CHICAGO BLOG » nucleare http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Agenzia nucleare: si parte con Veronesi per arrivare dove? Ecco i nomi mancanti /2010/10/16/agenzia-nucleare-si-parte-con-veronesi-per-arrivare-dove-ecco-i-nomi-mancanti/ /2010/10/16/agenzia-nucleare-si-parte-con-veronesi-per-arrivare-dove-ecco-i-nomi-mancanti/#comments Sat, 16 Oct 2010 13:43:49 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7314 Umberto Veronesi ha accettato di presiedere la costituenda Agenzia per la sicurezza nucleare, elemento pivotale nella strategia di ritorno all’atomo. Non possiamo che rallegrarcene, visto che Chicago-blog fu tra i primi ad avanzare la candidatura dell’oncologo e senatore del Pd. Vediamo quali sono gli altri nomi in pista, e quali le prime sfide, e i primi test, che l’organismo dovrà affrontare.

Fino all’ultimo Veronesi è stato in “ballottaggio” con altri due potenziali presidenti, ciascuno – in modo e per ragioni diverse – in possesso di tutti i requisiti necessari. Alessandro Ortis, presidente uscente (scadrà a dicembre) dell’Autorità per l’energia, è per formazione ingegnere nucleare e non ha mai nascosto di vedere di buon occhio la possibilità che il paese torni all’atomo. Molti hanno visto nel documento di consultazione pubblicato dall’Autorità sui contratti a lungo termine per le tecnologie caratterizzate da alti investimenti upfront una mano tesa al piano del governo. Nei sette anni di presidenza del regolatore, Ortis si è conquistato la fama di tecnico competente e indipendente sia dai soggetti regolati (con cui spesso si è scontrato), sia dalla politica. L’altro candidato, Maurizio Cumo, professore di impianti nucleari alla Sapienza di Roma, è ancora in pista come consigliere, quindi ne parlerò dopo.

La scelta di Veronesi segna una svolta, nel modo in cui il governo ha gestito il nucleare, in almeno tre sensi. Anzitutto implica l’affermazione di Stefano Saglia, sottosegretario allo Sviluppo, che da subito ha caldeggiato la nomina consapevole che il nucleare, per essere, deve essere una scelta bipartisan. Poi è la dimostrazione che l’arrivo di Paolo Romani al ministero non è stato una scelta pro forma, se ha sbloccato immediatamente uno dei dossier più caldi per l’esecutivo. Infine, rappresenta una sfida al centrosinistra, che finora ha dato la sensazione di condurre un’opposizione pregiudiziale e ideologica e, oggi, non può rimanere indifferente all’insediamento di un suo uomo alla guida dell’organismo tecnico che dovrà pilotare la strada italiana al nucleare. Va da sé che, pur non essendo strettamente necessario ai sensi dello statuto (ed è un male), Veronesi dovrà dimettersi da senatore, come hanno subito chiesto un po’ maliziosamente Roberto Della Seta e Francesco Ferrante e come lo stesso Veronesi aveva promesso, in seguito a una schermaglia col segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Proprio il segretario del Pd esce paradossalmente sconfitto da una scelta nel nome del dialogo, visto che, per evitare di pronunciarsi con chiarezza e mantenersi equidistante tra l’anima più dialogante del partito e quella massimalista, aveva puntato tutto sulla guerra senza se e senza ma al “modo in cui” il governo stava conducendo il programma. Va da sé che il clima distensivo innescato dalla nomina di Veronesi delegittima i toni guerrafondai di una parte del Pd (che peraltro si trova nell’imbarazzante situazione di aver condotto un’opposizione massimalista nel paese, razionale in aula, e non può dunque oggi – per le scelte fatte in tema di comunicazione – rivendicare un ruolo nell’oggettivo ammorbidimento dell’esecutivo).

Chi dovrà affiancare Veronesi alla testa dell’Agenzia? Secondo la legge istitutiva, se la nomina del presidente spetta formalmente alla presidenza del consiglio, i quattro componenti vengono decisi due dal ministero dell’Ambiente e due dal ministero dello Sviluppo economico. Stefania Prestigiacomo avrebbe scelto i nomi di Bernadette Nicotra, magistrato e vicecapo di gabinetto del ministro, e il geologo Gualtiero Bellomo, membro della Commissione Via (in precedenza si era parlato di Aldo Cosentino, direttore generale del ministero dell’Ambiente). Alcuni ritengono che Nicotra e Bellomo (o, se è per questo, Cosentino), pur essendo professionisti di indubbia competenza, abbiano due limiti che, potenzialmente, potrebbero sollevare qualche malumore: non si sono occupati di nucleare in precedenza, e soprattutto sono troppo vicini – professionalmente – a Prestigiacomo. Su questo punto tornerò a breve.

Più ampia la rosa valutata dal Mse, che comprenderebbe – tra gli altri – il fisico Antonio Moccaldi, presidente dell’Ispesl, l’oncologo Umberto Tirelli, e l’ingegnere Paola Girdinio, preside della facoltà di ingegneria all’Università di Genova che ha fatto partire un master, destinato a diventare nel giro di uno o due anni un corso di laurea, in ingegneria nucleare. In realtà, però, la rosa si sarebbe ristretta a tre soli nomi: il già citato Cumo (unico limite, l’età: un commissario nato nel 1939 di fianco a un presidente leva 1925 non sarebbe il massimo dell’immagine), e i professori Marco Ricotti (che insegna impianti nucleari al Politecnico di Milano) e Giuseppe Zollino (impianti nucleari all’Università di Padova). Il curriculum di entrambi calza a pennello col ruolo che dovrebbero occupare. Poiché Cumo viene dato per certo, il vero nodo da sbrogliare sarebbe il derby tra Ricotti e Zollino. Ricotti può contare sul sostegno di Energy Lab, la Fondazione promossa dal gotha politico lombardo su impulso del capo di A2a, e presidente di Assoelettrica, Giuliano Zuccoli. Zollino ha però un vantaggio curricolare: dal 2001 al 2007 è stato segretario della Commissione Parlamentare Industria, Ricerca ed Energia del Parlamento Europeo, per la quale si è occupato, in particolare, del monitoraggio delle agenzie nucleari dei nuovi Stati membri al momento dell’allargamento.

Non appena nominato, il collegio dovrà procedere alla selezione del personale, proveniente per la maggior parte (ma nelle intenzioni del ministro dell’Economia, del tutto, compreso il direttore generale) dall’Enea e dall’Ispra. Non è detto che le caratteristiche delle risorse umane disponibili siano del tutto soddisfacenti, perché – tra l’altro – si tratta di persone non lontanissime dalla pensione e che di queste cose, in molti casi, hanno smesso di occuparsi negli anni immediatamente successivi al referendum dell’87.

La selezione del personale è fondamentale non solo perché, ovviamente, dalla sua qualità dipenderà l’efficienza e l’affidabilità dell’Agenzia. E’ importante anche perché, non appena formalmente insediata, essa entrerà nel mirino della Commissione europea, che dovrà valutarne la disponibilità finanziaria (che è un problema, vista la determinazione tremontiana di fare sostanzialmente a costo zero, facendo leva su personale già assunto nella PA e dotando l’Agenzia di un budget di appena 1,5 milioni di euro), la competenza e l’indipendenza. E’ sotto questo profilo che le due nomine dell’Ambiente potrebbero incontrare qualche resistenza. Il problema numero uno è che, pur avendo competenze utili al nucleare non ne hanno (per quel che se ne sa) sul nucleare. Il problema numero due è che il governo ha ritenuto di superare il problema dell’indipendenza creando sì un’Agenzia i cui componenti sono di nomina governativa, ma che dovrebbero essere protetti dall’irrevocabilità dell’incarico. Tuttavia, nominare due dirigenti del ministero che, ovviamente, hanno uno specifico rapporto di fiducia col ministro non è, forse, il migliore degli inizi.

Detto questo, sbaglia chi pensa di fare subito le barricate. L’Agenzia viene sì creata nell’ambito del progetto del governo di tornare all’atomo, ma la prima grana che dovrà affrontare sarà quella del deposito per le scorie. Un deposito che è necessario, dato che l’Italia ha comunque quattro centrali dismesse o in via di dismissione e che produce una quantità di scorie ospedaliere, a prescindere da qualunque scelta si faccia in merito alla produzione di energia nucleare. Pur coi limiti (attuali o potenziali) evidenziati, il nuovo collegio sembra avere un profilo indubbiamente alto. Speriamo che la “macchina” di cui verranno dotati sia all’altezza dei piloti.

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Di nucleare e dischi volanti. Di Antonio Sileo /2010/09/20/di-nucleare-e-dischi-volanti-di-antonio-sileo/ /2010/09/20/di-nucleare-e-dischi-volanti-di-antonio-sileo/#comments Mon, 20 Sep 2010 20:28:15 +0000 Guest /?p=7093 Riceviamo da Antonio Sileo e volentieri pubblichiamo.

Questa mattina, mentre in ritardo mi scapicollavo nella metropolitana di Milano, ho acchiappato una copia di Affari&Finanza, il supplemento economico de laRepubblica,. Immantinente sono stato colpito dal titolo dell’editoriale del direttore, Massimo Giannini, “L’Italietta nel caos atomico”. Ho iniziato a leggere avidamente. Richiamo al presidente del Consiglio per la (perdurante) non nomina del ministro dello Sviluppo Economico (che dell’energia è competente). Giusto e inevitabile. Dubbi e sospetti sulla ramanzina fatta dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che oltre a criticare l’eolico, pesantemente, ha rilanciato la ripresa di produzione nostrana di energia da fonte elettronucleare. Oltre al danno anche la beffa, viene da dire – scrive Giannini – e almeno per due ragioni una politica e l’altra tecnica. 

L’atomo ricorda sempre di più le «grandi opere» disegnate sulla lavagna nello studio televisivo di Bruno Vespa. Da un anno è tutto fermo – incalza l’editorialista. Non proprio, visto che l’approvazione in extremis del d.lgs. n. 31/2010, testo che attua la delega contenuta nella legge Sviluppo, un tassello significativo, è del 15 febbraio di quest’anno. Ma va bene: un po’ bisogna semplificare. Anche perché l’Agenzia per la sicurezza non ha ancora un organigramma. Ci siamo! Qui si sfonda un balcone, di una casa in verità già un po’ diroccata. In effetti, come di recente ha facetamente scritto un (super)esperto come GB Zorzoli: l’’iter previsto per il rilancio del nucleare accumula ritardi che neanche nei momenti peggiori della loro travagliata storia le ferrovie e l’Alitalia sono riuscite a eguagliare.

Si passa quindi alle ragioni tecniche: «L’Italia, al palo dai tempi dei referendum, punta a centrali di terza generazione, Nel resto del mondo se ne costruiscono di quarta già un pezzo.», inizia Giannini.

Ora (come del resto è molto noto a lettori di fumetti e science fiction) si sa che gli Americani sono riusciti a smontare l’impianto di aria condizionata del disco volante caduto a Roswell nel 1947 già a metà degli anni ’60. Si trattava appunto di un reattore di quarta generazione che da allora è stato utilizzato per alimentare gli illuminatissimi casinò di Las Vegas. Non ci risulta però, come si vede in tantissimi B movie, che sempre gli Americani non abbiano reso di dominio pubblico la suddetta tecnologia spaziale.

L’articolo si conclude con il «crossover» tra i costi del nucleare e solare fotovoltaico, ma forse era la pubblicità di una nissan Qashqai. Mi scuso con i lettori, perché proprio a questo punto mi sono ritrovato i cancelli sbarrati della linea 3 della metro, la gialla (quella più nuova e nota anche per le tangenti), a causa dell’esondazione di sabato del fiume Seveso: mi sono un po’ incazzato e forse ho capito male. In ogni caso su quest’ultima (non)questione, cioè il confronto tra nucleare e fotovoltaico, rimando, per esempio, a un Briefing Paper di IBL, dove si ricorda subito che quanto riportato dal New York Times sull’argomento è stato rettificato.

Certo, però, che se le ragioni politiche possono essere condivisibili, su quelle “tecniche” non ci siamo; proprio. 

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Il dubbio di Gubbio, la ramanzina di Cortina, e i conti di Tremonti /2010/09/19/il-dubbio-di-gubbio-la-ramanzina-di-cortina-e-i-conti-di-tremonti/ /2010/09/19/il-dubbio-di-gubbio-la-ramanzina-di-cortina-e-i-conti-di-tremonti/#comments Sun, 19 Sep 2010 13:43:13 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7084 Dopo il dubbio di Gubbio sullo spezzatino dell’Enel, la ramanzina di cortina su eolico e nucleare: che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, stia facendo i conti con l’energia? Se è così, ha probabilmente bisogno di un ripasso. Qui la prima puntata. Questa è la seconda.

Durante il suo intervento alpino, il ministro ha affrontato due questioni legate all’organizzazione del nostro mercato elettrico. Nel primo passaggio, ha espresso una dura condanna nei confronti dell’energia eolica; nel secondo, ha spiegato perché senza il nucleare siamo fottuti. In entrambi i casi, ha detto alcune cose giuste utilizzando gli argomenti sbagliati.

Partiamo dall’eolico. Sulla questione, a dire il vero, Tremonti era già intervenuto tempo fa, gettando l’industria del vento nello scompiglio, e oggi lo fa rilanciando l’argomento e riciclando la battuta (ma un grande maestro un giorno mi spiegò che l’importante non è cambiare battute: è cambiare pubblico). Parto dalla battuta:

Non dobbiamo credere a quelli che raccontano le balle dei mulini a vento, le balle dell’eolico, vi siete mai chiesti perchè in Italia non ci sono i mulini a vento?

La battuta esprime una semplice verità, naturalmente, cioè che l’Italia non è un paese ventoso. Si potrebbe però rispondere che il progresso tecnico consente di sfruttare con profitto anche zone meno ventose del passato, e anche questo è un po’ vero, un po’ no. Il problema è se l’energia dal vento sia (o possa essere competitiva) in assenza di sussidi. Nella maggior parte dei casi, non lo è, ma questa è un’opinione: l’unico modo per avere una risposta è lasciare alle imprese del settore la scelta se impiantare oppure no le torri eoliche, e farlo senza distorcerne gli incentivi con sussidi che, tra l’altro, sono spesso troppo alti e sempre troppo incerti (aggiungo: sono alti perché sono incerti). Comunque, Tremonti va oltre e aggiunge:

Il business dell’eolico è uno degli affari di corruzione più grandi e la quota di maggioranza francamente non appartiene a noi.

Non mi è chiaro se con “non appartiene a noi” Tremonti si riferisca all’industria italiana o alla sua parte politica (nel qual caso la cosa sarebbe quanto meno discutibile). Fatto sta che nelle parole di Tremonti si nasconde una verità fattuale – che attorno all’eolico siano volate e stiano volando tangenti – la quale, però, richiede di essere interpretata. In altri termini: la corruzione è intrinsecamente legata all’eolico? Se così fosse, dovremmo trovare episodi più o meno simili anche in altri paesi, e in particolare in quelli che più hanno investito nel vento, come Germania e Danimarca. Invece non è così. Come la mettiamo? La mettiamo che l’eolico è spesso un veicolo di corruzione non perché questa vada via col vento, ma perché i processi autorizzativi e i meccanismi burocratici per ottenere un’autorizzazione sono così opachi, così imprevedibili e così discrezionali da aprire una enorme finestra di opportunità per imprenditori disonesti, politici di facili costumi, e infiltrazioni mafiose di varia umanità. Che poi le regioni del Sud siano relativamente più ventose è una ulteriore circostanza facilitante, ma non la prima né la più importante. Se dunque Tremonti vuole affrontare seriamente la faccenda, deve fare alcune cose molto semplici: semplificare radicalmente i processi autorizzativi, scambiare questa razionalizzazione con una riduzione dei sussidi (la disponibilità ad accettare lo scambio è un indice interessante di quanto l’industria rinnovabile creda realmente nelle sue capacità), e disboscare le distorsioni esistenti. (Me ne sono occupato, senza esplicito riferimento all’eolico, anche qui). Per fare questo, non serve volare alto (anche perché poi è facile cadere): basta mettersi di buzzo buono e lavorare. Azzardo una scommessa: se mai il ministro ci provasse, dovrebbe scontrarsi con le fortissime resistenze della sua stessa base di amministratori (lo stesso accadrebbe se lo facessero gli altri, beninteso). Non è un’opzione, invece, “rottamare” l’eolico: fosse per me tutti i sussidi finirebbero domani mattina, e l’eolico dovrebbe battersi con le sue armi, ma non è possibile perché a questo siamo obbligati dalle direttive europee. Se proprio s’ha da fare, allora, tanto vale farlo bene.

Non comprendere che la corruzione non sta nell’eolico, ma nelle procedure spinge il ragionamento su una direttrice sbagliata. Infatti, Tremonti trae le sue conseguenze:

Un punto che ci penalizza è quello del nucleare: noi importiamo energia. Mentre tutti gli altri paesi stanno investendo sul nucleare noi facciamo come quelli che si nutrono mangiando caviale, non è possibile.

Ci sono  varie mine da disinnescare, in queste poche parole. Primo: non è vero che “tutti gli altri paesi stanno investendo sul nucleare“. Alcuni sì, altri no; di quelli no, la maggior parte non ci investono perché l’hanno già fatto. Inoltre, investire sul nucleare non gli impedisce di investire sulle rinnovabili, e viceversa. Non è che io mi ci trovi moltissimo a fare il difensore delle energie verdi, e non lo voglio fare, ma per sostenere una tesi corretta bisogna anzitutto partire da dati fattuali veri. Secondo: il nostro caviale non sono, tecnicamente, le rinnovabili, ma il gas. E il gas non è caviale in senso assoluto, anzi, è un combustibile straordinario di fondamentale importanza in un mix di generazione elettrica. Però ha il suo ruolo, mentre noi lo facciamo giocare in tutte le posizioni. Sicché lo impieghiamo non solo per fare le cose che sa fare bene, ma anche per quelle che sa fare meno bene e in modo molto costoso (la generazione “di base”, che altrove viene affidata a fonti con una diversa proporzione tra costi fissi e variabili quali il carbone e il nucleare). Noto per inciso che la vera competizione, se le cose stanno così, è tra nucleare e carbone (o, al limite, tra nucleare e gas): non può essere, per ragioni tecniche ed economiche, tra nucleare e rinnovabili (come abbiamo cercato di spiegare qui e come non si stanca di dire Chicco Testa).

Ultimo e più importante. Al contrario di quanto sembra sostenere Tremonti, non è vero che siamo poco competitivi perché importiamo energia: è vero che importiamo perché siamo poco competitivi. Se i prezzi elettrici in Italia fossero relativamente alti a causa delle importazioni, basterebbe smettere di importare e produrre in casa. Invece, per una molteplicità di ragioni (tra cui le più importanti sono le opposizioni contro i combustibili appropriati per la generazione di base, le inefficienze della rete e una serie di ruggini normative) il nostro costo di generazione è troppo elevato, e dunque importiamo una quota di energia dall’estero. Se le importazioni servissero a coprire deficit di capacità, la loro quota crescerebbe nelle ore di picco: invece, il grosso è di notte. Ora, è possibile che inserendo il nucleare nel nostro mix avremmo costi (non necessariamente prezzi) più competitivi, ed è possibile che questo andrebbe a scapito delle importazioni. Ma il nesso logico è il contrario di quello ipotizzato da Tremonti e, anzi, a parità di altri elementi avrebbe moltissimo senso aumentare la nostra dipendenza dall’estero e, in particolare, dalla Francia (così come avrebbe senso per la Francia, in altre ore del giorno, aumentare la dipendenza dalle importazioni dall’Italia).

Quello energetico è un settore importante e complesso. Non capire, però, che – in un contesto liberalizzato – si importa perché costa meno non tradisce una incompleta comprensione delle questioni energetiche. Tradisce o l’incompleta comprensione che due più due fa quattro, o la scelta consapevole di chiudere gli occhi di fronte a questa banale verità nel nome del populismo.

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Senza nucleare il futuro non è “Zero Emission” /2010/09/10/senza-nucleare-il-futuro-non-e-%e2%80%9czero-emission/ /2010/09/10/senza-nucleare-il-futuro-non-e-%e2%80%9czero-emission/#comments Fri, 10 Sep 2010 09:53:00 +0000 Piergiorgio Liberati /?p=6985 Si è conclusa oggi, venerdì 10 settembre, “Zero Emission”, la maratona di quattro giorni dedicata alle energie rinnovabili e alla lotta alla CO2. Quattro giorni, alla Fiera di Roma, tra tavole rotonde, convegni e incontri, dove si è discusso di fotovoltaico, eolico, ma anche di quelle tecnologie, come la Ccs (cattura e stoccaggio della CO2), in grado di ridurre i gas climalteranti. Unico assente, con grande stupore di chi vi scrive, il nucleare. Già perché parlare di un futuro senza nucleare, equivale a spingere nelle braccia degli idrocarburi il nostro fabbisogno energetico.
Ora, è vero che “Zero Emission” costituisce una enclave di società e associazioni che spingono al 100% per le energie rinnovabili, nella cui categoria di certo il nucleare non rientra. Ma è altrettanto vero, però, che un futuro senza nucleare è destinato ad essere Full Emission, in barba a quanto si continua a sostenere in alcune sedi. A dimostrarlo, a livello mondiale, sono i tanti e autorevoli studi che in materia concordano nel sostenere che, da qui ai prossimi 40 anni, senza l’apporto dell’atomo (poi si potrà discutere di fissione o fusione) sarà impossibile tagliare del 50% l’anidride carbonica e ridurre la temperatura (ammesso serva a qualcosa) dei famosi 2,4 gradi centigradi.
Come dicevo sono moti gli studi, ma per questioni di autorevolezza, è bene sempre citare l’Agenzia internazionale dell’energia. Nel suo ETP 2010 (qui l’executive summary) l’Aie “esamina le future possibilità in termini di opzioni tecnologiche a disposizione della generazione elettrica e dei principali settori di uso finale dell’energia, quali industria, residenziale e terziario”, e lo fa ipotizzando due scenari da qui al 2050. Il primo Business as usual, prevede “l’assenza di introduzione da parte dei governi di qualsiasi nuova politica energetica e climatica. Per contro, lo scenario Blue Map (proposto in diverse varianti) è target-oriented: definisce l’obiettivo di dimezzamento delle emissioni di CO2 legate al consumo di energia all’orizzonte 2050”, si legge nello studio.
Sorvolando sui costi, cosa salta all’occhio? Nello scenario Business as usual la CO2 raddoppierà, con i combustibili fossili a soddisfare i 2/3 della domanda termoelettrica. Nello scenario Blue Map, invece, la CO2 sarà dimezzata, ma solo grazie a questo mix: “Le fonti rinnovabili coprono il 48% della domanda termoelettrica; il nucleare vi contribuisce per il 23% e le centrali dotate di sistemi di CCS per il 17%”.
Da questi dati si possono trarre tre conclusioni: primo, senza quel 23% di nucleare non si riuscirà mai a tagliare le emissioni di gas climalteranti. Secondo, escludere il nucleare da un dibattito “zero emission” (qui ha ragione Chicco Testa) equivale a sostenere un futuro fatto di carbone e gas i quali, al netto degli incentivi, da qui ai prossimi anni, saranno sempre più convenienti delle rinnovabili. Terzo, rinnovabili e nucleare, sostenuti dalla ricerca, devono crescere e poter convivere in modo da incrementare la sicurezza energetica mondiale e abbattere i costi delle bollette.
Non a caso, il Cigre, l’organo che a livello internazionale si occupa di sistemi elettrici di potenza, nel suo meeting biennale (a Parigi dal 22 al 27 agosto), ha affidato il discorso di apertura a Shosuke Mori, ex presidente della FEPC, Federation of Electric Power Companies of Japan, il quale ha sottolineato:

“From the view point of energy supply side, we put priority on ‘nuclear power generation’, which is acknowledged to be a key solution for achieving the triple E. We are doing our best to construct new plants, improve their availability and consolidate the nuclear fuel recycling system. Amid stronger pressure for mitigation of Green House Gas emissions in the future, nuclear power will be recognized again as a pragmatic solution with its significance, effectiveness and efficiency. It is necessary not only to build new plants but also to replace the existing aged nuclear plants. In this case, a long lead-time, required to increase capacity in transmission lines, needs to be shortened”.

Infine una considerazione: il fatto che qui in Italia dibattiti di questo tipo non trovino mai ospitalità nelle assise dove di parla di lotta ai gas serra, la dice lunga sul fatto che il nostro Paese è ancora molto lontano dall’abbandonare quella mentalità che, dopo Chernobyl, ha legato a doppio filo – forse per sempre – la sopravvivenza energetica italiana agli idrocarburi mediorientali e russi.

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Germania, per qualche atomo in più… /2010/09/06/germania-per-qualche-atomo-in-piu/ /2010/09/06/germania-per-qualche-atomo-in-piu/#comments Mon, 06 Sep 2010 10:19:49 +0000 Giovanni Boggero /?p=6958 A quasi un anno dalla storica vittoria elettorale del 27 settembre, CDU/CSU ed FDP sono finalmente giunte ad un accordo per prolungare la vita dei diciassette reattori nucleari della Repubblica federale. Basterà il voto del Bundestag; il Bundesrat, in cui l’esecutivo non ha più la maggioranza, verrà comodamente aggirato.* In una lunga riunione, tenutasi ieri in una Cancelleria assediata dai manifestanti ecologisti, gli esponenti del governo hanno stilato le linee guida di questo “phase-out dal phase-out”, come è stato ribattezzato in questi mesi dalla stampa.

Complici i dubbi del Ministro dell’Ambiente Norbert Röttgen (CDU), tradizionalmente vicino alle istanze ecologiste, l’inversione di rotta sarà solamente parziale e non certo, come la stampa italiana probabilmente titolerà, epocale. E questo perché la decisione voluta dal gabinetto rosso-verde nel 2001 di chiudere con l’esperienza nucleare non è stata affatto ribaltata. L’atomo è una “tecnologia-ponte”, hanno ripetuto in questi mesi gli esponenti democristiani e liberali. Liberarcene intorno al 2020 sarebbe prematuro, rinviamo dunque la fuoriuscita. Questo il succo del ragionamento. E così, mentre gli impianti più vecchi, quelli costruiti prima del 1980 potranno rimanere attivi per ancora otto anni, quelli più nuovi godranno di un posticipo di circa quattordici anni. Ciò significa che l’ultimo reattore chiuderà i battenti intorno al 2040. Come giustamente metteva a fuoco Henning Klodt su Wirtschaftliche Freiheit, quello che vi è stato di errato in questa stucchevole guerra di cifre sugli anni (e poi perché quattordici e non quindici o ventitré?) è che lo Stato gioca la partita sia in  qualità di regolatore, sia in qualità di attore. Non volendo limitarsi a fissare le regole del gioco (in particolare in tema di sicurezza), pretende di potersi occupare dei reattori come se fossero ancora di sua proprietà. E così il rischio continuerà ad essere quello di reattori chiusi quando ancora potevano funzionare o impianti tenuti in vita oltre ogni tempo ragionevole. In questo senso ha forse ragione – anche se la predica viene dal pulpito sbagliato – il presidente dell’SPD Sigmar Gabriel, che nell’annunciare un autunno caldo di proteste, ha accusato l’esecutivo di aver barattato la sicurezza con un po’ di denaro. E sì, perché la signora Merkel, per cercare di trovare la quadra e mettere d’accordo tutti, ha pensato di chiedere alle compagnie energetiche di pagare per circa sei anni una tassa aggiuntiva su uranio e plutonio (Brennelementesteuer) per risanare il bilancio, nonché di utilizzare i profitti per migliorare la sicurezza dei reattori e versare fondi per lo sviluppo (dopo vent’anni ancora a “sviluppà” stiamo?) delle energie rinnovabili, quasi che fosse pentita del passo intrapreso. Insomma, come al solito, la Cancelliera si dibatte vorticosamente tra le due C: confusione e compromessi. In buona sostanza, infatti, si annulla la recente decisione di tagliare i sussidi al solare. Ciò che è uscito dalla porta, pare  rientrare dalla finestra.

Al di là di quanto detto, il cambio di fronte rispetto al decennio passato è comunque da giudicare positivamente. Il rischio di un phase-out immediato avrebbe potuto condannare la Repubblica federale a bollette sempre più care e a pericolosi black-out.

*La Corte Costituzionale di Karslruhe è già stata attivata dall’opposizione.

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Si può criticare Napolitano? A volte, sì /2010/09/03/si-puo-criticare-napolitano-a-volte-si/ /2010/09/03/si-puo-criticare-napolitano-a-volte-si/#comments Fri, 03 Sep 2010 16:29:40 +0000 Oscar Giannino /?p=6943 Quando governo e politica ballano su un filo, nel nostro sistema costituzionale è pressoché fisiologico che sia il Capo dello Stato ad acquistare ancor più rilievo e influenza. E’ quanto inevitabilmente avvenuto in questi ultimi mesi, a maggior ragione e con più evidenza quando la tensione tra Berlusconi e Fini ha toccato il diapason. Solo che, inevitabilmente, quando il Quirinale passa da un ruolo di mera garanzia a quello di un sistematico interventismo che pur gli è legittimamente consentito dalla cosiddetta Costituzione materiale, ecco che il rispetto dovuto alla massima istituzione di garanzia inevitabilmente deve aprirsi anche a un altrettanto legittimo diritto di critica verso le esternazioni del Quirinale. A mio giudizio, doo il caso Fiat, è anche quello dell’auspicata politica industriale.

Personalmente, con grande rispetto per la persona e le attribuzioni del Capo dello Stato, per esempio non ho condiviso il suo intervento sulla vicenda Fiat-Melfi, e avete letto qui perché. Al Quirinale sapevano benissimo che intervenendo a favore dei tre licenziati sostenendo la tesi del pieno reintegro non solo economico ma anche alla linea di produzione – senza precedenti in giurisprudenza,per un’ordinanza favorevole ai ricorrenti ex articolo 28 e non 18 dello Statuto dei lavoratori – si introduceva un precedente di fatto e non di diritto, s sfavore del diritto dell’industria a considerare giustamente lesivi scioperi legittimi sì, ma illegittimi se bloccano interi stabilimenti violando la libertà di chi invece vuol lavorare.

Su un altro piano, meno rilevante poiché siamo nel campo della piena libertà d’opinione politica e non in quello dell’attesa di sentenze, le dichiarazioni del Presidente della Repubblica lanciate dai giornali come “serve una seria politica industriale, che dia prospettive ai giovani”. Dichiarazioni, a mio modestissimo giudizio, da leggere su tre piani diversi.

Il primo è quello del richiamo al governo affinché nomini il successore di Claudio Scajola al dicastero delle Attività Produttive. Richiamo motivato e comprensibile, visto che dall’uscita di scena dell’ex ministro sono trascorsi mesi. Si possono avere valutazioni diverse intorno ai possibili candidati che secondo le indiscrezioni d stampa il premier avrebbe nel tempo presentato al Quirinale, ma sta di fatto che in effetti la vacatio di mesi non è un vantaggio per il Paese. Ricordo tra tutti il dossier della politica energetica e la scelta di tornare al nucleare, che rischia di restare impantanata visto che fondamentali pre condizioni come l’Agenzia per la sicurezza nucleare, senza di cui non vi è scelta dei siti potenziali, sono rimasti sinora bloccate.Il richiamo ha avuto oltretutto effetto, visto che poche ore fa Berlusconi ha garantito che la prossima settimana avverrà la nomina.

Altro paio di maniche è invece quello che riguarda la dizione stessa di “politica industriale”, e il richiamo ai giovani disoccupati. Su questo, non credo sia mancare di rispetto al Quirinale se si opina che sono parole attraverso le quali si esprime la cultura politica alla quale appartiene per lunga militanza il Presidente. Dire “politica industriale” può concretamente significare infatti due cose. Se si guarda all’esperienza europea, è un richiamo al modello francese, cioè a quello in cui governo e Stato fissano con propria priorità una serie di settori definiti “strategici”, su cui concentrano incentivi e ai quali danno obiettivi, esercitando sul loro raggiungimento una fortissima influenza diretta. Ma non è il modello scelto dal nostro Paese, e anzi praticamente da nessun Paese europeo, anche se pure in Germania nella crisi si sono viste pesanti eccezioni alla regola per la quale gli incentivi e gli aiuti sono temporanei e riguardano la generalità delle imprese, lasciando alla libera concorrenza del mercato l’opportunità di raggiungere i migliori risultati di cui è capace. Altrimenti, nel contesto italiano, “politica industriale” significa il ritorno a quella che si faceva prima dello smantellamento della Prima Repubblica: perché in realtà il modello successivo, quello di bandi aperti a tutti voluto da Bersani e lasciato in eredità a Scajola sotto la sigla di “Industria 2015”, in realtà ha avuto e presenta oggi un bilancio tutt’altro che esaltante.

Non credo affatto che sia il dirigismo di Stato, a risolvere il problema storico della cronica sottoccupazione al Sud di giovani e donne. Il Presidente ha pieno diritto, eventualmente, di pensarlo. Ma resta a tutti, a quel punto, il diritto di criticare e non essere d’accordo. Lo Stato, con il suo prelievo fiscale su lavoro e famiglia oltre che su imprese e con le sue regole del mercato del lavoro, per noi è la causa della maggior disoccupazione giovanile e femminile, non la soluzione.

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N = N(V) /2010/07/27/n-nv/ /2010/07/27/n-nv/#comments Tue, 27 Jul 2010 16:44:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6648 Il polverone che si è sollevato attorno a Umberto Veronesi è una triste dimostrazione delle difficoltà in cui si dibatte il nostro paese. Credo di essere stato tra i primi a proporre il nome di Veronesi come presidente dell’Agenzia, proprio su Chicago-blog. La mia idea era che, tendendo la mano al centrosinistra offrendo il posto a un suo uomo, il governo avrebbe rafforzato quella parte del Partito democratico che nel nucleare ci crede non come una panacea ma, laicamente, come una tecnologia di cui è sciocco fare a meno. La provocazione era stata compresa e rilanciata dalla parte del Pdl che riconosce l’importanza di essere bipartisan, in queste cose. La proposta a Veronesi è infine arrivata, ma con che risultati?

Il quadro politico lo ha ricostruito poco fa Oscar Giannino, col quale mi sono praticamente sovrapposto nello scrivere questo post. Oscar evidenzia una serie di cose molto giuste, per cui non sto a farla lunga. Paradossalmente, indicando Veronesi si è messo il Pd alle strette, tanto che Pierluigi Bersani ha dovuto assumere una contorta e bislacca posizione – lui che, si mormora, in fondo nel nucleare ci crede – chiedendo all’oncologo le dimissioni da senatore. Dimissioni prontamente offerte, ma che non hanno mutato la posizione apparente del Pd. Credo che, in parte, a determinare il crollo degli eventi sia stato anche il modo in cui, nel frattempo, è cambiato il mondo. L’anno scorso, il nucleare era un progetto concreto per costruire il quale era più che necessario, era indispensabile costruire un sentiero di dialogo (come aveva colto perfettamente il responsabile energia e servizi pubblici del partito, Federico Testa).

Da allora è cambiata soprattutto una cosa: Claudio Scajola non è più ministro dello Sviluppo economico. In passato ho espresso tante perplessità sul modo in cui Scajola stava gestendo la faccenda, ma almeno una cosa gli va riconosciuta: la stava gestendo. Le sue dimissioni e lo sconsolante vuoto che hanno lasciato rivelano che, tutto sommato, il nucleare non è nelle priorità dell’esecutivo. Non basta l’impegno del sottosegretario Stefano Saglia: Saglia sarebbe l’uomo giusto, ma non è al posto giusto, nel senso che un sottosegretario è sempre un sottosegretario. Potevano farlo ministro all’Energia, magari scorporando l’Energia dallo Sviluppo economico, e non l’hanno fatto. Ne stiamo pagando le conseguenze (non solo sul nucleare, beninteso).

Il fatto è che tornare al nucleare – cioè costruire l’infrastruttura legale e regolatoria per consentire la costruzione e l’esercizio di impianti atomici – o è una priorità, o non è. Bisogna fare troppo lavoro per svolgerlo nei ritagli di tempo. Non basta darsi buone norme: serve anche credibilità e, per questo, non si può fare senza l’opposizione. La mano tesa del governo, forse allungata fuori tempo massimo ma comunque tesa, è rimasta senza controparte. Credo che questo dimostri, anzitutto, un grave limite del maggior partito d’opposizione: la versione brutale di quello che penso è che Bersani non conti, non abbia il controllo sul partito e dunque ne subisca gli istinti più populisti. La versione diplomatica della stessa cosa è che il Pd non è in grado di ospitare un dibattito interno degno di questo nome e, sulla base di questo dibattito e di quella trascurabile cosa circostante che si chiama “realtà”, di prendere una posizione. Con questa opposizione, verrebbe da dire, chi ha bisogno di una maggioranza: e infatti pure la maggioranza, come vediamo giorno dopo giorno, ha la stessa consistenza di un pupazzo di neve a Ferragosto.

C’è, poi, un altro problema, che emerge anche dalla lettera di Milena Gabanelli sul Corriere, è una scarsa comprensione di quello che il nucleare è. A questo proposito, segnalo l’uscita di un libro molto spiccio e molto chiaro sul tema: Fattore N. Tutto quello che c’è da sapere sull’energia nucleare, di Gino Moncada Lo Giudice e Francesco Asdrubali. Senza troppi fronzoli, Moncada e Asdrubali – due ingegneri e professori di fisica tecnica ambientale – raccontano la verità sul nucleare in quanto tecnologia. Non fanno politica, non appendono gagliardetti. Spiegano come funziona una centrale, che differenza c’è tra le centrali di oggi e quelle di ieri, perché Chernobyl è irirpetibile, quali rischi si corrono e in quali stadi della filiera, eccetera.

Purtroppo, suggerire la lettura di questo libro è, credo, abbastanza inutile, e dunque – mi spiace per Moncada e Asdrubali – inutile è stato scriverlo. Perché nessuno di quelli chiamati a decidere lo leggerà, perché le decisioni sono già state prese e, se l’opposizione le ha prese abdicando al suo ruolo di guardiano responsabile sull’operato del governo (con le dovute, lodevoli, romantiche e pure loro inutili eccezioni), il governo vi ha sostanzialmente abdicato nel momento in cui ha perso gran parte dei primi 2 anni di mandato nei quali si doveva avviare il cantiere istituzionale per il nucleare.

Dunque, N = N(V). Il nucleare (N) può essere - non necessariamente è – essere funzione di Veronesi (V), o di qualunque altro nome preparato e credibile si voglia proporre per la testa dell’Agenzia. Non vi piace l’oncologo? Prendete qualcun altro che abbia competenze, palle e indipendenza (tra pochi mesi ce ne sarà almeno uno disponibile, credo, uno che si è battuto come un leone per rendere il nostro mercato energetico migliore di quanto fosse, e in cambio ha ricevuto pesci in faccia e sgambetti un po’ puerili). Ma un buon presidente non è sufficiente. Ci vuole anche una reale indipendenza, e l’Agenzia di sicurezza nella sua versione attuale non ce l’ha (è di nomina governativa). Ci vuole soprattutto una cultura condivisa: cultura delle istituzioni (non si gioca con gli investimenti) e cultura dell’energia e cultura della tecnologia. Questa cultura condivisa non c’è. Non perché non ci sia una cultura condivisa. Perché non c’è una cultura. E si vede.

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Agenzia nucleare: Gabanelli, Veronesi e le cose serie /2010/07/27/agenzia-nucleare-gabanelli-veronesi-e-le-cose-serie/ /2010/07/27/agenzia-nucleare-gabanelli-veronesi-e-le-cose-serie/#comments Tue, 27 Jul 2010 11:07:00 +0000 Oscar Giannino /?p=6646 Premessa: non avrei indicato Umberto Veronesi, alla guida dell’Agenzia per la sicurezza nucleare. Seguito: che il Corriere della sera stronchi oggi Veronesi, dopo averlo ospitato, pubblicando come alfiere della competenza in materia Milena Gabanelli, io lo trovo abbastanza ri-di-co-lo. Conclusione amara: il nucleare sta tornando a essere mera occasione di scontro ideologico, quel che hanno sempre voluto i suoi interessati nemici, sapendo che è la loro solita ma vera e temibile arma segreta per non farlo fare. Non desidero rubare il mestiere al nostro Carlo Stagnaro, che ci illumina – è il caso di dire – in materia energetico-ambientale sui pregiudizi antisviluppisti diffusi nel nostro Paese, tra i suoi intellettuali e media prevalenti. Chi ci leggem, sa come la pensiamo. Dati alla mano, non perché mattacchioni lunatici. Nucleare e rinnovabili alternative devono convivere, basta che lo Stato non dissipi risorse con incentivi a piffero che distorcono costi e – nel caso italiano – bollette al consumatore finale.

Ci siamo più volte occupati dei ritardi ingiustificati relativi alla costituzione dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, senza di cui non si mette in moto l’intero processo di riapertura del nucleare in Italia. Sono passati due anni dacché il governo è in carica. Diciamo che per essere fermi a questo punto un anno buono poteva essere risparmiato, se davvero ci si credesse. In primis le grandi aziende energetiche italiane hanno dovuto prendere atto che è meglio andarci piano con previsioni di massicci investimenti.

Eppure, tutti i sondaggi mostrano che gli italiani sul tema non sono più sotto l’effetto della ventata emotiva che seguì a Chernobyl, e che gonfiò il vento del referendum antiatomo del novembre 1987. Fu l’occasione per una delle più favolose megatangenti alla politica, unendo maggioranza e opposizione di allora, sui costi di conversione non solo di Montalto ma di un gran numero di centrali elettriche in costruzione verso il sistema a ciclo combinato, effetto di quella scelta nelle urne in cui cavalieri dell’ideale divennero strumenti – consapevoli, ero portavoce nazionale dell’unico partito che allora fece campagna pronucleare, erano tutti consapevoli e so quel che dico – di una delle più colossali e spregevoli lobby di tangentari che mai storia italiana abbia visto all’opera.  Ho avuto personalmente le prove che il Pci dell’epoca, rappresentato puntualmente nel cda Enel pre-apertura al mercato del suo capitale, compartecipò all’affare. E’ anche per questo che, quando assisto alle virate incongrue della politica su questi temi seri , so bene che al di là dei sondaggi – sui temi seri è la politica seria che deve guidare i sondaggi spiegando alla gente perché convengano cose che alla gente istintivamente non piacciono, non viceversa -  sono affamati interessi suid enari pubblici, a scendere in campo come lupi travestiti da agnelli. Nell’ala riformista del Pd e nella parte meno ideologica dell’ambientalismo italiano, per esempio, sul nucleare in realtà molto è cambiato, rispetto a 23 anni fa.  E’ la cattiva politica, che alla fine taglia l’erba sotto i piedi ai Morando e ai Chicco Testa e ai Realacci. E che riduce di nuovo tutto a puro torneo medievale. Con Bersani che boccia tutto riscoprendo “il grande pericolo atomico” , e la Bonino che ritorna pasdaran.

In questa situazione, avrei io scelto il professor Umberto Veronesi, per guidare l’Agenzia della sicurezza nucleare? No, e non solo per questioni di età o diretta competenza amministrativa, oltre che di fisica e impiantistica. Non lo avrei scelto perché, individuando il grande oncologo come una contraddizione della sinistra, in quanto nuclearista che non si nasconde come tanti nel Pd oggi, il centrodestra segna un modestissimo punto mediatico, che si esaurisce in poche ore una volta che finirà l’eco delle dimissioni da senatore alle quali bersani lo ha costretto. Ma in compenso così facendo il centrodestra spinge strutturalmente Pd e opposizione a indurire ulteriormente i toni antinuclearisti. L’esatto opposto di quel che serve ed è prioritario per il futuro di un più equilibrato mix energetico nazionale. Come sempre o quasi, al centrodestra manca una regia oculata dei tempi e dei modi della politica, e come chi usa la spada negli spazi ristretti in cui è d’uopo al massimo il pugnale, finisce per farsi male da solo e danneggiare la causa che sostiene.

Fatta questa premessa, trovo assolutamente ridicolo che in tutto questo il Corriere oggi riservi la stroncatura di Veronesi, in nome della competenza e del fatto che bisogna occuparsi solo di ciò che veramente si sa, a un volto della tv come Milena Gabanelli. La sua trasmissione su Raitre spesso confonde la tutela del consumatore con l’eccesso permanente ma è comunque utile, nel panorama dell’asfittica ribalderia televisiva che va in onda abitualmente. Ma non mi risulta che l’ottima Milena pubblichi sul Journal of Physics né su Science…

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Il governo del vietare /2010/07/01/il-governo-del-vietare/ /2010/07/01/il-governo-del-vietare/#comments Thu, 01 Jul 2010 10:39:14 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6407 UPDATE: Meno male che Saglia c’è.

Un drammatico incidente all’estero. L’Italia che reagisce scompostamente, castrando il suo futuro energetico nonostante le condizioni in cui la tragedia si è verificata in un paese molto lontano non abbiano nulla a che vedere con le tecnologie e le procedure impiegate nel nostro. Non sto parlando dell’uscita dal nucleare dopo Chernobyl. Sto parlando delle reazione, altrettanto scomposta, del ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, che pensa sia cosa saggia rispondere al disastro della Deepwater Horizon imponendo un bando alle estrazioni offshore in una fascia di 5 miglia dalle coste nazionali (12 nelle zone marine protette). Greenpeace applaude. Dovrebbe far pensare.

Anzitutto qualche informazione di base. La Deepwater Horizon – qui le specifiche tecniche – è una piattaforma petrolifera attrezzata per la perforazione in acque fino a circa 2.500 metri di profondità, cioè in quelle che si definiscono acque “ultra profonde” (sebbene non vi sia una definizione codificata, generalmente si intendono “profonde” le acque oltre i 300 metri, “ultra profonde” sotto la soglia – fino a poco tempo fa economicamente e tecnologicamente impensabile – dei 1.500 metri, o 5.000 piedi, come spiega bene Ed Crooks). La piattaforma estraeva petrolio dal campo denominato “Macondo“, che sta a una profondità di circa 1.500 metri. Qui si trovano maggiori informazioni. Il pozzo – che sotto la colonna d’acqua scende ancora per 5 o 6 mila metri attraverso la crosta terrestre – è così difficile da sistemare proprio per le condizioni estreme di pressione che si vengono a creare nelle profondità oceaniche. Il trovarsi in acque profonde non è, di per sé, una condizione facilitante l’incidente, ma è sicuramente una delle ragioni per cui aggiustare le cose è così difficile.

Quale relazione ha questo con le avventure esplorative nelle coste italiane? La risposta è semplice: nessuna. Come è facile verificare dall’elenco delle piattaforme attualmente esistenti, gran parte delle nostre avventure estrattive si mantiene in acque basse, attorno o sotto i 100 metri di profondità. Solo in un paio di casi si scende significativamente più in basso, cioè attorno ai 1.000 metri, peraltro in entrambi i casi a grande distanza dalla costa (oltre 40 chilometri). Tempo fa qualcuno ha provato a cercare in acque ultra profonde al largo della Puglia, ma senza risultati. Dunque, oggi pochi o nessuno credono vi siano giacimenti abbastanza ricchi in acque così profonde, e pochi o nessuno vanno a cercarli. Ma la vera differenza è un’altra, e mi spiace non trovare un modo per dirlo con tatto, e dunque senza sconvolgere il ministro Prestigiacomo: l’Italia galleggia nel mar Mediterraneo. Il Mediterraneo non è il golfo del Messico. Noi non abbiamo giacimenti giganti da sfruttare, e neppure grandi. Abbiamo dei dignitosi reservoir che danno un piccolo – importante, ma piccolo – contributo a soddisfare il fabbisogno nazionale.

Basta un numero: da quando c’è stata l’esplosione della Deepwater, Macondo rigurgita qualcosa tra 5.000 e 100.000 barili di greggio al giorno (la verità sta probabilmente attorno alle poche decine di migliaia). L’intera produzione quotidiana di tutti i nostri pozzi sottomarini messi assieme è stata, nel 2009, in media di 11.000 barili / giorno. Questo significa che le perdite da Macondo valgono tra la metà e dieci volte la nostra produzione aggregata. Le dimensioni contano.

Insomma. Non è solo che il bilancio tra i costi e i benefici dell’offshore drilling è ancora, tutto sommato, positivo, nonostante Deepwater Horizon. Non è solo che, almeno negli Usa e almeno in parte, la corsa verso le profondità abissali dipende anche da una politica troppo conservativa nel rilasciare concessioni estrattive a terra. Non è solo che l’incidente è, almeno in parte, figlio della cultura aziendale di Bp, titolare di Deepwater Horizon. Non è solo che, nonostante tutti i nostri tentativi di razionalizzare l’accaduto, c’è sempre di mezzo anche la sfiga – cioè, una cosa normalmente buona (l’estrazione sottomarina) ha avuto, occasionalmente, conseguenze nefaste. E’, soprattutto, che qualunque cosa sia accaduta nel Golfo del Messico non è neanche parente di qualunque cosa sia accaduta o possa accadere nel nostro paese.

Ovvio che questo implica anche che il danno effettivo di un bando sull’esplorazione petrolifera in Italia è diverso da quello dello stesso provvedimento, poniamo, negli Usa. Ma ci sono almeno due aspetti rilevanti. Primo: per piccola che sia, la produzione petrolifera italiana è comunque importante. Per sacrificarla, bisogna avere ragioni molto forti, che non mi pare vengano portati da Prestigiacomo e da chi la pensa come lei. Secondo: c’è un problema di credibilità del paese. Più ci comportiamo in modo isterico, più reagiamo in modo uterino a quello che accade fuori dai nostri confini, e più spaventiamo gli investitori e riduciamo le nostre prospettive di crescita. La chiusura delle centrali atomiche non ha fatto male al paese solo perché ci ha fatto perdere una fonte di energia: ha detto al mondo che l’Italia è un paese di cui non ci si può fidare. Avanti così, dunque?

Tutti i politici hanno un bisogno patologico di mostrare i muscoli. Prestigiacomo non fa eccezione. Ma in ultima analisi andrebbe presa di petto l’idea che, di fronte a qualunque problema, da Chernobyl alla marea nera, la reazione giusta sia di nascondere la testa sotto la sabbia e fare un passo indietro verso le caverne. Se si trattasse di un individuo, potrebbe sbrigarsela con lo psichiatra. Trattandosi di diverse generazioni di un’intera classe politica, forse dovremmo farci delle domande più profonde.

Vietare tutto, vietare subito, vietare sempre non ci renderà più sicuri. Ci renderà solo più poveri e marginali.

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Pd e nucleare. Qualcuno batte un colpo /2010/05/11/pd-e-nucleare-qualcuno-batte-un-colpo/ /2010/05/11/pd-e-nucleare-qualcuno-batte-un-colpo/#comments Tue, 11 May 2010 08:15:28 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5972 UPDATE: Il dibattito si allarga dentro il Pd. Il sito del Sole 24 Ore sente, su posizioni diverse, il responsabile energia del Pd, Federico Testa, e gli “ecodem”, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante.

UPDATE 2: Qui la risposta evasiva di Bersani. Il segretario dice cose in parte condivisibili, nel criticare il piano del governo. Ma la lettera dei 73 non era a proposito di questo: riguardava l’opposizione preconcetta al nucleare. Con la sua replica, Bersani non fa altro che alimentare che l’opposizione del Pd non riguardi il progetto dell’esecutivo, le sue specificità, ma, appunto, il nucleare di per sé. Almeno gli “ecodem” hanno le palle di dirlo chiaro e tondo.

Il Riformista di oggi apre con la notizia di una lettera inviata da una settantina di intellettuali e politici, più o meno di sinistra, che scrivono al segretario del Pd, Pierluigi Bersani, una lettera dai contenuti molto chiari e molto condivisibili: il no al nucleare, senza se e senza ma, non trova riscontro nella storia della sinistra in questo paese, nella logica, nell’ambiente. Tra i firmatari, Umberto Veronesi, Margherita Hack, Enrico Morando, Gilberto Corbellini, Chicco Testa, Umberto Minopoli, e molti altri.

Il senso della lettera si riassume nella conclusione:

Riterremmo innaturale e incomprensibile ogni chiusura preventiva su un tema che riguarda scelte strategiche di politica energetica, innovazione tecnologica e sviluppo industriale così critiche e con impatto di così lungo termine per il nostro paese.

La maggior parte dei firmatari non sostiene queste tesi per la prima volta. Anzi, le ha affermate con forza in vari momenti e in diverse sedi. Per la prima volta, però, vediamo emergere lo scontento e il disappunto di una fetta importante del mondo che guarda al Pd, e che chiede al partito di smetterla con posizioni approssimative e populiste. In qualche modo, l’elezione di Bersani rispondeva anche a questa esigenza: consentire al Pd di darsi una struttura e un programma più solidi, in modo da esprimere posizioni che non siano, semplicemente, il percolato di quello che i sondaggi dicono essere l’opinione pubblica. Il nucleare è una questione troppo importante e troppo complessa per liquidarla in uno slogan. Condannarsi a un “no” pregiudiziale, per il principale partito dell’opposizione che aspira a essere principale partito di governo, significa marginalizzarsi, rinunciare alla possibilità di influire sui modi e i tempi (e Dio solo sa quanto avremmo bisogno di un confronto di merito tra centrodestra e centrosinistra).

Di fronte a una domanda tanto pressante, con firme tanto numerose e tanto autorevoli, Bersani non può sottrarsi. Aspettiamo, tutti, una risposta.

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