CHICAGO BLOG » oggetti sociali http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 L’ontologia degli oggetti sociali / 2. Di Andrea Gilli /2010/06/29/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-2-di-andrea-gilli/ /2010/06/29/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-2-di-andrea-gilli/#comments Tue, 29 Jun 2010 15:27:31 +0000 Guest /?p=6400 Riceviamo da Andrea Gilli e volentieri pubblichiamo:

Ho letto con interesse l’articolo del prof. Lottieri sull’ontologia degli oggetti sociali. L’analisi merita attenzione per due motivi. In primo luogo, in un periodo nel quale attaccare la finanza porta consensi, Lottieri va coraggiosamente contro corrente, e offre una difesa non convenzionale degli strumenti finanziari incriminati. In secondo luogo, in un dibattito politico e culturale – quello italiano – atrofizzato da schemi concettuali vecchi di settant’anni, Lottieri porta una ventata di novità discutendo di ontologia nelle scienze sociali.

Purtroppo, è però proprio su questo punto che mi trovo in forte disaccordo con il professor Lottieri. Non sono un filosofo. Umilmente mi considero uno studente, che per svago si legge testi di filosofia della scienza. Ho studiato Searle, Berger e Luckmann, Lakatos, Giddens, Kuhn e tutti gli altri per capire prima gli assunti epistemologici e ontologici della mia disciplina e poi, soprattutto, quelli di una sua scuola di pensiero particolarmente in voga nel campo delle relazioni internazionali: il costruttivismo.
Sono partito ben disposto verso gli studiosi costruttivisti. Li ho letti. Non li ho trovati utili. Soprattutto, credo che il loro contributo sia più dannoso che benefico. Spiegherò qui di seguito la mia posizione, e più precisamente come mai non condivido la scelta di Lottieri di affidarsi a questa scuola di pensiero per giustificare strumenti di mercato.
Partiamo innanzitutto dalla base. Le scienze sociali si possono dividere secondo due grandi logiche. March e Olsen (1985) parlano di logic of consequence e logic of appropriateness. Secondo il primo approccio, gli individui sono consequenzialisti. Sono razionali e quindi mossi dalla volontà di raggiungere un determinato fine (questo è quello che più comunemente viene chiamato l’homo oeconomicus). In economia politica, parliamo quindi di massimizzazione dell’utilità del consumatore o massimizzazione del profitto dell’azienda. In scienza politica parliamo di vittoria alle elezioni, cattura del controllore da parte del controllato, etc. La meta-logica sottostante è cartesiana: le relazioni umane sono regolate da leggi oggettive che valgono nel tempo e nello spazio. La tecnologia sia fisica (tecnica) che sociale (internazioni umane) può aumentare l’intensità o il raggio d’azione di questi meccanismi, ma non può alterarne la logica, che infatti resta immutata. L’incrocio tra domanda e offerta, dunque, tende a portare i prezzi in equilibrio sia nell’antichità che oggi (Friedman, 1963), così come la concentrazione di potere in una sola unità politica porta alla formazione di schieramenti anti-egemonici (Waltz, 1979; e Snyder, 2002). Compito dello studioso è dunque identificare queste leggi universali.

La seconda logica, quella dell’appropriateness diparte completamente da questi assunti e giunge a postulati completamente differenti. Il punto di partenza è che gli individui non sono consequenzialisti. Sono animali sociali il cui comportamento è guidato dalle norme condivise del loro ambiente esterno. Non c’è una cosa come l’individuo. C’è la società che prescrive i comportamenti da seguire. È chiaro che negare queste intuizioni sarebbe banale. Chiunque sarà d’accordo nel sostenere che la società nella quale un individuo vive influenza il suo modo di pensare e di agire. Vi sono però almeno tre domande, alle quali il costruttivismo non risponde in modo esaustivo ed esauriente: in primo luogo, quale è lo spazio dell’individuo? Inoltre, fino a che punto le norme sociali non sono in contraddizione con i vincoli materiali ai quali gli individui sono sottoposti (e, dunque, con una teoria dei vincoli)? Infine, fino a che punto le norme sociali non sono il semplice prodotto di fattori materiali.

Il primo problema è etico-metodologico. Se noi assumiamo che il comportamento degli individui sia dettato dalle norme sociali dei contesti nei quali questi vivono, allora eliminiamo la volizione (quello che in scienza politica anglo-sassone si chiama “agency”). L’analista, in questo caso lo scienziato politico, si pone dunque al di sopra degli altri (con arroganza) e si dice in grado di interpretare quello che essi fanno. Si badi bene: l’analista costruttivista non spiega, ma comprende (Hollis and Smith, 1991). Mentre uno studioso positivista ritiene che gli attori siano dotati di ragione e il suo scopo sia spiegare le loro ragioni, lo studioso costruttivista crede di essere il solo a capire la realtà, e dunque debba spiegare il comportamento pecorile degli individui. La ragione è epistemologica: il positivista crede che vi sia una realtà oggettiva che va analizzata e spiegata. Il costruttivista crede nell’interpretazione intersoggettiva. La realtà è creata e ricreata dalle pratica delle relazioni sociali: domanda e offerta non sarebbero altro che costrutti sociali in grado di guidare la realtà. Questi costrutti però, in sostanza, non esistono. Le conseguenze sono molteplici. Tralasciamo quelle morali, perchè sono evidenti. Secondo la logica costruttivista gli individui non sono consequenzialisti. L’implicazione più evidente emerge quando si pensa al mercato, probabilmente la più importante e più potente istituzione sociale create dall’uomo. Se Searle (citato da Lottieri) ha ragione, allora il mercato funziona perchè gli agenti economici credono che esso funzioni, non perchè è il sistema di allocazione delle risorse più efficiente tra quelli disponibili. E infatti questa è la conclusione accettata dai costruttivisti: il mercato – che per loro è una costruzione sociale – esiste perchè qualcuno ci ha convinto che esso funziona. Se la norma sociale legittimata fosse il sistema pianificato, anche questo funzionerebbe.

Il secondo problema è di teoria sociale. L’assunto di razionalità in economia come in scienza politica è, appunto, un assunto: una semplificazione. Gli individui possono tranquillamente essere irrazionali. L’economia politica è però una teoria di limiti: chi va contro il mercato si brucia le dita. Un approccio costruttivista, dunque, non sostituisce uno positivista. Al massimo, aggiunge qualcosa di marginale. Il problema del costruttivismo, però, è la sua epistemologia. Non ci sono fenomeni ricorrenti nel tempo e nello spazio, ma invece questi sono il prodotto di come la realtà è intersoggettivamente condivisa tra gli individui. Dunque, se vogliamo capire come mai il regno di Filippo II andò in bancarotta alla fine del 1500, non dobbiamo analizzare fenomeni come l’inflazione monetaria, i deficit nelle partite correnti o la bassa produttività. Piuttosto, dovremmo guardare alla legittimità del suo regno e alle norme esistenti tra i banchieri del tempo. In altri termini, la causa va ricercata non in fattori oggettivi ma in fattori intersoggetivi: l’interpretazione collettiva della realtà. Ad una differente interpretazione intersoggettiva della realtà corrisponde una diversa realtà sociale. Allo stesso modo, per comprendere la crisi di oggi, dovremmo comprendere il modo con cui gli attori finanziari concettualizzano il mercato, e come questa concettualizzazione guidi i loro comportamenti. Non, invece, cercare di analizzare i loro sistemi di incentivi e come questi influenzino i loro calcoli. Difatti questo è quello che una branca della international political economy sta facendo: la diffusione del liberismo nel mondo non sarebbe dovuta al fatto che funziona, ma invece al fatto che gli attori chiave sarebbero socializzati (leggi: abbagliati) da questa ideologia (Chiewroth, 2007, 2009; Sinclair, 2003). Gli unici che capiscono come stanno realmente le cose sono, ovviamente, i soli costruttivisti. Gli unici, si badi la contraddizione, che riescono a sfuggire alla rete possente della socializzazione delle idee.

Questa discussione ci porta al mio ultimo punto: l’influenza dei fattori materiali su quelli sociali. Le norme sociali esistono: è evidente. Ma da dove nascono? Per esempio, il bando sul prestito ad interesse che la Chiesa ha tenuto in piedi per diversi secoli: da dove viene fuori? Secondo una logica costruttivista bisogna guardare alle norme sociali della Chiesa e ai suoi valori solidaristici e a come questi fossero condivisi intersoggettivamente tra tutti gli attori del tempo. Possibile. Ma quanto è credibile un tale quadro di fronte ad una Chiesa che riceveva emolumenti da mezza Europa per rafforzare il suo regno? Ad una una Chiesa che rafforzava il suo esercito ed edificava su tutto il continente? Da un punto di vista di political econonomy, la spiegazione è molto più semplice (e intuitiva): prestito ad interessi significano crescita economica, crescita economica significa nascita di attori economici, poi sociali e infine politici. La nascita di attori politici implica l’emergere di possibili sfidanti al potere ecclesiastico. Mettendo un bando morale sul tasso di interesse, la Chiesa ha rafforzato il suo potere politico materiale. Dunque, dietro ad una posizione morale c’erano solidi fattori materiali. Il lettore può autonomamente decidere quale delle due spiegazioni sia più credibile.

Ciò vale, allo stesso modo, per quanto riguarda la finanziariarizzazione dell’economia, e qui arriviamo al mio diasccordo con quanto scritto dal professor Lottieri. I prodotti finanziari sono sempre più complicati, astratti e invisibili. Ma esistono. L’esistenza di questi prodotti non si deve tanto al loro valore sociale o alla condivisione intersoggettiva del loro ruolo, ma piuttosto alla loro utilità materiale. Quanto scrive Searle sulla moneta – mi si passi l’espressione – non ha senso: secondo Searle, la moneta non avrebbe assunto il suo ruolo in virtù delle funzioni che essa svolge (riserva di valore, mezzo di scambio, unità di conto), piuttosto per via di norme sociali. Vale a dire, se le norme sociali fossero state diverse, oggi potremmo usare i cammelli anzichè la moneta. Analogamente, l’URSS potrebbe essere il modello dominante se solo fosse diventato legittimo… Insomma, tutto sarebbe possibile, se solo le norme e la cultura lo credessero tale.

Ho molta stima per il prof. Lottieri. Ritengo però che affidarsi al costruttivismo per difendere i mercati finanziari rischi di portare più danni che benefici. La positive political economy ci dà sufficienti strumenti per spiegare la realtà. La realtà esiste, è il prodotto di incentivi e vincoli ai quali gli attori rispondono. Se pensiamo che la realtà sociale sia costruita,il passo è troppo breve per finire con Berger e Luckmann dove la realtà intera è socialmente costruita. Ciò significa che la battaglia delle idee non è più una battaglia basata su fatti reali (il libero mercato funziona, la pianificazione centralizzata no), ma una battaglia ideologica in cui ogni tipo di proposizione è validea, in quanto mira a creare norme mutualmente condivise che creano una realtà intersoggettiva.

Secondo questa logica, infatti, il mercato non è il sistema più efficace ed efficiente per produrre e distribuire ricchezza, ma un costrutto sociale storicamente determinato, che si riproduce attraverso la socializzazione degli attori alle sue norme. A dominare non sono domanda, offerta e prezzi, ma la socializzione di questi concetti tra gli attori. Con norme sociali diverse, avremmo quindi sistemi economici diversi ma pur sempre in grado di funzionare: perchè cosa conta non sono i fattori materiali ma la condivisione intersoggettiva della concettualizzazione della realtà. Tradotto: se una società ignora il concetto di produttività marginale, allora nella realtà, gli effetti della produttività marginale non si riscontrano. Le liberalizzazioni della Thatcher e di Reagan, secondo questa prospettiva, non furono la risposta necessaria all’inefficienza delle politiche keynesiane degli anni ’70 ma invece il frutto della socializzazione dei policy-makers alle nuove idee monetariste. Per i costruttivisti, se Friedman non ci fosse mai stato, avremmo ancora economie keynesiane e, si badi, in perfetto funzionamento: perchè nessuno sarebbe stato socializzato all’idea che alte tasse e alta spesa pubblica portino, nel lungo termine, a minore crescita economica.

Ma il problema vero del costruttivismo è ancora un altro: ed è quello etico-politico. Se con la teoria positivista nelle scienze sociali, il compito dello studioso è quello di spiegare i meccanismi oggettivi della realtà, con l’approccio post-positivita (logic of appropriateness), il compito del ricercatore diventa quello di capire come il genere umano concettualizza intersoggettivamente la realtà. Il passo successivo, che tutti i costruttivisti fanno, è ovvio: cercare di alterare questa concettualizzazione per promuovere la loro visione del mondo. Ecco perchè, per esempio, i costruttivisti ci spiegano la base sociologica e non oggettiva dell’economia di mercato: perchè l’obiettivo è socializzarci all’idea che alte tasse, big-government e tutto quanto comunmente non funziona, possono invece funzionare. Basta che ci sia una comprensione intersoggettiva che accetti tutto ciò come legittimo. Se la moneta è un costrutto sociale che funziona, allora qualsiasi altro costrutto sociale può funzionare.

Gary Becker ha mostrato la fallacia della sociologia. Credo che sia stato un grande passo in avanti nelle scienze sociali: l’abbandono di modelli tautologici e non falsificabili per una scienza della società. Non vedo proprio motivo per tornare indietro.

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L’ontologia degli oggetti sociali e la nostra difficoltà a comprendere la finanza /2010/06/27/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-e-la-nostra-difficolta-a-comprendere-la-finanza/ /2010/06/27/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-e-la-nostra-difficolta-a-comprendere-la-finanza/#comments Sun, 27 Jun 2010 10:13:04 +0000 Carlo Lottieri /?p=6386 Sia concessa un piccola divagazione, che forse a qualcuno apparirà astrusa, in merito a taluni presupposti teoretici, sociali e psicologici che stanno alla base del diffuso rigetto del capitalismo finanziario.

Una parte rilevante della propaganda anti-liberale degli ultimi anni ha fatto perno sul carattere relativamente astratto di alcuni strumenti che sono comunemente utilizzati all’interno di un’economia libera. La polemica tremontiana contro la “finanziarizzazione” dell’economia e in difesa delle attività produttive – contro chi produce titoli (i derivati, ad esempio) e a difesa di chi produce cose (indumenti, alimenti, mezzi di trasporto ecc.) – è rappresentativa di tutto questo, ma non è molto dissimile dalle offensive anti-mercato che si sono registrate in altre parti del mondo.

Si tratta di un’impostazione facilmente contestabile, dato che si può fare una buona finanza e una cattiva (basti pensare, quale esempio di gestioni fallimentari, alle banche centrali), così come si può produrre bene e anche molto male (ed è questo il caso di tutti i settori protetti e assistiti).

Una lettura manichea che difenda la produzione di beni contro la produzione di titoli è indifendibile, ma si può iniziare a comprenderla quale conseguenza di una diffusa difficoltà a intendere la natura di oggetti sociali quali i “debiti”, le “opzioni”, i “contratti”, e così via. In fondo, per tutti noi è assai più semplice credere nell’esistenza di case e autovetture, di terreni e lingotti d’oro, che non nell’esistenza di questi costrutti sociali che esistono solo in virtù delle interazioni umane e traggono interamente dalle nostre intenzioni ed azioni il senso della loro esistenza.

È come se lo strumentario ermeneutico di cui disponiamo fosse sempre un po’ primitivo di fronte a una società che moltiplica il panorama degli enti possibili e ci obbliga sempre più a fare i conti con entità di ardua definizione. Per fortuna, un aiuto ad accostare la complessità di tali problemi può venire dagli studi di ontologia sociale.

A partire da un importante lavoro di John Searle, La costruzione della realtà sociale (del 1995), alcuni studiosi hanno iniziato a riflettere sul fatto che vi sono oggetti X (un biglietto verde con l’effige di George Washington) che significano Y (valgono un dollaro) nel contesto C (entro molte transazioni economiche, specialmente negli Stati Uniti). Le opinioni e le intenzioni degli attori creano un quadro sociale che non solo attribuisce una funzione e un ruolo a oggetti che di per sé potrebbero anche non averli, ma soprattutto delineano un quadro sempre più smaterializzato.

A giudizio di Barry Smith, in particolare, lo stesso riferimento ad oggetti materiali – come nel caso del biglietto verde – non è poi così essenziale. Usando l’esempio degli “scacchi alla cieca” (dove si gioca in assenza di una scacchiera), egli rileva come gli uomini siano in grado di generare un numero potenzialmente illimitato di costrutti, e come talune di queste realtà siano al tempo stesso astratte (non fisiche) e storicamente situate (perché legate al tempo). Mentre le idee di Platone sono “forme atemporali”, l’universo sociale è ricco di quasi-abstract patterns al cui interno vi sono “forme temporali”, che pur non essendo fisiche né psicologiche, pure sono radicate nelle diverse società storicamente situate.

Nel nostro rapporto ordinario con la realtà, però, siamo portati a credere che ciò che è reale deve essere tangibile, mentre ciò che ha un’esistenza non facilmente riconducibile a cose e oggetti rischia di essere costantemente spinto verso l’irrealtà: insieme alle fate, alle sirene e ai grifoni. In questo senso, è probabile che, in età medievale, la riflessione scolastica sull’intenzionalità e quindi sul ruolo che svolge il soggetto nel definire e ridefinire il mondo possa aver dato un contributo significativo all’elaborazione di quei paradigmi concettuali che hanno portato alla legittimazione del prestito a interesse e, di conseguenza, delle più diverse pratiche finanziarie.

Come spesso succede, però, i medesimi errori tendono a riproporsi in epoche diverse, in forme solo parzialmente diverse: basti pensare ai ripetuti revival delle teorie protezioniste.

Il persistere di nostre attitudine ataviche continua a rendere meno reali, agli occhi di molti, i contratti e i diritti rispetto ai cani e ai marciapiedi. È anche per questo motivo che gli strumenti derivati, che sono oggetti sociali al quadrato, sono talmente malvisti. Qui abbiamo contratti (e quindi oggetti sociali) che il più delle volte si basano su azioni, indici, obbligazioni, valute ecc. (e quindi su altri oggetti sociali). La creatività umana costruisce un grattacielo che, un piano dopo l’altro, si avvicina sempre di più alle nuvole e anche se, ovviamente, poggia come ogni altra costruzione sulla terra, pure viene percepito come sperduto nel nulla e totalmente irreale.

In un suo testo su Searle e Hernando de Soto, Barry Smith sottolinea espressamente come molta parte degli attacchi agli speculatori vengano proprio dal greve naturalismo di quanti non riescono a cogliere altra realtà che negli oggetti materiali, e magari continuano a pensare che il valore sia qualcosa che discende unicamente dal lavoro fisico.

Per questo motivo, affinare la nostra capacità di comprendere il mondo può certamente aiutarci a proteggere al meglio le nostre libertà.

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