L’Europa è di nuovo piegata su se stessa nel tentativo di evitare la crisi dell’eurodebito. In molti tra coloro che in Italia lavorano per l’export almeno si consolano, all’idea che l’euro si deprezzi riscendendo verso quota 1,3 sul dollaro invece che verso 1,5. In realtà , la gara a deprezzare le valute è la vera guerra in corso tra dollaro e yuan, e l’euro rischia di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro. Detto questo, chi qui scrive trova invece apprezzabile che sempre più numerose voci europee si levino polemicamente rilevando che non rende un servizio a nessuno, la FED, artificiosamente deprimendo il corso del dollaro e i rendimenti decennali del debito pubblico americano, con la sua politica eterodossa di acquisiti di titoli sul mercato e cioè attraverso la monetizzazione del debito, come avveniva in Italia prima che via Nazionale e Tesoro divorziasssero, sancendo la piena autonomia della banca centrale dalle tendenze deficiste della politica. La vera risposta a chi consiglia sempre il deprezzamento della moneta per difendere l’occupazione sul mercato domestico sta proprio nell’andamento dell’economia americana. Prosegui la lettura…
Oscar Giannino Mercato del lavoro, commercio mondiale, export, monete BCE, export, monete, occupazione
Domattina dedico la “versione di oscar” su radio24 all’annuncio venuto oggi da Cisl e Uil: le due confederazioni riuniranno congiuntamente le segreterie il 15 settembre, per varare una piattaforma di riduzione delle tasse, e scenderanno in piazza per questo il 9 ottobre. Lo dico prima di entrare nel merito delle loro proposte, prima di conoscerle in dettaglio anche se le immagino: dico e grido evviva. Evviva anche se magari dirò nel merito che è troppo poco e troppo tardi. Ma un evviva netto e chiaro. Non solo perché qualunque alleato per la riduzione della schiavitù fiscale è ben accetto. Ma perché il sindacato notoriamente nella storia italiana è un alleato potente. E se finalmente il sindacato si smuove dal solo mantra della lotta all’evasione per destinare più risorse ancora alla spesa pubblica ma – immagino – alla lotta all’evasione che resterà affianca finalmente anche richieste di riduzioni delle imposte, allora vuol dire che finalmente anche il lavoro dipendente comincerà a sentirsi dire da chi – ci piaccia o meno è altro discorso – lo rappresenta, che pagare le tasse NON è bellissimo, e quando poi le tasse sono abnormi è osceno. Non solo perché in cambio lo Stato offre quel che sappiamo. Ma perché più alte sono le tasse, maggiore è l’ingiustizia e l’inefficienza. E poiché nel nostro Paese le tasse sono altissime sia sul lavoro sia sull’impresa, è su entrambe che devono scendere per diminuire ingiustizia e inefficienza. Se avete dubbi, vi invito a leggere questo paper. E’ assolutamente illuminante. Lo ha scritto Richard Rogerson, fellow dell’American Enterprise.
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Oscar Giannino Mercato del lavoro, Senza categoria, Stati Uniti, fisco, ue, welfare Europa, Italia, occupazione, Ocse, produttività , tasse, USA
Stati Uniti e Unione europea nel mercato del lavoro funzionano molto diversamente, quanto per esempio a rigidità verso il basso delle retribuzioni e utilizzo del lavoro precario e temporaneo. Tre buoni papers approfondiscono andamenti e ragioni delle differenze in una prospettiva comparata. E consentono di giungere a una conclusione assai utile nel dibattito pubblico italiano. Da noi il lavoro a tempo e precario viene più utilizzato che altrove per colpa non dei padroni cattivi, ma del sindacato. Prosegui la lettura…
Oscar Giannino Mercato del lavoro, ue contrattazione, criisi, lavoro precario, occupazione, rigidità retributiva, sindacato
Gli Stati Uniti applicheranno il concetto di accountability nel suo significato più profondo in lingua italiana. Cioè: sparare cifre a casaccio sapendo che nessuno le potrà smentire (noi siamo andati oltre, nel senso che non spariamo neanche più le cifre, ma date tempo al tempo e Barack Obama ci raggiungerà ).
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Carlo Stagnaro liberismo disoccupazione, mankiw, Obama, occupazione, stimoli
Negli Stati Uniti ferve un dibattito che da noi è molto più in sordina, quello della ripresa senza occupazione. Per esempio stamane era il titolo di due diversi editoriali, del New York Times e del Wall Street Journal. Certo, negli Stati Uniti il dibattito è potentemente aiutato dal fatto che le rilevazioni statistiche sono più frequenti e meglio impostate tecnicamente. Di settimana in settimana viene per esempio aggiornato il numero delle prime richieste di trattamento di disoccupazione, che dalla prima settimana di luglio a oggi è rimasto drammaticamente ancorato intorno a circa 570mila nuove unità . Da noi, simili rilevazioni e tanto frequenti non esistono. Idem dicasi per i diversi aggregati attraverso i quali misurare la disoccupazione per componente – il 9,7% di disoccupati USA in agosto corrispondono al 13% per gli ispanici, al 15% per gli afroamericani, al 25,5% per la componente sotto i 20 anni; ai 26 milioni di americani oggi che non riescono a trovare un lavoro full time bisogna aggiungere un altro 7% di scoraggiati a cercarlo, cioè altri 17 milioni.  Ma non è solo per l’inadeguata monitorazione statistica che qui in Italia il dibattito stenta a decollare. Perché bisognerebbe avere il fegato di dire alcune amare verità . Del tipo: una verticale impennata della disoccupazione potrebbe essere l’altra faccia della medaglia per imprese che, nella crisi, ristrutturino con decisione i propri prodotti e i propri processi, mettendosi prima e meglio nelle condizioni di potersi meglio riposizionare al ripartire della domanda (nel caso italiano, soprattutto di quella estera, perché è nelle manifatturiere esportatrici che si concentra la crisi double digit di fatturato e ordinativi). Al contrario, difendere a tutti i costi la base occupazionale precrisi può essere anche foriero di minori tensioni sociali, ma significa anche che non attuano ristrutturazioni: la produttività resta inchiodata oggi e per il domani. Ancora più grave, in un paese come il nostro che negli ultimi anni, grazie alla maggior flessibilità del mercato del lavoro dalla legge Treu in avanti, ha scelto di estendere la base degli occupati quasi sempre a scapito della produttività .  Prosegui la lettura…
Oscar Giannino liberismo, mercato occupazione, produttività , ripresa, ristrutturazioni, tasse
Secondo i dati grezzi del Bureau of Labour Statistics (BLS), nel mese di luglio l’economia statunitense ha perso 1,33 milioni di posti di lavoro, un dato che dopo alcune correzioni statistiche si è ridimensionato ad una flessione del numero degli occupati non agricoli di 247.000 unità , cifra che ha fatto gridare al miracolo della stabilizzazione, dimenticando che quasi un quarto di milione di impieghi distrutti in un mese rappresenterebbe uno dei peggiori risultati delle fasi recessive americane dal 1948 ai giorni nostri, esclusa la Grande Recessione che stiamo attraversando. Un dato che induce a riflettere sulle tecniche di rettifica statistica applicate alle rilevazioni macroeconomiche.
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Mario Seminerio mercato Mercato del lavoro, occupazione, Stati Uniti
Sia lode e gloria ai seguenti ricercatori. Andrew P. Morris, dell’University of Illinois College of Law, nonché del Property and Environment Research Center, George Mason University; William T. Bogart, dello York College of Pennsylvania; Andrew Dorchak, della Case Western Reserve University Law Library; infine Roger E. Meiners, della University of Texas at Arlington. Hanno appena scritto due papers fa-vo-lo-si che smantellano gran parte della mitologia sulla quale viene edificata la tesi secondo la quale l’unica vera risposta alla crisi economica attuale è un colossale shift, guidato dallo Stato, verso l’economia e le tecnologie “verdi”. I papers s’intitolano “7 Myths About Green Jobs”, e “Green Jobs Myths” (Illinois Law & Economics Research Paper No. LE09-007, e No. LE09-001). Consiglio di divorarveli per benino, e di sicuro la loro lettura farebbe un gran bene a politici e giornalisti che su questi temi rischiano di prendere lucciole per lanterne, creando consenso intorno a massicce allocazioni di risorse del contribuente assolutamente distorsive.
Quali le loro tesi dimostrate? Scrivono che negli ultimi tempi una crescente mole di letteratura a forte popolarità si prodiga a convincere che maggiore sarà l’intervento statale pro ambiente, più consistente sarà la crescita di occupati, unica vera salvezza al downsizing della manifattura “tradizionale” cioè energivora. Saranno impieghi che non faranno solo un gran bene all’ambiente, ma ben pagati, ricchi di soddisfazione per chi li svolge, e naturalmente tali da favorire un ritorno in grande stile all’adesione sindacale di massa. Senonché queste tesi, scrivono i nostri eroi, si fondano appunto su sette veri e propri miti, che investono orizzontalmente l’economia e la tecnologia, oculatamente alimentati da gruppi d’interesse che puntano ai maggiori vantaggi, dall’implementazione di tali postulati.
Mito numero uno, il lavoro “verde”: nessuna sua definizione standard è comunemente accettata. Mito due: col lavoro verde cresce la produttività ; quando invece i settori e le tecnologie interessate richiedono un più alto numero di addetti a prassi amministrative e regolatorie. Mito tre: le previsioni di crescita del lavoro verde sono attendibili; quando invece i loro modelli previsivi sono risultati totalmente disattesi, da 35 anni a questa parte. Mito quattro: il lavoro verde accresce l’occupazione; quando invece esso risulta assai human intensive, dunque a bassa produttività , bassa remunerazione e basso standard di prestazione per gli addetti; la crescita economica non può essere “ordinata” dal Parlamento o dalle Nazioni Unite, la restrizione di tecnologie mature a favore di tecnologie ancora speculative attraverso stanziamenti di risorse pubbliche e incentivi fiscali ha spesso generato stagnazione, in passato. Mito cinque: dalla crisi si esce accettando come positiva la diminuzione degli scambi commerciali planetari, per tornare a puntare maggiormente su produzioni “locali” senza che ne consegua diminuzione degli standard di vita; quando invece si è SEMPRE confermata vincente la tesi della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, che attraverso la specializzazione produttiva e scambi crescenti e più liberi sempre maggiori aree del pianeta innalzano più rapidamente i propri standard di benessere. Mito sei: i governi possono e devono agire come efficaci sostituti dei mercati; quando sempre le aziende libere si sono rivelate meglio in grado di interpretare e soddisfare domanda e desideri dei consumatori. Mito sette: imporre cambi di direzione tecnologica attraverso la regolazione pubblica è auspicabile e positivo; quando invece molte delle tecnologie verdi sin qui indicate come addirittura “risolutive” non hanno mai raggiunto la scala di attuabilità e di costo necessaria a soddisfare efficacemente la domanda alla quale si suppongono rivolte.
Altro che il mitico 20-20-20 dell’Europa e i fantastici obiettivi verdi promessi da Obama: noi preferiamo i fantastici quattro che numeri alla mano fanno a pezzi la teologia ambientalista e i suoi improvvisati dottori della legge.
Oscar Giannino Senza categoria ambientalismo, Obama, occupazione, tecnologie verdi