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Posts Tagged ‘produttività’

Sindacato per meno tasse? Evviva!

13 settembre 2010

Domattina dedico la “versione di oscar” su radio24 all’annuncio venuto oggi da Cisl e Uil: le due confederazioni riuniranno congiuntamente le segreterie il 15 settembre, per varare una piattaforma di riduzione delle tasse, e scenderanno in piazza per questo il 9 ottobre. Lo dico prima di entrare nel merito delle loro proposte, prima di conoscerle in dettaglio anche se le immagino: dico e grido evviva. Evviva anche se magari dirò nel merito che è troppo poco e troppo tardi. Ma un evviva netto e chiaro. Non solo perché qualunque alleato per la riduzione della schiavitù fiscale è ben accetto. Ma perché il sindacato notoriamente nella storia italiana è un alleato potente. E se finalmente il sindacato si smuove dal solo mantra della lotta all’evasione per destinare più risorse ancora alla spesa pubblica ma – immagino – alla lotta all’evasione che resterà affianca finalmente anche richieste di riduzioni delle imposte, allora vuol dire che finalmente anche il lavoro dipendente comincerà a sentirsi dire da chi – ci piaccia o meno è altro discorso – lo rappresenta, che pagare le tasse NON è bellissimo, e quando poi le tasse sono abnormi è osceno. Non solo perché in cambio lo Stato offre quel che sappiamo. Ma perché più alte sono le tasse, maggiore è l’ingiustizia e l’inefficienza. E poiché nel nostro Paese le tasse sono altissime sia sul lavoro sia sull’impresa, è su entrambe che devono scendere per diminuire ingiustizia e inefficienza. Se avete dubbi, vi invito a leggere questo paper. E’ assolutamente illuminante. Lo ha scritto Richard Rogerson, fellow dell’American Enterprise.

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Oscar Giannino Mercato del lavoro, Senza categoria, Stati Uniti, fisco, ue, welfare , , , , , ,

Bassa produttività, lo schiaffo che ci affoga

3 agosto 2010

Devono fare riflettere, i dati sulla bassa produttività italiana resi noti oggi dall’Istat. Tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7%. Ma nopn è questione di cruisi, è un problema che viene da lontano. Nell’intero arco trentennale tra il 1980 e il 2009 è cresciuta solo dell’1,2% annuo. La Banca d’Italia evidenzia che nei 10 anni precedenti la crisi, la produttività per ora lavorata è salita del 3% in Italia contro il 14% dell’area euro. Confindustria, alla sua assemblea nazionale di maggio, ha ricordato che, nell’industria manifatturiera, tra l’avvio dell’euro e il 2007, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto in Italia del 19%, mentre si è ridotto del 7,5% in Francia e del 9,8% in Germania. Abbiamo ceduto ai tedeschi ben 32 punti di competitività. Le ragioni di questa bassa produttività sono molteplici. Ma una strada per uscirne ci sarebbe, a volerla percorrere. Cioè cambiando la testa. Prosegui la lettura…

Oscar Giannino Mercato del lavoro, macroeconomia , ,

Ripresa, infrastrutture, Italia e rebus Cina

28 dicembre 2009

Una delle voci che più contribuiranno alla ripresa mondiale, dicono l’OCSE e molti report di banche d’investimento, è quella delle infrastrutture. Ho provato a sintetizzare un vasto pacco di recenti previsioni, da Goldman Sachs a Credit Suisse. Nel farlo, ancora una volta ci si rende conto che Usa, Eu ed Asia marceranno a ritmi diversi. Noi, poi, come Italia intendo, a ritmi sicuramente inferiori agli altri.  Ma partiamo dalla domanda essenziale: quando la domanda di infrastrutture realizza picchi verso l’alto? Storicamente, per quattro ragioni molto diverse. Prosegui la lettura…

Oscar Giannino Città, commercio mondiale, energia, finanza, macroeconomia, telecomunicazioni, trasporti ,

La crisi, le nubi persistenti, Friedman e le riforme

28 dicembre 2009

Il paper Bankitalia sui 100 trimestri di regresso della produzione industriale italiana sui 12-13 di Francia e Germania – di cui ha ottimamente scritto oggi Mario Seminerio – mi induce a qualche considerazione sul 2010, la crisi e l’uscita dalla medesima. Milton Friedman alla fine dei suoi anni amava ripetere che quanto più nella storia americana erano state severe le recessioni, tanto più vigorosa era stata la ripresa che ad esse era succeduta. Se tendete un elastico, più lo tirate più al rilascio la forza accumulata sarà in grado di svolgere un lavoro maggiore, diceva il grande liberista. L’elastico ideale della sua metafora è naturalmente la domanda, la somma cioè della spesa di famiglie, aziende, stranieri e governo. Alla forte ripresa della spesa, le risorse economiche tendono al pieno impiego, cresce la forza lavoro occupata, il capitale si accumula e la tecnologia avanza, in un processo espansivo che di volta in volta porta più avanti il proprio limite. Poiché ogni recessione spinge tendenzialmente l’offerta al di sotto dei livelli di contrazione della domanda, all’arrivo della ripresa l’economia può crescere a un tasso maggiore di quello normale, finché non raggiunge almeno il punto che avrebbe toccato se la crisi non ci fosse stata. Senonché – mi duole molto riconoscerlo, per me è un maestro – la tesi di Friedman non è sempre vera. Rischia di non esser vera questa volta, o almeno non egualmente per le tre macroaree mondiali, Usa, Ue, Asia. Prosegui la lettura…

Oscar Giannino Mercato del lavoro, commercio mondiale, fisco, macroeconomia, ue , , , , , ,

La sfida dei servizi per crescere di più

24 novembre 2009

La sfida per l’Italia è riprendere a crescere senza scassare la finanza pubblica. Ora che il commercio internazionale ha ripreso lentamente a salire, altri Paesi stanno cambiando marcia. Per procedere più spediti sulla strada della ripresa. In questa nuova fase, dobbiamo cambiare marcia anche noi, ha detto oggi Emma Marcegaglia agli industriali di Roma. Ma la sfida è di non aumentare il debito pubblico. Solo tassi di crescita più elevati possono nel medio periodo stabilizzare il debito pubblico, tornare nel tempo a farlo decrescere, rendere meglio sostenibili i conti previdenziali, altrimenti nuovamente destinati ad aggravarsi. Ma come? Prosegui la lettura…

Oscar Giannino fisco, liberismo, mercato, privatizzazioni , , ,

Disoccupazione, che fare?

5 settembre 2009

Negli Stati Uniti ferve un dibattito che da noi è molto più in sordina, quello della ripresa senza occupazione. Per esempio stamane era il titolo di due diversi editoriali, del New York Times e del Wall Street Journal. Certo, negli Stati Uniti il dibattito è potentemente aiutato dal fatto che le rilevazioni statistiche sono più frequenti e meglio impostate tecnicamente. Di settimana in settimana viene per esempio aggiornato il numero delle prime richieste di trattamento di disoccupazione, che dalla prima settimana di luglio a oggi è rimasto drammaticamente ancorato intorno a circa 570mila nuove unità. Da noi, simili rilevazioni e tanto frequenti non esistono. Idem dicasi per i diversi aggregati attraverso i quali misurare la disoccupazione per componente – il 9,7% di disoccupati USA in agosto corrispondono al 13% per gli ispanici, al 15% per gli afroamericani, al 25,5% per la componente sotto i 20 anni; ai 26 milioni di americani oggi che non riescono a trovare un lavoro full time bisogna aggiungere un altro 7% di scoraggiati a cercarlo, cioè altri 17 milioni.  Ma non è solo per l’inadeguata monitorazione statistica che qui in Italia il dibattito stenta a decollare. Perché bisognerebbe avere il fegato di dire alcune amare verità. Del tipo: una verticale impennata della disoccupazione potrebbe essere l’altra faccia della medaglia per imprese che, nella crisi, ristrutturino con decisione i propri prodotti e i propri processi, mettendosi prima e meglio nelle condizioni di potersi meglio riposizionare al ripartire della domanda (nel caso italiano, soprattutto di quella estera, perché è nelle manifatturiere esportatrici che si concentra la crisi double digit di fatturato e ordinativi). Al contrario, difendere a tutti i costi la base occupazionale precrisi può essere anche foriero di minori tensioni sociali, ma significa anche che non attuano ristrutturazioni: la produttività resta inchiodata oggi e per il domani. Ancora più grave, in un paese come il nostro che negli ultimi anni, grazie alla maggior flessibilità del mercato del lavoro dalla legge Treu in avanti, ha scelto di estendere la base degli occupati quasi sempre a scapito della produttività.   Prosegui la lettura…

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Produttività Usa a manetta: l’esatto opposto che da noi, recessione comunque

11 agosto 2009

È assolutamente ovvio che i listini americani oggi non abbiano particolarmente brillato, dopo i dati preliminari sulla produttività americana nel secondo trimestre rilasciati oggi dal Dipartimento del Lavoro. Eppure sono numeri, in apparenza, tali da stappare champagne. Cerchiamo allora di tradurli, visto che confermano in pieno – purtroppo – quanto stiamo scrivendo su questo blog da settimane.

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Cassa-Sud bis? Che cosa dicono i dati

1 agosto 2009

Alluvionali interviste sulle nuove misure accennate dal governo per tacitare la protesta del Sud emersa con forza nelle file della PdL. Dico “accennate” perchè al momento ci sono i 4,2 miliardi sbloccati dal CIPE per infrastrutture alle Regioni meridionali, ma quanto alla nuova cabina di regìa e a un nuovo ente incaricato di concentrare e coordinare gli investimenti nel Mezzogiorno, se ne riparlerà a settembre. Dopo altre chiacchiere ferragostane. Alle ciàcole, una classe dirigente serie dovrebbe preferire analisi quantitative,  le risultanze dei tanti studi che abbiamo accumulato negli anni sul fenomeno “investimenti pubblici nel Mezzogiorno”, e sulle conseguenze reali esercitati su Pil procapite e produttività. Non vi annoio, chi non vuole approfondire può fermarsi alla conclusione: di capitale pubblico nel Sud ne abbiamo riversato per punti e punti di Pil, ma gli effetti di crescita sono clamorosamente mancati.  Per chi volesse, invece, alcuni dati. Su tre domande. È penalizzato, il Sud? Che effetti ha, il denaro pubblico sulla produttività? Chi spende peggio, al Sud? Più due conclusioni, sul da farsi.

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Low return on assets versus high yields push: come se ne esce?

17 luglio 2009

Goldman Sachs e Jp Morgan escono con le loro trimestrali come le vere vincenti del credito americano post aiuti di Stato, e l’analisi dei loro risultati conferma che – grazie al fatto di essere state più prudenti nell’andare “corte” da metà 2007 a settembre 2008 sulle colossali nozionali di securities sintetiche che negli anni precedenti avevano loro fruttato utili stellari affettandole, reimpacchettandole e rivendendole in tutto il mondo - oggi possono meglio delle concorrenti assumersi di nuovo elevati rischi nel trading properties, massimizzando aiuti del Tesoro e oceanica liquidità.  M’interessa assai poco seguire i toni alla Grillo di Paul Krugman, nel commentare tale fenomeno. Serve di più una fredda analisi sistemica. Da dove nasce, la relazione asimmetrica tra basso return on assets e spinta verso high yields? Quali responsabilità implica per il regolatore? Se bisogna uscirne e cioè occorre attenuarla- e dico “se” –  come e che deve farlo al meglio? Le domande centrali sono queste, se vogliamo pensare a un’intermediazione finanziaria meno proclive a instabilità sistemica (il che non dovrebbe esimere noi europei dall’occuparci delle 30 banche continentali tra grandi e grandissime che attendono di essere ristrutturate dopo i salvataggi, come ha detto oggi Neelie Kroes per mascherare la sostanziale impotenza in materia della Commissione europea; né continuare a far finta di nulla di fronte all’accumulo tossico che resta nelle banche del Paese leader, la Germania, a fronte dell’aggravarsi della crisi bancaria nell’area baltica, vedi oggi i disastrosi risultati annunciati da Swedbank). Sono domande che ci riportano alla responsabilità del regolatore monetario, e a quella dei criteri di supervisione.  La risposta non “unisce” affatto: anzi, per chi la pensa come noi, divide e anche profondamente, dal mainstream che riecheggia oggi nei fori internazionali.

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