CHICAGO BLOG » municipalizzate http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Tanti, benedetti e subito /2009/09/29/tanti-benedetti-e-subito/ /2009/09/29/tanti-benedetti-e-subito/#comments Tue, 29 Sep 2009 12:00:24 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3024 Le società municipalizzate dovranno restituire 420 milioni di euro di aiuti di Stato illeciti, ricevuti negli anni dal 1996 al 1999. E’ l’esito di un lungo braccio di ferro con l’Unione europea, che infine si è risolto con uno sconto rispetto alla cifra chiesta da Bruxelles (circa 1,2 miliardi), ma si è assestato su un valore nettamente superiore a quello con cui le utilities speravano di potersela cavare (230 milioni). A questo punto sono a rischio gli utili e i dividendi dei monopolisti locali, e nel caso specifico di Iride ed Enìa addirittura la fusione a causa della possibile revisione del concambio. Naturalmente le municipalizzate minacciano sfracelli, ma sperabilmente questo è l’ultimo atto di una battaglia indecorosa, di fronte alla quale non si può che esprimere soddisfazione.

Nel mirino comunitario è finita la moratoria fiscale che ha interessato le municipalizzate alla fine degli anni Novanta, contestualmente all’avvio del processo di liberalizzazione, e che fu concepita con lo scopo di accompagnarne la quotazione in borsa. La strada era lastricata di buone intenzioni – accelerare la “messa sul mercato” delle società a controllo pubblico – ma, non sorprendentemente, ha condotto all’inferno. Infatti la quotazione non ha significato la privatizzazione: è stata solo un modo per tirar su capitali, all’ombra dell’implicita garanzia pubblica che il monopolio non sarebbe stato intaccato. E così è stato. I comuni hanno mantenuto quote di controllo, e approfittato di tutte le pieghe lasciate aperte dalla normativa nazionale e dalla regolazione per proteggere le loro galline dalle uova d’oro. Le quali hanno ricambiato attraverso una generosa politica di dividendi. In sostanza, il punto di caduta di questo processo è che gli azionisti pubblici hanno percepito i dividendi come una entrata parafiscale, mentre quelli privati si sono mossi da rentier.

Non è che l’obbligo di restituire i 420 milioni di euro – se resisterà alla reazione lobbistica - faccia saltare tutto, ma certamente dà una botta non da poco al sistema. Adesso sarà interessante vedere se i comuni azionisti faranno buon viso a cattivo gioco, accettando di compensare il calo dei dividendi attraverso aumenti fiscali o tagli alla spesa; oppure se pretenderanno che il gettito resti inalterato, costringendo le utilities a intaccare la solidità del loro modello di business. Con un po’ di fortuna, almeno alcuni comuni si decideranno a cedere altre tranche del capitale societario, scendendo sotto la soglia del 30 per cento. Non per questo perderanno il controllo, ma indubbiamente la loro presa si farà meno ferrea.

Oltre tutto, la maggior parte delle multiutilities sono sotto il fuoco dell’Antitrust, che su segnalazione di alcuni operatori concorrenti (come Sorgenia) sta indagando sui presunti abusi, come i ritardi nella comunicazione dei dati. Insomma: da questa multa non può che venir del bene, perché l’indebolimento dei monopolisti locali non può che rafforzare la concorrenza, in un momento in cui il mercato del gas è strutturalmente lungo e dunque la caccia al cliente, sia di metano che elettrico, si fa aspra (come dimostra l’aggressiva campagna commerciale di Edison). La guerra non è ancora finita, ma oggi non possiamo non dirci soddisfatti.

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Compra che ti passa /2009/09/06/compra-che-ti-passa/ /2009/09/06/compra-che-ti-passa/#comments Sun, 06 Sep 2009 07:16:51 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2533 Fino a che punto un ente locale può giocare d’azzardo? Il quotidiano di Genova, Il Secolo XIX, sta conducendo una meritoria inchiesta (qui e qui, il resto sul cartaceo di ieri e oggi) sull’enorme e incerto buco della Spim, la società controllata al 100 per cento dal comune, che ne possiede e gestisce il patrimonio immobiliare. Nel 2007, il gruppo – allora capitanato da Giorgio Alfieri – ha acceso un mutuo da 80 milioni di euro per comprare il Matitone, l’edificio che oggi ospita gran parte degli uffici comunali. Per coprirsi contro il tasso variabile, la Spim acquistò contemporaneamente, dalla banca Bnp Paribas, un prodotto che Alfieri definisce “assicurativo”. Nel primo anno il valore del fondo crebbe in effetti di 1,5 milioni, ma poi, con la crisi delle Borse, è precipitato a -24 milioni, per poi risalire e infine riprendere a calare. Attualmente siamo a -14 milioni. Non è detto che il prodotto, assicurazione o derivato che sia, alla scadenza (2016) non chiuda in attivo. Il problema è un altro: fino al 2016, sarà impossibile saperlo. Sarà quindi impossibile conoscere la reale situazione di Spim e, di riflesso, lo stato dei conti del comune.

La questione, resa più grave che l’amministrazione comunale non era stata informata dell’operazione e che è venuta a saperlo solo ora alla luce dei dati catastrofici e dell’intervento della Corte dei Conti, è sostanziale. Riguarda, infatti, lo status oggettivamente diverso delle amministrazioni pubbliche e dei loro veicoli (come la Spim) rispetto a qualunque altro individuo o società. Io non sono paternalista: se volete giocarvi tutto in borsa o al casinò, che siate ricchi o poveri, cavoli vostri. Ma un amministratore pubblico deve adottare una logica diversa: perché, se perde, in realtà perdiamo tutti. Saranno i soldi delle tasse a coprire i buchi. Quindi, non solo un amministratore pubblico dovrebbe mettersi nella condizione di comprendere quello che sta comprando – quando spesso non è stato così, come ha evidenziato la bella puntata di Report sui derivati – ma dovrebbe anche pesare con maggiore cautela le proprie scelte. Non è tanto una questione di norme, quanto di prassi. Un individuo può rischiare quanto cazzo gli pare, un amministratore pubblico no: ha il dovere di contenere il rischio, perché c’è una inevitabile asimmetria tra chi apre le posizioni e chi poi si trova a subirne le conseguenze (come in questo caso, quando la magagna viene fuori con un nuovo capo di Spim e un diverso sindaco).

Quello che sto dicendo è che gli amministratori pubblici dovrebbero smetterla di fare gli splendidi. Battere le vie normali per la raccolta dei capitali: e se non ci riescono o se i capitali costano troppo (che è lo stesso), ridimensionare i loro progetti di spesa. Non so se fosse davvero necessario comprare il Matitone: forse si poteva restare in affitto, o forse si poteva rinunciare ad altre spese per dare la scalata al grattacielo genovese. Oltre a questo, l’amara vicenda con cui Marta Vincenzi (primo cittadino del capoluogo ligure) e Sara Armella (ad di Spim) dovranno fare i conti fornisce una lezione importante alla stessa Vincenzi e a tutti gli altri sindaci. La lezione è che aprire delle società controllate interamente dal comune per allocare la gestione di questo e quello può rispondere, in alcuni casi, a esigenze di razionalità: ma in ogni caso crea uno schermo di opacità su operazioni che dovrebbero essere le più trasparenti. E, parallelamente, riducono l’efficacia del controllo, perfino in un sistema imperfetto come quello attuale, al punto che della vicenda Spim non solo non erano informati il consiglio comuinale e la cittadinanza, ma neppure la Vincenzi e, secondo quanto riferisce al Secolo oggi, lo stesso Giuseppe Pericu, all’epoca sindaco di Genova e padrino politico di Alfieri.

Margaret Thatcher disse una volta che la Gran Bretagna degli anni Settanta era un paese dove le imprese private erano controllate dal settore pubblico, le imprese pubblico da nessuno. Ho la sensazione che non ci troviamo in una situazione tanto diversa.

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Una tranquilla giornata, in un Paese “liberalizzato a meta’” /2009/06/25/una-tranquilla-giornata-in-un-paese-liberalizzato-a-meta/ /2009/06/25/una-tranquilla-giornata-in-un-paese-liberalizzato-a-meta/#comments Thu, 25 Jun 2009 08:47:43 +0000 Alberto Mingardi /?p=1138 Ieri mattina mi sono trovato ad avere bisogno, fortunamente: per la prima volta nella vita, di un farmaco serio. Ricetta alla mano, ho cominciato a cercarlo nelle farmacie del centro di Milano. Uno degli argomenti piu’ tosti contro la piena liberalizzazione del settore, ma anche contro la concorrenza delle parafarmacie, si fonda sull’idea che le farmacie sarebbero un “presidio del servizio sanitario nazionale”. La limitazione dell’offerta, e i privilegi di cui godono i farmacisti, sarebbero dunque legati al loro svolgere un servizio pubblico.
Ma la farmacia e’ un’attivita’ che deve stare sul mercato, e obbedisce a talune, comprensibilissime, necessita’: avere sugli scaffali abbondanza di prodotti che si vendono (anche se si tratta di shampoo e profumi!), limitare il magazzino per quanto riguarda prodotti che si vendono meno, e per giunta possono scadere. Cosi’, ho girato per undici diverse farmacie, piu’ le due delle stazioni (Garibaldi e Centrale), a detta degli altri farmacisti le piu’ fornite, senza trovare la medicina che mi serviva.
Avrei potuto ordinarla, e mi sarebbe stata consegnata il giorno dopo. Il farmacista si sarebbe guadagnato il suo venticinque e rotti per cento del prezzo al dettaglio tendendo in casa il mio antidolorifico un paio d’ore. Non ho potuto fare l’ordine, perche’ dovevo “scendere” a Roma (dove, per inciso, il farmaco l’ho poi trovato, alla fornitissima farmacia del senato: si vede che i politici sono buoni consumatori!).
Gia’, scendere a Roma. Ho preso un Eurostar alta velocita’. Di norma, e’ molto comodo: piu’ comodo dell’aereo, per chi fa centro-centro. Se non fosse che lunedi’ mattina c’e’ stato un incidente a Firenze, e da allora continuano i rallentamenti sulla linea. Arrivato in stazione centrale, scopro che il mio treno era stato cancellato. Il biglietto si puo’ ricevere via mail o sms: informazioni (dettagli?) di trascurabile importanza come questo, evidentemente no. Riesco a saltare sul treno prima. Che accumula mezz’ora di ritardo: le tre ore e mezza previste, diventano quattro.
Arrivato a Roma, cerco un taxi. Alla stazione Termini, c’e’ una coda che non finisce piu’, nonostante le norme veltroniane che dovrebbero coartare i tassisti a stare stabilmente, e in forze, innanzi alla stazione (“piuttosto che liberalizzare, meglio costringere”). In compenso, l’offerta “parallela” e’ abbondante, ma a prezzi  francamente proibitivi. Faccio un po’ di moto, e vado in albergo a piedi.
Entrato in hotel, prendo la chiave e vado in camera. Dieci minuti dopo, sorpresina: non c’e’ elettricita’ e la fornitura continua ad essere a singhiozzo, dalle due alle sette di sera. La batteria del mio laptop e’ a secco e di aria condizionata ci sarebbe bisogno. Sento discorsi concitati fra il personale dell’albergo e il servizio clienti della municipalizzata romana che dovrebbe illuminarlo.
Perche’ continuiamo, con sprezzo del ridicolo, a rompere l’anima a chi ha la bonta’ di ascoltarci, sulle liberalizzazioni? La risposta e’ molto semplice. Perche’ ce n’e’ bisogno.

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Gas, la Caporetto delle liberalizzazioni è la distribuzione? /2009/05/11/gas-la-caporetto-delle-liberalizzazioni-e-la-distribuzione/ /2009/05/11/gas-la-caporetto-delle-liberalizzazioni-e-la-distribuzione/#comments Mon, 11 May 2009 08:13:10 +0000 Carlo Stagnaro /?p=538 Intervistato dalla Stampa di oggi, Massimo Orlandi, ad di Sorgenia, dice che

la difficoltà è legata a quello che potremmo chiamare, facendo un paragone con la telefonia, l’ultimo miglio del gas. Ovvero un operatore privato come Sorgenia non riesce ad attraversare l’ultimo metro di tubo che dà l’accesso al gas. Il mercato è in mano ai distributori del gas che in Italia sono oltre 400… Soprattutto le utility più piccole fanno ostruzionismo: non fornendo in tempo le misure sui consumi del gas o fornendole sbagliate.

Qui è disponibile una sintesi dell’intervista. Sebbene la distribuzione non sia l’unico ostacolo alla piena concorrenza, non c’è dubbio che, all’atto pratico, essa sia quello maggiore e più subdolo. Le reti di distribuzione locale del gas sono, infatti, frammentate (la maggior parte sono di piccole e piccolissime dimensioni, cosa che – da un punto di vista strettamente economico – non ha senso, perché questo è un business fortemente sensibile alle economie di scala e soprattutto di densità). Inoltre, nella maggior parte dei casi sono verticalmente integrati nelle utilities locali, perlopiù a controllo comunale e spesso beneficiarie di affidamenti diretti, che hanno ogni incentivo a mantenere l’opacità e non investire nello sviluppo delle reti, allo scopo di trattenere il maggior numero di clienti nel mercato vincolato. Tant’è che, come ricorda lo stesso Orlandi, a sei anni dalla completa apertura del mercato del gas (1 gennaio 2003) solo il 3 per cento delle famiglie e piccole imprese è passato al mercato libero, contro il 4,7 per cento delle famiglie che hanno “switchato” nel mercato elettrico, di più recente apertura (1 luglio 2007) (a me risultano dati ancor più positivi).

Il tema posto da Orlandi è quello che, specie dal punto di vista dei piccoli consumatori (e dell’interesse per le aziende ad andarseli a prendere), fa effettivamente l’interesse. Altrimenti non si spiegherebbe che le offerte sul mercato elettrico siano state assai più aggressive che quelle per il gas, a dispetto del fatto che i due mercati subiscono vincoli simili nelle altre fasi della filiera. E’, dunque, importante affrontare i due corni della questione: la frammentazione industriale e la scarsa trasparenza delle letture. Per quel che riguarda quest’ultima, nel settore elettrico è stata risolta e garantita tramite l’installazione di contatori elettronici, che forniscono misure in tempo reale e oggettive. A sua volta, questo investimento è stato reso possibile dalla spinta dell’Autorità e dalla disponibilità dei maggiori operatori della distribuzione e cioè, a fortiori, dal più forte grado di concentrazione. Quindi, anche per il contatore elettronico la causa ultima sta nella frammentazione della distribuzione locale del gas.

Quindi, la scommessa è quella di trovare una formula per indurre un processo di aggregazione. L’Autorità ci ha provato con un documento di consultazione e una serie di prese di posizione successive, ma anche qui mi pare che la via seguita rischi di essere sterile, anche se per ragioni opposte. L’Autorità, in sostanza, ha condotto un’indagine sui bilanci della distribuzione, e ha creduto di individuare una “dimensione minima” al di sotto della quale la scala è insufficiente. Ma questa logica è debole, non solo perché inevitabilmente trascura le specificità locali (la distribuzione in un territorio montano è diversa dalla stessa attività esercitata in una grande città nel mezzo della pianura. La “dimensione ottima” di un’impresa, insomma, non dovrebbe essere stabilita autoritativamente, anche perché essa è necessariamente funzione di una quantità di variabili, tra cui la tecnologia in uso (che oggi è ovviamente diversa da ieri e da domani) e le scelte regolatorie (in particolare sulle tariffe, cioè le entrate, e la qualità del servizio).

A questo si aggiunge una normativa demenziale. Le reti oggi sono per la maggior parte in mano a soggetti formalmente privati, ma, allo scadere delle concessioni (la maggior parte delle quali terminerà entro la fine del 2010), dovranno tornare in mano agli enti locali, i quali dovranno riassegnarle tramite gara.  Un elemeno fondamentale delle gare – di fatto l’unico – è il canone di concessione, cioè quanta parte delle loro entrate le imprese sono disposte a pagare ai comuni. Il risultato è che i margini, stretti tra una certa rigidità dei costi industriali (determinata dal rispetto degli standard di qualità imposti dall’Aeeg), il cap sulle entrate (imposto tramite la regolazione tariffaria), e quella tassa impropria che versano agli enti affidatari (il canone), finiscono per essere così risicati da non determinare alcuna dinamica virtuosa. La vera scelta, che però è una scelta anzitutto politica e quindi regolatoria, dovrebbe essere quella di un modello regolatorio univoco, anziché mischiarne due: o si regolano le tariffe di imprese private che posseggono le reti (eventualmente estendo gli obblighi di unbundling anche ai piccoli o spingendo l’acceleratore sulla separazione proprietaria), oppure si decide che le reti sono pubbliche e vengono affidate tramite gara, facendo sì che il controllo sui prezzi (cioè sulla remunerazione del capitale) avvenga attraverso i termini dell’affidamento. I due modelli sono ugualmente interessanti, anche se io tendo a preferire il primo (proprietà privata + regolazione tariffaria + separazione proprietaria). Ma finché non si compie una scelta netta, qualunque tentativo di soluzione rischia di essere peggiorativo, aumentando la confusione normativa e riducendo la trasparenza.

E’ come in cucina: quando un piatto risulta insoddisfacente, entro un certo limite si può tentare di “salvarlo” aggiungendo nuovi ingredienti, o aumentando le dosi di quelli vecchi. Ma se la ricetta era sbagliata, conviene ricominciare da zero.

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Iride-Enia. Quando la trasparenza diventa caciara /2009/05/08/iride-enia-quando-la-trasparenza-diventa-caciara/ /2009/05/08/iride-enia-quando-la-trasparenza-diventa-caciara/#comments Fri, 08 May 2009 10:30:59 +0000 Carlo Stagnaro /?p=504 La forma è sostanza. Sul Secolo XIX di oggi, Riccardo Casale risponde a un mio editoriale di qualche giorno fa, critico sulle modalità e le caratteristiche della fusione tra Iride ed Enìa, sia nella sua veste di presidente genovese di Iride Energia (che ha un amministratore delegato torinese), sia in quella di presidente di Amiu, la municipalizzata genovese dei rifiuti che controlla, tra l’altro, le farmacie e la società SportInGenova. Non è chiaro perché Amiu debba difendere Iride, ma soprassediamo, e andiamo oltre. Iride Energia, una delle quattro società in cui si articola il gruppo, ha sede a Torino, come Iride Servizi; al contrario, Iride Acqua Gas e Iride Mercato hanno sede a Genova. Ciascuna di queste società ha un presidente, un amministratore delegato e un consiglio d’amministrazione, i cui membri sono rigorosamente divisi secondo logiche territoriali tra il capolugo ligure e quello piemontese. Il Cencelli delle partecipazioni pubbliche.

Perché dico tutto questo? Per dare un’idea di cos’è e come è costruita Iride, nata dalla fusione tra Aem e Amga, e lasciar quindi intendere cosa e come sarà “Irenia”, il gruppo nato dalla fusione tra Iride e l’emiliana Enìa. Anzitutto Casale afferma che

l’incorporazione di Enìa in Iride non nasce su Marte ma dai confronti e dall’osservazione di quello che accade nel resto del paese e dell’Europa.

Quindi, una fonte certamente informata dei fatti non cita, tra le ragioni del merger, le possibili sinergie industriali o le economie di scala, che pure potrebbero esserci viste le convergenze tra le aziende. Il problema è che, per farlo, bisogna avviare un processo di taglio dei costi, a partire dal numero e il costo dei manager. Cosa che, apparentemente, non c’è stata nel caso di Iride, e – scommetto sperando di perdere – non ci sarà con la fusione con Enìa. Infatti, prosegue Casale,

il successo di queste operazioni dipende da come le si governa.

Appunto. Se la governance delle aziende è costruita con l’obiettivo di preservare l’esistente, anizché di proiettarle verso un sentiero di crescita, allora non si tratta di fusioni, ma di somme, che non seguono una logica industriale, ma una logica di altro tipo. Politica, in senso lato. Lo conferma, involontariamente suppongo, lo stesso Casale:

Le nostre multiutilities… si ingrandiscono per difenderlo [il territorio] dalle scorribande degli altri.

Ora, se vogliamo raccontarci delle favole, benissimo. Ma se vogliamo parlare seriamente, la corretta formulazione, o almeno la corretta lettura, di queste parole è più o meno questa: Le nostre multiutilities si ingrandiscono per difendersi dalle scalate. E perché si difendono dalle scalate? Per la stessa ragione per cui tutti tentano di farlo, cioè tutelare le rendite degli insider (manager, dipendenti, politici, eccetera) a scapito degli outsider e dei consumatori. Solo che questa comprensibile e legittima autodifesa, nel caso delle municipalizzate, si spinge molto oltre rispetto a quanto possono fare le aziende “normali”, grazie alla connivenza tra le municipalizzate stesse e i loro azionisti di controllo, cioè i comuni, che oltre ad avere alcuni poteri regolatori hanno mille modi di mettere i bastoni tra le ruote ai concorrenti sgraditi. Tant’è che Casale proclama che, a differenza delle imprese private, quelle controllate dal pubblico

inseguono la sfida di remunerare dignitosamente il capitale investito e allo stesso tempo calmierare le tariffe.

Sorvolando sulla definizione di remunerazione “dignitosa” del capitale, che mi sfugge, questo ha una implicazione banale: probabilmente, gli investimenti nelle municipalizzate sono meno redditizi di altri, ma compensano questa minore remunerazione con un minore rischio. Il rischio, naturalmente, è inferiore perché a monte, a garantire la quota di mercato, ci sono i comuni stessi, che vengono ripagati dal flusso di dividendi così come dalla possibilità di, diciamo, fare pressioni sulle imprese da loro controllate perché, per esempio, seguano nelle politiche occupazionali criteri diversi da quelli consueti (suppongo che questa sia una delle caratteristiche della “vicinanza al territorio” che i sostenitori delle Iri locali scomodano tanto spesso). A fronte di ciò, non risulta alcuna evidenza di tariffe “calmierate”, come emerge per esempio dal confronto tra le offerte messo a disposizione dall’Autorità per l’energia (inserite un CAP genovese, per esempio, e i vostri dati di consumo: provare per credere).

In una sorta di crescendo, Casale strappa un sorriso – che non merita particolari commenti – quando dice che

nel settore energetico-ambientale non è difficile fare utili e distribuire dividendi se si risponde solo alla logica del profitto.

Posto che non capisco a quale altra logica un’azienda dovrebbe rispondere, e posto che se ne deduce che Iride non risponde alla logica del profitto (azionisti, scappate!), non mi pare così facile far soldi a palate in un settore tanto competitivo quando è competitivo (che, tra le altre cose, normalmente significa dove non ci sono municipalizzate tra i piedi).

Il passaggio più paradossale dell’intervento di Casale è, però, ancora un altro: quello in cui Casale vanta la maggiore trasparenza delle fusioni tra società pubbliche rispetto a quelle che coinvolgono soggetti privati. Nel caso di Iride-Enìa,

Si è fatto tutto in piazza, sui giornali… non si può non riconoscere alla politica una certa trasparenza.

C’è una differenza tra la trasparenza e la caciara, così come è stato tutt’altro che trasparente il voltafaccia del sindaco genovese, Marta Vincenzi, prima contraria e poi favorevole – per diktat di una parte della sua maggioranza – alla clausola per cui il 51 per cento del gruppo dovrà sempre e comunque restare in mano agli enti locali. Le fusioni sono una cosa seria, che non si può brandire come oggetto di una perenne campagna elettorale. Sarò all’antica, ma queste cose non si fanno né in piazza, né al bar.

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