CHICAGO BLOG » povertà http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Una persona che fa la differenza: Muhammad Yunus /2010/02/02/una-persona-che-fa-la-differenza-muhammad-yunus/ /2010/02/02/una-persona-che-fa-la-differenza-muhammad-yunus/#comments Tue, 02 Feb 2010 21:10:59 +0000 Marco Mura /?p=5027 Ieri sera, in un Teatro Dal Verme gremito in ogni ordine di posto, ha parlato a Milano il professor Muhammad Yunus, Nobel per la Pace figura universalmente riconosciuta per il suo impegno nella lotta alla povertà nel suo paese, il Bangladesh, tramite la Grameen Bank, l’istituto bancario da lui fondato nel 1976 (e successivamente, dal 1983, diretto), attivo nell’ambito del microcredito. La notizia è che la Grameen apre anche in Italia, e c’è di che riflettere se anche da noi gli esclusi dal merito di credito sono tanti e tali da avvicinarci a un Paese sottosviluppato.
Yunus ha ripercorso tutte le tappe della Grameen Bank, fin dal giorno in cui osservando la realtà creditizia ha scelto di fare esattamente il contrario di quanto facessero – e fanno – le banche tradizionali. Yunus ha ricordato quanto fosse difficile convincere donne che non avevano mai tenuto in mano una banconota in tutta la loro vita – per le quali il denaro era una sorta di tabù di cui solamente gli uomini si devono occupare – dell’importanza e dell’opportunità costituita per sé e per la propria famiglia un prestito. Oggi la clientela della Grameen Bank è costituita per il 96 per cento da donne.
Yunus si è poi a lungo soffermato sulle differenze tra il suo modello di banca e quello tradizionale, preso – come ha confidato con una punta di orgoglio lo stesso Nobel – come vero e proprio modello ex negativo.
Mentre le banche tradizionali stanno nei centri a più alto reddito disponibile, la Grameen è presente – con 2185 filiali – nei villaggi e nelle zone rurali. Non sono gli aspiranti clienti ad andare in pellegrinaggio con il cappello in mano, ma è la banca che batte ogni insediamento periferico e angolo di campagna. L’idea per cui sia la banca a dover andare dal popolo e non viceversa è coerente con l’intuizione di Yunus per cui lavorare significa far lavorare, fare impresa significa trovare chi la sappia fare, e non esiste quindi una rigida distinzione tra cercare e offrire lavoro. Di sapore misesiano la conseguente considerazione che l’inclinazione all’imprenditorialità sia tratto comune a tutti gli uomini.
Yunus, complice la bassa età media dell’uditorio, ha insistito su come l’imprenditorialità sia un elemento che va riconosciuto e coltivato fin dalla gioventù, esortando dunque i giovani presenti a non attendere di avere in mano un pezzo di carta – dove non c’è scritto come fare impresa – per dare corso alle proprie inclinazioni.
In Bangladesh c’è sempre la Grameen Bank anche dietro la scomparsa di fatto dei mendicanti dalle strade, che hanno potuto tramite il microcredito “reinventarsi” come piccoli commercianti. I prestiti – quello tipico varia tra i 20 e i 30 dollari – hanno potuto acquistare piccoli gadget diversificando così le loro possibilità di entrate. Con una battuta che ha molto divertito il pubblico, Yunus ha detto che costoro sono diventati degli esperti – quest’abitazione va bene per elemosinare, quest’altra per vendere piccoli oggetti – estremamente a loro agio nel riconoscere i segmenti di mercato.
Yunus è convinto che la povertà non sia un fenomeno endogeno radicato nella persona ma un’afflizione proveniente dall’esterno, imposta dal sistema. Fatto certamente vero anche per i Paesi nel complesso più ricchi, dove esiste una colpevole sproporzione tra idee brillanti e concessione di capitali per metterle in pratica. Anche ieri, il Nobel bengalese non ha mancato di riproporre quel motto che non accetta sia considerato uno slogan, magari utopistico («il microcredito non è utopia, il microcredito è realtà!») che recita: «un giorno i nostri nipoti andranno nei musei per vedere cosa fosse la povertà». Certo è che esistono diverse sfumature e gradazioni di privazione.
Meno difficoltà si hanno a convenire sul fatto che l’uomo non sia una macchina robotica per fare soldi programmata da un miope «egoismo» del tipo “tutto per me, niente per gli altri”. In realtà, ha spiegato il Nobel, il problema non è l’egoismo (forse sarebbe stato più chiaro adoperando il termine “avidità”) o il desiderio di guadagnare il più possibile. Si tratta di elementi connaturati nell’indole umana. Meno naturale e più meritorio di severa critica è l’operato di chi ha malamente operato con i denari altrui, facendoli svanire nel nulla di un sistema svincolato da ogni freno all’assunzione di rischi cui non avrebbe potuto mai fare fronte.
Il social business, che riporti l’uomo al centro e tra i fini dell’attività economica, proposto da Yunus è allora indubbiamente un sistema superiore alla semplice charity, in quanto capace – a differenza di quest’ultima – di generare un meccanismo virtuoso in grado di reiterarsi e consolidarsi nel tempo, evitando la precarietà della dipendenza dall’assistenzialismo.
Un ulteriore aspetto interessante del modello di banca di Yunus sta nel’organizzazione decentralizata, in cui i risparmi locali vanno a mutuatari locali. Un orizzonte, questo, certo un po’ limitato per un Paese “ricco” in tempo di globalizzazione, ma una scelta molto opportuna se si considera quali effetti incentivanti possa avere sul modesto prenditore il controllo sociale esercitato molto da vicino da chi tale prestito ha contribuito ad assicurare.
L’attività della Grameen rispecchia alla perfezione l’indole creativa del suo fondatore, secondo cui più idee si elaborano, più è probabile trovare la soluzione ai problemi presenti e futuri. Prima il risparmio, poi le assicurazioni e i prestiti per l’istruzione, ora anche fondi pensione. Il tutto senza rinunciare alle fruttuose collaborazioni a scopi umanitari con quelle grandi multinazionali – tra quelle citate la Danone e la Adidas – che sono invece additate come “sfruttatrici” dei paesi poveri, da chi si illude esista una via allo sviluppo diversa da quella che passa per il mercato e il fare impresa.
Il Nobel termina il proprio discorso salutato in piedi da un lungo e scrosciante applauso di un pubblico visibilmente toccato: è bastata un’ora a un paio di migliaia di giovani milanesi per verificare in prima persona come l’ideatore del microcredito sia veramente – per usare un’espressione della Moratti – una di quelle «persone che fanno la differenza» . A Milano sarà operativa entro l’anno la Grameen Bank Italia, per riproporre anche nella Penisola prima e nell’Est Europa poi questa forma di finanziamento ai tanti che hanno una buona idea e lo spirito per realizzarla, ma mancano di quel minimo di capitale necessario a metterla in atto.
Di primo acchito può forse far storcere il naso l’idea che nella città più ricca d’Italia si frema per l’introduzione di un’istituzione ideata e concepita per quello che all’epoca era uno dei paesi più poveri del mondo. Ma le cronache italiane sono ricche di esclusi dal merito di credito bancario. E non sono solo immigrati extracomunitari. Non si può ignorare un sistema che ha dimostrato nei fatti di funzionare. Non rimane che la curiosità di capire come risulterà, alla fine dei conti, nella sua declinazione italiana. Una banca che fa impresa? Straremo a vedere.

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Non sanno quello che dicono /2009/11/30/non-sanno-quello-che-dicono/ /2009/11/30/non-sanno-quello-che-dicono/#comments Mon, 30 Nov 2009 13:32:13 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3997 Pare che, prima di parlare, sia utile collegare il cervello. Forse i negoziatori danesi, nella foga di rendere vagamente utile, se ne sono dimenticati. La loro proposta di “compromesso” (ah ah) sarebbe assai comica, se non fosse tragica realtà. La tragicità non consiste nelle possibili conseguenze della bozza: non ce ne saranno, anche se verrà approvata. La tragicità consiste nel fatto che queste persone non si rendano minimamente conto di quello che dicono. Non vi chiedo di fidarvi di me, né voglio accompagnarvi per mano attraverso un lungo e intricato ragionamento. Solo una figura, e qualche numero.

Il grafico qui di fianco riproduce l’andamento delle emissioni globali, Ocse e non Ocse dal 1980 al 2006. Poi, con linee più sottili, mostro quali sono i target che i danesi vorrebbero fissare a Copenhagen: se capisco bene, taglio del 50 per cento delle emissioni al di sotto del 1990 entro il 2050, con l’80 per cento dello sforzo a carico dei paesi industrializzati. Ecco quello che tutto ciò significa. I dati sulle emissioni sono tratti dal Dipartimento per l’Energia Usa. Una precisazione: se prendo alla lettera le indicazioni danesi, il mondo sviluppato dovrebbe arrivare a emissioni negative (non solo non emettere nulla, ma anche “catturare” emissioni altrui). Infatti, oggi (2006) il mondo ha buttato in aria circa 30 miliardi di tonnellate di CO2. Di queste, 13,6 miliardi dai paesi Ocse. Il target – la metà del 1990 – sono poco meno di 11 miliardi di tonnellate. Se i paesi Ocse dovessero farsi carico dell’80 per cento della differenza tra le emissioni attuali e quelle desiderate (14,6 miliardi), finirebbero per avere emissioni negative per 1 miliardi di tonnellate di CO2. Fingiamo di non aver notato la svista e supponiamo che l’obiettivo sia quello di caricare sulle spalle del mondo industrializzato il 60 per cento dello sforzo. Ecco cosa succederebbe.

compromessodanese

Secondo gli strateghi danesi, il mondo, Ocse e non Ocse, dovrebbe segnare un’inversione di marcia senza precedenti nella storia. C’è un aspetto ancora più comico, o tragico. Chissà se qualcuno si è chiesto cosa significa, in termini pro capite. Io ci ho provato, con una sola cautela: le statistiche sulla popolazione vengono da fonti diverse. Per i paesi Ocse, dall’Ocse. Per i paesi non-Ocse, ho sottratto le stime Ocse dalle stime Onu per la popolazione globale. Riporto, senza commenti, i dati (quelli attuali sono tratti dall’International Energy Outlook 2009 del Dipartimento dell’Energia americana).

Dunque, nel 2050 al mondo ci saranno circa 9,1 miliardi di individui. Di questi, 1,3 vivranno nei paesi Ocse. Oggi emettono 11,6 tonnellate di CO2 all’anno a testa: nel 2050, secondo i danesi, 1,9. Per capirci, poco più di quanto, nel 2006. emetteva un abitante dell’Angola. Nei paesi non-Ocse, le emissioni pro capite sono oggi pari a 2,9 tonnellate di CO2 all’anno: sebbene le emissioni complessive possano, nella testa dei danesi, diminuire in modo meno drastico in quelle nazioni, la loro popolazione crescerà più velocemente. Quindi, le loro emissioni pro capite “consentite” saranno appena 0,9 tonnellate di CO2. Più o meno come un abitante dello Swaziland nel 2006.

Dite quello che volete, ma il riscaldamento del globo mi fa meno paura di quelli che vogliono evitarlo.

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Quelle due o tre cose che Fitoussi (non) sa sulla crisi. Guardasse South Park… /2009/09/28/quelle-due-o-tre-cose-che-fitoussi-non-sa-sulla-crisi-guardasse-south-park/ /2009/09/28/quelle-due-o-tre-cose-che-fitoussi-non-sa-sulla-crisi-guardasse-south-park/#comments Mon, 28 Sep 2009 17:11:38 +0000 Carlo Lottieri /?p=3009 In un articolo apparso venerdì scorso su Le Monde (“Deux ou trois choses que je sais sur la crise”), Jean-Paul Fitoussi ci ha detto in poche parole quello che pensa della crisi: e in sintesi la sua lettura è la seguente.

Veniamo da anni che hanno visto accrescersi le diseguaglianze: con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. La conseguenza è che quanti sono costretti a consumare tutto o quasi per vivere (la parte più debole della società) ha ridotto i propri consumi, mentre la parte più ricca ha accumulato risorse, che in genere non faceva circolare.

Da qui una crisi della domanda, a cui fortunatamente gli interventi degli Stati hanno felicemente posto rimedio. Così ora l’economista francese è molto allarmato, perché teme la exit strategy, ossia il progressivo ritirarsi dei poteri pubblici dagli spazi ampiamente occupati nel corso degli ultimi due anni.

L’analisi mi appare di una povertà disarmante, ma soprattutto mi sembra veder confluire una “filosofia della miseria” d’antica data (si pensi a Proudhon) e gli schemi più triti della teoria economica dominante, latamente keynesiana. È infatti interessante constatare come il frequente incrocio non sia casuale, dato che muove – in entrambi i casi – dall’aperto rigetto di quell’antropologia che pone al centro l’uomo e la sua libertà, la sua capacità d’azione, i suoi diritti di proprietà, la sua connaturata socialità (intesa quale disponibilità alla cooperazione: nei piccoli gruppi volontariamente adottati, negli scambi di mercato, nelle strutture aziendali, ecc.).

Per capire qualcosa della crisi, allora, invece che guardare agli intellettuali di Francia, conviene volgere l’attenzione allo humour (feroce, e ferocemente libertario) di Trey Parker e Matt Stone, gli autori di South Park, che in un episodio (“Margaritville”) ampiamente celebrato dal pubblico e dalla critica – tanto che ha ottenuto pure un Emmy Award – divertono insegnando. Non lo si prenda per quello che non è, un saggio di teoria economica, ma certo il cartoon americano offre una lettura meno distante dalla realtà di quella data da numerosi accademici celebrati un po’ ovunque.

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Stato e povertà /2009/04/28/stato-e-poverta/ /2009/04/28/stato-e-poverta/#comments Tue, 28 Apr 2009 08:43:59 +0000 Francesco Ramella /?p=300 “This is my long-run forecast in brief. The material conditions of life will continue to get better for most people, in most countries, most of the time, indefinitely…I also speculate, however, that many people will continue to think and say that the conditions of life are getting worse”. Così scriveva Julian Simon in un articolo apparso su Wired nel 1997. A leggere l’articolo di oggi sul Corriere di Massimo Mucchetti dedicato alla geografia delle nuove povertà sembra che l’Italia non faccia eccezione rispetto alla tendenza delineata da Simon. Per quanto riguarda la povertà assoluta, “cinquant’anni fa le famiglie misere erano un milione e 357 mila, il doppio di oggi”. Quanto alla povertà relativa, “l’indice del Gini, che misura il grado di diseguaglianza tra i redditi secondo una scala da 0 (tutti hanno la stessa quota) a 1 (uno solo ha tutto), dà un quadro eloquente: le regioni con il reddito medio più alto, in particolare quelle settentrionali a statuto speciale e quelle centrali Lazio escluso, hanno anche il Gini più basso; le grandi regioni meridionali hanno meno reddito e il Gini più alto”. Sulla base di tale constatazione, Mucchetti afferma che “il contrasto della povertà e della disuguaglianza non può non coinvolgere lo Stato”; la carità cristiana, ed eroica del volontariato non può bastare. Ma, se è la crescita del reddito e, dunque, la creazione di ricchezza a portare con sé anche minori diseguaglianze, come può l’azione dello Stato essere determinante? Le regioni settentrionali sono più ricche perché sono state più aiutate dallo Stato o è vero il contrario? Come ha spesso ricordato Antonio Martino, al termine della Seconda guerra mondiale il Veneto era più povero della Sicilia. Poi il Veneto venne abbandonato a se stesso e la Sicilia sorretta dalle amorevoli cure dello Stato. Con i risultati che tutti conoscono.

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