CHICAGO BLOG » pac http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Nuova PAC: a capofitto verso il 2013 /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/ /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/#comments Sun, 21 Nov 2010 11:46:52 +0000 Giordano Masini /?p=7647 Prendo spunto da un post pubblicato su Agricoltura24 che riprende a sua volta un articolo di Terra e Vita e che mi sembra dare, fino a questo momento, il quadro più completo degli indirizzi proposti per la nuova Politica Agricola Comune post 2013. Ho sempre pensato che la PAC sia uno strumento perverso e tendenzialmente criminogeno, per le gravi distorsioni che induce nel mercato agroalimentare. Ma dalle proposte che circolano oggi, a mio avviso la PAC sta prendendo una strada del tutto insensata, iniqua e controproducente anche rispetto alle stesse intenzioni dichiarate dai suoi sostenitori, e rischia di essere la pietra tombale per l’agricoltura europea. In questo post (forse un po’ lungo) proverò a spiegare perché.

Dai primi orientamenti si comprende che alcune scelte della nuova Pac sono inevitabili, come la soppressione dei pagamenti storici. In tutti i documenti emergono due nuovi temi: la remunerazione dei beni pubblici e gli strumenti per contrastare l’instabilità dei mercati.

Non tutti possono aver chiaro, ovviamente, cosa significhi “remunerazione dei beni pubblici”. Con questa denominazione, inserita nella PAC all’inizio del nuovo millennio, si pretende che gli agricoltori, oltre a mettere sul mercato prodotti agroalimentari e trarre profitto da questa attività, producano anche beni che avrebbero valore per la collettività, ma che non sarebbero remunerati adeguatamente sul mercato: paesaggio agrario, presidio territoriale, biodiversità, lotta al cambiamento climatico, conservazione dell’ambiente, sviluppo rurale, salubrità degli alimenti, benessere degli animali.

Sulla base di questo principio (la cui arbitrarietà e scarsa fondatezza è evidente anche a un bambino) la PAC è stata, ormai quasi un decennio fa, suddivisa in due pilastri: da una parte gli aiuti diretti, destinati a sostenere il reddito dell’agricoltore, dall’altra i cosiddetti aiuti allo sviluppo, focalizzati da una parte a sostenere lo sviluppo delle aziende e dall’altra a premiare quei comportamenti e quelle pratiche agricole in grado di produrre “beni pubblici”. Per esempio, se in Europa le autorità pubbliche possono finanziare le aziende agricole biologiche ma non le compagnie aeree lo si deve proprio al fatto che, secondo i tecnocrati di Bruxelles, Almaverde Bio produce beni pubblici ed Alitalia no.

Ora, il primo pilastro della PAC sembra avere un problema: il sistema in base al quale è stato calcolato il premio che ogni azienda riceve, e sul quale non mi dilungo, ha prodotto delle differenze inaccettabili tra paese e paese e deve essere superato: attualmente l’Italia percepisce mediamente 300 euro/ha, mentre la Grecia percepisce 600 euro/ha e la Romania soltanto 40 euro/ha.

Il dibattito su questo tema è molto acceso e, per trovare un equilibrio tra le varie posizioni, è probabile che i pagamenti diretti potrebbero essere rimodulati in più componenti:

  • una parte (ridotta rispetto ai livelli attuali, ad esempio 100-200 euro/ettaro) erogata a tutti gli agricoltori;
  • una parte riservata alle zone con svantaggi naturali, ad esempio la montagna e le zone svantaggiate; a tal proposito, c’è la proposta di portare le indennità compensative dal 2° al 1° pilastro;
  • una parte, selettiva, in funzione del fabbisogno di lavoro o del valore aggiunto o di specifici comportamenti orientati alla fornitura di beni pubblici ambientali.

Sembra, quindi, che la produzione di questi fantomatici beni pubblici debba diventare un criterio per indirizzare, oltre agli aiuti allo sviluppo, anche i fondi che dovrebbero servire al sostegno del reddito, quello uguale per tutti. Ma se una quantità così rilevante di soldi dei contribuenti europei dovrà essere spesa in questa direzione, sarebbe giusto chiedersi se e come, al di là dei luoghi comuni, questi beni pubblici portino qualche vantaggio alla salute e all’ambiente (anche se basterebbe il fatto che nessuno sembra disposto a pagare di tasca sua per essi, ma si sa, c’è sempre chi è in grado di scegliere per noi meglio di noi)

Se parliamo di agricoltura biologica, non esiste un solo studio scientifico serio (e si sono dati da fare per cercarlo) in grado di dimostrare che nutrirsi di alimenti biologici rechi qualche beneficio per la salute, mentre per quanto riguarda l’ambiente, è di un’evidenza lapalissiana che fornire all’umanità il fabbisogno di cibo con tecniche scarsamente produttive come quella biologica comporterebbe l’impiego di una quantità enorme di superficie agricola, oggi occupata da praterie e foreste.

Anche dal punto di vista del contenimento delle emissioni, è l’agricoltura intensiva che produce i migliori risultati, come ho avuto già modo di argomentare citando un autorevole studio di PNAS, e per quanto riguarda il presidio territoriale e la tutela del paesaggio agrario (anche questi sono concetti strani da capire: per quale ragione il paesaggio rurale attuale dovrebbe essere migliore di quello passato e di quello futuro?) è solo un’azienda agricola competitiva e orientata al profitto ad avere interesse a continuare a lavorare la terra, invece che abbandonarla e sostenersi solo con i sussidi (non è un’ipotesi, è quanto sta accadendo).

Quindi, una PAC seria dovrebbe, avendo a cuore l’ambiente, premiare l’agricoltura intensiva, l’uso delle biotecnologie, la ricerca del profitto. E’ ovvio che per premiare questi comportamenti la maniera migliore sarebbe quella di eliminare completamente i sussidi, incentivando i produttori a perseguire l’efficienza. Premiare e sostenere comportamenti opposti è completamente demenziale, oltre ad essere uno spreco intollerabile di denaro pubblico.

Per quanto riguarda invece la “stabilizzazione dei mercati”, questi sono gli orientamenti che emergono dal summenzionato articolo:

In molte proposte emerge una nuova richiesta per la Pac: il contrasto all’instabilità dei mercati e il miglioramento della posizione degli agricoltori nella filiera agroalimentare. Gli strumenti della vecchia politica di garanzia (prezzi garantiti, dazi, sussidi all’esportazione, ammasso pubblico, quote, set aside, ecc.) hanno mostrato tutti i loro limiti e non sono più applicabili nella prospettiva futura. Tuttavia l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi e dei mercati rimane ancora attuale. Anziché la vecchia politica di garanzia, si richiede di favorire gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori agricoli, attraverso la concentrazione dell’offerta, il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti tramite la cooperazione, l’associazionismo, l’interprofessione.

Il fatto che si ribadisca l’inutilità di quegli strumenti perversi utilizzati fin ora per stabilizzare (forse sarebbe più corretto dire “distorcere”) i mercati è senz’altro positivo. Preoccupa però il fatto che si continui a ritenere l’apertura dei mercati come un pericolo da cui proteggersi, e sono inquietanti gli strumenti di cui l’UE vorrebbe dotarsi per perseguire tale risultato.

Ci sono fin troppe evidenze che dimostrano come i prezzi di quei prodotti che vengono scambiati sui grandi mercati internazionali siano molto più stabili di quelli che da questi mercati vengono esclusi, quindi l’idea che l’agricoltura di prossimità e “il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti” possa portare qualche beneficio è completamente sballata. Sarebbe meglio che ci si concentrasse sulle opportunità per le aziende agricole di affacciarsi con i loro prodotti sui mercati emergenti e lontani, piuttosto che forzarle a rimanere ancorate ad un desolante status quo.

Se è vero come è vero che il prezzo di un prodotto tiene conto di tutti i costi di produzione, la tendenza a localizzare tutte le produzioni rinunciando all’efficienza di produrre su terreni e a climi vocati e vendere ovunque ci sia domanda rappresenta un violento colpo di zappa sui piedi della nostra agricoltura, soprattutto nel momento in cui le produzioni agricole di altri grandi paesi, come Cina, India e Brasile, cominciano a volare, e non, come recita la vulgata, a causa del basso costo del lavoro (altrimenti dovevano volare anche negli scorsi decenni) ma proprio grazie alle biotecnologie, all’intensificazione e all’apertura al mercato globale. Un esempio per tutti: negli ultimi 10 anni il Brasile ha triplicato il proprio export agroalimentare, la sua produzione agricola è cresciuta del 79% con un incremento della superficie utilizzata limitato al 28%.

Per quanto riguarda poi gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori (leggi: i consorzi potranno intervenire sui mercati regolando l’offerta, al fine di indurre un aumento dei prezzi) basterebbe la triste esperienza del vino italiano (e francese), che con metodi del genere si sta progressivamente autoescludendo dal mercato mondiale a far desistere da simili proponimenti. Perché si tende a dimenticare che qualsiasi consumatore, sia esso un consumatore finale o un trasformatore, reagisce a questi meccanismi orientando altrove le sue scelte, e in tempi di mercati globalizzati le alternative non mancano. Se il protezionismo è un errore lo è sempre, ed è inutile e controproducente farlo uscire in pompa magna dalla porta per farlo rientrare, in silenzio e sotto mentite spoglie, dalla finestra.

Per finire, ed è il dato forse che preoccupa di più, nella nuova PAC post 2013 aumenteranno a dismisura quelle voci di spesa in cui è indispensabile il ruolo attivo degli intermediatori pubblici e parapubblici (checché se ne dica sono loro i veri beneficiari della PAC, e che siano loro stessi a disegnarne gli indirizzi forse aiuta a capire ciò che sta succedendo), come le associazioni professionali. Quando si parla di cooperazione, associazionismo, e interprofessione non si intende altro. E il fatto che anche i fondi del primo pilastro della PAC, quello degli aiuti diretti, verranno distribuiti secondo criteri sempre più discrezionali e meno automatici non fa che confermare questa tendenza costosa e perversa.

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Verso la nuova Pac. Qualcosa da tenere a mente /2010/08/03/verso-la-nuova-pac-qualcosa-da-tenere-a-mente/ /2010/08/03/verso-la-nuova-pac-qualcosa-da-tenere-a-mente/#comments Tue, 03 Aug 2010 15:42:21 +0000 Giordano Masini /?p=6690 Se le parole hanno un significato, la nuova Politica Agricola Comune che dovrebbe vedere la luce nel 2013 potrebbe essere un furto. Un furto ai danni dei contribuenti, e questa non sarebbe una novità, e un furto ai danni degli agricoltori, ai quali verranno sottratte risorse nominalmente destinate a loro ma che verranno in realtà usate per tutt’altri scopi. Un furto con destrezza, a giudicare dai dibattiti che si sono tenuti in questi mesi e che vertono tutti su un unico scopo: come riuscire a dirottare ulteriori risorse dal capitolo degli “aiuti diretti” a quello degli “aiuti allo sviluppo”.

Per capirsi, gli aiuti diretti sono quelli che ogni agricoltore riceve, a prescindere da cosa coltiva. Sono, come ogni sussidio, fortemente distorsivi, specialmente per quel che riguarda i prezzi all’origine, che vengono condizionati al ribasso, e per i valori fondiari, che invece vengono sospinti in alto. Ma quantomeno rappresentano un sostegno al reddito che lascia comunque all’agricoltore la libertà di investire nella direzione che ritiene più opportuna. Gli aiuti allo sviluppo, invece, sono un’invenzione perversa risalente alle precedenti riforme, attraverso la quale la politica è tornata a intervenire pesantemente sulle scelte degli imprenditori agricoli, condizionando l’erogazione di allettanti contributi, specialmente in conto capitale, all’assunzione di precisi impegni. E non solo, perché gli aiuti allo sviluppo non vengono concessi solo alle aziende agricole: alla stessa fonte si abbeverano abbondantemente anche consorzi, trasformatori, confezionatori, e, quel che più conta, enti pubblici, dalle nostre parti soprattutto comuni e comunità montane. Servono a un po’ di tutto, dalla ristrutturazione di casali per attività agrituristiche all’installazione di pannelli fotovoltaici e funghi eolici, dalla manutenzione delle strade rurali e comunali al finanziamento di enti e istituzioni di ricerca e divulgazione scientifica e ambientale, dall’acquisto di impianti e macchinari per la costituzione di consorzi di trasformazione e confezionamento al sostegno ai mercatini rurali, spesa a km 0 e altre amenità del genere.

Tornando all’attualità, il Commissario europeo all’Agricoltura, Dacian Ciolos, ha reso noti i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, contenente le opinioni di seimila cittadini europei a proposito di agricoltura e Politica Agricola Comune. Bene, secondo questo sondaggio la tutela del paesaggio rurale, la lotta ai cambiamenti climatici e, guarda un po’, mantenere prezzi ragionevolmente bassi per i consumatori, dovrebbero essere le priorità della Pac, alla quale ovviamente tutti si dicono favorevoli. In particolare, la stragrande maggioranza degli intervistati (82%) ritiene che l’Europa debba aiutare gli agricoltori a combattere i cambiamenti climatici, dato che una simile percentuale dei medesimi si dice convinta che entro pochi anni gli agricoltori subiranno effetti devastanti dal riscaldamento globale.

Questo sondaggio sarebbe la base per costruire le fondamenta della nuova Pac, e, nella sostanza, garantire quel trasferimento di risorse dalle tasche degli agricoltori a quelle di chissacchì, o comunque per consentire a chissacchì di mettere il becco nelle scelte imprenditoriali delle aziende. Ora, facciamo attenzione: il fatto che un campione di cittadini europei (cittadini, probabilmente, in ogni senso) si dica convinto che il mondo stia per andare a fuoco, e che siano gli agricoltori a doverlo salvare dalle fiamme per loro, non significa ovviamente che le cose stiano esattamente così. Anzi, ci sono molti studi che dimostrano come l’intensificazione agricola abbia avuto effetti positivi sia, come è facilmente comprensibile, sulla distribuzione delle risorse alimentari, sia, e questo è più arduo da far intendere, anche nella gestione più razionale delle risorse del suolo (l’acqua, in primis), fino ad incidere positivamente anche sulle emissioni di gas serra. Ne abbiamo discusso su queste pagine pochi giorni fa.

Ci sono serie possibilità, quindi, che la montagna di denari pubblici che verranno utilizzati nel futuro per indurre gli agricoltori a produrre meno, a rifiutare le biotecnologie, a indirizzarsi verso sistemi produttivi a “basso impatto” e a divenire sempre meno competitivi rispetto al resto del pianeta saranno serviti solo a incidere la lapide sulla tomba dell’agricoltura del vecchio continente. E allora saremo tutti contenti, nel nome della green economy. Illustrando i risultati della ricerca Ciolos si è detto rassicurato del fatto che i cittadini europei si mostrino convinti della necessità della Pac, e ha mostrato idee chiare per il futuro:

Voglio una Pac forte,  a sostegno della diversità di tutti i suoi agricoltori e dei suoi territori, produttrice di quei beni pubblici che la società europea attende.

Beni pubblici che la società europea attende. Parole queste (molto simili a quelle già usate poco tempo fa dall’ex ministro delle Politiche Agricole e attuale presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo Paolo De Castro), che a mio avviso dovremmo tenere bene a mente.

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Navi cariche di protezionismo /2010/06/07/navi-cariche-di-protezionismo/ /2010/06/07/navi-cariche-di-protezionismo/#comments Mon, 07 Jun 2010 05:40:51 +0000 Giordano Masini /?p=6209 Nell’azione dimostrativa messa in atto giovedì scorso da Coldiretti al porto di Ancona c’è molto più che la semplice protesta contro i “falsi made in Italy” che contaminerebbero il nostro agroalimentare e farebbero crollare i prezzi dei nostri prodotti agricoli. Al porto del capoluogo marchigiano arrivano infatti ogni anno carichi di cereali e oleaginose, destinate al nostro mercato interno. Nelle dichiarazioni degli organizzatori della protesta si legge che nel porto di Ancona

ogni ora entrano 10.000 chilogrammi di grano straniero pronti a diventare ‘marchigiani’, con l’effetto di far crollare i prezzi dei prodotti delle nostre campagne (da 0,50 euro al chilo a 0,13 in due anni) e ingannare i consumatori.

Non conosco le cifre esatte sulla quantità di merci in entrata nei nostri porti, quindi posso prendere anche per buona una cifra, quella di 10 tonnellate di grano duro ogni ora, che a naso mi sembrerebbe un po’ sparata lì. Comunque in questa dichiarazione ci sono due grossolane ed evidenti stupidaggini. Non si può dire che il grano, entrando sul nostro territorio, “diventa” italiano, equiparando l’uso di una materia prima di origine estera alla pirateria commerciale e alla falsificazione del Made in Italy certificato. I nostri molini e i nostri pastifici si possono rifornire dove meglio credono, e se l’offerta interna non è in grado, per quantità, costi e qualità, di soddisfare la domanda, le ragioni vanno ricercate altrove. Eppure questo è il messaggio che si cerca di far passare: vendere da noi è un crimine che va in qualche modo impedito.

La seconda stupidaggine è quella che riguarda i prezzi: si vorrebbe far credere che il prezzo di 0,50 euro al chilo fosse il prezzo standard del grano duro fino a due anni fa, e che poi c’è stato un crollo. Con affermazioni del genere si possono prendere per il naso i consumatori che hanno una scarsa dimestichezza con la terra, non certo gli agricoltori: l’impennata improvvisa che ha portato a (quasi) 0,50 euro al chilo il prezzo del grano duro nell’estate del 2008 è stata originata dalle stesse circostanze che hanno portato, nello stesso periodo, il prezzo del petrolio a sfiorare i 150 dollari al barile. Dopo quell’estate, che aveva fatto ben sperare molti agricoltori, il prezzo è tornato ai suoi livelli di sempre: tra 0,13 e 0,15 euro al chilo. Mentre scrivo, per esempio, il grano duro è quotato attorno a 0,16 euro al chilo alla Borsa Merci di Bologna, ed è probabile che tra giugno e luglio, nel periodo della raccolta, subirà una flessione.

Dietro a questo atteggiamento, che vediamo sempre più propagandato dai media e da associazioni agricole che sembrano essersi sempre più votate ad una presunta tutela del consumatore piuttosto che del settore agricolo, c’è l’idea che dal mercato possano venire solo guai, e che per uscire dai guai bisogna alzare muri, imporre barriere, costruire recinti, che si chiamino tariffe doganali (come se ce ne fossero poche) o che invece prendano la forma più sofisticata delle certificazioni d’origine.

Ma non sembra essere solo una nostra fissazione, anzi, se ci capita di sentire il ministro dell’agricoltura francese Bruno le Maire lanciarsi in tesi spericolate e anche un po’ grottesche come quelle sostenute a Merida, in Spagna, dove i ministri dell’agricoltura dei paesi dell’Unione Europea si sono riuniti per cominciare a discutere le linee della riforma della Politica Agricola Comune:

Recentemente abbiamo sperimentato gli effetti molto negativi della deregulation totale dei mercati

ha dichiarato, senza scatenare l’ilarità degli astanti, che invece sembrano convergere sull’idea che sia venuta l’ora di “proteggere” e regolamentare ulteriormente il mercato agricolo europeo, come se la prospettiva di difendere lo status quo fosse in qualche misura una prospettiva attraente.

Io credo che l’agricoltura italiana (ed europea) ha bisogno di competitività, non di prezzi garantiti, e che dalle fluttuazioni dei prezzi delle grandi commodities agricole le aziende potrebbero anche trarre profitto, se fosse loro consentito di raggiungere economie di scala adeguate. Bisognerebbe fare a meno dei sussidi, però.

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La débâcle della PAC. I dati di Eurostat /2010/05/11/la-debacle-della-pac-i-dati-di-eurostat/ /2010/05/11/la-debacle-della-pac-i-dati-di-eurostat/#comments Tue, 11 May 2010 10:49:15 +0000 Giordano Masini /?p=5975 La complessità dell’intervento pubblico in agricoltura rende difficile l’interpretazione di qualsiasi dato statistico. Non c’è fattore che non venga influenzato e distorto dalle misure della Politica Agricola Comune e da interventi che, nel tentativo di correggere le distorsioni provocate da interventi precedenti, ne producono altre sempre più profonde e contraddittorie. Allora proviamo a dare semplicemente un’occhiata ai dati sull’evoluzione percentuale dei redditi agricoli reali pubblicati nell’ultimo rapporto di Eurostat.

2000-2009 2008-2009
EU27 5,3 -11,6
EU15 -9,6 -11,6
NMS12 61,2 -12,5
Italia -35,8

-20,6

La sigla NMS12 indica i paesi che hanno aderito all’Unione nel 2004 e nel 2007. Nella loro performance (che riporta in positivo il dato medio dei 27 paesi dell’Unione nel decennio) c’è l’abbandono dei sistemi di produzione collettivistici e gli investimenti da Ovest. Anche l’adesione al regime di aiuti della PAC ha contribuito, elevando improvvisamente la redditività di un ettaro di terreno, come era successo anche da noi negli anni ’90. Ma se si osserva il dato dell’ultima campagna, anche lì il trend si è decisamente invertito.

Ma è la stessa profondità e complessità dell’intervento pubblico in agricoltura che rende inevitabile un giudizio sulla PAC, da cui dipendono le scelte imprenditoriali e la sopravvivenza di ogni singola azienda agricola europea: l’obiettivo di stabilizzare i mercati, contenere i prezzi e sostenere i redditi non è stato raggiunto, se vogliamo usare un eufemismo, e ciò che resta è un cumulo di macerie. Le misure compensative che dovevano essere un contrappeso al calo dei prezzi all’origine, in realtà sono state una delle cause del loro crollo, e l’intreccio perverso fatto di produzioni contingentate, quote, vincoli, divieti e ostacoli all’accorpamento fondiario ha privato le aziende di ogni possibilità di reazione, costringendole in un collo di bottiglia dal quale è praticamente impossibile uscire.

L’Italia in tutto ciò, ma forse questa non è una sorpresa, è riuscita a fare molto peggio degli altri.

]]> /2010/05/11/la-debacle-della-pac-i-dati-di-eurostat/feed/ 2 Vuoti normativi e vuoti cerebrali /2010/04/09/vuoti-normativi-e-vuoti-cerebrali/ /2010/04/09/vuoti-normativi-e-vuoti-cerebrali/#comments Fri, 09 Apr 2010 13:25:06 +0000 Giordano Masini /?p=5629

Degli incentivi per l’installazione di impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica penso tutto il male possibile. Perché sono antieconomici e producono una quantità risibile di energia, come dimostra il caso della Germania, sempre incredibilmente citato come esempio virtuoso, dove

le installazioni di nuovi moduli fotovoltaici nel solo anno 2009 sono costati ai consumatori oltre 10 miliardi di euro, e così sarà per il prossimo ventennio. E questo per immettere sulla rete elettrica lo 0,3% della domanda nazionale, praticamente nulla. Per tutti i pannelli installati prima, gli incentivi ammontano a oltre €30 miliardi

Rappresentano però, negli ultimi tempi, una valida alternativa ad una agricoltura sempre meno redditizia, e molti agricoltori stanno affittando o vendendo terreni alle tante società che installano pannelli fotovoltaici le quali, grazie al business degli incentivi, possono permettersi il lusso di fare offerte ben superiori ai valori di mercato dei terreni. E sono spesso i terreni più fertili ad essere interessati da queste installazioni, dato che, come si può immaginare, un impianto fotovoltaico deve, per funzionare in modo accettabile, essere posizionato su un terreno pianeggiante e ben esposto al sole. Questo non piace alla Coldiretti, che

segnala il rischio speculazioni sul fotovoltaico e invita gli amministratori comunali, provinciali e regionali a riflettere sull’impatto ambientale dei grandi impianti fotovoltaici che sottraggono terreno agricolo al settore primario e che non possono coesistere con le attivita’ agricole

e , invocando lo spauracchio del vuoto normativo, che sulla politica produce lo stesso effetto di un minimo di pressione atmosferica per le masse d’aria o di un mucchio di letame per le mosche, chiede che si intervenga per vietare l’installazione di pannelli fotovoltaici sui terreni agricoli.

Ricapitolando: l’agricoltura è ai minimi termini, si regge solo sui sussidi e non può approfittare delle opportunità del mercato grazie al bando degli Ogm voluto e difeso da Coldiretti. Gli agricoltori cercano nuove opportunità dove possono, e le trovano spesso nel demenziale sistema di politiche green volute e difese da Coldiretti. Questo, in qualche caso, significa cambiare la destinazione d’uso di ettari di terreno che, di conseguenza, non riceveranno più i sussidi della Pac su cui Coldiretti mangia a quattro ganasce.

La risposta, ovviamente, non è quella di riconsiderare le cause di questa situazione e di rappresentare gli interessi reali delle aziende, come per esempio rimuovere i divieti e i sussidi che impongono agli agricoltori di cercare profitti in maniera innaturale. La soluzione, ovviamente, è un nuovo divieto, una nuova, ulteriore, insopportabile limitazione della libertà di ognuno di usare i propri terreni come meglio crede.

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