CHICAGO BLOG » produttività http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Sindacato per meno tasse? Evviva! /2010/09/13/sindacato-per-meno-tasse-evviva/ /2010/09/13/sindacato-per-meno-tasse-evviva/#comments Mon, 13 Sep 2010 19:54:07 +0000 Oscar Giannino /?p=7032 Domattina dedico la “versione di oscar” su radio24 all’annuncio venuto oggi da Cisl e Uil: le due confederazioni riuniranno congiuntamente le segreterie il 15 settembre, per varare una piattaforma di riduzione delle tasse, e scenderanno in piazza per questo il 9 ottobre. Lo dico prima di entrare nel merito delle loro proposte, prima di conoscerle in dettaglio anche se le immagino: dico e grido evviva. Evviva anche se magari dirò nel merito che è troppo poco e troppo tardi. Ma un evviva netto e chiaro. Non solo perché qualunque alleato per la riduzione della schiavitù fiscale è ben accetto. Ma perché il sindacato notoriamente nella storia italiana è un alleato potente. E se finalmente il sindacato si smuove dal solo mantra della lotta all’evasione per destinare più risorse ancora alla spesa pubblica ma – immagino – alla lotta all’evasione che resterà affianca finalmente anche richieste di riduzioni delle imposte, allora vuol dire che finalmente anche il lavoro dipendente comincerà a sentirsi dire da chi – ci piaccia o meno è altro discorso – lo rappresenta, che pagare le tasse NON è bellissimo, e quando poi le tasse sono abnormi è osceno. Non solo perché in cambio lo Stato offre quel che sappiamo. Ma perché più alte sono le tasse, maggiore è l’ingiustizia e l’inefficienza. E poiché nel nostro Paese le tasse sono altissime sia sul lavoro sia sull’impresa, è su entrambe che devono scendere per diminuire ingiustizia e inefficienza. Se avete dubbi, vi invito a leggere questo paper. E’ assolutamente illuminante. Lo ha scritto Richard Rogerson, fellow dell’American Enterprise.

Lo studio nasce in realtà dalla domanda se sia giusto, il tentativo di Obama in atto negli USA di estendere lo Stato e il suo prelievo fiscale sempre più verso grandezze europee. Ma poiché  per dimostrare la sua risposta – che è no – deve dimostrarne la ragione, e per farlo prende in considerazione gli effetti comparati che la tassazione sul lavoro esercita in concreto sulle ore lavorate in tutti i Paesi Ocse, ecco che i dati servono benissimo a riflettere anche a casa nostra, in Italia. Perché i dati mostrano inequivocabilmente che continua ad aver ragione il buon Ted Prescott, che ci ha preso il Nobel coi suoi studi sul rapporto che l’alta pressione fiscale esercita, disincentivando l’offerta di lavoro.

Per averne evidenza, prima ancora di leggere il paper andate direttamente alle due tabelle.  Nella tabella 1 trovate il totale della pressione fiscale e contributiva sul lavoro nei maggiori Paesi OCSE, nel 1960, 1980. e nel 2000. La media OCSE passa dal 25,4% del ’60, al 36% dell’80, al 41,9% nel 2000, cioè cresce in 40 anni di 16,5 punti. Gli Stati Uniti però sono il Paese che resta assolutamente sotto media, passando dal 22,1% del ’60 al 28,6% nel 2000, con un aumento di soli 6,5 punti. Tutti i Paesi europei hanno incrementi a doppia cifra e quasi sempre partendo da una  base iniziale più alta: la Germania passa da 33,5% al 47,7% con un più 14,2; la Francia passa da un 36,6% al 49,7% con un più 13,1; la Finlandia da un 26% al 52,4% con più 26,4. L’Italia è il Paese con la maggior crescita del prelievo sul lavoro nel quarantennio dopo appunto Finlandia e Svezia (quest’ultima passa dal 31,6% al 59,1% con un più 27,5). Sul lavoro italiano, la pressione ficale e contributiva  passa dal 25,5% del 1960 – una media pari allora a quella del Regno Unito – al 49,1% con un aumento di 23,6 punti (mentre il Regno Unito sale solo di 10 punti, e si ferma nel 2000 a un prelievo del 36%).

Qual è l’effetto sulle ore lavorate esercitato dal diverso andamento del prelievo tributario e contribuitivo? Andate alla tabella 2. In media le ore lavorate  settimanalmente per persona di età 15-64 nei Paesi Ocse passano da 28,1 nel 1960 a 23,3 nel 1980 a 22,5 nel 2000: in media cioè a un aumento nel quarantennio del 16,5% di tax rate reale corrisponde una diminuzione di ore lavorate pari a -18,7% in area Ocse.

Solo che questo dato è la media di due sottoinsieme assai diversi. Da una parte ci sono gli Stati Uniti (e il Canada), in cui la limitata crescita della pressione fiscale sul lavoro pari al solo 6,5% ha prodotto un aumento delle ore lavorate del 10% tra il 1960 e il 2000 (state attenti, la cifra delle ore lavorate nel 2000 USA è sbagliata per un refuso: ripetete quella sovrastante del Regno Unito ma ho controllato, in realtà non è 23,3 ma 25,3 rispetto alle 23,7 del 1960, dunque più 10% appunto). Nei Paesi europei, invece, in media maggiore è l’aumento della pressione fiscale maggiore è il decremento di ore lavorate:  in Germania il calo è del 30% passando dalle 28,7 del 1960 a 19,8; in Francia è del 35,3% passando dalle 29,8 a 19,3. In Italia il decremento è del 32,3%, passando da 31,2 ore settimanali a 21,2. L’unico Paese a fare vera eccezione alla regola è la Svezia, dove malgrado l’incremento di 27,5 punti di presione fiscale fino allo spaventoso 59%, il decremento di ore lavorate sui limita nel quarantennio al 7% cioè da 25,3 a 23,5: ma la spiegazione è che nel 1960 la media settimanale svedese era già la più bassa dell’Europa continentale, di 7,5 ore inferiore alla media britannica, d 5,9 rispetto all’Italia, di 3,4 rispetto alla Germania.

La conclusione è evidente. Più aumentano tasse e contributi, più la gente sta a casa invece di lavorare. Trovate tutta la letteratura del caso per approfondire indicata a fine saggio, se pensate che le differenze culturali abbiano un peso – ce l’hanno – come i più o meno efficienti sistemi nazionali di welfare – ce l’hanno anch’essi, e il nostro è inefficiente, basato sulle ipertutele rigide concentrate in capo ai dipendenti a tempo indeterminato.  Ma l’andamento dell’Olanda, disaggregato per periodi di tempo in cui tasse e contributi sono saliti rispetto a quando la politica ha deciso di abbassarli ( a differenza degli altri Paesi dove l’aumento non ha praticamente mai conosciuto se non soste, ma senza mai invertire segno), testimonia che a ogni discesa e risalita fiscale ha corrisposto inversamente un aumento o una diminuzione delle ore lavorate. Come volevasi dimostrare.

Per questo dico: evviva il sidnacato che si decide a scendere in piazze per meno tasse. Inevitabilmente anche di qui, passa la possibilità – per me: necessità – di una maggior produttività per l’Italia. Noi diremo sicuramente che i tagli a tasse e spesa servono più incisivi, ma il sindacato in questo caso dà una mano eccome. Perché rompe finalmente un tabù storico. Era tempo, santiddio.

]]>
/2010/09/13/sindacato-per-meno-tasse-evviva/feed/ 41
Bassa produttività, lo schiaffo che ci affoga /2010/08/03/bassa-produttivita-lo-schiaffo-che-ci-affoga/ /2010/08/03/bassa-produttivita-lo-schiaffo-che-ci-affoga/#comments Tue, 03 Aug 2010 18:38:09 +0000 Oscar Giannino /?p=6706 Devono fare riflettere, i dati sulla bassa produttività italiana resi noti oggi dall’Istat. Tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7%. Ma nopn è questione di cruisi, è un problema che viene da lontano. Nell’intero arco trentennale tra il 1980 e il 2009 è cresciuta solo dell’1,2% annuo. La Banca d’Italia evidenzia che nei 10 anni precedenti la crisi, la produttività per ora lavorata è salita del 3% in Italia contro il 14% dell’area euro. Confindustria, alla sua assemblea nazionale di maggio, ha ricordato che, nell’industria manifatturiera, tra l’avvio dell’euro e il 2007, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto in Italia del 19%, mentre si è ridotto del 7,5% in Francia e del 9,8% in Germania. Abbiamo ceduto ai tedeschi ben 32 punti di competitività. Le ragioni di questa bassa produttività sono molteplici. Ma una strada per uscirne ci sarebbe, a volerla percorrere. Cioè cambiando la testa.

Dal 2001 in avanti con la legge Treu, abbiamo scelto di far crescere l’occupazione ma le nuove tipologie di lavoro flessibile sono classicamente lavori a bassa produttività. In più, il 70% del Pil è fatto di settore pubblico e di servizi assai poco o per nulla esposti alla concorrenza, dunque la produttività ristagna. L’euro, quando si apprezza, colpisce più energicamente i prodotti italiani che, rispetto ai tedeschi, sono mediamente più in basso nella scala del valore aggiunto.

Ma se la colpa non è dei lavoratori italiani, c’è un modo per unire le loro tasche all’obiettivo di far aumentare la produttività. E’ per esempio un importante passo avanti, l’accordo del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi con l’Agenzia delle Entrate, che ammette alla tassazione agevolata del 10% l’intera quota del salario da produttività e non solo le ristrette “voci variabili” della prima interpretazione della norma. E’ una conferma dell’accordo sui nuovi assetti contrattuali, raggiunto nel febbraio del 2009 tra imprese e sindacati. Il “salario decentrato”, aggiuntivo rispetto a quanto definito per qualifica e inquadramento nei contratti nazionali, è nelle intenzioni dei firmatari – tutti, tranne la Cgil – come un grande motore finalmente comune, tra aziende e dipendenti.

Mentre infatti ha ancora un senso che la parte normativa e sui diritti sia estesa per contratto nazionale alla generalità di un intero settore, solo trattando azienda per azienda è possibile definire come utilizzare al meglio gli impianti rispondendo all’elasticità della domanda, modulando orari, riposi, straordinari e turni. Unendo due obiettivi: consentire certo alle imprese migliori margini, ma insieme alzare il reddito disponibile dei lavoratori. Il governo aveva già disposto la detassazione, che ora è ulteriormente estesa. Parlando dell’intesa raggiunta a Pomigliano d’Arco, significa per gli operai Fiat, sulle 120 ore di straordinario pattuite invece delle 40 standard da contratto, trovarsi nelle tasche 510 euro netti in più, rispetto alla stesso lordo di circa 3mila euro dovuto per le ore di lavoro aggiuntive annuali.

Non è poco. Dovrebbe aiutare a rasserenare l’atmosfera in tutta la vicenda Fiat, ad estendere l’intesa di Pomigliano a tutti gli stabilimenti del gruppo. E’ paradossale che le maestranze americane di Chrysler si siano strette festanti insieme al presidente Obama intorno a Sergio Marchionne, grate del rilancio aziendale e convinte anche della necessità che i nuovi assunti abbiano accettato livelli retributivi inferiori ai seniores. Mentre da noi si scatena la guerra, quando la stessa azienda non propone qui salari differenziati, ma solo che a fronte di investimenti per 20 miliardi sia innanzitutto possibile ristabilire la legalità. E cioè abbattere assenteismo e doppi lavori in nero, realizzare esattamente quel che già stabiliva l’accordo interconfederale del 2009: che le deroghe contrattuali, per azienda e stabilimento, sarebbero state finalmente possibili, trattandole col sindacato, anche per rispondere alla necessità di migliorare gli obiettivi produttivi.

E’ comprensibile, nel nostro Paese molto diverso dai mercati anglosassoni, che la rivoluzione che ha preso le mosse coi nuovi accordi e che inizia nel caso Fiat generi allarme e preoccupazione, in quelle organizzazioni da decenni strutturate intorno al rito-mito del contratto nazionale. E’ ovvio che, dopo la Fiat, altre aziende seguiranno in Italia il suo esempio. E che ciò chieda sia al sindacato, sia alle rappresentanze d’impresa, una maggior focalizzazione sul livello territoriale e aziendale e cioè su cose concrete, non più sugli aspetti politico-simbolici del CCNL. Ma è l’intero mondo del lavoro coi suoi cambiamenti a esigerlo.

Non solo per la globalizzazione, che non è la gara tra chi guadagna meno come vorrebbero dipingerla i suoi nemici, ma è al contrario la gara a chi vi si afferma meglio per soddisfare miliardi di non più poveri in nome della qualità e dell’innovazione, che consentono salari migliori nei Paesi più avanzati. Ma anche perché innanzitutto nel nostro Paese il lavoro non è più quello descritto e cristallizzato nella rigidità dello Statuto dei lavoratori, che fu conquista ma risale a 40 anni fa. Ed è in questa direzione che si è mossa l’azione  del ministro Sacconi dacché è in carica e con il Piano triennale del lavoro appena annunciato, di cui costituirà parte attuativa fondamentale lo Statuto dei lavori di Marco Biagi, che verrà purtroppo per l’ennesima violta ucciso in culla se la legislatura cade. Un mondo del lavoro fondato sulle esigenze delle persone e sulla loro occupabilità a cominciare dai nostri punti deboli e cioè donne e giovani, sulla maggior sicurezza del lavoro e sull’emersione del nero attraverso il potenziamento dei controlli ispettivi, ma anche sulla liberazione del lavoro attraverso una minor pressione fiscale, una formazione ricorrente del capitale umano, e nuovi istituti di welfare fondati non sulle sole esauste casse dello Stato ma sulla sussidiarietà e sull’accordo bilaterale tra sindacati e aziende.

Sempre che la legislatura duri. La politica si metta una mano sulla coscienza. Se crederà che gli italiani siano disposti a fare sconti, e cioè ad assistere a mesi o magari anni di scontri politici trascurando l’agenda concreta di ciò che serve al Paese mentre il mondo corre e cambia, senza poi far pagare un duro prezzo a chi ne sarà responsabile, secondo me la politica si illude. Bisoga essere pronti, in quel caso, a non fare sconti a chi si comporta in mnaiera così cialtronesca sia con le promesse leettorali che ha fatto, sia verso i guai che pesano sul Paese.

]]>
/2010/08/03/bassa-produttivita-lo-schiaffo-che-ci-affoga/feed/ 5
Ripresa, infrastrutture, Italia e rebus Cina /2009/12/28/ripresa-infrastrutture-italia-e-rebus-cina/ /2009/12/28/ripresa-infrastrutture-italia-e-rebus-cina/#comments Mon, 28 Dec 2009 19:08:09 +0000 Oscar Giannino /?p=4553 Una delle voci che più contribuiranno alla ripresa mondiale, dicono l’OCSE e molti report di banche d’investimento, è quella delle infrastrutture. Ho provato a sintetizzare un vasto pacco di recenti previsioni, da Goldman Sachs a Credit Suisse. Nel farlo, ancora una volta ci si rende conto che Usa, Eu ed Asia marceranno a ritmi diversi. Noi, poi, come Italia intendo, a ritmi sicuramente inferiori agli altri.  Ma partiamo dalla domanda essenziale: quando la domanda di infrastrutture realizza picchi verso l’alto? Storicamente, per quattro ragioni molto diverse.

La prima avviene quando un Paese in via di sviluppo passa da un basso livello di Pil procapite a un livello elevato: e, in tal caso, per due ordini di fattori concomitanti; il primo è che limitate capacità di traffico o basse dotazioni e alta efficienza delle utilities vengono giustamente identificati come colli di bottiglia per ulteriori consistenti livelli di crescita, come ostacoli che limitano le aziende da espansioni che sarebbero invece alla loro portata finanziaria e organizzativa; il secondo fattore ha a che vedere con i più elevati livelli di domanda che vengono direttamente dalla popolazione, al crescere del suo reddito procapite.

La seconda ragione è invece in relazione all’intensità e alla crescita del commercio mondiale. Più cadono le barriere daziarie e amministrative al traffico di merci, più occorre un backbone efficace di porti, strade, ferrovie, e intermodalità tra le diverse componenti. Un anno fa, a fronte di una caduta del commercio mondiale a doppia cifra dopo poche sole settimane dal fallimento di Lehman Brothers, tutti si interrogavano sulla prospettiva di uno stop strategico della globalizzazione impetuosa che avevamo conosciuto nel decennio precedente: quella che aveva segnato un aumento senza precedenti dei beni esportati e importati sul totale del Pil planetario, da poco più del 20% solo nel 1990, al 47% nel 2005. La grande paura è passata. Nel senso che la rifocalizzazione della ripresa nel Pacific Ring, tutta centrata sulla Cina, ci “obbliga” e pensare che la globalizzazione non solo non si è fermata ed anzi la ripresa c’è solo grazie ad essa, ma che essa continuerà a ritmi altrettanto impetuosi, se solo Ue e USA non perderanno l’autobus della propria razionalizzazione produttiva e diminuzione dei debiti. Direi che gli Usa hanno impetuosamente imboccato la prima strada rispetto all’Europa, vista la produttività assolutamente stellare degli ultimi due trimestri connessa a massiccia espulsione di manodopera: ma entrambi stiamo messi malino, quanto a debiti.

La terza ragione di picco della domanda di infrastrutture è connessa ai massicci programmi di stimolo pubblico, ai quali le economie anche molto avanzate ricorrono in caso di recessione. Esattamente come avviene o dovrebbe avvenire oggi in Usa e UE. Quando dico “dovrebbe avvenire” penso alle enormi difficoltà del nostro Paese a imboccare tale strada, malgrado il disastro quotidiano infrastrutturale che è sotto i nostri occhi, e per il quale vi rinvio all’editoriale di apertura. In ogni caso, anche sotto questo profilo è la Cina nel 2010 a guidare la classifica, visto che alle infrastrutture- oltre che alle tecnologie “verdi” – sono devolute larga parte dei 586 miliardi di dollari del suo intervento straordinario pubblico di sostegno alla domanda varato nel 2009. Tanto per fare una sola cifra, le Expressway ferroviarie “alla occidentale” che in Cina solo nel 2000 hanno superato i 10 mila chilometri, per superare i 20 mila nel 2003 e i 40 mila nel 2006, nel 2009 hanno superato d’un balzo i 60 mila, e l’obiettivo è di 85 mila nel 2020 e di 120mila nel 2030! A questo proposito – per inciso – quella cinese è la seconda incognita del dopo crisi. Ma mentre quella dei debiti del mondo anglosassone è l’incognita a breve per la loro ripresa, quella cinese è un’incognita di medio lungo periodo. Nel 2009 – anno di contrazione record della domanda navale mondiale, con un pauroso meno 74% di ordini di navi nuove – la Cina ha superato nel portafoglio ordini la Corea del Sud, col 44% del mercato mondiale rispetto al suo 17%, ed entro tre anni potrebbe aggiudicarsi più del 50% degli ordini mondiali navali. Nel 2010, la Cina diverrà la seconda potenza economica mondiale dopo gli USA, superando per Pil – a prezzi di mercato – il Giappone. E diverrà il primo Paese esportatore al mondo, con una quota pari al 10% del commercio mondiale raggiunta solo dal Giappone al suo massimo, nel 1986. Nel caso della Cina oggi tanto trionfante, la domanda di medio periodo è quanto la sua crescita possa continuare ai tassi pari o superiori al 10% annuo – che mantiene da 30 anni! – ora che è diventata così “pesante” in termini di volumi, prima che il suo sistema bancario e finanziario vadano in bolla e destabilizzino il tutto. Anche per la Cina il Giappone è la lezione da tenere ben presente, visto che 30 anni fa tutti pensavamo del Giappone ciò che oggi pensiamo della Cina, e cioè che entro 20 anni avrebbe superato gli USA: ma la storia è andata diversamente, come sappiamo.

La quarta ragione, infine, del picco infrastrutturale è connessa all’aumento della popolazione. Sotto questo profilo, con buona pace di Giovanni Sartori e dei malthusiani vecchi e nuovi, ai ritmi attuali supereremo 7 miliardi di abitanti del pianeta nel 2010 o al più nel 2011, gli 8 miliardi al 2030, i 9 miliardi al 2045. Quel che più ancora conta è che se attualmente circa il 50% della popolazione mondiale è urbanizzata, tale componente è in crescita più rapida sul totale rispetto all’aumento della popolazione in quanto tale, e arriverà al 55% nel 2025 e al 60% nel 2035.

La valutazione dei quattro fattori concomitanti porta a prevedere una crescita molto forte della domanda infrastrutturale, negli anni che abbiamo davanti a noi. Se sommiamo tutte le diverse componenti attualmente stimate dall’OCSE, giungiamo alla cifra di 71 trilioni di dollari di investimenti stimati nel prossimo ventennio: cioè l’equivalente di cinque volte il Gdp degli Stati Uniti.

Le infrastrutture sono base – insieme da costruire ex novo e da ricostruire nel tempo – della moderna economia. Vieppiù di quella del dopo crisi. Esse provvedono fattori essenziali di produzione, dall’energia all’acqua, agevolano il commercio e la divisione del lavoro, attraverso le reti di comunicazione e di traffico, realizzano l’empowerment delle popolazioni oltre che innalzare la produttività delle imprese. Esse sono asset-intensive nella loro fase di costruzione, richiedono cioè altissimi investimenti iniziali, mentre i costi della loro gestione ed esercizio sono in media molto più bassi

Sinteticamente, la stima attuale delle diverse subcomponenti delle infrastrutture tangibili può essere suddivisa in almeno quattro sottoclassi.

La prima è quella relativa al traffico: gomma ferro e aereo. Secondo le più recenti previsioni OCSE, le spese per la realizzazione di nuovi sistemi stradali ammonteranno tra i 220 e i 290 miliardi di dollari l’anno, per ogni anno in media di qui al 2030. Mentre la stima di nuove reti ferroviarie è tra i 50 e i 60 miliardi di dollari anno: esclusa la Cina però, che da sola spende in nuove reti ferroviarie avanzate 103 miliardi di dollari nel 2010, e 110 nel 2011.
La seconda è quella relativa alle utilities, innanzitutto di generazione e distribuzione energetica, e per il trattamento del ciclo completo dell’acqua. Stiamo parlando di un ammontare complessivamente stimato tra i 24 e i 30 trilioni di dollari di qui al 2025 nel primo caso, e di almeno 1 trilione di dollari l’anno investito ogni anno nei prossimi 15 anni nelle infrastrutture dell’acqua.

La terza componente riguarda i network di comunicazione. È il comparto relativamente più colpito dalla crisi, poiché le aziende sono ferme in relazione al calo della domanda. L’OCSE si aspetta che gli investimenti in reti telecom passino da una media di 650 miliardi di dollari anno di qui al 2020, e una media molto più bassa di circa 170 miliardi di dollari anno nel decennio successivo.

La quarta sottoclasse riguarda infine le infrastrutture tangibili “sociali”: ospedali, scuole, sedi centrali e periferiche della pubblica amministrazione. I Paesi avanzati tendono a ottimizzare l’esistente più che a nuove realizzazioni su vasta scala, tanto che la stima mondiale fatta dall’OCSE è al più concentrata nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, per un ammontare relativo di qui al 2030 a circa 5-7 trilioni di dollari complessivamente.

Per avere un’idea anche solo lontana di che cosa questi massicci investimenti potrebbero comportare e mettere in moto nel complesso dell’economia mondiale, facciamo riferimento a un solo indicatore: il consumo di cemento. Il consumo di cemento nel mondo precrisi si distribuiva – considerando in ascissa il Pil procapite dei Paesi e in ordinata i consumi di cemento procapite – su una parabola, a seconda dei diversi stadi di avanzamento dello sviluppo dei relativi Paesi. Indietro nella arte bassa i Paesi meno sviluppati; salendo sulla parte alta della sezione conica quelli in via di più forte sviluppo che recuperano il gap rispetto ai Paesi avanzati e consumano massicce dosi di cemento; infine i Paesi avanzati, e per alcuni versi “saturi” di cemento, ad alto reddito procapite ma basso consumo di cemento. Per Paesi come Vietnam e Thailandia, Egitto e Brasile, India e Turchia, tutti ben sotto i 5mila dollari di reddito procapite annuo e in una fascia di consumo di cemento tra i 200 e i 400 kg procapite, nel ventennio si prevede un sostanziale raddoppio, cioè di giungere nell’area in cui nel precrisi si collocavano i paesi in boom di mattone e infrastrutture: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati (Dubai ne sa qualcosa), Grecia, Spagna e Singapore, tutti tra gli 800 e i 1200 kg di cemento procapite. L’Italia nella parabola sta tra questi ultimi Paesi e quelli più sviluppati: coi nostri circa 24,5 mila dollari di Pil procapite consumiamo circa 800 kg di cemento procapite anno. Ma saranno proprio i Paesi più sviluppati, come Francia, Giappone, Germania, Australia e Stati Uniti, tutti sotto i 400 kg di cemento anno, a vedere impennare il proprio consumo per la necessità di nuove opere infrastrutturali, sotto l’incalzare del duplice obiettivo di ammodernare ciò che per troppi decenni non era stato innovato, e di spendere al più presto in opere cantierabili ciò che può insieme contribuire al ridimensionamento della disoccupazione e all’innalzamento della produttività.

Insomma, si direbbe che non sia proprio un cattivo futuro, quello che si prepara per le infrastrutture. Naturalmente, nel caso dell’Italia la previsione prevede invece l’eccezione, perché da noi all’inefficienza del pubblico e delle procedure assemblear-soviettiste si somma una vera e propria ideologia contraria, alle infrastrutture. Non parlo dei rigorosi interrogativi sul costo-opportunità e sul ritorno dell’investimento atteso da linee come la TAV Lione-Susa-To-Mi, di cui tante volte ci siamo occupati. E neanche del Ponte di Messina. Ma di tutto il resto che continua a mancare.

]]>
/2009/12/28/ripresa-infrastrutture-italia-e-rebus-cina/feed/ 1
La crisi, le nubi persistenti, Friedman e le riforme /2009/12/28/la-crisi-le-nubi-persistenti-friedman-e-le-riforme/ /2009/12/28/la-crisi-le-nubi-persistenti-friedman-e-le-riforme/#comments Mon, 28 Dec 2009 18:50:38 +0000 Oscar Giannino /?p=4551 Il paper Bankitalia sui 100 trimestri di regresso della produzione industriale italiana sui 12-13 di Francia e Germania – di cui ha ottimamente scritto oggi Mario Seminerio – mi induce a qualche considerazione sul 2010, la crisi e l’uscita dalla medesima. Milton Friedman alla fine dei suoi anni amava ripetere che quanto più nella storia americana erano state severe le recessioni, tanto più vigorosa era stata la ripresa che ad esse era succeduta. Se tendete un elastico, più lo tirate più al rilascio la forza accumulata sarà in grado di svolgere un lavoro maggiore, diceva il grande liberista. L’elastico ideale della sua metafora è naturalmente la domanda, la somma cioè della spesa di famiglie, aziende, stranieri e governo. Alla forte ripresa della spesa, le risorse economiche tendono al pieno impiego, cresce la forza lavoro occupata, il capitale si accumula e la tecnologia avanza, in un processo espansivo che di volta in volta porta più avanti il proprio limite. Poiché ogni recessione spinge tendenzialmente l’offerta al di sotto dei livelli di contrazione della domanda, all’arrivo della ripresa l’economia può crescere a un tasso maggiore di quello normale, finché non raggiunge almeno il punto che avrebbe toccato se la crisi non ci fosse stata. Senonché – mi duole molto riconoscerlo, per me è un maestro – la tesi di Friedman non è sempre vera. Rischia di non esser vera questa volta, o almeno non egualmente per le tre macroaree mondiali, Usa, Ue, Asia.

Se il calo della domanda persiste al di là delle previsioni, la contrazione dell’offerta è ancora maggiore, e si riducono consistentemente l’output potenziale e il tasso di ripresa della crescita. Ciò può avvenire anche in presenza di consistenti iniezioni di spesa da parte dei governi o della componente straniera della domanda. A ciò si collega il fatto che una ripresa che tardi a manifestarsi comporta tutta una serie di danni collaterali di lungo periodo. Per esempio se una consistente fetta della manodopera viene lasciata fuori dal mercato del lavoro per un periodo di tempo troppo lungo, la sua capacità di lavoro e produttività tende a decadere e ad atrofizzarsi. E la ripresa tenderà a lasciarla fuori dai nuovi occupati. La produttività per ULA – unità di lavoro occupata – può magari eguagliare o superare quella del precrisi, ma i disoccupati possono restare tanti. Idem dicasi per la produzione: le aziende tenderanno a non accrescere il proprio stock di riserve in assenza di percezione di una consistente ripresa della domanda, e il livello di capitale immobilizzato tenderà ad adeguarsi a un minor tasso di attività. Se si considera il sistema finanziario, per quanto maggiore possa essere il tasso di risparmio in ogni caso il costo del capitale potrebbe accrescersi, e le imprese tenderebbero ad usare di conseguenza meno capitale per unità di output. E’ un rischio ancora aperto, davanti a noi, nell’Euroarea e negli Usa? La risposta è purtroppo “sì”. Almeno dal mio modestissimo punto di vista.

È un rischio attestato anche dalla ricerca contenuta nell’ultima release del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale. I ricercatori del FMI hanno ripassato sotto esame ben 88 crisi bancarie occorse nel mondo negli ultimi quattro decenni. In media, 7 anni dopo l’esplosione della crisi in quasi metà dei casi l’output era ancora a un livello inferiore del 10% rispetto al precrisi. E’ un monito da non prendere alla lettera, poiché in molti casi si trattava di Paesi in via di sviluppo, e di crisi bancarie non globali come quella che abbiamo alle spalle. Ma ciò malgrado – anzi, proprio in ragione della crisi di fiducia globale, e della persistente mancata soluzione ai problemi di fondo della finanza sintetica e strutturata – occorre tenere ben presente che per Europa e Stati Uniti il rischi concreto esiste: anche se l’economia ha preso a ritracciare da uno o due quarters con segno positivo rispetto a quelli precedenti, il livello di output può restare inferiore a quello 2007 per addirittura anni a venire. Ricordo a tutti che nell’estate 2008 Goldman Sachs valutava che la crisi avesse abbattuto il valore dell’equity mondiale nell’ordine di 30 trilioni di dollari, e quello immobiliare nell’ordine di 11 trilioni. Prese alla lettera – cioè se si fosse dovuto valutare quelle cifre a fermo, invece che nel prosieguo degli aggiornamenti verso l’alto dei prezzi di mercato, rivelatisi consistenti nelle Borse ma non nel mattone – si trattava di perdite pari più o meno al 75% del Pil mondiale. Anche in quel caso, la storia dimostra che non per questo bisognava fasciarsi la testa: dopo enormi distruzioni partono ancor più enormi ricostruzioni. Ma qui e oggi la domanda è: per caso o per necessità le cose non vanno diversamente, quando si è vittime di una crisi finanziaria globale? A tale domanda, la risposta divide verticalmente al comunità accademica e quella degli affari. Io sono tra coloro che temono. Dal punto di vista di Chicago, le crisi da sovrainvestimenti e iperspeculazioni condotte con mezzi propri esitano in conseguenze meno gravi, di quelle poste in essere invece con capitali presi a prestito. Perché in quel caso gli asset si riallineano di valore verso il basso, mentre le liabilities al contrario restano altissime. Il caso concreto del Giappone e del suo tetro decennio di stagnazione negli anni Novanta è lì sotto i nostri occhi, a dimostrarci quali conseguenze di lungo periodo possa avere in un’economia avanzata una crisi da bolla immobiliare e stock overprices realizzata con capitali a prestito, e intermediari finanziari non fatti fallire con procedure guidate. La tipica recessione postbellica che aveva in mente Friedman, e che lo indusse a predire che a crisi serie seguono riprese ancor più forti, era una recessione che esitava in crescita dei prezzi, più bassi tassi d’interesse delle banche centrali per sostenere tassi di spesa divenuti troppo bassi e – una volta finanziata un po’ d’inflazione, di solito “troppa” – le autorità monetarie e di governo erano libere di tornare a tassi più alti e politiche meno interventiste. Oggi corriamo il rischio che in grandi Paesi i prezzi restino bassi – quasi deflazionistici – malgrado i tassi d’interesse negativi e le politiche pubbliche enormemente forzate al debito aggiuntivo. Il caso del Giappone mostra che la riluttanza a far fallire – ripeto: in maniera guidata – banche e società i cui attivi non sono più allineabili alle passività ha portato a una condizione per la quale nel 2002 – a 10 anni dall’inizio della crisi – l’output nipponico era ancora inferiore di ben il 23%, a dove avrebbe dovuto essere seguendo la traiettoria precrisi.

La scommessa attuale, dopo due quarters di cessazione della caduta nel mondo sviluppato, sta nel ritenere che le grandi banche siano tornate a tassi overnight nell’interbancario pari allo 0,25%, e la massiccia emissione di corporate bond su ambedue le rive dell’Atlantico siano tutti segni di grande fiducia, tali cioè da far ritenere che nel buon tempo perdurante non sia necessario riallineare traumaticamente attività e passività. Personalmente, ritengo che i casi recenti di Dubai – quanto a debiti privati – e Grecia – per il debito pubblico – mostrino che la scommessa fonda il suo presupposto su basi ancora assai poco solide. Sicuramente per il mondo anglosassone – Usa e Uk – la somma di debiti provati e debiti pubblici eredità della crisi resta troppo alta, per pensare di assistere a rivalutazione degli attivi da prezzi di mercato tali da evitare la prospettiva che milioni e milioni di lavoratori vengano in fretta riassorbiti dalla produzione a livelli precrisi. Per quanto poi riguarda l’Italia, i nostri 100 trimestri di produzione industriale perduta, le prospettive di una ripresa dell’export di gran lunga inferiore alla ripresa del commercio mondiale – si prevede un export di più 4% nel 2010, il commercio dovrebbe riprendersi del 9% -, e infine l’andamento dei prezzi più accentuato di quello di altri Paesi avanzati per colli di bottiglia che riguardano le reti distributive e rendite di posizione sui mercati del lavoro e dei servizi, indicano secondo me chiaramente che avremmo bisogno di riforme strutturali per recuperare produttività, da meno tasse con meno spesa pubblica – parecchio di entrambe le voci in meno – a energiche liberalizzazioni, fino all’intervento straordinario sul debito pubblico di cui l’unico a parlare è sinora Paolo Savona nei suoi inascoltati articoli (vedi anche oggi sul Messaggero). Invece, si preferisce aspettare a braccia conserte, e si annunciano ennesimi dibattiti pluriennali ab ovo con coinvolgimento di attori di ogni ordine e grado in vista di una fumosa nuova riforma fiscale, che a me impostata così invece di riempirmi di speranzosa attesa pare solo una scusa per prender tempo fino a fine legislatura, aspettando magari che Berlusconi cada e si capisca chi o che cosa gli succede, e a quel punto con chi e su che cosa allearsi.

]]>
/2009/12/28/la-crisi-le-nubi-persistenti-friedman-e-le-riforme/feed/ 2
La sfida dei servizi per crescere di più /2009/11/24/la-sfida-dei-servizi-per-crescere-di-piu/ /2009/11/24/la-sfida-dei-servizi-per-crescere-di-piu/#comments Tue, 24 Nov 2009 20:42:53 +0000 Oscar Giannino /?p=3911 La sfida per l’Italia è riprendere a crescere senza scassare la finanza pubblica. Ora che il commercio internazionale ha ripreso lentamente a salire, altri Paesi stanno cambiando marcia. Per procedere più spediti sulla strada della ripresa. In questa nuova fase, dobbiamo cambiare marcia anche noi, ha detto oggi Emma Marcegaglia agli industriali di Roma. Ma la sfida è di non aumentare il debito pubblico. Solo tassi di crescita più elevati possono nel medio periodo stabilizzare il debito pubblico, tornare nel tempo a farlo decrescere, rendere meglio sostenibili i conti previdenziali, altrimenti nuovamente destinati ad aggravarsi. Ma come? Crescere di più, dopo un decennio di aumento del Pil della metà o di un terzo addirittura rispetto ai nostri concorrenti, significa rinunciare al fatalismo, smettere di rinfacciarsi l’un l’altro le ragioni per le tante occasioni mancate del passato. Altrimenti, altre occasioni verranno perdute oggi e domani. In questo anno giustamente ci si è concentrati soprattutto sulle difficoltà del cuore pulsante della nostra industria, il manifatturiero che esporta. Aveva preso ad accrescere il valore aggiunto medio per unità esportata, dopo le ristrutturazioni seguite all’ingresso nell’euro, e al venir meno delle svalutazioni competitive. La crisi del commercio mondiale l’ha duramente colpito. Ed è soprattutto pensando al manifatturiero, che sono state assunte alcune misure come la moratoria dei debiti bancari o il fondo di garanzia per le Pmi. Altre Tremonti ne ha annunciate – chissà per quando, sono state richieste otto mesi fa – come un fondo speciale per la patrimonializzazione e l’aggregazione.

Ma all’assemblea di Roma giustamente l’attenzione si è spostata su un altro capitolo, indispensabile a dimostrare come si debba e si possa crescere di più, senza compromettere la finanza pubblica. È il capitolo che riguarda i servizi. Come ha detto il presidente degli industriali romani, l’economia della Capitale può conseguire un vero balzo in avanti, puntando sulle tecnologie della comunicazione e sulla banda larga, investendo privatamente grazie a incentivi in connettività, risparmio energetico, infrastrutture, mobilità nazionale e internazionale, cultura. Vedere per credere, naturalmente. La sfida per un terziario più avanzato e produttivo non riguarda però solo Roma. È nazionale. Guardiamo i numeri, per esempio quelli elaborati dall’ottimo Mariano Bella responsabile nazionale dell’ufficio studi di Confcommercio. I servizi nel 2008 hanno rappresentato il 71% del totale del valore aggiunto nazionale. Per la prima volta da sempre, nel 2008 la spesa per servizi ha superato il 50% del totale dei consumi nel nostro Paese. E l’Italia non esporta solo la manifattura che tanto ci sta a cuore. Esporta anche servizi. Per 3,8% punti di Pil nel 2000, ma la quota è scesa al 3,3% nel 2008. La Spagna ci ha superato, con il 3,8% di Pil nel 2008.

Facciamo allora un solo esempio, di che cosa potrebbe apportare alla crescita italiana un deciso salto in avanti nel settore dei servizi. Il saldo commerciale nel settore turistico dell’Italia nel 2008 valeva 15,2 miliardi di euro, poco più di un punto di Pil. Purtroppo, era stazionario rispetto a 10 anni prima, quando ne valeva già 15. Ma se solo portassimo il nostro saldo turistico a quello austriaco, che vale il 2,4% del Pil, il prodotto nazionale italiano crescerebbe di 24 miliardi di euro. Se poi volessimo raggiungere la performance del turismo in Grecia, il Pil italiano crescerebbe per questa sola ragione a parità di condizioni del 2,8%. Di ben 44 miliardi di euro in più!

Naturalmente, non sono obiettivi che si realizzino con la bacchetta magica. Ma non servono miliardi pubblici. Bensì decisi interventi volti ad agevolare la crescita dimensionale e organizzativa, tecnologica e logistica delle troppe microimprese che abbassano la produttività nel terziario italiano, che rendono inferiore l’offerta alberghiera e turistica, dell’accoglienza e della ristorazione nel nostro Paese, facendone soffrire il commercio rispetto agli altri concorrenti sui quali anno dopo anno perdiamo posizioni, Spagna e Francia. È un discorso che vale per l’intero comparto dei servizi. Non solo per quelli privati, ma innanzitutto per quelli ancor oggi gestiti da migliaia di società pubbliche, a livelli troppo spesso bassissimi di efficienza e produttività. Il recente decreto Ronchi è stato un modesto passo avanti. Con le contraddizioni di tempi lunghi e procedure contraddittorie, anche nell’acqua che pure ha fatto urlare tanti – a torto – alla privatizzazione. Ma le resistenze sono forti. Centinaia di società pubbliche locali restano con piante organiche e ambiti di servizio incompatibili con l’efficienza, prive di economie di scala necessarie all’economicità di gestione. Avvicinare i servizi all’industria e l’industria ai servizi, in una comune logica di produttività crescente e liberalizzazione, significa inevitabilmente disincrostare anche molte rendite di posizione. Ma non si cresce di sola industria. E tanto meno di denaro pubblico.

]]>
/2009/11/24/la-sfida-dei-servizi-per-crescere-di-piu/feed/ 0
Disoccupazione, che fare? /2009/09/05/disoccupazione-che-fare/ /2009/09/05/disoccupazione-che-fare/#comments Sat, 05 Sep 2009 18:33:58 +0000 Oscar Giannino /?p=2530 Negli Stati Uniti ferve un dibattito che da noi è molto più in sordina, quello della ripresa senza occupazione. Per esempio stamane era il titolo di due diversi editoriali, del New York Times e del Wall Street Journal. Certo, negli Stati Uniti il dibattito è potentemente aiutato dal fatto che le rilevazioni statistiche sono più frequenti e meglio impostate tecnicamente. Di settimana in settimana viene per esempio aggiornato il numero delle prime richieste di trattamento di disoccupazione, che dalla prima settimana di luglio a oggi è rimasto drammaticamente ancorato intorno a circa 570mila nuove unità. Da noi, simili rilevazioni e tanto frequenti non esistono. Idem dicasi per i diversi aggregati attraverso i quali misurare la disoccupazione per componente – il 9,7% di disoccupati USA in agosto corrispondono al 13% per gli ispanici, al 15% per gli afroamericani, al 25,5% per la componente sotto i 20 anni; ai 26 milioni di americani oggi che non riescono a trovare un lavoro full time bisogna aggiungere un altro 7% di scoraggiati a cercarlo, cioè altri 17 milioni.  Ma non è solo per l’inadeguata monitorazione statistica che qui in Italia il dibattito stenta a decollare. Perché bisognerebbe avere il fegato di dire alcune amare verità. Del tipo: una verticale impennata della disoccupazione potrebbe essere l’altra faccia della medaglia per imprese che, nella crisi, ristrutturino con decisione i propri prodotti e i propri processi, mettendosi prima e meglio nelle condizioni di potersi meglio riposizionare al ripartire della domanda (nel caso italiano, soprattutto di quella estera, perché è nelle manifatturiere esportatrici che si concentra la crisi double digit di fatturato e ordinativi). Al contrario, difendere a tutti i costi la base occupazionale precrisi può essere anche foriero di minori tensioni sociali, ma significa anche che non attuano ristrutturazioni: la produttività resta inchiodata oggi e per il domani. Ancora più grave, in un paese come il nostro che negli ultimi anni, grazie alla maggior flessibilità del mercato del lavoro dalla legge Treu in avanti, ha scelto di estendere la base degli occupati quasi sempre a scapito della produttività.  Non è un caso, che negli USA invece l’aumento verticale dei disoccupati corrisponda nel secondo trimestre 2009 a una ripresa record della produttività – più 6,6% – e a una discesa notevolissima del costo del lavoro – meno 5,9% su base annuale. Negli USA, si pensa da sempre che una più elevata disoccupazione nel breve possa essere meglio e prima riassorbita mettendo l’apparato produttivo in condizioni di riattrezzarsi con grande decisioni e rapidità. Da noi, domina il partito per il quale la produttività è un optional, rispetto agli occupati da cercare di garantire comunque. In ogni caso, sia negli USA che da noi sono oggi in minoranza coloro che, come il WSJ oggi, indicano in meno tasse subito alle imprese la via più efficace per tentare di contenere il costo occupazionale dell’attuale crisi.

]]>
/2009/09/05/disoccupazione-che-fare/feed/ 9
Produttività Usa a manetta: l’esatto opposto che da noi, recessione comunque /2009/08/11/produttivita-usa-a-manetta-lesatto-opposto-che-da-noi-recessione-comunque/ /2009/08/11/produttivita-usa-a-manetta-lesatto-opposto-che-da-noi-recessione-comunque/#comments Tue, 11 Aug 2009 17:38:08 +0000 Oscar Giannino /?p=2012 È assolutamente ovvio che i listini americani oggi non abbiano particolarmente brillato, dopo i dati preliminari sulla produttività americana nel secondo trimestre rilasciati oggi dal Dipartimento del Lavoro. Eppure sono numeri, in apparenza, tali da stappare champagne. Cerchiamo allora di tradurli, visto che confermano in pieno – purtroppo – quanto stiamo scrivendo su questo blog da settimane.

Nel secondo trimestre la produttività in Usa ha segnato un aumento del 6,4%, ben maggiore delle attese degli analisti che si posizionavano su una forbice tra il 5,3% e il 5,5%. È il rialzo più significativo dal terzo trimestre 2003. Ma attenzione, il primo fattore da tenere in considerazione - a conferma di quanto osservato da Seminerio sulle statistiche Usa –  è che insieme al dato preliminare sul secondo quarter è stato energicamente rivisto al ribasso il dato del primo trimestre, che passa da un +1,6% a un modestissimo +0,3%. In concomitanza al balzo di produttività, si registra nel secondo trimestre un calo drastico del costo del lavoro per unità oraria:  è sceso del 5,8%, quasi triplicando le attese degli analisti, il calo più forte dal secondo trimestre del 2000. E anche qui è stato rivisto al ribasso il dato del primo trimestre: non vi sarebbe stato affatto un aumento del 3%,  ma una flessione pari al 2,7%. Ecco spiegate, come vi avevo annunciato, le ottime trimestrali delle società USA: le aziende americane stanno facendo sanamente ed esattamente il contrario di quel che si ritiene opportuno qui da noi in Italia  e in Europa, cioè stanno espellendo con la massima energia forza lavoro, pagandola assai meno di prima. In questo fanno bene il loro duro mestiere, che è di adeguarsi in tempi rapidi alle mutate condizioni del mercato per cercare dimettere al riparo il più possibile del proprio conto economico. Ma perché tutto ciò comunque concorra ad una severa recessione invece che alla sua fine, aiuta a capirlo la lettura di questo articolo semiserio sul Washington Times, nel quale trovate in forma divulgativa considerazioni del tutto analoghe a quelle che giorni fa abbiamo dedotto dal recente report di Comstock Partners. Se la produttività sale per severa contrazione della base produttiva e creando frotte di disoccupati cioè diminuendo il reddito disponibile delle famiglie; se questo a propria volta deve poi energicamente contrarsi anche per riequilibrare i livelli troppo alti di debito toccati in precedenza; e se in più il debito pubblico esplode spiazzando il risparmio privato, allora gli investimenti per tornare ad estendere la produzione mancheranno tanto più, quanto più bassa sarà prevedibile la base dei consumi conseguente. Risultato: recessione secca, amici miei. Chissà se i listini lo capiranno, e soprattutto i banchieri centrali che generosamente li sostengono.

]]>
/2009/08/11/produttivita-usa-a-manetta-lesatto-opposto-che-da-noi-recessione-comunque/feed/ 8
Cassa-Sud bis? Che cosa dicono i dati /2009/08/01/cassa-sud-bis-che-cosa-dicono-i-dati/ /2009/08/01/cassa-sud-bis-che-cosa-dicono-i-dati/#comments Sat, 01 Aug 2009 17:51:37 +0000 Oscar Giannino /?p=1864 Alluvionali interviste sulle nuove misure accennate dal governo per tacitare la protesta del Sud emersa con forza nelle file della PdL. Dico “accennate” perchè al momento ci sono i 4,2 miliardi sbloccati dal CIPE per infrastrutture alle Regioni meridionali, ma quanto alla nuova cabina di regìa e a un nuovo ente incaricato di concentrare e coordinare gli investimenti nel Mezzogiorno, se ne riparlerà a settembre. Dopo altre chiacchiere ferragostane. Alle ciàcole, una classe dirigente serie dovrebbe preferire analisi quantitative,  le risultanze dei tanti studi che abbiamo accumulato negli anni sul fenomeno “investimenti pubblici nel Mezzogiorno”, e sulle conseguenze reali esercitati su Pil procapite e produttività. Non vi annoio, chi non vuole approfondire può fermarsi alla conclusione: di capitale pubblico nel Sud ne abbiamo riversato per punti e punti di Pil, ma gli effetti di crescita sono clamorosamente mancati.  Per chi volesse, invece, alcuni dati. Su tre domande. È penalizzato, il Sud? Che effetti ha, il denaro pubblico sulla produttività? Chi spende peggio, al Sud? Più due conclusioni, sul da farsi.

Partiamo da qui, la più attendibile serie storica sugli investimenti pubblici nel Sud. Dico la più attendibile perché, incredibilmente, l’Istat non elabora affatto scomposizioni dei diversi input che contribuiscono all’output regionale e locale. Da metà degli anni Novanta, dobbiamo lo sforzo statistico di rielaborazione alla Direzione generale per le politiche di coesione che stava presso il ministero dell’Economia, prima che il governo Prodi decidesse altrimenti per assecondare Sergio D’Antoni, e poi che la si riaccorpasse con SB. In quegli anni, Fabrizio Barca che la guidava fece un lavorone, e ancora bisogna essergliene grati. Come vedete dalla tabella estrapolata dai Conti Pubblici Territoriali , negli anni 1996-2008 per la pubblica amministrazione la quota di investimenti e trasferimenti di capitale sul totale oscilla tra un minimo del 35% e un massimo del 41% del totale, con una media intorno al 38% nel dodicennio. È vero, risulta in calo in alcuni anni e nei valori medi. Ma la domanda è: perché? si tratta di un’inversione frutto della pugnace battaglia nordista della Lega?

Proprio no. Come potete constatare,  negli anni ’96-2001 governati dalla sinistra la percentuale di capitale pubblico destinato al Sud diminuisce dal 41%  al 38,3%, prima di risuperare quota 41% nel 2001. E il motivo è semplice, pesa come sempre il ciclo elettorale, cioè in un anno di consultazioni politiche i governi riaprono i cordoni della borsa verso il Sud. Più quelli di sinistra che quelli di destra, a giudicare dai dati che avete sotto il naso. Negli anni 2007 e 2008, integralmente in capo alle decisioni assunti dall’ultimo governo Prodi, la percentuale scende dal 36,8%, dove l’avevano lasciata Berlusconi-Tremonti, al 34,9%. In altre parole: è la sinistra ad aver agito di forbice e lima.

La mia convinzione è che bisogna ringraziarla e non biasimarla, per averlo fatto. Pregiudizio antimeridionalista? Neanche per idea. Le decisioni di allocazione degli input devono essere assunte sulla base dei riscontri concreti  di output accumulati nel tempo, non per simpatia localistica o per peso relativo dei consensi. Almeno nel mondo ideale, in quello reale della politica è chiaro che spesso non avvenga così . Ma in questa sede atteniamoci al first best.

Vi segnalo allora questo paper che è tra i migliori che abbia letto nel tempo, quanto a esame degli apporti e degli effetti del capitale pubblico nel Mezzogiorno. Si deve a due economisti dell’Università di Cagliari, Emanuela Marrocu e Raffaele Paci, e ha il merito di estendere ulteriormente il data base dei Conti Pubblici Territoriali, comprendendovi oltre a quelli del settore pubblico allargato anche gli investimenti effettuati da grandi aziende e società a controllo pubblico, da Poste a Ferrovie, da Eni a Enel e Finmeccanica. I due economisti usano una variante del modello Cobb-Douglas per la scomposizione dei diversi input che concorrono a prodotto e produttività, e il loro lavoro si riferisce agli anni 1996-03.  Ebbene se analizzate in dettaglio le quote di public capital stock per occupato (come potete vedere ci sono anche quelle procapite, per evitare di farsi dire che il dato è falsato dalla più alta disoccupazione; ma se ci si vuole concentrare sugli effetti in ordine alla produttività multifattoriale, giocoforza l’investimento per occupato ha più senso), a fronte di una media nazionale 100 il Piemonte sta a 79, la Lombardia a 59 e il Veneto a 56. La Sicilia a 140, la Campania a 150, la Calabria a 169, la Sardegna a 202, la Basilicata a 280! Non si può proprio dire, che le risorse pubbliche siano state lesinate al Mezzogiorno!

Eppure – guardate la prima tabellina delle sei proposte a pagina 18 – il livello di prodotto procapite del Sud e Isole resta sconsolatamente compreso in una fascia tra il 62 e il 72%, fatta 100 la media nazionale, mentre il Lombardo-Veneto sta tra 116 e 131. A spiegare tale risultante, sta la copiosissima letteratura che si è accumulata negli anni sul fatto che intangibles quali social capital e human capital nel Mezzogiorno deprimono tra il 60 e addirittura il 170% la produttività di un’eguale unità di capitale investita al Nord: ma qui stiamo parlando di fattori sui quali occorre agire nel medio-lungo periodo, perché la loro evoluzione risente di una path dependence socio-culturale (à la Douglas North) del tutto anelastica agli stanziamenti pubblici a breve, e che anzi rende tanto comparativamente più improduttivi gli investimenti sia pubblici sia privati  pubblici quanto più essi si concentrano in unità di tempo ristrette, incompatibili con un netto miglioramento della formazione scolastica come delle reti sociali.

Infine, veniamo all’ultimo punto. Chi spende peggio, al Sud? Date un’occhiata alla tabella di pagina 21, in cui investimenti e trasferimenti di capitale pubblici vengono suddivisi per livello di governo che li eroga, e comparati Regione per Regione. I Comuni sono assai meno presenti ed efficienti al Sud rispetto al Nord: mentre nel Lombardo-Veneto pesano per il 35% degli investimenti pubblici, la quota al Sud scende anche di più di 10 punti, fino al 22% in Basilicata e Calabria. In altre parole, al Sud i Comuni spendono di più per i propri dipendenti, rispetto al Nord.  Gli stanziamenti “centralizzati” da Roma pesano il 20% nel Lombardo-Veneto, tra il 35 e il 39% in Regioni come Basilicata, Campania e Puglia (ancora una volta, il Sud non è penalizzato).  Quanto alle Regioni pesano tra il 12 e il 15% del totale degli investimenti pubblici nel Lombardo-Veneto, 10 punti in più e fino al doppio esatto in Regioni come Calabria, Sicilia e Sardegna.

Conclusione numero uno: poiché la quota di investimenti pubblici stanziati da Roma è superiore sul totale di quella che va al Nord, è  in Comuni e Regioni del Sud che si concentra la maggior inefficienza nell’allocazione di risorse pubbliche, quanto a produttività. Come a dire. se mi permettete una battuta: caro Mezzogiorno prenditela con la tua classe dirigente locale, prima che con Bossi e Berlusconi.

Conclusione numero due. E’ comunque saggio, interrogarsi sin d’ora su un nuovo regime di coordinamento e maggior efficacia sui mille diversi flussi d’investimento che si rivolgono al Mezzogiorno. Perché allo scadere del sessennio comunitario 2007-2013, quello al quale si riferiscono i flussi europei di 48 miliardi di euro per il Sud relativi al Fondo Sociale Europeo, al Fondo Europeo di Sviluppo, e al Fondo Aree Sottoutilizzate, il contributo finanziario Ue scemerà di grosso. È bene prepararsi per tempo. Sprecando meno, e impedendo che le richieste di più denaro accendano solo più falò di risorse locali.

]]>
/2009/08/01/cassa-sud-bis-che-cosa-dicono-i-dati/feed/ 7
Low return on assets versus high yields push: come se ne esce? /2009/07/17/low-return-on-assets-versus-high-yields-push-come-se-ne-esce/ /2009/07/17/low-return-on-assets-versus-high-yields-push-come-se-ne-esce/#comments Fri, 17 Jul 2009 18:55:59 +0000 Oscar Giannino /?p=1680 Goldman Sachs e Jp Morgan escono con le loro trimestrali come le vere vincenti del credito americano post aiuti di Stato, e l’analisi dei loro risultati conferma che – grazie al fatto di essere state più prudenti nell’andare “corte” da metà 2007 a settembre 2008 sulle colossali nozionali di securities sintetiche che negli anni precedenti avevano loro fruttato utili stellari affettandole, reimpacchettandole e rivendendole in tutto il mondo - oggi possono meglio delle concorrenti assumersi di nuovo elevati rischi nel trading properties, massimizzando aiuti del Tesoro e oceanica liquidità.  M’interessa assai poco seguire i toni alla Grillo di Paul Krugman, nel commentare tale fenomeno. Serve di più una fredda analisi sistemica. Da dove nasce, la relazione asimmetrica tra basso return on assets e spinta verso high yields? Quali responsabilità implica per il regolatore? Se bisogna uscirne e cioè occorre attenuarla- e dico “se” –  come e che deve farlo al meglio? Le domande centrali sono queste, se vogliamo pensare a un’intermediazione finanziaria meno proclive a instabilità sistemica (il che non dovrebbe esimere noi europei dall’occuparci delle 30 banche continentali tra grandi e grandissime che attendono di essere ristrutturate dopo i salvataggi, come ha detto oggi Neelie Kroes per mascherare la sostanziale impotenza in materia della Commissione europea; né continuare a far finta di nulla di fronte all’accumulo tossico che resta nelle banche del Paese leader, la Germania, a fronte dell’aggravarsi della crisi bancaria nell’area baltica, vedi oggi i disastrosi risultati annunciati da Swedbank). Sono domande che ci riportano alla responsabilità del regolatore monetario, e a quella dei criteri di supervisione.  La risposta non “unisce” affatto: anzi, per chi la pensa come noi, divide e anche profondamente, dal mainstream che riecheggia oggi nei fori internazionali.

Esiste, innanzitutto, la correlazione tra Low ROA e High Yields? Esiste. Deloitte ha appena rilasciato un interessantissimo e ponderoso studio dedicato esattamente al tema, allo Shift Index.  Accorpando e rendendo omogenei dati raccolti da una molteplicità di fondi diverse per i 15 maggiori settori di attività economica degli Usa, lo studio elabora tre indici complessivi dai quali si desume che dal 1965 ai livelli pre crisi il ROA era complessivamente caduto addirittura  del 75%, malgrado una produttività crescente e, negli ultimi 15 anni, sostanzialmente da record per gli Stati Uniti.  Tutto ciò mentre l’economia americana diventava molto più competitiva e concorrenziale, vedi questa chart che dà immediatamente l’idea di come l’indice Herfindahl-Hirschman – che misura la concentrazione sul mercato – sia diminuito addirittura di più del 50%. Questa altra chart mostra invece come nei 4 decenni alle nostre spalle si sia elevato del 60% l’indice che misura  l’intensità di cambiamento del ROA per le imprese. Tradotto in termini terra terra, significa due cose: sforzi più erculei per le imprese per evitare di perdere posizioni ed essere scalzate, e maggior volatilità collegata a stress finanziari.

Il tema della competitività americana è comunque centrale per il recupero della capacità di consumo Usa in tempi ragionevolmente brevi: attualmente stiamo assistendo a una compressione dei consumi pari all’11-12% del reddito disponibile in un anno, col passaggio da consumi finanziati a debito per tre punti in più del reddito disponibile a una propensione al risparmio che in pochi mesi ha raggiunto l’8%, e se questo andamento è positivo perché indica un rapido riallineamento della sostenibilità del debito privato, in queste proporzioni significa che per gli Usa tornare ad assorbire beni prodotti in tutto il resto del mondo per un bel pezzo resterà un’utopia, con conseguenze sul commercio mondiale che per noi italiani sono disastrose. Se comunque leggete il report della Deloitte, vedrete che la lettura delle due chart porta alla conclusione, largamente ottimistica e che per un decennio è andata per la maggiore, che la compressione del 75% del ROA concomitante al più che raddoppio della concorrenza interna ha significato  che il minor ritorno sul capitale fisso si è tradotto in una massiccia doppia traslazione, a vantaggio di prezzi più bassi per i consumatori e di remunerazioni più elevate, cioè per l’input rappresentato dalla “classe creativa” che sviluppa i drive di crescita.

Solo che se ci si limita a questo si coglie una versione a tinte rosa della realtà: gli arricchimenti dei giovani creatori delle dot.com, Google e via proseguendo, erano e sono comunque una porzione assai minoritaria, del più del monte utili riversato in bonuses, fees e varie forme di retribuzioni di compartecipazione totalizzati dai manager e quadri del solo settore dell’intermediazione finanziaria, giunto a rappresentare oltre il 40% del totale del monte utili delle società quotate Usa, mentre l’apporto alla generazione di valore aggiunto nazionale era di poco superiore al 10% (fenomeno che potentemente si rimette in moto in Goldman, che col ritmo del primo semestre avrà accumulato a fine 2009 oltre 22 bn $ – ! – da destinare a retribuzioni premiali). Di fronte a questo esito, la tentazione del krugmaniano-keynesiano è di gridare contro l’eterno greed dei banchieri, e invocare draconiani criteri centralizzati al fine di contenere i parametri delle compensazioni straordinarie. Con tutto il rispetto, sono balle. anche se popolari. Il problema degli schemi retributivi è unicamente che essi siano chiari e dichiarati ai soci di minoranza, per evitare problemi di agenzia cioè collusioni tra chi esercita il controllo e manager:  per il resto, ogni intermediario dovrebbe essere libero di organizzarsi come crede.

Il punto vero è invece quello rappresentato dal fattore più potente, che ha esacerbato negli anni alle nostre spalle la correlazione inversa tra ROAs in diminuzione e yields perseguti sempre più alti. La politica monetaria lasca, cioè un tasso d’interesse più basso a breve rispetto a quello che dovrebbe essere, seguendo norme prudenziali pre dichiarate al mercato come la legge di Taylor, è il più potente fattore di  abbassamento del ROA, e al contempo, accompagnandosi a ingente liquidità monetaria a basso costo, potentemente induce gli intermediari finanziari venditori, come tutti i loro clienti acquirenti di financial assets per tenere alta la remunerazione del capitale altrimenti bassa, ad assumersi rischi crescenti.

E’ un tema trattato per esempio in un bel paper appena pubblicato, di Alberto Giovannini, Stefan Gerlach e Cédric Tille. E tuttavia anche le conclusioni dei tre economisti NON sono da condividere, per chi la pensa come noi. Venendo al punto della relazione tra bassi ROAs e ricerca crescente di high yields, escludono esplicitamente che la causa vada ricercata nel fattore politica monetaria, e invocano invece una iper regolazioen di “ogni” tipo d’intermediario finanziario a cominciare dagli hedge funds, perché a prescindere dai depositi dei risparmiatori il criterio da assumere come centrrale è che la macrostabilità può essere attentata da qualunque tipo di intermediario, basta che sia troppo grosso. E dunque tutti vanno riregolati , tra ratios patrimoniali, schemi di compensazione ai manger.

Politiche monetarie più rigorose e meno discrezionali da una parte, ratios patrimoniali anticiclici e più severi per le banche commerciali nei tempi di vacche grasse, indicazioni ex ante ri-gi-dis-si-me chi avrà diritto ai fondi FED e FDIC per evitare fallimenti e su tutti gli altri che invece vedranno l’equity azzerato se sbagliano a prender rischi: in buona sostanza, il buon miltonfriedmaniano si accontenterebbe di questo.  Niente a che vedere con la letteratura iper regolatoria che si accumula di giorno in giorno sulle scrivanie dei politici. Vedremo che cosa ne penserà la commissione d’indagine bipartisan sulla Grande Crisi appena nominata dal Congresso, con poteri di subpoena a analoghi a quella che investigò sul disastro dell’intelligence del’11 settembre 2001. La politica americana si aspetta qualcosa di analogo alla grande indagine senatoriale guidata da Ferdinand Pecora sulla crisi del 29,  indagine i cui lavori portarono poi alla creazione della SEC, della FDIC e al Glass-Steagall Act. Ma c’è molto da temere, col ciarpame intellettuale diffuso a piene mani da chi dice che quel che è avvenuto è colpa del mercato e dell’avidità che gli è congeniale.

]]>
/2009/07/17/low-return-on-assets-versus-high-yields-push-come-se-ne-esce/feed/ 2