15/perche-non-copiare-la-polonia/ /2009/08/15/perche-non-copiare-la-polonia/#comments Sat, 15 Aug 2009 12:32:27 +0000 Oscar Giannino /?p=2119 La crisi nell’Est Europa continua a picchiare duro. La Repubblica Ceca ha visto il Pil nel ssecondo trimestre contrarsi del 4,9% sul trimestre precedente, l’Ungheria del 7,9%, in Estonia i disoccupati sono al 13,5%. L’aggancio all’euro, per chi lo aveva nel mirino, resta molto problematico rispetto alla svalutazione delle valute locali, inevitabilmente in corso per la fuga di capitali e la frenata degli IDE. In tale quadro che resta preoccupante, un’idea viene dal governo della Polonia. Poiché il deficit pubblico polacco veleggia più vicino al 7 che al 6% del Pil quest’anno, più del doppio di quanto inizialmente previsto dal governo, il premier Donald Tusk ha deciso che è venuto il momento di decisioni serie. A guai straordinari e imprevisti, soluzioni straordinarie e inattese.  Il governo si accinge a dichiarare – scrive il quotidiano Rzeczpospolita – una misura drastica. Entro la fine del 2010, i dipendenti dell’amministrazione pubblica centrale e della sanità pubblica dovranno diminuire di “almeno” il 10%. Obiettivo: risparmiare entro il 2013 spesa pubblica pari a 2,9 miliardi di zloty, poco più di un miliardo di dollari.

La domanda sorge spontanea, diceva il carissimo Antonio Lubrano appellandosi al buon senso. Che cosa c’è di tanto inaccettabile e impensabile, in una decisione di questo tipo, visto che nessun Paese avanzato l’ha sin qui fatta propria? Non si confonda la via polacca con le vere o presunte stabilizzazioni delle piante organiche pubbliche – cioè con lo stop del turn over di chi si pensiona – che da un quindicennio costituiscono croce e delizia della PA italiana. E che regolarmente vengono poi aggirate da misure ad hoc, oggi per i precari della scuola e dell’università, ieri – dal governo Prodi, sotto pressione congiunta dei ministri Damiano e Ferrero - con la decisione di assumere a tempo indeterminato praticamente tutti i cosiddetti “precari” della PA. Qui non si tratta di contrastare – per finta, del resto – l’ulteriore aumento dei dipendenti pubblici. Si tratta invece di ridurne energicamente il numero sul totale degli occupati. Con un credibile cronoprogramma, fatto di successivi obiettivi incrementali della dieta dimagrante

Capisco bene che non solo i keynesiani tendono in periodi di crisi a dire che di dipendenti pubblici bisogna assolutamente assumerne nel caso di più e non certo licenziarli. Capisco anche che ormai Tremonti tende a pensarla come oggi De Rita sul Corriere della sera, per il quale ovviamente il numero elevato di statali è un punto di forza e non di debolezza del Paese, perché il loro posto è privo di rischi e il loro reddito stabile. Capisco tutto, ma non mi convinco. Con tutto il rispetto per lo sforzo di Brunetta che vuole innalzare la produttività del settore pubblico, resto convinto che da noi molti servizi e funzioni attribuiti a gestione e offerta diretta da parte della PA spiazzino innumerevoli possibili attori e gestori privati, che potrebbero offrirli a prezzi più convenienti e con standard di maggior qualità ed efficienza. Dalla scuola alla sanità, dall’anagrafe alle carceri, dalla RAI alla previdenza, il servizio può e deve restare “pubblico” anche se gestito meglio da un privato, sotto precisi impegni di standard di servizio vigilati da autorità pubbliche a quel punto snelle, e con centinaia di migliaia di dipendenti a carico del contribuente in meno. Oltretutto, la cessione per gare d’asta di interi pezzi di PA eviterebbe anche l’inevitabile insorgenza in nome del “no ai licenziamenti”, perché una larga parte – sia pur non totalitaria, sennò l’inefficienza sarebbe trasmessa al nuovo entrante privato – potrebbe essere ceduta al mercato contestualmente ai rami d’azienda. Ci vorrebbe anche in Italia, un governo capace di seguire la Polonia sulla strada del buon esempio in materia di dipendenti pubblici: non per mero risparmio, ma per più efficienza. E – scusate la mania – per meno tasse.

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