Possibile che dopo cinque anni, un governo, un paio di ministri, un passaggio di mano dell’azienda e miriadi di progetti e proclami, ci ritroviamo ancora a discutere di come nazionalizzare la rete Telecom? Possibilissimo, ahinoi. E non dovrebbe sorprendere che nell’interminabile gioco dell’oca che è la politica digitale italiana ci si ritrovi repentinamente alla casella di partenza.
Certo, Romani non è Rovati ed è mutato il contesto tecnico-finanziario: con ciò cambiano anche i dettagli del piano, che suggerisce il conferimento del rame nella società della rete e non l’acquisto diretto da parte della Cassa Depositi e Prestiti. Non cambia invece il respiro dell’operazione, che tenta di combinare la volontà di controllo con l’esiguità delle risorse disponibili.
Ancor più discutibile è il presunto significato industriale del conferimento, che – nonostante le preoccupazioni espresse dai piccoli azionisti di Telecom – appare oltremodo favorevole all’ex monopolista, garantendo un sussulto di redditività ad un asset che lo switch-off priverebbe di alcun valore, e persino attribuendo al gruppo un’opzione per l’acquisto dell’intera FiberCo.
Il rischio è cioè quello di sopravvalutare oggi la partecipazione di Telecom, permettendole domani di ottenere il controllo totalitario delle nuove infrastrutture proprio in virtù di questo sussidio mascherato. Il che – per restare alla nostra metafora – ci riporterebbe non già alla casella Rovati, ma almeno un paio di giri più indietro: in piena era monopolistica.
Non appare azzardato intravvedere nell’ultima versione del progetto una risposta all’insofferenza espressa da Franco Bernabè – peraltro con argomenti assai condivisibili – poche settimane fa. Non è però chiaro perché gli operatori alternativi dovrebbero imbarcarsi in un’iniziativa che non offre alcuna garanzia duratura per la concorrenza, per i consumatori, e in ultima analisi per un paese che volta le spalle al futuro per l’attrazione irresistibile degli errori del passato.
Massimiliano Trovato telecomunicazioni ngn, Paolo Romani, rete fissa, Telecom Italia
I primi giorni dell’anno marcano l’esordio della liberalizzazione dei servizi postali, voluta dall’Unione Europea ed accolta con riluttanza dal legislatore italiano. Se i nomi hanno un significato, di “liberalizzazione” sembra, invero, generoso parlare a proposito del decreto di recepimento approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri nell’ultima seduta del 2010.
Contrariamente alle previsioni più ottimistiche, il testo del provvedimento non pare discostarsi dalla bozza anticipata da 2+2, principalmente in virtù della volontà di tutelare il sottostante accordo politico, che ha vanificato un’opportunità di rielaborazione del documento governativo.
In un recente Briefing Paper ho tentato di delineare i tratti fondamentali di un processo di liberalizzazione credibile ed efficace del comparto: le norme licenziate dal Consiglio dei Ministri mancano il confronto con tutte le proposte suggerite. Non v’è traccia di aggressione alla posizione dominante di Poste Italiane, alle asimmetrie con i concorrenti, alle ambiguità sul futuro dell’ex monopolista. È esclusa qualsiasi prospettiva di sviluppo del mercato liberalizzato, tale da prescindere dal ruolo centrale dell’operatore pubblico.
Colpisce particolarmente la mancata assegnazione delle mansioni di regolamentazione all’ente maggiormente titolato ad occuparsene: Agcom, mentre – lo ricorda Fulvio Sarzana - la stessa Autorità viene investita di responsabilità che poco hanno a che vedere con le sue competenze.  Altrettanto criticabili la delimitazione del servizio universale (si pensi all’inclusione sino al giugno 2012 del direct mail), ed il mantenimento della riserva su alcuni servizi potenzialmente contendibili (ad esempio, gli invii raccomandati relativi agli atti giudiziari).
Come ha ricordato Paolo Gentiloni su Il Sole 24 Ore, la possibilità di rettificare lo schema di provvedimento è ora concessa al Parlamento – che dovrà esaminare il testo prima della definitiva approvazione. Un profondo ripensamento del decreto è indispensabile ad evitare che, già a gennaio, la liberalizzazione dei servizi postali vada annoverata tra i buoni propositi traditi del 2011.
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Paradossi. Ieri è stato nominato Paolo Romani come Ministro allo Sviluppo Economico, proprio il giorno anteriore al quale si certifica un grande cambiamento nelle relazioni sociali. L’incontro tra Confindustria e sindacati per parlare di nuovi contratti nella meccanica arriva al termine di un semestre nel quale i rapporti tra le parti sociali hanno registrato un forte passo in avanti e all’Italia è mancato un Ministro. Prosegui la lettura…
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