CHICAGO BLOG » protezionismo http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Agricoltura, trasporti e biodiversità: la nuova frontiera del protezionismo commerciale /2010/11/26/agricoltura-trasporti-e-biodiversita-la-nuova-frontiera-del-protezionismo-commerciale/ /2010/11/26/agricoltura-trasporti-e-biodiversita-la-nuova-frontiera-del-protezionismo-commerciale/#comments Fri, 26 Nov 2010 13:24:47 +0000 Giordano Masini /?p=7706 Alcuni commenti al mio ultimo post su Chicago Blog mi inducono a tornare su un argomento, quello dell’agricoltura di prossimità e della sovranità alimentare, intorno al quale mi sembra che circolino molti luoghi comuni e ben radicati. In particolare un lettore scriveva che è giusto sostenere l’agricoltura locale, o nazionale, per alcune ragioni:

  1. perchè è buona e salutare e va tutelata per la salute di tutti (anche la vostra)
  2. perchè si aiuta la produzione italiana, e tutti i paesi proteggono la propria produzione (anche la Germania che va tanto di moda solo perchè spende un po meno degli altri)
  3. perchè l’ortofrutta non è un prodotto normale, portarla in giro per il mondo ne sminuisce la qualità
  4. la biodiversità è un patrimonio inestimabile della umanità, purtroppo certe cose non hanno prezzo ed il mercato non funziona per loro

Mi sembra evidente che i primi due punti tendano ad annullarsi a vicenda: la nostra produzione è migliore (non solo più buona, addirittura più salutare!) di quella proveniente da altri paesi, ed è giusto tutelarla, ma se lo fanno, per la stessa ragione, anche altri paesi (il lettore cita la Germania, non avendo chiaro che la politica agricola è europea), è chiaro che qualcuno la sta sparando grossa: o noi, o i tedeschi, o più probabilmente tutti e due. Come se un attore in tournée, presentandosi sul palcoscenico di Parma, esordisse dicendo: “siete un pubblico fantastico, il più bel pubblico che abbia mai incontrato, come dicevo proprio ieri a Reggio Emilia…”

La realtà è, ovviamente, diversa. Nessuna regione può vantarsi di avere una produzione migliore, fatta solo di eccellenze. Avrà ottimi prodotti di un tipo, e pessimi prodotti di un altro tipo, e questo grazie alle caratteristiche del terreno e del clima. Se una regione pretende di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare esclusivamente con prodotti provenienti dal suo territorio non tutela affatto la salute dei propri cittadini. Tutela soltanto (è più chiaro al punto 2 citato dal nostro lettore) i produttori locali. Anzi, è più corretto dire che “tenta” di tutelarli, ma in realtà sono proprio loro a venire danneggiati nel medio e lungo periodo, in quanto si impone loro di lavorare esclusivamente per un mercato ristretto, mentre potrebbero fare affari migliori puntando sui prodotti “vocati” del proprio territorio e aprendosi a mercati più ampi.

Tentare di produrrre i prodotti sbagliati vicino casa rende meno e costa di più: ci vorranno più fertilizzanti, più acqua, più fitofarmaci, e soprattutto più terra: Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu citavano, in un loro recente articolo, il caso delle fragole: un ettaro in California ne produce 50 tonnellate, mentre la stessa superficie in Ontario non ne rende più di 10. Quindi se in Ontario volessero produrre una quantità “californiana” di fragole, dovrebbero procurarsi, probabilmente strappandola ad ecosistemi come le praterie o le foreste, una superficie agricola cinque volte superiore a quella di cui oggi dispongono.

E questa considerazione ci porta direttamente agli altri due punti citati dal nostro lettore, quello della qualità dei prodotti che vengono da lontano, e, più in generale, ai problemi legati al trasporto su lunghe distanze, e quello della biodiversità, espressione alla quale, prima di attribuire un valore (“patrimonio inestimabile dell’umanità”), bisognerebbe cercare di attribuire un significato.

Oggi le merci non vengono più trasportate da una parte all’altra del mondo con i clippers a vela, anche se già i trasporti via clipper permettevano ai molini inglesi di panificare con il grano australiano. Se è vero che i prodotti ortofrutticoli tendono a perdere qualità se non vengono consumati freschi, è altrettanto vero che la qualità di un prodotto ortofrutticolo fuori stagione è minore di quella di un prodotto di stagione: quindi importare, nel periodo invernale, frutta proveniente dall’emisfero australe, e mandare laggiù la nostra frutta nella bella stagione, significa che i consumatori (di tutto il mondo) si troveranno nel piatto i prodotti migliori al prezzo migliore.

La biodiversità è un concetto che va molto di moda negli ultimi tempi, ma presumo che non tutti coloro che ne parlano con tanta facilità non sarebbero in grado di chiarirne il significato. Innanzitutto, dato che parliamo di agricoltura, sarebbe opportuno specificare se ci si riferisce alla biodiversità o alla biodiversità agricola: sono due cose diverse, spesso la salvaguardia di una contribuisce all’impoverimento dell’altra, ma nessuna delle due viene danneggiata dall’intensificazione agricola e dall’efficienza produttiva.

Per biodiversità si intende la varietà di specie, animali o vegetali, che abitano un dato ecosistema. Chiaramente lo sviluppo dell’agricoltura tende a impoverirla, dato che sostituisce ecosistemi complessi con superfici su cui cresce solo una varietà vegetale. Ma, come spiegato prima, consumare solo prodotti provenienti da territori vicini significa doversi procurare più terra coltivabile: l’agricoltura intensiva è meno dannosa per la biodiversità rispetto all’agricoltura di prossimità, tanto in voga tra gli ambientalisti.

La biodiversità agricola invece è la varietà di specie, animali e vegetali, che coltiviamo o alleviamo per soddisfare il nostro fabbisogno di cibo, e qui il discorso si fa più complesso. Tutte le varietà che coltiviamo sono il frutto di una selezione genetica operata dall’uomo nel corso di millenni. Per questo la biodiversità agricola è in costante evoluzione, adattandosi in ogni epoca ai bisogni dell’umanità. Ma questo non significa che oggi sia meno ricca che in passato: se a Pachino oggi si può coltivare il celebre pomodorino a grappolo non lo si deve alla faticosa opera di recupero di antiche varietà da parte degli agricoltori locali, ma al lavoro di una multinazionale biotech israeliana che ha “inventato” quel tipo di pianta, individuando poi nel territorio della Sicilia sudorientale il territorio ideale per la sua coltivazione. Altrimenti anche lì, come ovunque, coltiverebbero ancora pomodori insalatari a buccia spessa.

Il caso di Pachino dimostra proprio come la ricerca dell’efficienza (la varietà giusta coltivata nella zona giusta) possa arricchire sia la biodiversità agricola che le tasche degli agricoltori, venendo incontro ai bisogni del mercato prima che a quelli dei eurocrati agricoli.

C’è un’altro aspetto che viene spesso citato in difesa dell’agricoltura di prossimità: i trasporti su lunga distanza, si dice, sarebbero all’origine dell’emissione di grandi quantità di CO2 che potremmo risparmiare consumando cibo prodotto più vicino a noi. Questa considerazione è però completamente sbagliata, perché prescinde dal fatto che l’energia impiegata nel trasporto su lunghe distanze è venti volte inferiore a quella impiegata per le fasi della produzione. Quindi si risparmia molta più energia, e di conseguenza si produce meno CO2, producendo fragole in California, per usare l’esempio precedente, e trasportandole in Ontario, piuttosto che pretendendo di fare tutto vicino casa. Se si volesse discutere seriamente dell’abbattimento delle emissioni legate alla produzione di cibo, il primo passo dovrebbe essere la rimozione di qualsiasi tipo di barriera commerciale.

Per approfondire questo tema consiglio vivamente il paper dal titolo “Yes We Have No Bananas: A Critique of the ‘Food Miles’ Perspective” di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu, per Mercatus Center at George Mason University.

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Nuova PAC: a capofitto verso il 2013 /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/ /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/#comments Sun, 21 Nov 2010 11:46:52 +0000 Giordano Masini /?p=7647 Prendo spunto da un post pubblicato su Agricoltura24 che riprende a sua volta un articolo di Terra e Vita e che mi sembra dare, fino a questo momento, il quadro più completo degli indirizzi proposti per la nuova Politica Agricola Comune post 2013. Ho sempre pensato che la PAC sia uno strumento perverso e tendenzialmente criminogeno, per le gravi distorsioni che induce nel mercato agroalimentare. Ma dalle proposte che circolano oggi, a mio avviso la PAC sta prendendo una strada del tutto insensata, iniqua e controproducente anche rispetto alle stesse intenzioni dichiarate dai suoi sostenitori, e rischia di essere la pietra tombale per l’agricoltura europea. In questo post (forse un po’ lungo) proverò a spiegare perché.

Dai primi orientamenti si comprende che alcune scelte della nuova Pac sono inevitabili, come la soppressione dei pagamenti storici. In tutti i documenti emergono due nuovi temi: la remunerazione dei beni pubblici e gli strumenti per contrastare l’instabilità dei mercati.

Non tutti possono aver chiaro, ovviamente, cosa significhi “remunerazione dei beni pubblici”. Con questa denominazione, inserita nella PAC all’inizio del nuovo millennio, si pretende che gli agricoltori, oltre a mettere sul mercato prodotti agroalimentari e trarre profitto da questa attività, producano anche beni che avrebbero valore per la collettività, ma che non sarebbero remunerati adeguatamente sul mercato: paesaggio agrario, presidio territoriale, biodiversità, lotta al cambiamento climatico, conservazione dell’ambiente, sviluppo rurale, salubrità degli alimenti, benessere degli animali.

Sulla base di questo principio (la cui arbitrarietà e scarsa fondatezza è evidente anche a un bambino) la PAC è stata, ormai quasi un decennio fa, suddivisa in due pilastri: da una parte gli aiuti diretti, destinati a sostenere il reddito dell’agricoltore, dall’altra i cosiddetti aiuti allo sviluppo, focalizzati da una parte a sostenere lo sviluppo delle aziende e dall’altra a premiare quei comportamenti e quelle pratiche agricole in grado di produrre “beni pubblici”. Per esempio, se in Europa le autorità pubbliche possono finanziare le aziende agricole biologiche ma non le compagnie aeree lo si deve proprio al fatto che, secondo i tecnocrati di Bruxelles, Almaverde Bio produce beni pubblici ed Alitalia no.

Ora, il primo pilastro della PAC sembra avere un problema: il sistema in base al quale è stato calcolato il premio che ogni azienda riceve, e sul quale non mi dilungo, ha prodotto delle differenze inaccettabili tra paese e paese e deve essere superato: attualmente l’Italia percepisce mediamente 300 euro/ha, mentre la Grecia percepisce 600 euro/ha e la Romania soltanto 40 euro/ha.

Il dibattito su questo tema è molto acceso e, per trovare un equilibrio tra le varie posizioni, è probabile che i pagamenti diretti potrebbero essere rimodulati in più componenti:

  • una parte (ridotta rispetto ai livelli attuali, ad esempio 100-200 euro/ettaro) erogata a tutti gli agricoltori;
  • una parte riservata alle zone con svantaggi naturali, ad esempio la montagna e le zone svantaggiate; a tal proposito, c’è la proposta di portare le indennità compensative dal 2° al 1° pilastro;
  • una parte, selettiva, in funzione del fabbisogno di lavoro o del valore aggiunto o di specifici comportamenti orientati alla fornitura di beni pubblici ambientali.

Sembra, quindi, che la produzione di questi fantomatici beni pubblici debba diventare un criterio per indirizzare, oltre agli aiuti allo sviluppo, anche i fondi che dovrebbero servire al sostegno del reddito, quello uguale per tutti. Ma se una quantità così rilevante di soldi dei contribuenti europei dovrà essere spesa in questa direzione, sarebbe giusto chiedersi se e come, al di là dei luoghi comuni, questi beni pubblici portino qualche vantaggio alla salute e all’ambiente (anche se basterebbe il fatto che nessuno sembra disposto a pagare di tasca sua per essi, ma si sa, c’è sempre chi è in grado di scegliere per noi meglio di noi)

Se parliamo di agricoltura biologica, non esiste un solo studio scientifico serio (e si sono dati da fare per cercarlo) in grado di dimostrare che nutrirsi di alimenti biologici rechi qualche beneficio per la salute, mentre per quanto riguarda l’ambiente, è di un’evidenza lapalissiana che fornire all’umanità il fabbisogno di cibo con tecniche scarsamente produttive come quella biologica comporterebbe l’impiego di una quantità enorme di superficie agricola, oggi occupata da praterie e foreste.

Anche dal punto di vista del contenimento delle emissioni, è l’agricoltura intensiva che produce i migliori risultati, come ho avuto già modo di argomentare citando un autorevole studio di PNAS, e per quanto riguarda il presidio territoriale e la tutela del paesaggio agrario (anche questi sono concetti strani da capire: per quale ragione il paesaggio rurale attuale dovrebbe essere migliore di quello passato e di quello futuro?) è solo un’azienda agricola competitiva e orientata al profitto ad avere interesse a continuare a lavorare la terra, invece che abbandonarla e sostenersi solo con i sussidi (non è un’ipotesi, è quanto sta accadendo).

Quindi, una PAC seria dovrebbe, avendo a cuore l’ambiente, premiare l’agricoltura intensiva, l’uso delle biotecnologie, la ricerca del profitto. E’ ovvio che per premiare questi comportamenti la maniera migliore sarebbe quella di eliminare completamente i sussidi, incentivando i produttori a perseguire l’efficienza. Premiare e sostenere comportamenti opposti è completamente demenziale, oltre ad essere uno spreco intollerabile di denaro pubblico.

Per quanto riguarda invece la “stabilizzazione dei mercati”, questi sono gli orientamenti che emergono dal summenzionato articolo:

In molte proposte emerge una nuova richiesta per la Pac: il contrasto all’instabilità dei mercati e il miglioramento della posizione degli agricoltori nella filiera agroalimentare. Gli strumenti della vecchia politica di garanzia (prezzi garantiti, dazi, sussidi all’esportazione, ammasso pubblico, quote, set aside, ecc.) hanno mostrato tutti i loro limiti e non sono più applicabili nella prospettiva futura. Tuttavia l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi e dei mercati rimane ancora attuale. Anziché la vecchia politica di garanzia, si richiede di favorire gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori agricoli, attraverso la concentrazione dell’offerta, il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti tramite la cooperazione, l’associazionismo, l’interprofessione.

Il fatto che si ribadisca l’inutilità di quegli strumenti perversi utilizzati fin ora per stabilizzare (forse sarebbe più corretto dire “distorcere”) i mercati è senz’altro positivo. Preoccupa però il fatto che si continui a ritenere l’apertura dei mercati come un pericolo da cui proteggersi, e sono inquietanti gli strumenti di cui l’UE vorrebbe dotarsi per perseguire tale risultato.

Ci sono fin troppe evidenze che dimostrano come i prezzi di quei prodotti che vengono scambiati sui grandi mercati internazionali siano molto più stabili di quelli che da questi mercati vengono esclusi, quindi l’idea che l’agricoltura di prossimità e “il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti” possa portare qualche beneficio è completamente sballata. Sarebbe meglio che ci si concentrasse sulle opportunità per le aziende agricole di affacciarsi con i loro prodotti sui mercati emergenti e lontani, piuttosto che forzarle a rimanere ancorate ad un desolante status quo.

Se è vero come è vero che il prezzo di un prodotto tiene conto di tutti i costi di produzione, la tendenza a localizzare tutte le produzioni rinunciando all’efficienza di produrre su terreni e a climi vocati e vendere ovunque ci sia domanda rappresenta un violento colpo di zappa sui piedi della nostra agricoltura, soprattutto nel momento in cui le produzioni agricole di altri grandi paesi, come Cina, India e Brasile, cominciano a volare, e non, come recita la vulgata, a causa del basso costo del lavoro (altrimenti dovevano volare anche negli scorsi decenni) ma proprio grazie alle biotecnologie, all’intensificazione e all’apertura al mercato globale. Un esempio per tutti: negli ultimi 10 anni il Brasile ha triplicato il proprio export agroalimentare, la sua produzione agricola è cresciuta del 79% con un incremento della superficie utilizzata limitato al 28%.

Per quanto riguarda poi gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori (leggi: i consorzi potranno intervenire sui mercati regolando l’offerta, al fine di indurre un aumento dei prezzi) basterebbe la triste esperienza del vino italiano (e francese), che con metodi del genere si sta progressivamente autoescludendo dal mercato mondiale a far desistere da simili proponimenti. Perché si tende a dimenticare che qualsiasi consumatore, sia esso un consumatore finale o un trasformatore, reagisce a questi meccanismi orientando altrove le sue scelte, e in tempi di mercati globalizzati le alternative non mancano. Se il protezionismo è un errore lo è sempre, ed è inutile e controproducente farlo uscire in pompa magna dalla porta per farlo rientrare, in silenzio e sotto mentite spoglie, dalla finestra.

Per finire, ed è il dato forse che preoccupa di più, nella nuova PAC post 2013 aumenteranno a dismisura quelle voci di spesa in cui è indispensabile il ruolo attivo degli intermediatori pubblici e parapubblici (checché se ne dica sono loro i veri beneficiari della PAC, e che siano loro stessi a disegnarne gli indirizzi forse aiuta a capire ciò che sta succedendo), come le associazioni professionali. Quando si parla di cooperazione, associazionismo, e interprofessione non si intende altro. E il fatto che anche i fondi del primo pilastro della PAC, quello degli aiuti diretti, verranno distribuiti secondo criteri sempre più discrezionali e meno automatici non fa che confermare questa tendenza costosa e perversa.

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Amicus clima, sed magis amica agricoltura sussidiata /2010/08/13/amicus-clima-sed-magis-amica-agricoltura-sussidiata/ /2010/08/13/amicus-clima-sed-magis-amica-agricoltura-sussidiata/#comments Fri, 13 Aug 2010 15:11:37 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6784 Il riscaldamento globale sarà anche la più grande minaccia di sempre, ma c’è una minaccia ancora più grande: che gli agricoltori europei non facciano abbastanza soldi. La Commissione europea ha aperto un’indagine per verificare se i produttori americani abbiano esportato biodiesel nell’Ue attraverso paesi terzi, per evitare i dazi; per la stessa ragione, intende controllare che le importazioni non avvengano in miscele con meno del 20 per cento di biodiesel, che sono escluse dal dazio straordinario di 237 euro / tonnellata creato l’anno scorso.

Ufficialmente, il dazio è stato creato per contrastare l’effetto distorsivo dei sussidi americani alla produzione di biocarburanti che, piombando nell’ambito del pacchetto di stimolo obamiano in un periodo di prezzi calanti dei prodotti agricoli, avrebbero causato un regime di concorrenza sleale (a Genova diciamo: O corvo dixe a o merlo: “cumme t’è neigru!”). Se, comunque, il problema fosse solo questo, i dazi dovrebbero essere limitati alle importazioni dal Nordamerica. Invece, si applicano (anche se in misura inferiore) a tutti i biocarburanti importati, compresi quelli dai paesi tropicali che sono più economici e più efficienti in termini di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Il tema non è nuovo; anzi, è talmente trasparente che me ne ero già occupato in tempi non sospetti (quando ancora i biocarburanti andavano di moda e non si era sollevato il polverone sui potenziali impatti nefasti di quelli di prima generazione: le principali critiche sono riassunte qui da Elisabetta Macioce).

La triste verità è che la politica europea dei biocarburanti è una semplice e neppure troppo sofisticata foglia di fico. Se n’è accorto persino il Parlamento europeo, che è tutto dire. Se ne era accorto, soprattutto e con onestà, l’ex commissario europeo al Commercio, Peter Mandelson, che combatté una battaglia (perdente) per cancellare queste barriere. Restano dunque attuali le sue parole:

Biofuel policy is not ultimately an industrial policy or an agricultural policy – it is an environmental policy, driven above all by the greenest outcomes,” Mandelson said. “Europe should be open to accepting that we will import a large part of our biofuel resources. We should certainly not contemplate favoring EU production of biofuels with a weak carbon performance if we can import cheaper, cleaner biofuels.

Purtroppo, finché questo equivoco non sarà chiarito, una frontiera della ricerca promettente rimarrà viziata, e gli sforzi più innovativi dovranno subire l’onta della confusione con interessi meno nobili.

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Navi cariche di protezionismo /2010/06/07/navi-cariche-di-protezionismo/ /2010/06/07/navi-cariche-di-protezionismo/#comments Mon, 07 Jun 2010 05:40:51 +0000 Giordano Masini /?p=6209 Nell’azione dimostrativa messa in atto giovedì scorso da Coldiretti al porto di Ancona c’è molto più che la semplice protesta contro i “falsi made in Italy” che contaminerebbero il nostro agroalimentare e farebbero crollare i prezzi dei nostri prodotti agricoli. Al porto del capoluogo marchigiano arrivano infatti ogni anno carichi di cereali e oleaginose, destinate al nostro mercato interno. Nelle dichiarazioni degli organizzatori della protesta si legge che nel porto di Ancona

ogni ora entrano 10.000 chilogrammi di grano straniero pronti a diventare ‘marchigiani’, con l’effetto di far crollare i prezzi dei prodotti delle nostre campagne (da 0,50 euro al chilo a 0,13 in due anni) e ingannare i consumatori.

Non conosco le cifre esatte sulla quantità di merci in entrata nei nostri porti, quindi posso prendere anche per buona una cifra, quella di 10 tonnellate di grano duro ogni ora, che a naso mi sembrerebbe un po’ sparata lì. Comunque in questa dichiarazione ci sono due grossolane ed evidenti stupidaggini. Non si può dire che il grano, entrando sul nostro territorio, “diventa” italiano, equiparando l’uso di una materia prima di origine estera alla pirateria commerciale e alla falsificazione del Made in Italy certificato. I nostri molini e i nostri pastifici si possono rifornire dove meglio credono, e se l’offerta interna non è in grado, per quantità, costi e qualità, di soddisfare la domanda, le ragioni vanno ricercate altrove. Eppure questo è il messaggio che si cerca di far passare: vendere da noi è un crimine che va in qualche modo impedito.

La seconda stupidaggine è quella che riguarda i prezzi: si vorrebbe far credere che il prezzo di 0,50 euro al chilo fosse il prezzo standard del grano duro fino a due anni fa, e che poi c’è stato un crollo. Con affermazioni del genere si possono prendere per il naso i consumatori che hanno una scarsa dimestichezza con la terra, non certo gli agricoltori: l’impennata improvvisa che ha portato a (quasi) 0,50 euro al chilo il prezzo del grano duro nell’estate del 2008 è stata originata dalle stesse circostanze che hanno portato, nello stesso periodo, il prezzo del petrolio a sfiorare i 150 dollari al barile. Dopo quell’estate, che aveva fatto ben sperare molti agricoltori, il prezzo è tornato ai suoi livelli di sempre: tra 0,13 e 0,15 euro al chilo. Mentre scrivo, per esempio, il grano duro è quotato attorno a 0,16 euro al chilo alla Borsa Merci di Bologna, ed è probabile che tra giugno e luglio, nel periodo della raccolta, subirà una flessione.

Dietro a questo atteggiamento, che vediamo sempre più propagandato dai media e da associazioni agricole che sembrano essersi sempre più votate ad una presunta tutela del consumatore piuttosto che del settore agricolo, c’è l’idea che dal mercato possano venire solo guai, e che per uscire dai guai bisogna alzare muri, imporre barriere, costruire recinti, che si chiamino tariffe doganali (come se ce ne fossero poche) o che invece prendano la forma più sofisticata delle certificazioni d’origine.

Ma non sembra essere solo una nostra fissazione, anzi, se ci capita di sentire il ministro dell’agricoltura francese Bruno le Maire lanciarsi in tesi spericolate e anche un po’ grottesche come quelle sostenute a Merida, in Spagna, dove i ministri dell’agricoltura dei paesi dell’Unione Europea si sono riuniti per cominciare a discutere le linee della riforma della Politica Agricola Comune:

Recentemente abbiamo sperimentato gli effetti molto negativi della deregulation totale dei mercati

ha dichiarato, senza scatenare l’ilarità degli astanti, che invece sembrano convergere sull’idea che sia venuta l’ora di “proteggere” e regolamentare ulteriormente il mercato agricolo europeo, come se la prospettiva di difendere lo status quo fosse in qualche misura una prospettiva attraente.

Io credo che l’agricoltura italiana (ed europea) ha bisogno di competitività, non di prezzi garantiti, e che dalle fluttuazioni dei prezzi delle grandi commodities agricole le aziende potrebbero anche trarre profitto, se fosse loro consentito di raggiungere economie di scala adeguate. Bisognerebbe fare a meno dei sussidi, però.

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“Paga e taci, somaro lombardo!” /2010/04/29/%e2%80%9cpaga-e-taci-somaro-lombardo%e2%80%9d/ /2010/04/29/%e2%80%9cpaga-e-taci-somaro-lombardo%e2%80%9d/#comments Thu, 29 Apr 2010 13:50:31 +0000 Carlo Lottieri /?p=5816 Una recente inchiesta giornalistica sull’economia di Brescia e sulla sua “reinvenzione” dopo la crisi della centralità siderurgica realizzata da Dario Di Vico per il Corriere della Sera (“L’alba hi-tech di Brescia dopo l’acciaio”) ha messo in evidenza come uno dei fattori di forza di questa provincia lombarda sia la massiccia presenza di supermercati, centri commerciali, mega-store e via dicendo. Non si tratta soltanto di realtà che creano posti di lavoro, ma soprattutto di strutture che contribuiscono a mantenere più bassi i prezzi e, di conseguenza, a proteggere il potere d’acquisto.

Qualche anno fa il pioniere della grande distribuzione italiana, il lombardo Bernardo Caprotti, diede alle stampe un libretto tanto agile quanto incisivo (Falce e carrello) sul modo in cui le Coop e i loro protettori politici hanno a più riprese sbarrato la strada a chi voleva intraprendere: soprattutto nelle regioni dell’Italia centrale. Niente nuovi centri commerciali, insomma, e tutto questo per fare un favore a chi è già sul mercato.
Ora leggiamo che uno dei primi atti della giunta piemontese guidata dal leghista Roberto Cota consiste proprio nel bloccare l’apertura di alcuni supermercati. L’assessore competente, William Casoni (Pdl), ha giustificato la cosa affermando che si deve evitare “un’eccessiva concorrenza” e soprattutto che si devono proteggere quei piccoli negozi che perderebbero clienti, se questi ultimi altrove potessero comprare altrove e più a buon mercato.
Certo siamo davvero messi male se uno dei primi provvedimenti della nuova giunta regionale piemontese mette le mani nelle tasche di alcuni (i consumatori) per dare qualche soldo ad altri (i negozianti), e se – per di più in una fase di crisi – viene sbarrata la strada a chi vuole intraprendere.
Al Sud abbiamo le false pensioni d’invalidità e al Nord le protezioni corporative, al Sud i finanziamenti a pioggia e al Nord gli “stimoli” per le imprese. Le distanze tra le due Italie si vanno riducendo, ma forse era meglio prima. L’importante è che a pagare sia sempre il solito “somaro” contribuente che una volta, a parole, qualcuno dichiarava di voler difendere.

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Ruanda: per una transizione dal genocidio al libero mercato? /2010/04/25/ruanda-per-una-transizione-dal-genocidio-al-libero-mercato/ /2010/04/25/ruanda-per-una-transizione-dal-genocidio-al-libero-mercato/#comments Sun, 25 Apr 2010 18:08:43 +0000 Carlo Lottieri /?p=5761 Le battaglie più complicate, certamente, sono le più entusiasmanti; e così si capisce che vi siano persone che trovano affascinante l’idea di fare tutto il possibile per convertire al mercato un Paese come l’Italia. Ma c’è perfino chi ha di fronte a sé una sfida anche più ardua: come nel caso del Ruanda.

Questa piccola nazione dell’Africa orientale non è soltanto una delle più povere del continente: si tratta anche di una regione che ha conosciuto conflitti etnici terribili, che hanno causato 800 mila morti solo tra l’aprile e il luglio del 1994, in uno dei peggiori genocidi della storia.

Ora la società ruandese appare più tranquilla, è impegnata a costruire una pace duratura e sta faticosamente cercando di costruirsi un futuro di serenità, concordia e sviluppo. Offre qualche speranza l’atteggiamento del presidente della Repubblica, Paul Kagame, che dopo aver guidato un proprio esercito nelle lotte interne contro i responsabili di violenze e massacri, intende guidare la battaglia contro i vincoli di ogni genere che impediscono la crescita.

Sul Wall Street Journal ieri è apparsa un’intervista, “A Supply-Sider in Est-Africa”, nella quale questo leader del Paese africano viene presentato come un autentico liberale (supply-sider), persuaso che l’unica via per la crescita consista nel liberare le forze imprenditoriali e nel farsi attraenti per gli investimenti. L’articolo sottolinea anche come tale società africana abbia compiuto, in un breve tempo, notevoli progressi sulla strada del mercato. Nel settembre scorso la Banca mondiale ha definito il Ruanda il Paese più determinato sulla via della liberalizzazione dell’attività economiche, tanto da passare in un solo anno dal 143mo al 67mo posto nella classifica che considera la facilità ad avviare iniziative. Tutti i settori sono aperti ad investitori stranieri e anche pagare le imposte sembra molto semplice (certo sarà assai più semplice che da noi…).

Per tutte queste ragioni dal 2004, almeno stando ai dati ufficiali, il Ruanda è cresciuto dell’8,8% all’anno.

Non bastasse questo, il presidente Kagame appare assai scettico in merito ai programmi di aiuti, che causano più danni che benefici. Non vuole insomma che gli Stati e le organizzazioni legate all’Onu inviino soldi sottratti ai contribuenti occidentali o riempiano le capitali del Terzo Mondo di burocrati pubblici. Preferisce che arrivino imprese private determinate a fare profitti, e ad entrare in un rapporto reciprocamente vantaggioso.

In fondo è una vecchia lezione liberale, ben nota a Constant e a Cobden, a Bastiat e a Spencer: la guerra è un tutt’uno con le logiche di Stato, mentre la pace cresce all’ombra dei mercati aperti. L’ex warlord del Ruanda pare aver compreso tutto ciò e per questo sembra impegnato a favorire la crescita delle forse imprenditoriali.

La lezione di Lord Peter Bauer, di cui IBL Libri ha pubblicato un bellissimo libro (Dalla sussistenza allo scambio), inizia insomma a fare proseliti. E il prossimo 10 maggio, a Milano, ci sarà Dambisa Moyo per un “Discorso Bruno Leoni” focalizzato esattamente sulla questione di un’Africa che rigetti l’assistenzialismo e si apra al mercato.

Talune battaglie in favore della libertà sono difficilissime, e chi sta in Italia lo sa bene. Ma bisogna sempre saper confidare nella forza delle buone idee.

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L’economia algerina va di male in peggio. E ora sposa il protezionismo /2009/11/19/l%e2%80%99economia-algerina-va-di-male-in-peggio-e-ora-sposa-il-protezionismo/ /2009/11/19/l%e2%80%99economia-algerina-va-di-male-in-peggio-e-ora-sposa-il-protezionismo/#comments Thu, 19 Nov 2009 18:47:37 +0000 Carlo Lottieri /?p=3838 La situazione economica dell’Algeria è da tempo piuttosto dura, anche a causa delle molte difficoltà politiche conosciute da un Paese uscito in maniera drammatica dal dominio francese e poi governato per decenni da un’élite corrotta, che con il suo comportamento ha favorito l’ascesa di movimenti fondamentalisti. Da qui tensioni, violenze efferate da una parte e dall’altra, elezioni annullate e così via.

Da qualche tempo, pur tra molti problemi, la società e l’economia algerine stavano cercando di muoversi verso uno sviluppo che permettesse di sganciare il Paese dalla dipendenza rispetto agli idrocarburi. Ma la crisi ha finito per portare alla luce e radicalizzare i terribili ritardi storici di un’economia che – come evidenzia il giovane economista Youcef Maouchi in un suo intervento intitolato “Le virage protectionniste” apparso sul sito www.unmondelibre.org – resta agli ultimi posti di tutte le principali classifiche riguardanti la libertà d’impresa, la competitività, la trasparenza.

Maouchi evidenzia, in particolare, come a seguito delle ultime difficoltà il governo di Algeri abbia deciso di introdurre riforme che si muovono tutte nella direzione del protezionismo e della chiusura di fronte alla globalizzazione.

A seguito di queste nuove norme, “tutti i futuri investimenti stranieri dovranno essere effettuati in associazione con azionisti algerini, i quali dovranno controllare almeno il 51% del capitale. Sapendo che le imprese locali hanno difficoltà a finanziarsi, questa regola finirà senza dubbio per uccidere sul nascere molte ipotesi di collaborazione”.

Un rafforzamento del protezionismo, ovviamente, si accompagna spesso con un aumento del controllo burocratico. E infatti “ogni progetto d’investimento diretto straniero ora dovrà innanzi tutto essere approvato dal Consiglio nazionale per gli investimenti, aggiungendo in tal modo un altro po’ di burocrazia. E siccome le strutture per trattare tutti i dossier mancano, ciò rafforzerà soltanto la corruzione”.

La conclusione a cui giunge Maouchi è chiara: “invece che liberare l’iniziativa economica, il governo algerino sta per restringere gli spazi di autonomia, burocratizzando la decisione d’investire”.

Riuniti in un convegno tenutosi ad Algeri nello scorso settembre, gli imprenditori algerini si erano molto lamentati del triste stato della situazione dell’economia nazionale, ma non è certo adottando queste misure protezioniste che ci si può illudere di aiutare l’economia. Lo dimostra lo sfacelo dell’Argentina, che su logiche analoghe aveva investito moltissimo.

Già il 4 luglio scorso il gruppo EMAAR Properties, un gigante nel settore immobiliare (sotto il controllo degli Emirati), aveva deciso di chiudere la propria filiale algerina. Il gruppo – a cui deve ad esempio la realizzazione della gigantesca torre di Burj Dubai – ha lasciato il Paese mediterraneo probabilmente a causa delle enormi difficoltà a operare. L’Algeria appare insomma dominata da un nazionalismo economico che è destinato “a impedire il rinnovamento dell’apparato produttivo e la diversificazione degli investimenti in Algeria, con il risultato che si accrescerà la dipendenza di quest’ultima dal petrolio e dal gas: ciò che la chiuderà in maniera duratura nella ‘maledizione delle risorse naturali’”.

Per l’Italia, che con l’Algeria ha rapporti tanto stretti e dalla quale tanto dipende, non si tratta davvero di buone notizie.

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Hu-rrà! /2009/08/03/hu-rra/ /2009/08/03/hu-rra/#comments Mon, 03 Aug 2009 06:18:18 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1871 La Cina di Hu Jintao difende i diritti umani di tutti, e specialmente di americani ed europei. Pechino ha infatti inviato due proteste formali all’Organizzazione mondiale del commercio contro le politiche protezionistiche di Usa e Ue. Si tratta di una mossa necessaria a proteggere il mercato di valle dei prodotti cinesi – stimato in oltre 600 miliardi di dollari nel 2008 – dall’aggressione regolatoria di cui è oggetto nei paesi industrializzati, che amplifica l’impatto della crisi. Già nella seconda metà dell’anno scorso si era registrato un crollo del commercio mondiale, e nel rapporto annuale della Wto erano presenti le prime esplicite preocupazioni sul rischio protezionista:

Un quarto fattore che potrebbe contribuire alla contrazione degli scambi è l’aumento delle misure protezioniste. Qualunque crescita di questo tipo di misure minaccerà le prospettive di ricupero e prolungherà la crisi. Il rischio di una crescita del protezionismo è fonte di preoccupazione.

Preoccupazione puntualmente confermata dagli eventi, tanto che – a dispetto dei richiami del capo della Wto, Pascal Lamy, e degli impegni solenni, formali e inutili di G8 e G20 – i provvedimenti che, a vario titolo, ostacolano gli scambi sono letteralmente esplosi nel 2009. Nel secondo trimestre 2009, la Wto ha registrato 83 nuovi interventi da parte di 24 paesi più l’Unione europea, al netto delle restrizioni sulle importazioni di carne suina introdotte da diversi paesi come misura precauzionale contro la nuova influenza. Un rapporto della Banca mondiale dello scorso marzo ci aveva del resto avvertiti che  il protezionismo era in crescita in 17 dei 20 membri del G20, gli stessi che a ogni occasione stigmatizzano la chiusura del commercio internazionale.

E’ comprensibile che, in un momento di difficoltà, le pressioni sui governi da parte delle imprese travolte dalla crisi si faccia forte, addirittura insostenibile. Ma la difesa della libertà di scambio a livello internazionale è uno di quei temi su cui non è tollerabile o giustificabile alcuna marcia indietro. E non solo perché mantenere l’attuale livello di – diciamo – liberalizzazione può apparire come un sacrificio ma lo è, se lo è, solo nell’immediato, perché nel lungo termine costituisce una garanzia di ricupero più rapido. Soprattutto, il protezionismo non è mai temporaneo: una volta introdotti, i dazi sono complicatissimi da rimuovere, anche perché, tranne che in pochi casi, il loro effetto non viene direttamente percepito dai consumatori.

Il punto fondamentale è che un dazio è una specie di tassa e sussidio, assieme: tassa sui consumatori, che sono costretti a pagare di più ciò che potrebbero avere per meno, e sussidio alle imprese protette, che così vedono alzarsi l’asticella della competizione sul prezzo. Non riesco a immaginare un solo dazio – compresi quelli ambientali e quelli antidumping – che possa avere un effetto positivo. Un dazio è sempre un cedimento della società a favore dell’intervento governativo, ed è sempre un’opera di redistribuzione dai consumatori ad alcune imprese. Per questo essi vanno combattuti con ogni forza e per questo bisogna guardare con simpatia e sostegno alla mossa della Cina.

Basterà? Sicuramente no, anche perché i poteri della Wto sono, all’atto pratico, effettivamente contenuti e inadeguati. Non basterà, e per sconfiggere il protezionismo serve il consolidarsi di coalizioni liberoscambiste all’interno dei singoli paesi. Ma tutto fa brodo, e se Pechino ha delle armi legali per proteggere le sue imprese e i nostri diritti, è bene che le usi.

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Eco-protezionismo? /2009/07/27/eco-protezionismo/ /2009/07/27/eco-protezionismo/#comments Mon, 27 Jul 2009 13:51:52 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1765 Dove finisce l’ambiente e dove comincia il protezionismo? Sabato scorso ho partecipato alla giornata sull’energia della Scuola di politica di Michele Salvati e Salvatore Vassallo, nell’ambito della quale Ricardo Hausmann – economista e direttore del Centro per lo sviluppo internazionale dell’università di Harvard – ha svolto un interessante ragionamento sulle prospettive dei biocarburanti. Hausmann ha in particolare suggerito di stare molto attenti a distinguere le politiche ambientali da quelle industriali, perché – pur potendosi sovrapporre – hanno obiettivi e sfruttano mezzi diversi. Poiché la riflessione mi sembrava molto sensata, gli ho chiesto un commento sulla scelta dell’Unione europea di imporre dazi sui biocarburanti importati. Contrariamente a quello che mi aspettavo, Hausmann si è detto favorevole.

La ragione da lui addotta è meramente ambientale: a suo avviso, l’eventuale guadagno in termini di emissioni dovute all’utilizzo dei biocarburanti sarebbe vanificato dai consumi necessari al trasporto. Non ne sono convinto: l’efficienza, sia energetica sia economica, della produzione di biocarburanti nei paesi tropicali è talmente clamorosa che perfino i documenti ufficiali dell’Ue sono costretti a riconoscerla (per esempio nel Biofuels Progress Report del gennaio 2007, a pagina 11). Inoltre, a me pare ovvio che, una volta accettata la logica protezionistica, essa finisca inevitabilmente per prendere il sopravvento.

Questa verità è talmente palmare che perfino il presidente americano, Barack Obama, ha preso le distanze dalla clausola del pacchetto climatico votato qualche settimana fa dalla Camera, la quale prevede dei dazi sui beni importati da paesi non climaticamente corretti (una proposta simile gira da un po’ per le stanze europee, e guarda caso è sponsorizzata dai francesi). Il fatto poi che tale misura sia stata difesa da Paul Krugman (attraverso l’endorsemente di un editoriale del NYT, oltre che di una serie di argomentazioni economiche e azzeccagarbugliesche) dovrebbe indurre al massimo scetticismo. Oltre tutto, come scrive Tyler Cowen, anche dando per buona l’utilità dei dazi climatici in un mondo perfetto, le controindicazioni sono tali e tante da far venire la pelle d’oca. Il protezionismo non è mai la soluzione, e l’antiprotezionismo è la meno negoziabile di tutte le posizioni politiche.

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Carburanti troppo cari? Ditelo ai politici /2009/06/20/carburanti-troppo-cari-ditelo-ai-politici/ /2009/06/20/carburanti-troppo-cari-ditelo-ai-politici/#comments Sat, 20 Jun 2009 15:01:58 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1086 Dopo Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sicilia ed Emilia Romagna, adesso è il turno della Liguria: la giunta regionale ha appena approvato un provvedimento secondo cui ogni nuovo impianto di distribuzione dei carburanti dovrà essere attrezzato anche per almeno uno tra Gpl, metano e idrogeno. Ufficialmente si tratta di una norma concepita per la salvaguardia dell’ambiente eccetera eccetera, ma il sostrato protezionista è chiarissimo. Si tratta della (efficace) risposta della lobby dei benzinai alla manovra liberalizzatrice iniziata dalle “lenzuolate” di Pierluigi Bersani e proseguita l’anno scorso nel collegato alla Finanziaria 2009, chez Claudio Scajola e Giulio Tremonti. La logica della normativa nazionale è quella di rimuovere i maggiori ostacoli al dispiegarsi di una reale competizione nella distribuzione in rete dei carburanti per autotrazione, che a oggi determinano una rete di distribuzione tra le più inefficienti in Europa (i dati fanno letteralmente impallidire). Imponendo l’installazione di Gpl o metano, le regioni di fatto creano una barriere all’ingresso di proporzioni enormi, che non riguarda solo la faccenda dei costi, ma investe una serie di requisiti urbanistici e di sicurezza (banalmente, l’estensione della superficie necessaria è molto maggiore, restringendo il numero degli spazi idonei). Della questione si era occupata, qualche mese fa, la stessa Autorità Antitrust, che in una segnalazione alle Camere e al governo aveva denunciato l’ondata di provvedimenti protezionistici sul tema. L’approccio di Antonio Catricalà e dei suoi è semplice e lineare: trattandosi di norme discriminatorie, che impongono ai nuovi entranti oneri a cui gli incumbent possono decidere se conformarsi oppure no, esse agiscono in direzione anticoncorrenziale. Se le regioni ritengono utile o importante promuovere la diffusione dei carburanti cosiddetti eco-compatibili, possono farlo incentivando l’adeguamento dei punti di rifornimento, siano essi nuovi o vecchi. Si dice che l’albero si riconosce dai frutti: i frutti delle regioni sono ammalati di protezionismo.

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