CHICAGO BLOG » occupazione http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Euro debole = illusione occupati /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/ /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/#comments Tue, 16 Nov 2010 19:04:18 +0000 Oscar Giannino /?p=7620 L’Europa è di nuovo piegata su se stessa nel tentativo di evitare la crisi dell’eurodebito. In molti tra coloro che in Italia lavorano per l’export almeno si consolano, all’idea che l’euro si deprezzi riscendendo verso quota 1,3 sul dollaro invece che verso 1,5. In realtà, la gara a deprezzare le valute è la vera guerra in corso tra dollaro e yuan, e l’euro rischia di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro. Detto questo, chi qui scrive trova invece apprezzabile che sempre più numerose voci europee si levino polemicamente rilevando che non rende un servizio a nessuno, la FED, artificiosamente deprimendo il corso del dollaro e i rendimenti decennali del debito pubblico americano, con la sua politica eterodossa di acquisiti di titoli sul mercato e cioè attraverso la monetizzazione del debito, come avveniva in Italia prima che via Nazionale e Tesoro divorziasssero, sancendo la piena autonomia della banca centrale dalle tendenze deficiste della politica. La vera risposta a chi consiglia sempre il deprezzamento della moneta per difendere l’occupazione sul mercato domestico sta proprio nell’andamento dell’economia americana.

E’ il nocciolo della politica praticata da Obama e Bernanke, secondo i quali un dollaro debole aiuta a ridurre la disoccupazione USA, che nel suo aggregato ristretto è al 9,6% e in quello allargato, comprendente cioè gli “scoraggiati” a diverso titolo, sale al 16% e oltre. Tuttavia, è un assunto fallace.

Nigel Gault, chief economist al desk americano di Global Insight, ha rielaborato la relazione tra andamento del dollaro e occupati nell’ultimo decennio. Dal 2001, il dollaro ha visto il suo valore deprezzarsi del 31% rispetto a un basket comprendente le cinque maggiori valute nel commercio mondiale. L’export americano negli stessi anni è aumentato del 45%. Ma l’occupazione manifatturiera americana è diminuita negli stessi anni di un terzo, scendendo da 16,4 a 11,7 milioni. Se ci fermiamo all’ultimo trimestre cioè agli effetti sul breve, da giugno a settembre il dollaro è sceso del 10% rispetto alle stesse valute, e l’export americano a settembre è salito dello 0,3%, al livello più alto nell’ultimo biennio. Ma la disoccupazione non diminuisce.

Per almeno due ordini di ragioni. La prima che l’export dei Paesi avanzati verso i Paesi che “tirano”, Cina e Asia innanzitutto, è soprattutto ad alto valore aggiunto, e dunque prodotta laddove macchine, automazione e tecnologie inevitabilmente continueranno a sostituire intensità di lavoro umano. La seconda ragione è che più aumenta l’export in quei Paesi più aumenta il totale di occupati delle imprese esportatrici in quei Paesi stessi: assai più che nei mercato domestici in cui le imprese esportatrici sono radicate. Secondo le cifre elaborate dall’United States Bureau of Economic Analysis il totale dei dipendenti all’estero delle aziende americane esportatrici è più che raddoppiato, negli anni 1998-2008 con l’ingresso della Cina nel WTO, passando da 5 a 10,5 milioni. Occupare dipendenti in Paesi a basso costo del lavoro aiuta a realizzare margini che son più che mai preziosi per investire di più nella qualità di innovazioni, processi e prodotti che vengono “pensati” e sperimentati nei paesi avanzati di provenienza. E più il processo diventa esteso e radicato, meno ovviamente sui bilanci aziendali incide il fattore valutario sulla competitività complessiva delle ragioni di scambio.

E’ esattamente lo stesso fenomeno avvenuto su scala europea per le grandi imprese tedesche delocalizzando nell’Est europeo non appartenente all’euro, a inizio degli anni 2000. Oggi come oggi, per BMW o Mercedes e Audi che hanno triplicato la loro produzione locale in Cina, il fattore cambio dell’euro è praticamente del tutto indifferente rispetto agli enormi margini che realizzano con oltre 500mila vetture di classe elevata vendute su quel mercato nel 2010.

Se tutto ciò è vero per l’economia USA, dove il 65% della crescita viene dalla domanda interna e solo un terzo dall’export, è a maggior ragione vero per noi, dove avviene l’esatto opposto. Chi si augura un euro debole per esportare meglio ha ragione nel breve, basta che sia chiaro che con l’occupazione l’effetto cambio c’entra poco o nulla: per quella serve essere più produttivi, non artifici monetari che nel mondo globalizzato servono più che altro da maschere agli alti debiti pubblici dei governi. Maschere che del resto non reggono più, in America come in Europa.

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Sindacato per meno tasse? Evviva! /2010/09/13/sindacato-per-meno-tasse-evviva/ /2010/09/13/sindacato-per-meno-tasse-evviva/#comments Mon, 13 Sep 2010 19:54:07 +0000 Oscar Giannino /?p=7032 Domattina dedico la “versione di oscar” su radio24 all’annuncio venuto oggi da Cisl e Uil: le due confederazioni riuniranno congiuntamente le segreterie il 15 settembre, per varare una piattaforma di riduzione delle tasse, e scenderanno in piazza per questo il 9 ottobre. Lo dico prima di entrare nel merito delle loro proposte, prima di conoscerle in dettaglio anche se le immagino: dico e grido evviva. Evviva anche se magari dirò nel merito che è troppo poco e troppo tardi. Ma un evviva netto e chiaro. Non solo perché qualunque alleato per la riduzione della schiavitù fiscale è ben accetto. Ma perché il sindacato notoriamente nella storia italiana è un alleato potente. E se finalmente il sindacato si smuove dal solo mantra della lotta all’evasione per destinare più risorse ancora alla spesa pubblica ma – immagino – alla lotta all’evasione che resterà affianca finalmente anche richieste di riduzioni delle imposte, allora vuol dire che finalmente anche il lavoro dipendente comincerà a sentirsi dire da chi – ci piaccia o meno è altro discorso – lo rappresenta, che pagare le tasse NON è bellissimo, e quando poi le tasse sono abnormi è osceno. Non solo perché in cambio lo Stato offre quel che sappiamo. Ma perché più alte sono le tasse, maggiore è l’ingiustizia e l’inefficienza. E poiché nel nostro Paese le tasse sono altissime sia sul lavoro sia sull’impresa, è su entrambe che devono scendere per diminuire ingiustizia e inefficienza. Se avete dubbi, vi invito a leggere questo paper. E’ assolutamente illuminante. Lo ha scritto Richard Rogerson, fellow dell’American Enterprise.

Lo studio nasce in realtà dalla domanda se sia giusto, il tentativo di Obama in atto negli USA di estendere lo Stato e il suo prelievo fiscale sempre più verso grandezze europee. Ma poiché  per dimostrare la sua risposta – che è no – deve dimostrarne la ragione, e per farlo prende in considerazione gli effetti comparati che la tassazione sul lavoro esercita in concreto sulle ore lavorate in tutti i Paesi Ocse, ecco che i dati servono benissimo a riflettere anche a casa nostra, in Italia. Perché i dati mostrano inequivocabilmente che continua ad aver ragione il buon Ted Prescott, che ci ha preso il Nobel coi suoi studi sul rapporto che l’alta pressione fiscale esercita, disincentivando l’offerta di lavoro.

Per averne evidenza, prima ancora di leggere il paper andate direttamente alle due tabelle.  Nella tabella 1 trovate il totale della pressione fiscale e contributiva sul lavoro nei maggiori Paesi OCSE, nel 1960, 1980. e nel 2000. La media OCSE passa dal 25,4% del ’60, al 36% dell’80, al 41,9% nel 2000, cioè cresce in 40 anni di 16,5 punti. Gli Stati Uniti però sono il Paese che resta assolutamente sotto media, passando dal 22,1% del ’60 al 28,6% nel 2000, con un aumento di soli 6,5 punti. Tutti i Paesi europei hanno incrementi a doppia cifra e quasi sempre partendo da una  base iniziale più alta: la Germania passa da 33,5% al 47,7% con un più 14,2; la Francia passa da un 36,6% al 49,7% con un più 13,1; la Finlandia da un 26% al 52,4% con più 26,4. L’Italia è il Paese con la maggior crescita del prelievo sul lavoro nel quarantennio dopo appunto Finlandia e Svezia (quest’ultima passa dal 31,6% al 59,1% con un più 27,5). Sul lavoro italiano, la pressione ficale e contributiva  passa dal 25,5% del 1960 – una media pari allora a quella del Regno Unito – al 49,1% con un aumento di 23,6 punti (mentre il Regno Unito sale solo di 10 punti, e si ferma nel 2000 a un prelievo del 36%).

Qual è l’effetto sulle ore lavorate esercitato dal diverso andamento del prelievo tributario e contribuitivo? Andate alla tabella 2. In media le ore lavorate  settimanalmente per persona di età 15-64 nei Paesi Ocse passano da 28,1 nel 1960 a 23,3 nel 1980 a 22,5 nel 2000: in media cioè a un aumento nel quarantennio del 16,5% di tax rate reale corrisponde una diminuzione di ore lavorate pari a -18,7% in area Ocse.

Solo che questo dato è la media di due sottoinsieme assai diversi. Da una parte ci sono gli Stati Uniti (e il Canada), in cui la limitata crescita della pressione fiscale sul lavoro pari al solo 6,5% ha prodotto un aumento delle ore lavorate del 10% tra il 1960 e il 2000 (state attenti, la cifra delle ore lavorate nel 2000 USA è sbagliata per un refuso: ripetete quella sovrastante del Regno Unito ma ho controllato, in realtà non è 23,3 ma 25,3 rispetto alle 23,7 del 1960, dunque più 10% appunto). Nei Paesi europei, invece, in media maggiore è l’aumento della pressione fiscale maggiore è il decremento di ore lavorate:  in Germania il calo è del 30% passando dalle 28,7 del 1960 a 19,8; in Francia è del 35,3% passando dalle 29,8 a 19,3. In Italia il decremento è del 32,3%, passando da 31,2 ore settimanali a 21,2. L’unico Paese a fare vera eccezione alla regola è la Svezia, dove malgrado l’incremento di 27,5 punti di presione fiscale fino allo spaventoso 59%, il decremento di ore lavorate sui limita nel quarantennio al 7% cioè da 25,3 a 23,5: ma la spiegazione è che nel 1960 la media settimanale svedese era già la più bassa dell’Europa continentale, di 7,5 ore inferiore alla media britannica, d 5,9 rispetto all’Italia, di 3,4 rispetto alla Germania.

La conclusione è evidente. Più aumentano tasse e contributi, più la gente sta a casa invece di lavorare. Trovate tutta la letteratura del caso per approfondire indicata a fine saggio, se pensate che le differenze culturali abbiano un peso – ce l’hanno – come i più o meno efficienti sistemi nazionali di welfare – ce l’hanno anch’essi, e il nostro è inefficiente, basato sulle ipertutele rigide concentrate in capo ai dipendenti a tempo indeterminato.  Ma l’andamento dell’Olanda, disaggregato per periodi di tempo in cui tasse e contributi sono saliti rispetto a quando la politica ha deciso di abbassarli ( a differenza degli altri Paesi dove l’aumento non ha praticamente mai conosciuto se non soste, ma senza mai invertire segno), testimonia che a ogni discesa e risalita fiscale ha corrisposto inversamente un aumento o una diminuzione delle ore lavorate. Come volevasi dimostrare.

Per questo dico: evviva il sidnacato che si decide a scendere in piazze per meno tasse. Inevitabilmente anche di qui, passa la possibilità – per me: necessità – di una maggior produttività per l’Italia. Noi diremo sicuramente che i tagli a tasse e spesa servono più incisivi, ma il sindacato in questo caso dà una mano eccome. Perché rompe finalmente un tabù storico. Era tempo, santiddio.

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Il lavoro precario è colpa… del sindacato /2010/01/18/il-lavoro-precario-e-colpa-del-sindacato/ /2010/01/18/il-lavoro-precario-e-colpa-del-sindacato/#comments Mon, 18 Jan 2010 00:54:51 +0000 Oscar Giannino /?p=4829 Stati Uniti e Unione europea nel mercato del lavoro funzionano molto diversamente, quanto per esempio a rigidità verso il basso delle retribuzioni e utilizzo del lavoro precario e temporaneo. Tre buoni papers approfondiscono andamenti e ragioni delle differenze in una prospettiva comparata. E consentono di giungere a una conclusione assai utile nel dibattito pubblico italiano. Da noi il lavoro a tempo e precario viene più utilizzato che altrove per colpa non dei padroni cattivi, ma del sindacato.Due papers sono opera di un’equipe di economisti, alcuni della World Bank e altri in forza ad alcune banche centrali di Paesi europei – Estonia, Grecia, Irlanda – alle prese con vecchi e nuovi problemi di occupazione  per effetto della crisi. Il primo analizza l’elevata rigidità di aggiustamenti verso il basso delle retribuzioni in caso di crisi occupazionale – motivo di aggravamento della crisi medesima quando la domanda di lavoro si contrae -  che caratterizza appunto l’UE rispetto agli USA, e dimostra come l’effetto sia più grave nei Paesi nei quali la contrattazione del lavoro è nazionale, centralizzata, e con fortissima prevalenza in tutti i settori dei salari contrattati in maniera pluriennale e rigida coi sindacati. Il secondo paper, degli stessi autori, analizza come in assenza di elasticità verso il basso delle retribuzioni le imprese in difficoltà dei diversi Paesi europei agiscano comunque per contenere i costi del lavoro, intervenendo su bonus, parte variabile del salario e soprattutto grants and benefits. Ma il paper decisivo è questo terzo, di Andrea Salvatori della University of Essex. Nella UE, uno su sette dipendenti lavorano con contratti temporanei connessi con una retribuzione inferiore e meno formazione. Sul posto di lavoro, utilizzando i dati di 21 Paesi, risulta che, in contrasto con le prove precedenti per gli Stati Uniti, quanto più un’impresa è sindacalizzata nei suoi dipendenti tanto più diventa propensa a usare il lavoro temporaneo. Il sindacato contribuisce dunque a creare dualità contrattuale nel mercato del lavoro. Limitando la capacità delle imprese di adeguare il costo del lavoro anche attraverso minori retribuzioni, in presenza di un fisco vorace sul lavoro il sindacato spinge l’impresa all’utilizzo dei precario. L’Italia è in testa alla classifica, per questo effetto distorsivo.

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Global Italian Standard /2009/09/26/global-italian-standard/ /2009/09/26/global-italian-standard/#comments Sat, 26 Sep 2009 13:59:54 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2982 Gli Stati Uniti applicheranno il concetto di accountability nel suo significato più profondo in lingua italiana. Cioè: sparare cifre a casaccio sapendo che nessuno le potrà smentire (noi siamo andati oltre, nel senso che non spariamo neanche più le cifre, ma date tempo al tempo e Barack Obama ci raggiungerà).

Secondo quanto riferisce il Financial Times, dal mese prossimo la Casa Bianca chiederà ai beneficiari del Recovery Act di comunicare quanti posti di lavoro sono stati salvati grazie all’assistenza pubblica (a oggi, 143 miliardi di dollari). I destinatari di questa richiesta sono in larga misura i governi degli Stati sull’orlo del fallimento, che dovranno spiegare quali progetti hanno finanziato coi trasferimenti federali – dai ponti verso il nulla alle cattedrali nel deserto – e in quale misura ciò ha contribuito a contrastare la disoccupazione. Ora, questa è alchimia pura. Per almeno due ragioni: la prima è che non può esserci alcun double check sui dati forniti. La seconda, cruciale, è che in ogni caso non esiste il controfattuale: se quei soldi non fossero stati offerti agli stati ma fossero stati ri-iniettati nell’economia (o non prelevati dalle tasse), quante persone sarebbero state occupate e perché?

L’assoluta inaffidabilità delle cifre che verranno prevedibilmente sparate da Obama come la dimostrazione del suo successo, è tale che la rubrica Lex vi dedica un gustoso colonnino. Gli autori di Lex sottolineano che questo è un modo inelegante di distrarre l’opinione pubblica dalle questioni davvero importanti, come l’incapacità dell’economia americana di ripartire e il tasso drammatico di sottoutilizzo della capacità industriale a stelle e strisce.

In realtà, comunque, questa idea balzana non è nuova: se ne parla già da mesi. L’esigenza del governo americano di iniettare fiducia nell’elettorato è superiore alla sua onestà, evidentemente: e quindi sufficiente a spingere gli economisti del governo a generare dati non importa quanto falsi, ma rassicuranti. Vale oggi, dunque, il commento di Greg Mankiw di qualche mese fa:

Here is the question I would have asked: “Going forward, what macroeconomic data would you have to observe before you concluded that the stimulus bill has been a failure? Or will you conclude, no matter how bad things get, that the economy would have been in even worse shape without the stimulus? And if the latter is the case, aren’t these quarterly reports just a bit surreal?”

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Disoccupazione, che fare? /2009/09/05/disoccupazione-che-fare/ /2009/09/05/disoccupazione-che-fare/#comments Sat, 05 Sep 2009 18:33:58 +0000 Oscar Giannino /?p=2530 Negli Stati Uniti ferve un dibattito che da noi è molto più in sordina, quello della ripresa senza occupazione. Per esempio stamane era il titolo di due diversi editoriali, del New York Times e del Wall Street Journal. Certo, negli Stati Uniti il dibattito è potentemente aiutato dal fatto che le rilevazioni statistiche sono più frequenti e meglio impostate tecnicamente. Di settimana in settimana viene per esempio aggiornato il numero delle prime richieste di trattamento di disoccupazione, che dalla prima settimana di luglio a oggi è rimasto drammaticamente ancorato intorno a circa 570mila nuove unità. Da noi, simili rilevazioni e tanto frequenti non esistono. Idem dicasi per i diversi aggregati attraverso i quali misurare la disoccupazione per componente – il 9,7% di disoccupati USA in agosto corrispondono al 13% per gli ispanici, al 15% per gli afroamericani, al 25,5% per la componente sotto i 20 anni; ai 26 milioni di americani oggi che non riescono a trovare un lavoro full time bisogna aggiungere un altro 7% di scoraggiati a cercarlo, cioè altri 17 milioni.  Ma non è solo per l’inadeguata monitorazione statistica che qui in Italia il dibattito stenta a decollare. Perché bisognerebbe avere il fegato di dire alcune amare verità. Del tipo: una verticale impennata della disoccupazione potrebbe essere l’altra faccia della medaglia per imprese che, nella crisi, ristrutturino con decisione i propri prodotti e i propri processi, mettendosi prima e meglio nelle condizioni di potersi meglio riposizionare al ripartire della domanda (nel caso italiano, soprattutto di quella estera, perché è nelle manifatturiere esportatrici che si concentra la crisi double digit di fatturato e ordinativi). Al contrario, difendere a tutti i costi la base occupazionale precrisi può essere anche foriero di minori tensioni sociali, ma significa anche che non attuano ristrutturazioni: la produttività resta inchiodata oggi e per il domani. Ancora più grave, in un paese come il nostro che negli ultimi anni, grazie alla maggior flessibilità del mercato del lavoro dalla legge Treu in avanti, ha scelto di estendere la base degli occupati quasi sempre a scapito della produttività.  Non è un caso, che negli USA invece l’aumento verticale dei disoccupati corrisponda nel secondo trimestre 2009 a una ripresa record della produttività – più 6,6% – e a una discesa notevolissima del costo del lavoro – meno 5,9% su base annuale. Negli USA, si pensa da sempre che una più elevata disoccupazione nel breve possa essere meglio e prima riassorbita mettendo l’apparato produttivo in condizioni di riattrezzarsi con grande decisioni e rapidità. Da noi, domina il partito per il quale la produttività è un optional, rispetto agli occupati da cercare di garantire comunque. In ogni caso, sia negli USA che da noi sono oggi in minoranza coloro che, come il WSJ oggi, indicano in meno tasse subito alle imprese la via più efficace per tentare di contenere il costo occupazionale dell’attuale crisi.

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L’occupazione americana e il frastuono statistico /2009/08/11/loccupazione-americana-e-il-frastuono-statistico/ /2009/08/11/loccupazione-americana-e-il-frastuono-statistico/#comments Tue, 11 Aug 2009 08:09:09 +0000 Mario Seminerio /?p=2003 Secondo i dati grezzi del Bureau of Labour Statistics (BLS), nel mese di luglio l’economia statunitense ha perso 1,33 milioni di posti di lavoro, un dato che dopo alcune correzioni statistiche si è ridimensionato ad una flessione del numero degli occupati non agricoli di 247.000 unità, cifra che ha fatto gridare al miracolo della stabilizzazione, dimenticando che quasi un quarto di milione di impieghi distrutti in un mese rappresenterebbe uno dei peggiori risultati delle fasi recessive americane dal 1948 ai giorni nostri, esclusa la Grande Recessione che stiamo attraversando. Un dato che induce a riflettere sulle tecniche di rettifica statistica applicate alle rilevazioni macroeconomiche.

Tra tali tecniche figura il modello di Birth/Death, introdotto nel 2001 per volere dell’Amministrazione Bush, che intendeva in tal modo correggere la tendenza delle indagini statistiche a sottovalutare la creazione di nuova occupazione all’uscita dalle recessioni, quando il tasso di natalità delle imprese tende ad aumentare. Ma il Birth/Death Model, durante le fasi recessive, tende a sovrastimare la creazione di nuova occupazione. La correzione di luglio del modello ha così aggiunto al totale 32.000 nuovi impieghi, circa 7.000 in più di quelli calcolati nel luglio 2008, e vi è più di un motivo per ritenere che si tratti di un’aggiunta scarsamente realistica.

Alcuni osservatori hanno poi fatto notare che il settore auto e quello dei pubblici dipendenti addetti alle operazioni di censimento (le cui assunzioni stanno avvenendo in queste settimane), hanno contribuito al dato ufficiale per ben 100.000 nuovi impieghi, veri o immaginari. In particolare, su base non corretta per la stagionalità, il settore auto ha perduto 8.000 posti, ma dopo le correzioni del BLS avrebbe addirittura creato 28.000 nuovi impieghi. Un differenziale positivo di 36.000 posti ottenuto con un tratto di penna. A questo proposito, la correzione per la stagionalità del settore auto è particolarmente robusta nel mese di luglio perché è in quel mese che si verificano le chiusure per manutenzione di impianti, e ciò determina la messa in libertà del personale, una sorta di cassa integrazione che si riflette nella riduzione del numero di occupati. Quest’anno, come noto, le travagliate vicende di Chrysler e GM hanno stravolto il pattern di stagionalità, ma non la correzione. Tra qualche mese, al momento delle revisioni annuali, scopriremo la verità. Si aggiunga poi che lo scorso luglio il dodicesimo giorno del mese (che è quello in cui avviene la chiusura delle rilevazioni statistiche) è caduto di domenica, e questo ha costretto il BLS a campionare per solo una settimana, aggiungendo disturbo statistico.

Possiamo quindi affermare che, sulla rilevazione del mese scorso della Establishment Survey (quella compiuta mensilmente su circa 400.000 strutture produttive non agricole, pubbliche e private), si è abbattuta una tempesta perfetta di circostanze destinate a produrre, più che un rumore, un vero e proprio frastuono statistico. Ciò non equivale a confutare l’ipotesi di stabilizzazione dei livelli di attività economica, che è probabilmente in atto, ma solo a ricordare che alcuni eventi rari possono aver ridotto la significatività delle metodologie di rilevazione. Oltre naturalmente alla più generale constatazione che l’occupazione è un indicatore ritardato del ciclo economico, e che già l’ultima lieve recessione (quella del 2000-2001) è stata caratterizzata dal fenomeno della jobless recovery, circostanza che deve indurre a studiare più approfonditamente le dinamiche dei mercati del lavoro per meglio comprendere se e a che tipo di discontinuità ci troviamo di fronte.

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I 7 miti dell’economia verde: fantastici! /2009/05/06/i-7-miti-delleconomia-verde-fantastici/ /2009/05/06/i-7-miti-delleconomia-verde-fantastici/#comments Wed, 06 May 2009 18:34:07 +0000 Oscar Giannino /index.php/2009/05/i-7-miti-delleconomia-verde-fantastici/ Sia lode e gloria ai seguenti ricercatori. Andrew P. Morris, dell’University of Illinois College of Law, nonché del Property and Environment Research Center, George Mason University; William T. Bogart, dello York College of Pennsylvania; Andrew Dorchak, della Case Western Reserve University Law Library; infine Roger E. Meiners, della University of Texas at Arlington. Hanno appena scritto due papers fa-vo-lo-si che smantellano gran parte della mitologia sulla quale viene edificata la tesi secondo la quale l’unica vera risposta alla crisi economica attuale è un colossale shift, guidato dallo Stato, verso l’economia e le tecnologie “verdi”. I papers s’intitolano “7 Myths About Green Jobs”, e “Green Jobs Myths” (Illinois Law & Economics Research Paper No. LE09-007, e No. LE09-001). Consiglio di divorarveli per benino, e di sicuro la loro lettura farebbe un gran bene a politici e giornalisti che su questi temi rischiano di prendere lucciole per lanterne, creando consenso intorno a massicce allocazioni di risorse del contribuente assolutamente distorsive.
Quali le loro tesi dimostrate? Scrivono che negli ultimi tempi una crescente mole di letteratura a forte popolarità si prodiga a convincere che maggiore sarà l’intervento statale pro ambiente, più consistente sarà la crescita di occupati, unica vera salvezza al downsizing della manifattura “tradizionale” cioè energivora. Saranno impieghi che non faranno solo un gran bene all’ambiente, ma ben pagati, ricchi di soddisfazione per chi li svolge, e naturalmente tali da favorire un ritorno in grande stile all’adesione sindacale di massa. Senonché queste tesi, scrivono i nostri eroi, si fondano appunto su sette veri e propri miti, che investono orizzontalmente l’economia e la tecnologia, oculatamente alimentati da gruppi d’interesse che puntano ai maggiori vantaggi, dall’implementazione di tali postulati.
Mito numero uno, il lavoro “verde”: nessuna sua definizione standard è comunemente accettata. Mito due: col lavoro verde cresce la produttività; quando invece i settori e le tecnologie interessate richiedono un più alto numero di addetti a prassi amministrative e regolatorie. Mito tre: le previsioni di crescita del lavoro verde sono attendibili; quando invece i loro modelli previsivi sono risultati totalmente disattesi, da 35 anni a questa parte. Mito quattro: il lavoro verde accresce l’occupazione; quando invece esso risulta assai human intensive, dunque a bassa produttività, bassa remunerazione e basso standard di prestazione per gli addetti; la crescita economica non può essere “ordinata” dal Parlamento o dalle Nazioni Unite, la restrizione di tecnologie mature a favore di tecnologie ancora speculative attraverso stanziamenti di risorse pubbliche e incentivi fiscali ha spesso generato stagnazione, in passato. Mito cinque: dalla crisi si esce accettando come positiva la diminuzione degli scambi commerciali planetari, per tornare a puntare maggiormente su produzioni “locali” senza che ne consegua diminuzione degli standard di vita; quando invece si è SEMPRE confermata vincente la tesi della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, che attraverso la specializzazione produttiva e scambi crescenti e più liberi sempre maggiori aree del pianeta innalzano più rapidamente i propri standard di benessere. Mito sei: i governi possono e devono agire come efficaci sostituti dei mercati; quando sempre le aziende libere si sono rivelate meglio in grado di interpretare e soddisfare domanda e desideri dei consumatori. Mito sette: imporre cambi di direzione tecnologica attraverso la regolazione pubblica è auspicabile e positivo; quando invece molte delle tecnologie verdi sin qui indicate come addirittura “risolutive” non hanno mai raggiunto la scala di attuabilità e di costo necessaria a soddisfare efficacemente la domanda alla quale si suppongono rivolte.
Altro che il mitico 20-20-20 dell’Europa e i fantastici obiettivi verdi promessi da Obama: noi preferiamo i fantastici quattro che numeri alla mano fanno a pezzi la teologia ambientalista e i suoi improvvisati dottori della legge.

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