CHICAGO BLOG » privatizzazione http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Bp. L’epilogo /2010/09/26/bp-lepilogo/ /2010/09/26/bp-lepilogo/#comments Sun, 26 Sep 2010 09:24:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7148 Ora che “quel maledetto buco” è stato ufficialmente tappato, è il momento di interrogarsi sulle cause dell’incidente, e sull’eredità che esso ci lascia. Due post sul mio blog energetico preferito aiutano a porre la questione in una prospettiva “ampia”, astraendo per un attimo dal redditizio business delle compensazioni, e guardando alla lezione di Macondo. Dunque, cosa è andato storto?

L’esplosione nella piattaforma Deepwater Horizon ha una serie di cause prossime: la sfiga e la cultura industriale di Bp, anzitutto. Ma ha anche cause remote che hanno creato un humus fertile perché le cause prossime scatenassero il disastro.

Partiamo da due situazioni estreme: nella situazione A la proprietà del sottosuolo (e delle risorse minerarie in esso contenute) è “pubblica”, nella situazione B è ”privata” (non mi interessa definire come e chi ne ha diritto allo sfruttamento, è sufficiente che sia un soggetto privato e che i suoi diritti siano chiari e riconosciuti da tutti). Nella situazione A mi aspetto fenomeni di sovra- o sotto-sfruttamento, dovuti al fatto che il governo ritiene di dover spremere la rendita mineraria oppure, all’opposto, che pensa che non sia opportuno turbare l’ecosistema con le trivelle. In entrambi i casi il risultato è socialmente inefficiente. Nella situazione B, invece, mi aspetto che le risorse vengano sfruttate nella misura in cui ciò è conveniente (dati i prezzi relativi delle risorse minerarie e dei beni ambientali, naturali e paesaggistici che, per estrarle, possono essere compromessi). Guillermo Yeatts, già manager di diverse imprese attive nella filiera petrolifera e autore dello splendido Subsurface Wealth: The Struggle for Privatization in Argentina, spiega molto bene i vantaggi di B rispetto ad A. Da un lato, in A la rendita mineraria viene sovente utilizzata per puntellare regimi corrotti e dittatoriali, mentre beneficia poco e/o male le popolazioni direttamente coinvolte dalle attività estrattive. In B, è vero il contrario. Incidentalmente, questa è la ragione per cui la scoperta di un giacimento è un dramma sociale con tinte da Guerra di Troia nella foresta Amazzonica, mentre è una bella notizia, chessò, in Oklahoma. Dove le risorse minerarie sono di proprietà pubblica, l’intero beneficio è catturato dal governo e dalle sue clientele (senza contare che i mezzi di produzione sono normalmente inefficienti). Dove invece esso è privato, il benessere tende a estendersi in un clima di relativa pace sociale.

Cosa c’entra tutto questo con Bp? In fondo, ho appena scritto che gli Usa sono più simili a B che ad A. In realtà, come spiega Rob Bradley, un po’ perché l’estensione delle terre di proprietà pubblica è enorme, un po’ perché le aree offshore ricadono sicuramente (attraverso concessioni e altre diavolerie) in questa categoria, un po’ perché la regolamentazione ha fatto il resto, negli stessi Stati Uniti è in atto un processo di surrettizia “pubblicizzazione delle risorse minerarie”. In questo contesto, il ruolo del governo centrale e del Bureau of Ocean Energy Management (l’ex Minerals Management Service) diventa sempre meno di regolazione tecnica, e sempre più di pianificazione centrale. Quel maledetto buco non ci ha lasciato solo un costoso bando sulle trivellazioni offshore: lascia anche una mole di regolamentazione in crescita, che rischia di andare ben oltre la definizione di requisiti di sicurezza più o meno stringenti (che può incentivare o disincentivare l’assunzione di rischio minerario, aumentando o riducendo i costi di ingresso, ma almeno è relativamente meno distorsiva e relativamente meno arbitraria).

Come spesso accade, insomma, la risposta a un disastro è irrazionale e sbagliata: anziché rimuoverne le cause, essa finisce per ingigantirle. Di fatto, il modo in cui l’amministrazione Obama (e altri governi in giro per il mondo) sta gestendo la faccenda lascia prevedere che, se nell’immediato avremo un giro di vite sulla ricerca ed estrazione petrolifera e quindi una produzione subottimale nei paesi Ocse, nel lungo termine potremmo incrementare il disallineamento tra gli incentivi delle compagnie petrolifere e gli interessi “pubblici” (comunque definiti). E avremo una maggiore dipendenza delle decisioni di investimento dal parere, variamente definito e variamente raggiunto, degli uffici pubblici, con l’inevitabile creazione di azzardo morale (se ho tutte le carte bollate a posto, posso fare cose che altrimenti non farei).

Ci troviamo, cioè, di fronte a un doppio effetto Peltzman: c’è un effetto Peltzman “di primo ordine” in virtù del quale imprese e governi reagiranno ai bandi occidentali spostando produzioni e investimenti nei paesi da cui, ogni giorno e ogni ora del giorno, si dice dovremmo dipendere di meno (non lo dico io, che non me ne frega niente: rilevo che quelli che diventano isterici per il petrolio iraniano e il gas russo, non dovrebbero sostenere bandi e vincoli sulle risorse Ocse…). Poi, c’è un effetto Peltzman di second’ordine in virtù del quale chi ottiene permessi si sentirà “blindato” e dunque agirà prestando relativamente meno attenzione ai rischi reali, e relativamente più attenzione agli obblighi burocratici (come è in parte successo a Bp, in fondo, seppure con una serie di aggravanti).

In breve, per minimizzare la probabilità di incidenti spiacevoli bisognerebbe privatizzare in senso proprio le risorse minerarie (cioè il sottosuolo), ridurre le regolamentazioni alla mera definizione di standard tecnici operativi, e cancellare ogni norma che possa collettivizzare i rischi (come il ridicolo limite alla responsabilità civile delle compagnie petrolifere).

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Lo spezzatino indigesto di Tremonti /2010/09/14/lo-spezzatino-indigesto-di-tremonti/ /2010/09/14/lo-spezzatino-indigesto-di-tremonti/#comments Tue, 14 Sep 2010 09:56:59 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7037 Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si è recentemente lamentato delle privatizzazioni all’italiana. In particolare, ha detto:

L’apparato produttivo del Paese ha perso la sua massa critica. Ci devono spiegare perche’ le privatizzazioni sono state fatte cosi’. Lo ’spezzatino’ indica quali erano gli appetiti… L’unica struttura dimensionale all’altezza la conservano i gruppi che sono ancora dello Stato. Mi chiedo a cosa sia servito, ad esempio, lo spezzatino dell’Enel, mentre la Francia oggi puo’ contare in questo settore su un colosso di dimensioni internazionali.

A parte che, l’ultima volta che ho controllato, l’Enel – sia pure spezzatinata – aveva ancora lo Stato come azionista di controllo, forse il ministro non si è accorto di alcuni, trascurabili risultati che sono stati raggiunti negli ultimi anni.

Anzitutto, la storia. Enel nasce nel 1962 con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e assorbe tutta la pluralità di operatori privati allora esistenti. Sopravvivono solo un pugno di municipalizzate. Rimane un ente di Stato fino al 1992, quando viene trasformata in società per azioni (il cui capitale è interamente nelle mani del Tesoro). Gli anni fino al 1998 sono un periodo di profonda riorganizzazione, durante i quali la trasformazione da “ministero” a società deve prendere, e prende, sostanza. Sono anche gli anni in cui matura il progetto (poi abortito) dell’Enel “multiutility”, ma questa è una storia diversa (e sovrapposta). Contemporaneamente, il paese inizia a dotarsi degli strumenti richiesti dalle direttive europee in vista della liberalizzazione: la stessa Autorità per l’energia diventa operativa nel 1997, sotto la guida di Pippo Ranci.

La svolta è però nel 1999, quando il decreto Bersani apre formalmente il mercato alla concorrenza, imponendo tra l’altro un tetto antitrust del 50 per cento alla quota di mercato dell’Enel. Da qui nasce l’esigenza dello spezzatino: esso viene fatto per “liberare” i consumatori dal monopolio. L’effettiva libertà di scelta è ancora lontana, ma il frutto non può essere distinto dall’albero. E alle radici dell’albero c’è questa scelta che è virtuosa e, come vedremo, conveniente. Ma, prima ancora dello spezzatino, Enel viene quotata in borsa. Questo è l’inizio della “privatizzazione”: l’anno è il 1999, cioè l’anno del decreto Bersani, l’anno in cui lo Stato deve far tornare i conti per entrare nell’euro, l’anno in cui tutte le decisioni successive vengono, se non prese, almeno impostate.

Lo spezzatino si sostanzia col conferimento di un pacchetto di centrali a tre GenCo – Eurogen, Elettrogen, Interpower – attraverso le quali Enel aliena circa 15.000 MW di potenza. Teoricamente i tre portafogli vengono composti in modo “equo”, cioè in modo tale da non mantenere i gioielli nel recinto Enel e le carrette al di fuori. Non sempre le ciambelle riescono col buco, e non tutti i buchi sono delle dimensioni adatte, ma – ancora una volta – il meglio è nemico del bene e qui, indubbiamente, di bene stiamo parlando. I primi acquirenti delle Genco sono, rispettivamente, Edipower (2002), un consorzio tra Endesa Italia e Asm Brescia (2001), e un consorzio tra Acea ed Electrabel-Suez (2002). Successive riorganizzazioni societarie, e soprattutto l’incredibile e (per quel che ne so) senza precedenti ondata di investimenti che dopo il 2003 ha rinnovato gran parte della flotta esistente ha infine plasmato il mercato e determinato la struttura dei principali attori. Una sorta analoga segue la rete di trasmissione nazionale, conferita inizialmente a una società del gruppo Enel (Terna) e gestita da un organismo pubblico (il Grtn): il sistena troverà la sua razionalità nel 2004, con l’alienazione di Terna e la sua “privatizzazione” e la conseguente unificazione di proprietà e gestione. Anche qui, l’ultima volta che ho controllato Terna aveva lo Stato come azionista di controllo. Sempre l’ultima volta che ho controllato, negli anni in cui tutto questo avveniva (2001-2004) il presidente del consiglio era Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia era Giulio Tremonti, che nella sua “lettera d’addio” (quando a Via XX Settembre fu sostituito da Domenico Siniscalco) rivendicò i risultati raggiunti:

nel periodo in cui ho avuto l’onore di servire il Paese come ministro dell’Economia nel governo Berlusconi, l’Italia ha operato circa un terzo delle privatizzazioni operate in tutto il mondo, in pari periodo, e ha centrato il record europeo delle privatizzazioni.

(Hat tipo: Goffredo Galeazzi).

Il resto non è storia ma cronaca, o qualcosa che sta nel mezzo. Enel è cresciuta sana e robusta (seppure indebitata per l’importante campagna di acquisizioni) e oggi si definisce ”una multinazionale dell’energia”: non sono sicuro che, potendo scegliere tra l’essere azionista di Enel o di Edf (il presunto esempio positivo nella citazione iniziale di Tremonti), il ministro dell’Economia preferirebbe il gruppo francese. L’apparente paradosso è che, contemporaneamente, sono cresciute sia Enel, sia i concorrenti, tanto che oggi esistono almeno cinque gruppi di grandi dimensioni nella generazione elettrica (Enel, Edison, Eni, Edip0wer, E.On) e svariati altri di dimensioni medie o piccole.

La privatizzazione e lo spezzatino si sono sviluppati di pari passo con la progressiva apertura del mercato, che dal 1 luglio 2007 riguarda tutti i consumatori, compresi quelli domestici. Come spieghiamo nell’Indice delle liberalizzazioni, il mercato ha così raggiunto un grado di apertura dignitoso sia in assoluto, sia rispetto ai benchmark più sfidanti (nel nostro caso, la Gran Bretagna). Con o senza benefici per i consumatori? La risposta sta non solo nei risultati raggiunti in termini di “switch” (cioè l’effettiva mobilità dei consumatori) che non sono disprezzabili, ma anche e soprattutto nel mutamento generale che privatizzazione e liberalizzazione e spezzatino hanno imposto al settore. Il bilancio di questi anni sta nella presentazione della relazione annuale del Presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis:

A questi fini serve pure completare e sostenere le liberalizzazioni e le regolazioni che hanno già garantito risultati importanti: nel settore elettrico del nostro Paese, ad esempio, una riduzione di oneri stimabile in più di 4,5 miliardi di euro all’anno, rispetto al 1999. A questo dato ha contribuito, per il 40%, la riduzione di componenti tariffarie regolate e, per il 60%, la pressione competitiva che ha indotto investimenti per impianti nuovi e più efficienti.

Ciascuno è libero di valutare autonomamente questi dati – se siano positivi o negativi, meglio o peggio di quanto si attendeva – ma sarebbe sbagliato ignorarli. E’ appena il caso di osservare che, nonostante l’aumento esponenziale dei prezzi dei combustibili nel periodo pre-crisi, i prezzi dell’energia elettrica in Italia sono restati (in termini reali) costanti o moderatamente crescenti, e ciò per effetto proprio della cornice competitiva che è stata creata. Dunque, per tornare al punto di partenza, è difficile sostenere che la somma di privatizzazione, spezzatino e liberalizzazione abbia penalizzato l’Italia. E sarebbe ingeneroso pensare che la sola liberalizzazione, senza la (parziale) privatizzazione e senza lo spezzatino, avrebbe sortito risultati altrettanto significativi in così poco tempo. Chi è sfiorato da questo dubbio, dovrebbe chiedersi perché nulla del genere si sia verificato nel contiguo settore del gas, dove – a una liberalizzazione formale – non ha corrisposto il tentativo di “smontare” il monopolio dando respiro alla concorrenza (in parte, va riconosciuto, perché i fondamentali del business sono diversi: ma non così diversi da impedire un’evoluzione parallela). Questo non significa che tutto va bene: significa che tutto va meglio (e potrebbe andare ancora meglio se applicassimo, con più convinzione, gli insegnamenti di questo decennio). Per usare una formula abusata, rovesciandola, molto resta da fare, ma molto è stato fatto. Con errori e ingenuità, ma nondimeno nella direzione giusta e con conseguenze concrete.

Il ministro Tremonti ci ha abituati al suo gusto per la provocazione, ma la provocazione non può prescindere da una base fattuale che, nel caso in questione, esiste, è facilmente accessibile e si suppone sia nota al responsabile dell’Economia, quanto meno nella sua veste di azionista di Enel (e percettore di dividendi forse perfino troppo lauti). Dunque, la domanda di Tremonti non è retorica. Il ministro si chiedeva “a cosa sia servito… lo spezzatino dell’Enel”. E’ servito a creare un’azienda seria, un mercato che funziona abbastanza bene, e un sistema elettrico che non ha nulla da invidiare, e molto da insegnare, ai competitor europei.

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Acqua: sostenibilità, efficienza e solidarietà. Di Emiliano Massimini /2010/04/29/acqua-sostenibilita-efficienza-e-solidarieta-di-emiliano-massimini/ /2010/04/29/acqua-sostenibilita-efficienza-e-solidarieta-di-emiliano-massimini/#comments Thu, 29 Apr 2010 07:50:38 +0000 Guest /?p=5810 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Emiliano Massimini, capo della segreteria tecnica del ministro delle Politiche comunitarie, Andrea Ronchi. Sul tema sono intervenuti in passato Carlo Stagnaro e Federico Testa.

Il problema della “privatizzazione” dell’acqua è mal posto. L’acqua è pubblica e l’attribuzione della qualifica contenuta nella legge Galli è stata determinata dalla necessità di attribuire alle acque sotterranee la qualità di pubbliche, per qualificare il reato d’inquinamento della immissione in falda di agenti inquinanti e, in tal modo, prevenire l’inquinamento delle sorgenti.

L’acqua non può essere utilizzata per soddisfare gli interessi della collettività se non incanalata e così trasportata alle utenze. Tale stato di fatto richiede:

-           Un piano generale degli acquedotti

-           La predisposizione di una rete di distribuzione

-           La individuazione degli obblighi di mantenimento della rete e l’attribuzione della  competenza per gli interventi

-           Un protocollo relativo alla qualità della fornitura, da modulare in relazione alle esigenze dell’utenza

-           La quantificazione dei costi per l’emungimento, il trasporto, la distribuzione e la potabilizzazione

-           La determinazione delle modalità di gestione della rete e della distribuzione

-           La determinazione della tariffa per la fruizione della risorsa, che deve essere predisposta in relazione alla scelta politica di coprire quantomeno il costo industriale della captazione, del trasporto, della distribuzione, del recupero e della manutenzione degli impianti fissi.

L’acqua, come risorsa naturale, è componente dell’ambiente e, come tale interagisce con ogni componente dell’ambiente medesimo e, in particolare, con i fattori inquinanti e, a sua volta, non deve essere portatrice di inquinamento. Per tale motivo, l’acqua come risorsa naturale deve essere gestita secondo criteri di sostenibilità, di efficienza e di solidarietà.

Il cosiddetto decreto Ronchi disciplina le modalità di erogazione del servizio di distribuzione e di gestione della rete. Non esistono disposizioni normative che esonerino l’utente dal pagamento della fornitura idrica.

Tutto ciò comporta la necessità di prevedere:

-           Un controllo sull’uso dell’acqua secondo criteri di sostenibilità, efficienza e solidarietà

-           Un controllo sulla rispondenza della fornitura alle norme di efficienza del servizio

-           Un modello di atto di concessione della gestione del servizio e della rete che assicuri la trasparenza dei rapporti tra concedente e concessionario, l’obbligo del concessionario di garantire un servizio rispondente alle regole di qualità previste dall’ente preposto al controllo della fonte acquifera in relazione alle individuate esigenze degli utenti.

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A proposito di acqua e servizi pubblici locali. Di Federico Testa /2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/ /2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/#comments Sat, 24 Apr 2010 08:22:02 +0000 Guest /?p=5750 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Federico Testa, economista e deputato Pd. In risposta ai dubbi avanzati ieri da Carlo Stagnaro, Testa esprime le ragioni di perplessità sul decreto Ronchi.

Il tema dei servizi pubblici locali è certamente complesso, lo dimostrano anche i tentativi di intervenire fatti nel passato e non sempre riusciti. Quando si parla di servizi pubblici locali si parla di servizi che vanno a soddisfare bisogni fondamentali della collettività, pertanto è importante, da un lato, lavorare per un approccio organico -e l’articolo inserito in un decreto-legge che parla d’altro non rappresenta certamente un approccio organico- ma è anche importante capire cosa si mette al centro.


Io credo che, se si vuole affrontare correttamente questo tema, al centro sia doveroso mettere il cittadino e il suo diritto ad avere servizi di buona qualità ad un prezzo corretto, il minimo possibile.

Da questo punto di vista, quando si ragiona di questo tema, il primo punto su cui bisogna confrontarsi  è sempre quello privatizzazione-liberalizzazione, perché la teoria ci dice che bisogna prima liberalizzare e poi privatizzare, altrimenti  si corre il rischio o di trasferire una rendita di monopolio dal pubblico al privato.

In questo senso, quello che a me pare manchi nel recente decreto legge su cui il Governo ha posto la fiducia, sono interventi seri proprio sul fronte delle liberalizzazioni. Ma cosa non ha funzionato nelle liberalizzazioni in Italia? Non ha funzionato, ad esempio, tutto il tema delle gare: molto spesso abbiamo a che fare con gare che sono assolutamente non vere e ciò dipende anche dal fatto che i soggetti che sono chiamati a bandire le gare, da un lato, non hanno le competenze per poterlo fare, dall’altro, molto spesso sono in palese conflitto di interessi rispetto chi si aggiudicherà la gara stessa.

Inoltre, vi è la questione dell’autorità di regolazione, nel senso che la concorrenza perfetta non è uno stato naturale del mercato; le imprese vanno alla ricerca di un vantaggio competitivo nei confronti delle altre, e quindi là dove lo si ritenga opportuno, bisogna realizzare interventi affinché la concorrenza venga mantenuta.

Il Governo, con il recente provvedimento, ragiona al contrario, ossia pone vincoli molto rigidi in tema di privatizzazione, e quindi l’effetto che si ottiene pare essere prevalentemente quello, diciamo così, di “spartire” la rendita di monopolio del pubblico con qualche privato, il tutto senza alcun vantaggio certo e chiaro per i cittadini e per i consumatori. Questo è reso evidente dal fatto che le concessioni in house vanno a scadenza purché nel soggetto pubblico che ne è titolare entri il privato almeno per il 40 per cento. Quindi, in questo modo, invece di stabilire di bandire una gara, visto che si tratta di una concessione in house e che magari chi ha vinto la gara poteva non essere il soggetto che dava la migliore qualità e il miglior prezzo ai cittadini, si prevede di fare entrare un privato e questo, di per sé, sana la questione.

L’approccio al tema, invece, dovrebbe essere profondamente diverso: occorre mettere al centro i consumatori sapendo che si deve tra l’altro affrontare –in tema di ciclo idrico- una questione delicatissima, che è quella degli investimenti che bisogna effettuare nel nostro Paese, in quanto il dato di oltre il 35 per cento di perdite degli acquedotti in Italia è purtroppo realistico.

Occorre, dunque, fare investimenti e che questi siano finanziati: sia che li faccia il pubblico, sia che li faccia il privato, gli investimenti devono avere una sostenibilità finanziaria. Se il finanziamento è a carico della fiscalità generale, dobbiamo avere il coraggio di andare a dire che la fiscalità generale probabilmente deve crescere o diventare più efficiente per finanziare gli investimenti nell’acqua; se gli investimenti devono essere finanziati dal settore stesso, dobbiamo sapere che probabilmente le tariffe sono destinate a crescere perché si dovrà investire parecchio, o che bisognerà riuscire a recuperare, attraverso gli interventi regolatori, importanti spazi di efficienza e produttività.

Quindi, l’autorità indipendente di garanzia –che il provvedimento del governo non prevede- è importante proprio perché, nel momento in cui si vanno a chiedere maggiori risorse ai cittadini per finanziare gli investimenti, è fondamentale che tali maggiori risorse vadano alla destinazione richiesta e non vadano, invece, a costituire profitto o sprechi.

Da questo punto di vista, forse, la scelta migliore era quella di non perseguire un approccio ideologico qual è quello che, a mio modo di vedere, si è voluto assumere ma, invece, di mettere correttamente in competizione pubblico e privato allo scopo di garantire la qualità e il servizio migliore ai cittadini.

In questo senso credo che, un’altra volta, si sia persa un’occasione importante per intervenire in un settore che, proprio perché riguarda i bisogni fondamentali dei cittadini, è assolutamente importante e rilevante per tutti noi.

(Pubblicato per la prima volta su Management delle utilities, vol.8, no.1, 2010, pp.97-98).

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Acqua. Mr Pierluigi ma anche, e sempre più, Dr Bersani /2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/ /2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/#comments Fri, 23 Apr 2010 18:06:03 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5748 Comincia domani la guerra dell’acqua. Il comitato “Acqua bene comune” avvia la raccolta delle firme per tre quesiti referendari, per l’abrogazione dell’art.23 bis del “decreto Ronchi” e delle altre norme il cui combinato disposto produce l’attuale (insoddisfacente) assetto di parziale liberalizzazione. La battaglia populisticamente, e scorrettamente, intitolata all’acqua pubblica – populisticamente e scorrettamente perché non c’è un rigo, nelle norme, che “privatizzi” l’acqua - ha trovato, fin da subito, il sostegno (esplicito e forte) dell’Italia dei Valori, e quello (implicito e paraculesco) della Lega. Da ieri, il Partito democratico si è, più o meno, aggregato alla carovana.

Dico “più o meno” perché, pur avversando il decreto Ronchi in merito alla “privatizzazione” dell’acqua, durante l’apposita conferenza stampa il segretario, Pierluigi Bersani, ha parlato di tutelare la proprietà pubblica della risorsa idrica e il “ruolo fondamentale delle regioni e degli enti locali nelle scelte di affidamento del servizio idrico integrato” (così si legge nella nota distribuita alla stampa). Tradotto in italiano corrente: il Pd difende lo status quo. Il colpo al cerchio: il Pd raccoglierà le firme su una proposta di legge di iniziativa popolare. Il colpo alla botte: il Pd non raccoglierà le firme per il referendum. (Ma, verosimilmente, lo appoggerà nel caso in cui vada in porto).

Ora, c’è un che di stupefacente in tutto questo. Quello che meraviglia non è tanto l’incapacità per il Pd di ammettere (capire, lo capiscono) che il decreto Ronchi, pur non essendo in alcun modo perfetto, è il migliore dei mondi politicamente possibili. Non meraviglia neppure che, dentro il Pd, vi siano voci simili a quelle che si sentono comunemente provenire dalle parti della sinistra massimalista: qualche dissonanza c’è sempre stata. Quel che lascia a bocca aperta è che, di tutti i democratici, sia proprio Bersani a impugnare lo scettro dell’acqua pubblica. Stupisce perché, come riconosce un critico intellettualmente onesto quale Giuseppe Altamore, non c’è tutta queste differenza tra il decreto Ronchi e il mitico, e affossato dalle opposizioni interne, ddl Lanzillotta (in realtà l’acqua era stata esclusa, ma il ministro Lanzillotta disse a più riprese che aveva subito una forzatura, e poté contare, tra l’altro, sul soccorso dell’Antitrust). Non risulta che, all’epoca, Bersani si sia opposto agli sforzi di Lanzillotta. Risulta, dalla cronaca e dall’anedottica, il contrario: che Mr Pierluigi, che cesellò attorno sé l’epica del liberalizzatore coraggioso, si sia battuto per ottenere quello che poi non avvenne.

Stupisce e delude, allora, assistere oggi al “contrordine compagni” del Dr Bersani, che non sa trovare un modo migliore di interpretare il proprio ruolo se non quello di cedere agli istinti più belluini del suo partito. E sì che questa sarebbe una splendida occasione per dimostrare la maturità del Pd, a fronte dello spettacolo che il Pdl sta offrendo al paese. Sic transit gloria, si fa per dire, mundi.

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Reti private in libero mercato. Se na parla lunedì a Torino /2009/10/24/reti-private-in-libero-mercato-se-na-parla-lunedi-a-torino/ /2009/10/24/reti-private-in-libero-mercato-se-na-parla-lunedi-a-torino/#comments Sat, 24 Oct 2009 08:22:13 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3426 E’ almeno dalla campagna elettorale che si parla di liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Parole parole parole. Qui trovate, invece, una proposta concreta per procedere sul giusto sentiero. Angelo Miglietta e Federico Testa hanno infatti suggerito di separare le unità commerciali delle municipalizzate dai gestori/proprietari delle reti. Le prime possono essere privatizzate senza esitazione. Le altre – che noi dell’IBL metteremmo pure sul mercato, con l’unico caveat dell’incompatibilità col possesso di partecipazioni rilevanti ad aziende attive sul segmente libero di mercato – sono invece al centro di una lunga e in parte pretestuosa polemica. In funzione del loro “monopolio tecnico”, molti ritengono dovrebbero restare in mani pubbliche. Ma questo rischia di determinarne da un lato una gestione inefficiente (to say the least), dall’altro di produrre un’allocazione inefficiente delle risorse (che interesse hanno gli enti locali a immobilizzare tanti soldi?). Una possibile via d’uscita può appunto passare per il ruolo strategico delle fondazioni bancarie, soggetti in grado di garantire un azionariato stabile e che si collocano al crocevia tra investitori privati e interesse pubblico. A noi pare un compromesso più che ragionevole per sbloccare la situazione. Per questo abbiamo voluto organizzare un convegno su questi temi a Torino, lunedì 26 ottobre prossimo, a partire dalle 17,45 presso la Fondazione CRT (Via XX Settembre 31). Oltre a Miglietta e Testa, parteciperanno il sindaco del capoluogo piemontese, Sergio Chiamparino, il segretario nazionale della Lega Nord Piemont e capogruppo della Lega alla Camera, Roberto Cota, l’editorialista Franco Debenedetti, e due rappresentanti di prima fila dell’Autorità Antitrust (Salvatore Rebecchini, componente) e dell’Autorità per l’Energia (Carlo Crea, segretario generale). E’ un’occasione importante per affrontare con serietà e pragmatismo un tema fondamentale per il futuro del paese.

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L’Eni in festa. La fa e/o gliela fanno? /2009/10/15/leni-in-festa-la-fa-eo-gliela-fanno/ /2009/10/15/leni-in-festa-la-fa-eo-gliela-fanno/#comments Thu, 15 Oct 2009 10:31:56 +0000 Carlo Stagnaro /2009/10/15/leni-in-festa-la-fa-eo-gliela-fanno/ Paolo Scaroni ha tutti i diritti, oggi, di festeggiare. La firma di un contratto per lo sviluppo del giacimento di Zubair, che contiene riserve stimate per 4,1 miliardi di barili e oggi ha una produzione quotidiana di appena 227 mila barili è un indubbio successo della diplomazia del gruppo italiano, che si conferma una delle grandi compagnie petrolifere mondiali. Il ministro iracheno del petrolio, Hussein al-Shahristani, ha parlato di un obiettivo di produzione pari a 1,125 milioni di barili al giorno in un orizzonte di sei anni. La forma dell’accordo – che vede il Cane a sei zampe alla guida di un consorzio con Sinopec, Occidental e Korea Gas – è quella di un contratto di servizio. Secondo la descrizione dell’Oil & Gas Journal (subscription required),

The minister said a consortium led by Italy’s Eni SPA had agreed to Baghdad’s offer of $2/bbl for each extra barrel of oil it extracts on top of the current production of 227,000 b/d at the 4.1 billion bbl Zubair field.

Quanto Piazzale Mattei possa festeggiare, dunque, dipende essenzialmente da due questioni: la capacità di rispettare la tabella di marcia, e i termini del contratto, che – a seconda di come sono definiti – possono consentire una più o meno rapida messa a libro delle risorse. In gioco c’è il risultato 2010: se si può librare tutto e subito, Scaroni è salvo. Altrimenti, deve ancora mettere le mani su nuovi giacimenti per garantire un adeguato tasso di sostituzione delle riserve. Ma i festeggiamenti per la conquista irachena sono resi un po’ meno euforici dalla stilettata che, tramite il Corriere della sera, viene inflitta da Eric Knight, capo del fondo attivista Knight-Vinke che ha proposto il breakup dell’azienda.

Per capire l’intervista bisogna fare un passo indietro. Ieri, il Financial Times ha dato voce a Scaroni (qui il resoconto in italiano del Sole 24 Ore), il quale ha negato che lo spezzatino potrebbe creare valore. Anzi,

We think it would destroy value as a matter of fact… so big in gas is very positive for our oil business . . . The simple fact that we buy gas from Algeria, Libya and Egypt makes us the leaders in upstream [oil] in those three countries, so they represent 40 per cent of our upstream oil.

Di fronte a queste parole si possono avere due reazioni. Una è quella di Knight, che infatti, interrogato da Stefano Agnoli, risponde:

Puo anche darsi che sia così, ma guardiamo a quello che ci ha scritto l’Eni il primo settembre, peraltro sorprendendoci un po’ perché negli ultimi due anni Scaroni non ci ha mai parlat di sinergie. Dove sono i vantaggi? Nei prezzi? Anche il ministro Scajola ha ricordato che ir Italia l’energia costa pi cara. la sicurezza? L’ultimo invernol’Italia ha dovuto ricorrere agli stoccaggi in occasione dello scontro Ucraina-Russia. L’accso alle risorse russe? To- tal e altre majors lavorano in Siberia senza dare in cambio i loro clianti. I rapporti con Libia, Algeria e Egitto? E’ vero, l’integrazione Eni è stata un vantaggio, ma nel passato. I collegamenti sono stati fatti e non si potraino ripetere.

A questo si aggiunge una questione più cospicua: le sinergie – che Knight chiede a Scaroni di dimostrare valgano più di 50 miliardi di dollari, lo sconto a cui avviso viaggia il titolo Eni in virtù dell’inefficienza strutturale – se ci sono, non devono esserci. In un duplice senso. Se la sinergia deriva dall’integrazione verticale con la rete, allora qualcuno sta barando. Infatti, lo scopo della separazione societaria e di tutti i paletti regolatori che sono stati piantati dall’Autorità di settore è appunto rendere l’Eni, per così dire, neutrale rispetto all’infrastruttura, la quale dovrebbe essere qualcosa di simile a un investimento puramente finanziario, una macchina da dividendi, uno strumento di hedging contro la volatilità dei mercati. Nulla più.

In alternativa, o in aggiunta, c’è la questione del mercato di valle. Non è che i clienti dell’Eni siano suoi prigionieri, ostaggi: se il mercato è libero, possono andarsene. Della domanda, in un mercato libero, non v’è certezza: e ce n’è ancora meno oggi che la crisi ne ha prodotto il crollo, provocando sangue e lacrime alle major verticalmente integrate (l’Eni, per dire, compra a prezzi da take or pay e vende, almeno in parte, a prezzi da mercato spot). Se c’è sinergia – meglio: se può esserci sinergia – è solo in quanto il mercato è bloccato, e quindi consente il formarsi di extraprofitti monopolistici. Lo mostra anche l’attenta indagine di Jacopo Giliberto e Sissi Bellomo, che sul Sole 24 Ore di martedì hanno evidenziato che, sebbene il gas che prima mancava adesso sia troppo,

Qualche opportunità di risparmio in più, almeno in teoria, è per le imprese, che posson rifornirsi sui mercati spot a prezzi dimezzati ma soltanto all’estero, perché in Italia il Punto di scambio virtuale non è ancora abbastanza liquido.

Quella di Scaroni, insomma, è una smentita che afferma.  Tanto più che l’ipotesi del breakup non è una novità assoluto. Pare che, all’epoca della privatizzazione, Franco Bernabé (che era stato messo a capo di Metanopoli proprio con l’obiettivo di portarla in borsa) abbia dovuto resistere contro la proposta, che si stava facendo strada, di quotare la sola Agip, cioè la divisione esplorazione & roduzione. E pare che vi fossero anche stati contatti informali tra il governo italiano e francese per valutare le prospettive di un’integrazione con Elf, per farne una sorta di campione europeo nel settore oil & gas. Tant’è che la proposta ebbe qualche ulteriore eco pochi anni dopo, quando fu Total ad acquisire Elf. Non se ne fece niente, ma l’idea non era e non è peregrina. Specie se può aiutare a risolvere le congestioni regolatorie.

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Il costo del monopolio: 50 miliardi di euro /2009/09/30/il-costo-del-monopolio-50-miliardi-di-euro/ /2009/09/30/il-costo-del-monopolio-50-miliardi-di-euro/#comments Wed, 30 Sep 2009 15:52:12 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3042 Questa mattina, in un’affollata conferenza a Milano il fondo Knight-Vinke Asset Management ha presentato il suo progetto di ristrutturazione dell’Eni. Qui si trova il comunicato ufficiale. La critica di Eric Knight, numero uno del fondo, è a grandi linee questa: dentro l’Eni convivono due/tre soggetti completamente diversi. C’è anzitutto una oil company tradizionale, attiva nell’upstream e fortemente internazionalizzata. Poi c’è una utility, che importa e vende gas in Italia. Infine c’è l’unità infrastrutturale, una tipica macchina da dividendi che però è penalizzata dal fatto di essere parte del più vasto corpaccione dell’Eni. L’integrazione verticale – che in questi termini rappresenta un caso unico rispetto alle altre imprese simili – imprime uno sconto sul valore del titolo, perché crea al mercato difficoltà di valutazione. Quindi, scorporare in qualche maniera le attività di Eni aiuterebbe a far emergere il valore nascosto, che gli analisti di Knight-Vinke stimano oggi in circa 50 miliardi di euro: secondo le loro proiezioni, il valore del titolo potrebbe grosso modo raddoppiare.

Perché, allora, a nessuno è venuto in mente di comportarsi così? Secondo quanto ha riferito Knight, il management dell’Eni ha risposto alle richieste del fondo (che ha in pancia circa l’1 per cento del Cane a sei zampe, e rappresenta altri soggetti che detengono una quota analoga) muovendo sostanzialmente due argomenti: l’integrazione verticale renderebbe l’Eni meglio equipaggiata dal punto di vista negoziale, e consentirebbe di sviluppare importanti sinergie (i principali punti della risposta si trovano qui). Non si tratta di una novità, visto che sono le due carte che sistematicamente Paolo Scaroni scopre quando le richieste di separazione di reti e stoccaggi si fanno troppo forti. Knight risponde che (1) le altre major, pur non avendo una utility a valle, riescono a chiudere contratti non peggiori di quelli dell’Eni, quindi il vantaggio competitivo deve essere davvero ridotto; e (2) dall’analisi effettuata, non sono emerse sinergie significative.

Lo studio di Knight-Vinke è importante soprattutto sotto il profilo regolatorio, perché conferma una tesi dell’Autorità per l’energia, che aveva riscontrato una dinamica simile nell’Enel dopo la cessione di Terna: la perdita della presa monopolistica sui mercati non è necessariamente fonte di indebolimento per gli ex monopolisti. Anzi, togliendogli la certezza del ricavo li spinge a farsi più competitivi, portandoli così – paradossalmente – a rafforzarsi, mentre i consumatori possono beneficiare della concorrenza. Oltre a questo, Knight ha sottolineato più volte la precarietà finanziaria del gruppo, che trova conferma nel taglio del dividendo e dipende da un lato dalla necessità di presidiare il rating e mantenere l’indebitamento sotto controllo (un’esigenza soprattutto della oil company, che finisce per danneggiare la utility); dall’altro dall’indisponibilità dello Stato di sottoscrivere aumenti di capitale o, in alternativa, accettare una ricapitalizzazione la cui conseguenza sarebbe una sua discesa al di sotto della soglia del 30 per cento.

Questo è, secondo me, un punto cruciale. Knight ha precisato di non avere alcun interesse alla discesa dello Stato, e ha evidenziato che il suo piano è compatibile col mantenimento agli attuali livelli. Il che è tecnicamente vero. Ma lo è fino a un certo punto: non solo perché, in caso di breakup, almeno per quel che riguarda la oil company non ci sarebbe più alcuna pseudo-giustificazione “strategica” per il Tesoro. Soprattutto, però, il ceto politico non ha alcun interesse a recidere il cordone ombelicale che lo lega alla più grande industria italiana, e che gli attribuisce innumerevoli poteri e influenze (a partire dalla nomina del management). Spesso si dice che San Donato chiama, e Palazzo Chigi risponde. La realtà è molto più complessa. E se può essere vero che l’Eni esercita un ruolo guida sulla politica estera italiana (tanto da irritare gli americani), è ancor più vero che l’Eni è spesso strumento di politica industriale nelle mani del governo, per esempio quando si tratta di mantenere aperti impianti improduttivi o inefficienti, o addirittura perché all’occorrenza funziona da bancomat.

E’ questo il fattore che va introdotto per chiudere l’equazione. Chiaramente, se anche i calcoli di Knight-Vinke fossero esagerati, e dunque la creazione di valore conseguente alla riorganizzazione dell’Eni valesse 25, 10 o 5 miliardi di euro, comunque sarebbe ben superiore ai benefici presunti delle “sinergie”. Quello che, politicamente, vale più di 5, 10, 25 o financo 50 miliardi di euro è la facile accessibilità a una leva che ricorda molto da vicino, nella forma e nella sostanza, le “vecchie” partecipazioni statali. E dunque, come noi dell’IBL abbiamo sostenuto tra l’altro nel nostro Manuale per le riforme della XVI legislatura, è illusorio pensare di poter ottenere dei miglioramenti senza passare anche per la privatizzazione del gruppo.

Dice: la privatizzazione non è in agenda. Perfetto. Ma finché le cose andranno avanti così, i 50 miliardi di sottovalutazione dell’Eni saranno il minore dei mali.

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Il cannone Rai /2009/09/15/il-cannone-rai/ /2009/09/15/il-cannone-rai/#comments Tue, 15 Sep 2009 16:26:35 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2752 Antonio Di Pietro aderisce alla campagna per dare la disdetta al canone Rai, come segno di protesta per la presunta politicizzazione dell’azienda radiotelevisiva pubblica. Ecco le sue parole:

Aderisco all’iniziativa lanciata ormai da più parti per disdire il canone Rai e invito i cittadini a fare altrettanto e aggiungo sostituendolo con Sky.

Di Pietro ha ragione, ma ha torto. Ha ragione nel promuovere una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla situazione “nè carne nè pesce” della Rai, società alimentata dal gettito fiscale e contemporaneamente dai ricavi pubblicitari, che trasmette sia “servizio pubblico” (qualunque cosa sia) sia programmi commerciali. Ma ha torto nei metodi e nel linguaggio.

Anzitutto perché – qui il mio moralismo comincia e qui finisce – trovo inappropriato che un leader politico dia “consigli per gli acquisti”. Ma soprattutto per una questione si sostanza: il canone Rai non è l’equivalente dell’abbonamento a un servizio, che come tale può essere rinnovato o disdetto a piacimento. Lo stesso nome di canone è improprio, in quanto si tratta, nei fatti, di una tassa sulla proprietà di apparecchi radiotelevisivi: un cittadino che non guardi la Rai e magari non sia neppure abilitato a farlo (perché non possiede l’antenna ma, per esempio, usa il televisore solo per vedere dei dvd) dovrebbe comunque pagare il canone, che si applica addirittura nel caso di tv non funzionanti (!). Tanto che, per disdire il canone, occorre seguire una procedura piuttosto complessa che prevede la visita, in casa vostra, di un funzionario dell’Agenzia delle entrate che verrà a sigillare il televisore. E tanto che si parla di evasione e si propone, in modo piuttosto bislacco, di trasformarlo in un’addizionale sulla bolletta elettrica.

Il problema vero, dunque, non è il pagamento del canone, ma – come spiega Paolo Bracalini in questo Focus – la privatizzazione della Rai e la separazione del servizio pubblico (che, se serve, può essere attribuito tramite gara al miglior offerente) dalla proprietà pubblica dell’azienda. Ciò risponderebbe non solo a un’esigenza di giustizia fiscale, ma anche a quella più generale di rendere la Rai più efficiente e di migliorare le condizioni del nostro ingessato mercato radiotelevisivo. Se non si coglie questo passaggio, quello che resta è mera schermaglia politica. Non è il canone Rai a rappresentare la grande anomalia, ma il “cannone” Rai, cioè lo status pubblico dell’azienda e le modalità in cui essa è gestita e finanziata.

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Paolo e Giulio 2 /2009/09/04/paolo-e-giulio-2/ /2009/09/04/paolo-e-giulio-2/#comments Fri, 04 Sep 2009 15:55:29 +0000 Oscar Giannino /?p=2512 All’ultimo post di Carlo Stagnaro sull’ENI splitting hypothesis, aggiungo solo alcune considerazioni. No, Giulio Tremonti non è insolitamente silenzioso, di fronte alla tesi avanzata giorni fa dalla Lex Column. A onor del vero, bisogna rendere giustizia in questo al ministro dell’Economia: non parla praticamente mai di società quotate, è una regola tassativa che cerca di seguire praticamente sempre, tanto è vero che rifugge anche dalle audizioni parlamentari  in cui si affrontano temi collegati ad aziende, e solo quando i giornalisti lo hanno incalzato energicamente si è di quando in quando fatto sfuggire qualcosa di per altro totalmente generico, ad esempio a proposito della vicenda Fiat.  Tacque praticamente quasi sempre persino sulla privatizzazione di Alitalia, tranne che per difenderla a cose fatte, ma sempre ben lontano dal rivendicarla come decisione sua: cosa che, in effetti, non era, visto che la decisione e il dossier furono sempre nelle mani di Berlusconi e di palazzo Chigi, ed è a Gianni Letta che si deve l’intera supervisione diretta del processo. Non lo dico per difendere il ministro. Dico un’altra cosa: che, in realtà, come la pensi davvero Tremonti sui grandi gruppi italiani – e la pensa, eccome se la pensa, a quanto mi risulta, dalla Fiat a scendere per li rami – non lo sa quasi nessuno. E  quando dico “quasi” intendo i pochissimi ammessi alle sue confidenze quotidiane e ai suoi ragionamenti sullo stato delle cose. Tanto più quando si tratta di grandi gruppi pubblici, come Eni ed Enel. Su questi, in generale Tremonti è convinto che per fortuna c’è rimasto qualche campione nazionale pubblico, e che di sicuro non sarà lui a smontarli o a cederne il controllo.  Al Tesoro, non c’è nessun dossier aperto su temi di finanza straordinaria come quelli evocati da FT: su questo, mi sento purtroppo di garantire ai nostri lettori.

Al Meeting di Rimini, attaccando per ben due volte la concorrenza e chi troppe virtù ritiene di abbinare a tale paroletta magica, Tremonti ha detto che “la concorrenza non lenisce la sofferenza, e io preferisco un sistema in cui vi siano attori che abbiano le risorse per lenire la sofferenza”. Lasciate perdere che in nessun libro troverete mai un solo quote di qualche teorico della concorrenza che finalizza i suoi benefici effetti a lenire la sofferenza sociale. Quel che Tremonti vi ha detto è che i pingui dividendi vanno bene allo Stato in caccia di risorse, che abbassarli è un male, e che solo se questa corda si tenderà oltre il ragionevole, allora verrebbe il tempo di una decisione diversa. Splittare ENI? No, cambiarne il capo.

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