CHICAGO BLOG » petrolio http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:19:32 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Bp. L’epilogo /2010/09/26/bp-lepilogo/ /2010/09/26/bp-lepilogo/#comments Sun, 26 Sep 2010 09:24:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7148 Ora che “quel maledetto buco” è stato ufficialmente tappato, è il momento di interrogarsi sulle cause dell’incidente, e sull’eredità che esso ci lascia. Due post sul mio blog energetico preferito aiutano a porre la questione in una prospettiva “ampia”, astraendo per un attimo dal redditizio business delle compensazioni, e guardando alla lezione di Macondo. Dunque, cosa è andato storto?

L’esplosione nella piattaforma Deepwater Horizon ha una serie di cause prossime: la sfiga e la cultura industriale di Bp, anzitutto. Ma ha anche cause remote che hanno creato un humus fertile perché le cause prossime scatenassero il disastro.

Partiamo da due situazioni estreme: nella situazione A la proprietà del sottosuolo (e delle risorse minerarie in esso contenute) è “pubblica”, nella situazione B è ”privata” (non mi interessa definire come e chi ne ha diritto allo sfruttamento, è sufficiente che sia un soggetto privato e che i suoi diritti siano chiari e riconosciuti da tutti). Nella situazione A mi aspetto fenomeni di sovra- o sotto-sfruttamento, dovuti al fatto che il governo ritiene di dover spremere la rendita mineraria oppure, all’opposto, che pensa che non sia opportuno turbare l’ecosistema con le trivelle. In entrambi i casi il risultato è socialmente inefficiente. Nella situazione B, invece, mi aspetto che le risorse vengano sfruttate nella misura in cui ciò è conveniente (dati i prezzi relativi delle risorse minerarie e dei beni ambientali, naturali e paesaggistici che, per estrarle, possono essere compromessi). Guillermo Yeatts, già manager di diverse imprese attive nella filiera petrolifera e autore dello splendido Subsurface Wealth: The Struggle for Privatization in Argentina, spiega molto bene i vantaggi di B rispetto ad A. Da un lato, in A la rendita mineraria viene sovente utilizzata per puntellare regimi corrotti e dittatoriali, mentre beneficia poco e/o male le popolazioni direttamente coinvolte dalle attività estrattive. In B, è vero il contrario. Incidentalmente, questa è la ragione per cui la scoperta di un giacimento è un dramma sociale con tinte da Guerra di Troia nella foresta Amazzonica, mentre è una bella notizia, chessò, in Oklahoma. Dove le risorse minerarie sono di proprietà pubblica, l’intero beneficio è catturato dal governo e dalle sue clientele (senza contare che i mezzi di produzione sono normalmente inefficienti). Dove invece esso è privato, il benessere tende a estendersi in un clima di relativa pace sociale.

Cosa c’entra tutto questo con Bp? In fondo, ho appena scritto che gli Usa sono più simili a B che ad A. In realtà, come spiega Rob Bradley, un po’ perché l’estensione delle terre di proprietà pubblica è enorme, un po’ perché le aree offshore ricadono sicuramente (attraverso concessioni e altre diavolerie) in questa categoria, un po’ perché la regolamentazione ha fatto il resto, negli stessi Stati Uniti è in atto un processo di surrettizia “pubblicizzazione delle risorse minerarie”. In questo contesto, il ruolo del governo centrale e del Bureau of Ocean Energy Management (l’ex Minerals Management Service) diventa sempre meno di regolazione tecnica, e sempre più di pianificazione centrale. Quel maledetto buco non ci ha lasciato solo un costoso bando sulle trivellazioni offshore: lascia anche una mole di regolamentazione in crescita, che rischia di andare ben oltre la definizione di requisiti di sicurezza più o meno stringenti (che può incentivare o disincentivare l’assunzione di rischio minerario, aumentando o riducendo i costi di ingresso, ma almeno è relativamente meno distorsiva e relativamente meno arbitraria).

Come spesso accade, insomma, la risposta a un disastro è irrazionale e sbagliata: anziché rimuoverne le cause, essa finisce per ingigantirle. Di fatto, il modo in cui l’amministrazione Obama (e altri governi in giro per il mondo) sta gestendo la faccenda lascia prevedere che, se nell’immediato avremo un giro di vite sulla ricerca ed estrazione petrolifera e quindi una produzione subottimale nei paesi Ocse, nel lungo termine potremmo incrementare il disallineamento tra gli incentivi delle compagnie petrolifere e gli interessi “pubblici” (comunque definiti). E avremo una maggiore dipendenza delle decisioni di investimento dal parere, variamente definito e variamente raggiunto, degli uffici pubblici, con l’inevitabile creazione di azzardo morale (se ho tutte le carte bollate a posto, posso fare cose che altrimenti non farei).

Ci troviamo, cioè, di fronte a un doppio effetto Peltzman: c’è un effetto Peltzman “di primo ordine” in virtù del quale imprese e governi reagiranno ai bandi occidentali spostando produzioni e investimenti nei paesi da cui, ogni giorno e ogni ora del giorno, si dice dovremmo dipendere di meno (non lo dico io, che non me ne frega niente: rilevo che quelli che diventano isterici per il petrolio iraniano e il gas russo, non dovrebbero sostenere bandi e vincoli sulle risorse Ocse…). Poi, c’è un effetto Peltzman di second’ordine in virtù del quale chi ottiene permessi si sentirà “blindato” e dunque agirà prestando relativamente meno attenzione ai rischi reali, e relativamente più attenzione agli obblighi burocratici (come è in parte successo a Bp, in fondo, seppure con una serie di aggravanti).

In breve, per minimizzare la probabilità di incidenti spiacevoli bisognerebbe privatizzare in senso proprio le risorse minerarie (cioè il sottosuolo), ridurre le regolamentazioni alla mera definizione di standard tecnici operativi, e cancellare ogni norma che possa collettivizzare i rischi (come il ridicolo limite alla responsabilità civile delle compagnie petrolifere).

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BP-Eni, l’idea non era balzana. Un po’ di charts /2010/07/14/bp-eni-lidea-non-era-balzana-un-po-di-charts/ /2010/07/14/bp-eni-lidea-non-era-balzana-un-po-di-charts/#comments Wed, 14 Jul 2010 09:24:48 +0000 Oscar Giannino /?p=6516 L’idea lanciata qualche giorno fa di mandar avanti ENI con offerte per l’upstream pregiato di BP non era poi così balzana, visto che nel frattempo le prime compagnie petrolifere USA iniziano a farsi sotto strappando il titolo verso l’alto di 10 punti,  e Abu Dhabi vuole acquistar quote di BP per prenotarne il diritto ad acquisirlo in futuro.  Intanto, tutti sperano che il nuovo “tappo” tenga, nelle profondità del Golfo del Messico. Ma in casi come questi, un azionista pubblico di controllo – il governo italiano, per ENI – o ha al suo interno o è in grado di procurarsi fini expertises di settore, in grado di vagliare tempi e modi per operazioni straordinarie valutandone l’impatto sul titolo ENI, il suo debito, i tantissimi primari fondi internazionali presenti nel suo capitale; ed è capace al tempo stesso di decidere nei tempi rapidi imposti dal mercato una volta confrontatosi col management della società; oppure tanto per cambiare si pone – e pone l’azienda – su un piano di assoluta subordinazione rispetto agli sviluppi di mercato, fatti da operatori del mercato con logica di mercato. Una logica che comprende anche  il cinico diritto di prender per sè a buon prezzo il meglio di chi è in grave difficoltà ed esposto ad azioni multipulrimiliardarie come BP. Intanto, qui oltre 50 utili videografiche del caso Deepwater Horizon-BP  rispetto aglia ndamenti e consumi e interessi energetici globali, e qui la graduatoria stimata complessiva globale dei più gravi incidenti della storia.

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Il lento funerale di BP, l’occasione per ENI /2010/07/12/il-lento-funerale-di-bp-loccasione-per-eni/ /2010/07/12/il-lento-funerale-di-bp-loccasione-per-eni/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:11:21 +0000 Oscar Giannino /?p=6471 Anticipo uno dei miei pezzi dal prossimo numero di Capo Horn

Penso che, se fossi l’azionista di controllo dell’ENI, avrei già fatto da tempo un ragionamento semplice semplice. Argomento: come approfittare del disastro che ha investito BP.  Ma prima di arrivare alla considerazione e alla proposta, serve un bel passo indietro per valutare tutti gli aspetti “epocali” della vicenda. I danni accollati a BP costituiranno un vero benchmark destinato a fare precedente. La compagnia mi pare che assai difficilmente possa sopravvivere. Non com’era fino a ieri, questo è sicuro.

Sono tre mesi che da 4mila metri di profondità, nel Golfo del Messico, fuoriescono ogni giorno nell’Oceano dapprima si era detto tra i 4 i 6 mila barili di petrolio al giorno, per poi ritoccare la stima fino a vette stellari, da un minimo di 35mila fino addirittura a un massimo di 60mila barili al dì. Il disastro della Deepwater Horizon per British Petroleum appare ormai prossimo a sancire, a tutti gli effetti, la fine di un gigante storico tra le maggiori oil companies. BP ha il 65% della concessione e dunque dell’impianto ma in pratica ne risponde integralmente, visto che è nei suoi confronti che faranno azione per negligenza i soci di minoranza Mitsui e Anadarko, come tutte le compagnie fornitrici degli impianti collassati, tipo Halliburton, Transocean e Cameron.

Alla chiusura  di Borsa di venerdì 9 luglio scorso, BP era ancora la terza compagnia petrolifera europea per capitalizzazione, a quota 81,8 miliardi di euro rispetto agli 89 di Total, e ai 128,8 miliardi a cui si giunge sommando le azioni di classe A e B di Royal Dutch Shell. Ma, quando è cominciato il disastro nel Golfo BP sfiorava i 195 miliardi di capitalizzazione, apparteneva a pieno diritto alla serie A mondiale come Exxon Mobil, che il 9 luglio capitalizzava 277 miliardi di dollari,ed era ben sopra la Chevron, che ne vale 143,5.

In altre parole, in tre mesi in BP si sono liquefatti oltre 100 miliardi di valore. I suoi CDS sono passati da 55-60 punti base, a oltre 700: a tutti gli effetti, peggio del peggio nella lista internazionale dei candidati al fallimento.

Ma è una stima esagerata, oppure ragionevole, quella del mercato? Perché se fosse esagerata, decadrebbe del tutto ogni idea intono a che cosa potrebbe fare l’ENI. E invece no, esaminata per benino la questione bisogna proprio concludere che il mercato non esagera. BP può andare in default eccome. Vediamo perché. A tutti gli effetti,il disastro della Deepwater Horizon costituirà infatti il nuovo benchmark di tutte le politiche risarcitorie nella oil industry mondiale. Un punto di riferimento integralmente nuovo, se si pensa che finora il disastro petro-ambientale più grave era  quello della petroliera Exxon Valdez in Alaska, con 250mila barili in mare che fanno quasi sorridere, rispetto al milione e mezzo che ogni mese si riversano nel Golfo del Messico. La stima  di metà maggio, quando sembrava che BP potesse cavarsela con 7 o 8 miliardi di dollari in tutto, è  ormai ridicola per quanto appare sottostimata.

L’Oil Pollution Act, la legge vigente negli USA che fu approvata proprio a fronte del disastro della Exxon Valdez, prescrive infatti a totale carico dell’inquinatore le spese per restituire l’ambiente alla sua condizione precedente. Se ci si basa sul precedente della Exxon, che va matematicamente integrato e modificato come modello previsivo visto che in questo caso lo spillover è continuativo e non concentrato nel tempo e con danni influenzati dalle correnti, al ritmo di un milione e mezzo di barili al mese il conto per la sola “pulizia” è di circa 6 miliardi di dollari per ogni mese di dispersione. Al terzo mese compiuto, siamo già a quota 18 miliardi per questa sola voce.

C’è poi il capitolo delle sanzioni amministrative e regolatorie, disciplinate dal Clean Water Act.  Nella prassi USA sin qui seguita, le multe vanno da un minimo di 1.100 a un massimo sin qui di 4.300 dollari per ogni barile disperso, ma nulla vieta di credere che la somma potrebbe in questo caso ultimamente salire. In ogni caso, se si applica al milione e mezzo di barili persi ogni mese una stima prudenziale sanzionatoria di 3.500 $ per barrel, siamo a circa 5,2 miliardi di dollari al mese di multa. In tre mesi, siamo già insomma a quota 15,2 miliardi.

C’è poi una terza voce, quella che riguarda i rimborsi su causa intentata da chiunque possa rivendicare un danno o un lucro cessante, a seguito dell’inquinamento.  E quando si dice chiunque vale proprio per chiunque, dagli Stati rivieraschi che possono chiedere il rimborso per gli interventi speciali che hanno dovuto sostenere e per gli aggravi di tasse e tariffe che hanno dovuto imporre,  alle municipalità e comunità locali per danni al turismo, a ogni singolo albergo, ristorante, pescatore  che legittimamente ritengano di essere stati danneggiati.  L’Oil Pollution Act pone un tetto esplicito a 75 milioni di dollari, per tali rimborsi. Ma il presidente Obama, nella seconda settimana di giugno, con un gesto degno del venezuelano bolivarista Chavez ha sbattuto i pugni sul tavolo, sostenendo che il cap posto per legge era inadeguato, e BP avrebbe fatto bene a mettere subito sul tavolo almeno 20 miliardi di dollari. Tanto per cominciare, ha detto il presidente. Con un bel saluto allo Stato di diritto, anche se so che nel dirlo tutti gli ambientalisti mi azzanneranno.

Poiché l’economia legata a turismo marino e pesca dei quattro Stati rivieraschi -  Alabama, Louisiana, Mississippi e Florida – si può cifrare intorno ai 30 miliardi di dollari, e il tratto di costa  investito sino a inizio luglio era di circa 120 km, una previsione dei rimborsi ai quali BP può essere obbligata dai tribunali americani può agevolmente raggiungere i 18-20 miliardi.

Se si sommano le stime delle tre voci di costo per BP, siamo sui 75 miliardi. Per i soli primi tre mesi. A prescindere da quanto bisognerà aggiungere, se non ha successo nei prossimi giorni e settimane il nuovo “tappo”. 75 miliardi: non tutti in un anno, d’accordo. Ma le stime finanziarie e di cassa per BP nel 2010, con un barile intorno ai 65-70 $ per barile, parlavano di 30 miliardi di generazione di cassa, di cui 20 da destinare  a investimenti e oneri finanziari, 10 a dividendo per i soci. E’ vero che BP ha circa 14 miliardi tra liquidità e linee di credito inutilizzate, ma c’erano già 17 miliardi di bonds e prestiti da rimborsare, tra 2010 e 2011.

La domanda a questo punto è duplice. Va bene non distribuire dividendi, come subito l’Amministrazione Obama ha irritualmente chiesto e ottenuto da BP per il 2010: ma per quanti anni? E inoltre: i tribunali USA seguiranno il principio che occorre sempre porre un limite ragionevole alla responsabilità illimitata di una società per danni catastrofici da eventi estremi, oppure faranno propria la demagogia populista del presidente ?

In ogni caso, nelle condizioni attuali per il board di Bp non c’è alternativa. A parte la speranza che qualche nuovo marchingegno consenta di mettere uno stop al deflusso, occorre far cassa subito per miliardi, per evitare un nuovo downgrading come quello che Fitch ha già comminato a metà giugno, e che ha fatto schizzare il costo del debito. Secondo le malelingue, in realtà Obama  picchia duro non solo perché, come BP, deve recuperare sull’impressione popolare che abbia del tutto sottovalutato l’evento e  la sua portata, per lunghe settimane. Ma anche perché, a questo punto, tanto vale portare BP alla canna del gas il più possibile sotto le elezioni del midterm del prossimo autunno. Magari assicurando alle oil companies americane buona parte di ciò che BP ha in pancia di più prezioso, e cioè moltissimo upstream di grande qualità e in aree non devastate da pericolosa instabilità mondiale.

Ma se è così, perché non arrivare per primi dico io? Per questo dico che, se fossi stato l’azionista pubblico di controllo italiano dell’ENI, e cioè il governo, in queste settimane avrei fatto  un bel pensierino. Perché non farsi subito vivi con il board di BP, e fare una bella offerta per 10-15 bn  di uspstream pregiato, prima che le procedure giudiziarie mettano inequivocabilmente BP alla mercé sei suoi creditori? Per conto mio, è un’operazione che da sola varrebbe la cessione di tutta la filiera nazionale del gas, approvvigionamento stoccaggio e distribuzione, che nessun concorrente  di Eni mantiene altrettanto integrata. Non è un’idea balzana, perché ne ho parlato con banchieri e oilmen e tutti mi hanno dato ragione. Ma è il governo italiano, che da questo punto di vista non ci sente. Peccato, dico io. Non tutti i mali vengono per nuocere, aggiungo cinicamente. Ma vale solo per chi ne sa approfittare, ovvio.

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Il governo del vietare /2010/07/01/il-governo-del-vietare/ /2010/07/01/il-governo-del-vietare/#comments Thu, 01 Jul 2010 10:39:14 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6407 UPDATE: Meno male che Saglia c’è.

Un drammatico incidente all’estero. L’Italia che reagisce scompostamente, castrando il suo futuro energetico nonostante le condizioni in cui la tragedia si è verificata in un paese molto lontano non abbiano nulla a che vedere con le tecnologie e le procedure impiegate nel nostro. Non sto parlando dell’uscita dal nucleare dopo Chernobyl. Sto parlando delle reazione, altrettanto scomposta, del ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, che pensa sia cosa saggia rispondere al disastro della Deepwater Horizon imponendo un bando alle estrazioni offshore in una fascia di 5 miglia dalle coste nazionali (12 nelle zone marine protette). Greenpeace applaude. Dovrebbe far pensare.

Anzitutto qualche informazione di base. La Deepwater Horizon – qui le specifiche tecniche – è una piattaforma petrolifera attrezzata per la perforazione in acque fino a circa 2.500 metri di profondità, cioè in quelle che si definiscono acque “ultra profonde” (sebbene non vi sia una definizione codificata, generalmente si intendono “profonde” le acque oltre i 300 metri, “ultra profonde” sotto la soglia – fino a poco tempo fa economicamente e tecnologicamente impensabile – dei 1.500 metri, o 5.000 piedi, come spiega bene Ed Crooks). La piattaforma estraeva petrolio dal campo denominato “Macondo“, che sta a una profondità di circa 1.500 metri. Qui si trovano maggiori informazioni. Il pozzo – che sotto la colonna d’acqua scende ancora per 5 o 6 mila metri attraverso la crosta terrestre – è così difficile da sistemare proprio per le condizioni estreme di pressione che si vengono a creare nelle profondità oceaniche. Il trovarsi in acque profonde non è, di per sé, una condizione facilitante l’incidente, ma è sicuramente una delle ragioni per cui aggiustare le cose è così difficile.

Quale relazione ha questo con le avventure esplorative nelle coste italiane? La risposta è semplice: nessuna. Come è facile verificare dall’elenco delle piattaforme attualmente esistenti, gran parte delle nostre avventure estrattive si mantiene in acque basse, attorno o sotto i 100 metri di profondità. Solo in un paio di casi si scende significativamente più in basso, cioè attorno ai 1.000 metri, peraltro in entrambi i casi a grande distanza dalla costa (oltre 40 chilometri). Tempo fa qualcuno ha provato a cercare in acque ultra profonde al largo della Puglia, ma senza risultati. Dunque, oggi pochi o nessuno credono vi siano giacimenti abbastanza ricchi in acque così profonde, e pochi o nessuno vanno a cercarli. Ma la vera differenza è un’altra, e mi spiace non trovare un modo per dirlo con tatto, e dunque senza sconvolgere il ministro Prestigiacomo: l’Italia galleggia nel mar Mediterraneo. Il Mediterraneo non è il golfo del Messico. Noi non abbiamo giacimenti giganti da sfruttare, e neppure grandi. Abbiamo dei dignitosi reservoir che danno un piccolo – importante, ma piccolo – contributo a soddisfare il fabbisogno nazionale.

Basta un numero: da quando c’è stata l’esplosione della Deepwater, Macondo rigurgita qualcosa tra 5.000 e 100.000 barili di greggio al giorno (la verità sta probabilmente attorno alle poche decine di migliaia). L’intera produzione quotidiana di tutti i nostri pozzi sottomarini messi assieme è stata, nel 2009, in media di 11.000 barili / giorno. Questo significa che le perdite da Macondo valgono tra la metà e dieci volte la nostra produzione aggregata. Le dimensioni contano.

Insomma. Non è solo che il bilancio tra i costi e i benefici dell’offshore drilling è ancora, tutto sommato, positivo, nonostante Deepwater Horizon. Non è solo che, almeno negli Usa e almeno in parte, la corsa verso le profondità abissali dipende anche da una politica troppo conservativa nel rilasciare concessioni estrattive a terra. Non è solo che l’incidente è, almeno in parte, figlio della cultura aziendale di Bp, titolare di Deepwater Horizon. Non è solo che, nonostante tutti i nostri tentativi di razionalizzare l’accaduto, c’è sempre di mezzo anche la sfiga – cioè, una cosa normalmente buona (l’estrazione sottomarina) ha avuto, occasionalmente, conseguenze nefaste. E’, soprattutto, che qualunque cosa sia accaduta nel Golfo del Messico non è neanche parente di qualunque cosa sia accaduta o possa accadere nel nostro paese.

Ovvio che questo implica anche che il danno effettivo di un bando sull’esplorazione petrolifera in Italia è diverso da quello dello stesso provvedimento, poniamo, negli Usa. Ma ci sono almeno due aspetti rilevanti. Primo: per piccola che sia, la produzione petrolifera italiana è comunque importante. Per sacrificarla, bisogna avere ragioni molto forti, che non mi pare vengano portati da Prestigiacomo e da chi la pensa come lei. Secondo: c’è un problema di credibilità del paese. Più ci comportiamo in modo isterico, più reagiamo in modo uterino a quello che accade fuori dai nostri confini, e più spaventiamo gli investitori e riduciamo le nostre prospettive di crescita. La chiusura delle centrali atomiche non ha fatto male al paese solo perché ci ha fatto perdere una fonte di energia: ha detto al mondo che l’Italia è un paese di cui non ci si può fidare. Avanti così, dunque?

Tutti i politici hanno un bisogno patologico di mostrare i muscoli. Prestigiacomo non fa eccezione. Ma in ultima analisi andrebbe presa di petto l’idea che, di fronte a qualunque problema, da Chernobyl alla marea nera, la reazione giusta sia di nascondere la testa sotto la sabbia e fare un passo indietro verso le caverne. Se si trattasse di un individuo, potrebbe sbrigarsela con lo psichiatra. Trattandosi di diverse generazioni di un’intera classe politica, forse dovremmo farci delle domande più profonde.

Vietare tutto, vietare subito, vietare sempre non ci renderà più sicuri. Ci renderà solo più poveri e marginali.

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Obama a picco nel Golfo del Messico, due numeri /2010/06/13/obama-a-picco-nel-golfo-del-messico-due-numeri/ /2010/06/13/obama-a-picco-nel-golfo-del-messico-due-numeri/#comments Sun, 13 Jun 2010 14:44:51 +0000 Oscar Giannino /?p=6261 Negli States e in UK Obama sta letteralmente perdendo la faccia nei sondaggi, dopo che il 28 maggio si era dichiarato generale in capo dell’operazione “stop the oil bleeding ‘nd make BP pay for it each single dime”. Da noi, la faccenda scalda per nulla le cronache, al di là delle trombe dei soliti sostenitori della decrescita…. è utile questa infografica, sui consumi energetici mondiali e loro andamento nel tempo, in un solo colpo d’occhio.

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Navarro falls /2010/06/09/navarro-falls/ /2010/06/09/navarro-falls/#comments Wed, 09 Jun 2010 10:07:38 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6238 Sull’Occidentale, Gengis – tra l’altro fedele lettore di Chicago-blog – fa il pelo a Mario Tozzi e il contropelo a Joaquìn Navarro-Valls. Da non perdere.

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Shit happens /2010/06/04/shit-happens/ /2010/06/04/shit-happens/#comments Fri, 04 Jun 2010 13:52:07 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6170 Nove scienziati della Commissione grandi rischi sono indagati dalla procura dell’Aquila per omicidio colposo, in quanto avrebbero sottovalutato il rischio sismico nei giorni precedenti il disastroso terremoto del 6 aprile 2009. Pochi giorni fa, il presidente americano, Barack “tappate quel maledetto buco” Obama, ha licenziato Elizabeth Birnbaum, capo del Minerals Management Service, e annunciato una moratoria sull’offshore drilling nel Golfo del Messico. Un comune denominatore unisce queste due notizie, e tante altre simili che riguardano incidenti meno tragici. E’ la presunzione che per tutto si possa trovare sempre un responsabile, una testa da far rotolare, una soluzione. E’ la consolante illusione che tutto possa andare bene sempre, se abbiamo le leggi giuste. Purtroppo ho una brutta notizia: l’ultima volta che ho controllato, l’uomo era stato scacciato dal giardino dell’Eden e non gli era più stato permesso di farvi ritorno.

Le due vicende della piattaforma Deepwater Horizon e del terremoto dell’Aquila sono, naturalmente, molto diverse. Tendo a pensare che Bp non sia esente da responsabilità per il disastro del Golfo del Messico. Bp è notoriamente una compagnia relativamente poco attenta alle questioni della sicurezza, come ha riconosciuto anche il New York Times e come yours truly sostiene fin dal primo giorno (forse perché troppo impegnata a investire attenzione e risorse nel lobbying a favore dell’introduzione del cap and trade negli Usa). Diversamente, trovo davvero improbabile che i sismologi italiani possano essere anche solo sospettati di aver sottovalutato il terremoto che si stava per scatenare. Tuttavia, la domanda rilevante, in questo momento, non è se e quali responsabilità e da parte di chi sia possibile, con ragionevole certezza, tracciare. Le domande rilevanti sono: se tutto fosse andato per il verso giusto, avremmo potuto evitare, con assoluta certezza, una o entrambe le catastrofi? E, posto che le catastrofi si sono verificate, dovremmo dedurne che l’attuale regolamentazione è insufficiente e va inasprita?

Sul primo punto, francamente, trovo perfino imbarazzante dovermi soffermare. Le “buone pratiche” possono minimizzare, ma non eliminare, i rischi. Ecco la cattiva notizia: a volte delle cose, generalmente buone, vanno male. Succede. E’ la vita. Shit happens, dicono gli americani. Ti sei appena lavato rasato e vestito e messo la cravatta nuova, esci di casa e vieni stirato da un pirata della strada. Succede. Sarebbe meglio che non succedesse? Certo. E’ possibile che non succeda? Sicuramente: non uscire di casa.

Questo però mi porta alla seconda questione: conviene non uscire di casa, per evitare di essere investiti? Non conviene. Non conviene perché il valore di tutto ciò a cui rinunceresti vale molto di più del rischio di essere investito. Infatti, c’è anche la buona notizia: generalmente non vieni investito. Il petrolio ci ha resi ricchi. Il petrolio, che sta inquinando il Golfo del Messico e perciò è un bastardo, ci ha dato le automobili, l’elettricità, la plastica, ci ha dato la civiltà industriale con tutte le sue mille storture e tutti i suoi milioni di benefici. La stessa estrazione di greggio offshore, che d’ora in poi sarà per tutti sinonimo della chiazza che si riversa sulle coste della Louisiana, avviene in condizioni di accettabilissima sicurezza in innumerevoli piattaforme in giro per il mondo, in tanti mari diversi, e nessuno se ne accorge e anzi tutti ne siamo felici perché anche grazie al greggio cavato dai fondali oceanici possiamo uscire di casa e, con un giro di chiave, innescare il miracolo del fuoco, dei cilindri e dei pistoni e lasciarci trascinare dal nostro carro d’acciaio virtualmente dovunque.

Quindi, lasciandoci catturare dal gorgo della paura non ci aiuterà. Anzi,peggiorerebbe le cose, complicherebbe la vita e la renderebbe meno degna d’essere vissuta. Come scrive Massimo de’ Manzoni sul Giornale. Come spiega Sheldon Richman su Master Resource. Come evidenzia Michael Giberson su Knowledge Problem. C0me mostra Randal O’Toole su The Antiplanner:

The tragic explosion that killed 11 people and led to millions of gallons of oil spilling into the Gulf of Mexico has many people, even die-hard auto enthusiasts, arguing that we should undertake a crash program to find alternatives to petroleum to fuel our transportation system. While it is nice to fantasize that some sort of “race-to-the-moon” research program will uncover magically new energy sources and technologies, realistically it isn’t going to happen.

La regolamentazione, di per sé, non ci salverà. Potrebbe perfino peggiorare le cose, facendoci sprecare risorse preziose. Ma soprattutto la regolamentazione, per quanto perfetta e informata alle migliori intenzioni, non ci libererà dall’imperfetta natura umana o, se preferite, dal peccato originale. Non renderà perfetti i nostri manufatti, i nostri atti, i nostri processi. Non ci libererà dall’errore (anzi, potrebbe renderlo più probabile). Cedere alla presunzione fatale di poter conoscere tutto, e dunque prevenire tutto, non ci renderà né onniscienti né onnipotenti né immortali.

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Quello che Deepwater Horizon insegna agli ambientalisti (e agli altri) /2010/05/21/quello-che-deepwater-horizon-insegna-agli-ambientalisti-e-agli-altri/ /2010/05/21/quello-che-deepwater-horizon-insegna-agli-ambientalisti-e-agli-altri/#comments Fri, 21 May 2010 08:52:36 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6026 Il disastro della Deepwater Horizon, la piattaforma della compagnia eco-petrolifera Bp che dal 20 aprile ha iniziato a disperdere greggio nel mare, insegna molte cose. Ma ne insegna una in particolare, che gli ambientalisti – anziché baloccarsi col cattivo tempo tra cent’anni – dovrebbero prendere sul serio. Insegna che i sussidi creano sempre distorsioni, e che le distorsioni hanno sempre conseguenze (anche ambientali) negative, nel lungo termine. Insegna, quindi, che una buona battaglia è quella per l’abolizione dei sussidi di vario tipo alle compagnie petrolifere (oltre che alle fonti rinnovabili).

Negli Stati Uniti, il problema è una norma del 1986, che limita la responsabilità delle compagnie petrolifere per i danni da esse arrecate. Secondo la legge, devono farsi carico del cleanup, ma non devono interamente pagare per il danno a persone, imprese o enti pubblici:

Under the law that established the reserve, called the Oil Spill Liability Trust Fund, the operators of the offshore rig face no more than $75 million in liability for the damages that might be claimed by individuals, companies or the government.

Il paradosso, come spiega bene l’articolo del New York Times linkato sopra, è che il fondo di garanzia è troppo grosso per gli incidenti ordinari, che vi attingono solo marginalmente, ma troppo piccolo per gli incidenti eccezionali, come questo. Dal fondo dovranno, in qualche maniera, uscire tra 1 e 1,6 miliardi di dollari di compensazioni varie, che Washington, specie in un momento come questo, non può permettersi di scucire. E’ anche per questa pressione assai poco prosaica che l’amministrazione Obama ha iniziato a picchiar duro: dalle accuse sulla scarsa trasparenza alle minacce vere e proprie.

Compresa l’aria che tirava, non è stupefacente la reazione di Bp:

Lamar McKay, chairman and president of BP America Inc., said there are no major regulations requiring a ‘subsea intervention plan.’ He agreed that regulations, planning and the types of capabilities and resources available for a blowout will need to be examined in the wake of the spill.

Sul piano legale, probabilmente ha ragione Bp: la responsabilità è limitata dalle legge, punto. Sul piano politico e sostanziale, ha probabilmente ragione Obama: ci sono molti modi “laterali” per rendere la responsabilità illimitata (come dovrebbe essere). Certo, la Casa Bianca non è disposta a correre rischi, e per questo ha proposto una sorta di “Robin Tax” di un centesimo per barile. Ma il punto, a me pare, è la tensione costante tra regolamentazione e responsabilità. In assenza di ogni tipo di regole – nel far west petrolifero – una compagnia petrolifera sarebbe incentivata a mettersi in sicurezza, perché dovrebbe sostenere tutti i costi degli incidenti. In un contesto pesantemente regolato, invece, l’incentivo è opposto: barare finché si può, interpretare le norme, paraculare in vario modo e, alla disperata, chiedere ancora più regole (e ancora meno responsabilità).

Chi ha a cuore l’ambiente, dovrebbe comprendere meglio questi meccanismi, anziché farsi abbagliare dal trionfo verde della politica Bp (a cui non sempre corrispondono comportamenti adeguati). Vale la pena ricordare che Bp, assieme a Enron e Lehman Brothers, è stata uno dei maggiori sponsor dell’introduzione di uno schema di cap and trade negli Usa. Due della banda dei tre sono già andati. Il disastro nel Golfo del Messico potrebbe dare una seria botta alla credibilità, se non alla sopravvivenza, del terzo.

(Hat tip: Rob Bradley, Jesse Walker)

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Il presidente perforatore /2010/04/01/il-presidente-perforatore/ /2010/04/01/il-presidente-perforatore/#comments Thu, 01 Apr 2010 10:24:51 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5569 L’inattesa apertura del presidente americano, Barack Obama, alla ricerca petrolifera e di gas al largo delle coste atlantiche e dell’Alaska ha spiazzato molti tra i suoi sostenitori e avversari. La sinistra ecologista denuncia il tradimento della battaglia no-triv; la destra petrolifera rilancia perché la Casa Bianca non ha fatto abbastanza. In realtà, gli uni e gli altri rischiano di sottovalutare la portata di questa mossa (le cui implicazioni sono invece colte con attenzione in prima pagina sul Foglio).

Anzitutto, è importante dare un’occhiata alla carta geografica (la rubo dal Wsj). Sebbene restino ancora molte, ampie e potenzialmente interessanti le aree inaccessibili alle trivelle (sia sulla costa atlantica, sia soprattutto su quella pacifica e nel ricco Golfo del Messico), l’estensione delle zone adesso rese sfruttabili è di tutto riguardo. Il cavallo di Troia con cui Obama assedia il fortuno di un’America sempre più scettica nei suoi confronti, insomma, questa volta è mezzo pieno di doni. Dunque, è comprensibile la reazione stizzita del capo della minoranza repubblicana alla House, John Boehner:

Keeping the Pacific Coast and Alaska, as well as the most promising resources off the Gulf of Mexico, under lock and key makes no sense at a time when gasoline prices are rising and Americans are asking ‘Where are the jobs?’

E’ comprensibile ma, insomma, non del tutto giustificata. Bisogna dare atto al presidente di aver saputo stupire, con intelligenza e coraggio (vista l’ondata di critiche da cui è stato immediatamente investito). Tant’è che i mal di pancia interni hanno subito trovato sfogo. Così il senatore democratico Frank Lautenberg (che rappresenta il New Jersey, un’area direttamente interessata dalla piccola rivoluzione obamiana):

Giving big oil more access to our nation’s waters is really a ‘kill baby, kill’ policy: it threatens to kill jobs, kill marine life and kill coastal economies that generate billions of dollars.

Questa dura reazione va letta come mera dialettica politica, e probabilmente non preoccupa granché il presidente. Infatti, se il suo cavallo è mezzo pieno di doni, per l’altra metà è pieno di guerrieri armati fino ai denti, ed è questo che dovrebbe spingere a leggere la mano tesa presidenziale alla luce dell’antico “timeo danaos“. Come scrive il Ft nella sua maliziosa Lex di oggi, Obama sta vezzeggiando il mondo petrolifero americano (e, su un altro piano, sta cercando di allentare l’opposizione repubblicana) avendo in mente un obiettivo più ambizioso, cioè l’approvazione (dopo la riforma sanitaria) di una strategia energetica per la riduzione delle emissioni. La logica alla base di questa mossa, dunque, è la stessa attraverso cui bisogna leggere la svolta nuclearista dell’amministrazione (un fatto che pochi, in Italia, hanno notato: tra i pochi, Luca Iezzi è stato forse il primo a metterlo nero su bianco).

Non ci vuole, del resto, la sfera di cristallo per svelare le ambizioni della Casa Bianca. Basta, infatti, leggere le parole del potente capo dello staff di Obama, Rahm Emanuel:

If they disagree they don’t have the argument, ‘All you want to do is put windmills and solar panels everywhere,’ ” said White House Chief of Staff Rahm Emanuel in an interview. “This gives him leverage for negotiations because he can’t be boxed” in as a traditional Democrat.

Dunque, cosa dobbiamo aspettarci? La mia previsione è che, nonostante tutto, il presidente non adrà molto lontano. Sono almeno tre le ragioni. La prima è di ordine politico: i repubblicani sono galvanizzati dalle recenti vittorie, e hanno gli occhi puntati sulle elezioni di mid term alla fine di quest’anno. Sarebbe davvero ingenuo per loro concedere a Obama una vittoria dal significato politico tanto profondo, in cambio di alcune concessioni dal sapore puramente tattico (per quando significative). La seconda riguarda la congiuntura economica: sebbene gli Usa sembrino avviati a uscire dalla recessione, i danni della crisi sono ben lontani dall’essere riassorbiti, senza contare la perdita strutturale di competitività a favore delle economie emergenti e le tensioni delle finanze pubbliche. L’America non può permettersi di frenare la ripresa imponendo dei vincoli che, se vogliono essere efficaci, dovranno essere dolorosi. La terza ragione riguarda gli equilibri lobbistici: lo strumento che il presidente ha in mente, anche per le pressioni europee, è un meccanismo di cap and trade, uno strumento ormai sputtanato dal fallimento europeo e considerato sempre meno efficiente dal mainstream economico. Lo scambio delle emissioni continua a essere promosso da soggetti il cui peso lobbistico è in calo: alcune grandi società petrolifere, grossi intermediari finanziari, et similia (giova forse ricordare che dei due più convinti sostenitori del cap and trade negli ultimi anni, il mercato ha fatto piazza pulita: erano Enron e Lehman Brothers). Il variegato mondo degli independents (il vero nerbo della lobby petrolifera americana, che non ruota certo attorno agli interessi delle multinazionali) è scettico nei confronti di uno strumento che non capisce, e che capisce di non poter padroneggiare. Perfino un pezzo di mondo ambientalista è sempre più disilluso in merito (il Wwf ha invitato a Roma uno dei vati del catastrofismo climatico, James Hansen, per sentirsi dire che il cap and trade è una patacca e che il nucleare invece merita attenzione e finanziamenti).

Obama sta, insomma, giocando d’azzardo. La mia scommessa è che fallirà sul clima, ma in ogni caso, almeno per quel che riguarda il rilassamento dei vincoli all’esplorazione petrolifera, ha ottenuto un risultato oggettivamente importante e utile. Se io fossi un repubblicano, direi: Well done, Mr President.

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Per chi investe su oil&commodities /2010/03/03/per-chi-investe-su-oilcommodities/ /2010/03/03/per-chi-investe-su-oilcommodities/#comments Wed, 03 Mar 2010 19:12:27 +0000 Oscar Giannino /?p=5303 Non so quanti tra i nostri lettori “traffichino” come trader sui mercati di oil e commodities. Io lo faccio, e non solo su quelli. Non sono di quelli che pensano che i mercati si conoscano solo con teoria e dottrina, senza frequentarli. Anche se, per partecipare, bisogna essere in pool a meno di essere molto ma molto ricchi. In ogni caso, ecco qui un paper per voi che “sistematizza” una regola ben nota a chi gioca sul prezzo del barile, e di conseguenza sui sottoindici delle società quotate di settore. Esiste una relazione bidirezionale tra prezzo del barile e indici delle Borse dei paesi del Golfo, in particolare dell’Arabia Saudita, e i due economisti dell’università di Orleans e di Paris X Nanterre ne danno una lettura “storica” molto utile.  In parole semplici: barile e indici locali sono elementi anticipatori l’uno dell’altro, a seconda dei diversi cicli economici.

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