CHICAGO BLOG » monopolio http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 RAI: il monopolio mai abolito – Daniele Venanzi /2010/10/22/rai-il-monopolio-mai-abolito-daniele-venanzi/ /2010/10/22/rai-il-monopolio-mai-abolito-daniele-venanzi/#comments Fri, 22 Oct 2010 16:16:42 +0000 Guest /?p=7355 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Daniele Venanzi:

Nello stato sociale il cittadino è costretto a cedere parte del suo guadagno alle istituzioni in cambio di servizi di cui non ha mai richiesto l’usufrutto e per i quali non è stato messo in condizioni di pattuire il prezzo. Lasciando da parte le convinzioni liberomercatiste, bisogna ammettere che esiste una scala gerarchica basata sull’utilità sociale nella lunga lista dei servizi erogati dallo stato al cui vertice vi sono sicurezza, sanità e istruzione.

Il modo migliore per cominciare a discutere del ridimensionamento delle competenze statali è iniziare a spuntare quella lista dal basso e depennare le voci di maggiore spreco e minore utilità pubblica. Basta un po’ di ragionevolezza per comprendere che la scomparsa improvvisa del welfare in una situazione di pressione fiscale particolarmente penalizzante pari a circa 70 punti percentuali e di mercato drogato dall’ingerenza statale comporterebbe grandi squilibri sociali tanto tra i privati cittadini quanto tra gli imprenditori.

La priorità va assegnata a quelle liberalizzazioni che pongono termine alla stagione del finanziamento pubblico a pioggia volto ad accentrare e mantenere posizioni di privilegio e di comando nelle mani dello stato tramite il possesso di aziende dalla presso che inesistente funzione di ammortizzazione sociale.

La RAI abusa sin dalla sua nascita di un privilegio di casta che comporta in primo luogo una gravosa spesa sulle spalle di ogni contribuente e in secondo momento una concorrenza tutt’altro che leale nei confronti delle altre emittenti televisive, poiché la sua esistenza è garantita non solo dall’offerta proposta sul mercato, i cui risultati verrebbero in condizioni normali ripagati dagli introiti pubblicitari, ma da un’imposta riscossa annualmente assicurata dallo stato che, di tanto in tanto, stabilisce persino degli aumenti, a riprova che non vi è alcun modo in cui la TV statale possa fallire per mancanza di fondi o quanto meno essere penalizzata dalle scelte del mercato. In questo modo la qualità del servizio viene compromessa poiché la RAI, a differenza delle sue concorrenti, non necessita di un palinsesto migliore per batterle. Nel caso in cui invece riesca ad ottenere un miglior dato Auditel, quest’ultimo sarà in ogni modo falsato dai maggiori fondi disponibili grazie all’imposizione tributaria al fine di rendere la trasmissione più concorrenziale.

La sentenza n. 202 della Corte Costituzionale che nel 1980 sancì la libertà di esercizio delle trasmissioni via etere su scala nazionale, permettendo così la nascita delle principali concorrenti dei canali di stato, non decretò di fatto la completa abolizione del monopolio, poiché la RAI continua ad essere la voce ufficiale dei governi che si susseguono all’amministrazione della cosa pubblica, ignorando qualsiasi logica di mercato.

È sufficiente pensare al terremoto che investe i vertici dell’azienda di Viale Mazzini ogni qualvolta il paese torna alle urne ed esprime la sua preferenza per una nuova maggioranza. Quello della televisione di stato è un espediente volto ad assicurare ai poteri forti del paese un canale preferenziale attraverso il quale diramare informazioni, spesso arbitrariamente distorte, e influenzare la coscienza comune secondo la propria volontà. Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, da strenuo difensore della libertà individuale, comprese i meccanismi perversi per cui si pretendeva di istituire il servizio di (dis)informazione pubblico ancora prima che questo fosse creato.

Seguendo l’insegnamento del filosofo libertario Murray N. Rothbard, potremmo asserire che l’informazione non è un diritto, bensì una libertà, poiché nessuno può negare a ciascun individuo le libertà di informarsi e di informare, il che lederebbe in primo luogo quelle di pensiero e parola. Questo però non implica, per i motivi sopra elencati, che lo stato possa arrogarsi il diritto di istituire il monopolio su dei media attraverso la creazione di reti di sua proprietà con la subdola e menzognera pretesa di garantire un’informazione equa e accessibile ad ogni cittadino.

Bisogna tenere a mente che da sempre i giornali sono fondati e diretti da privati cittadini e di sovente sono organi d’informazione ufficiale di partiti e movimenti politici. L’esistenza stessa del privato nel settore dell’informazione rende utopica la becera pretesa statalista del fare della divulgazione delle notizie un coro che decanta all’unisono le sole verità dello stato.

Tornando all’analisi della situazione italiana, la RAI grazie al canone ha generato nel 2009 introiti pari a 1.645,4 milioni di euro (bilancio ufficiale del 31.12.2009 disponibile sul sito RAI) che risulta a seguito di vari aumenti nel corso degli anni l’imposta più evasa dai contribuenti. I ricavi ottenuti dalla riscossione dell’imposta superano notevolmente i guadagni generati dagli spot pubblicitari: 998,5 milioni di euro (medesima fonte). Il ricavo netto totale RAI pari a 3.177,8 milioni di euro è leggermente inferiore a quello di Mediaset Italia che ammonta a 3,228,8 (fonte bilancio Mediaset 2009). Ma il notevole apporto finanziario al tesoretto costituito dalla riscossione del canone penalizza la godibilità della programmazione concorrente, in quanto, a differenza della RAI, necessita di una maggiore presenza di spazi pubblicitari al fine di sovvenzionarsi.

Le cifre dovrebbero far riflettere da un lato sul vantaggio che l’emittente statale detiene sulle rivali e dall’altro sull’ingiustizia di tale tassazione dimostrata dal modo in cui ne rispondono i cittadini. Il privilegio RAI si traduce, tra le tante ingiustizie, nella possibilità di stipulare contratti con i dipendenti ben al di sopra del loro valore di mercato, come testimoniato dalle eccessive retribuzioni dei cosiddetti “conduttori d’oro”. In questo modo si è in presenza di un “monopolio della qualità”, poiché i restanti principali canali televisivi non posso permettersi il lusso di strapagare i propri dipendenti migliori perché ne risentirebbe eccessivamente il bilancio aziendale.

Ai detrattori della liberalizzazione delle trasmissioni via etere vale la pena ricordare che già da molti anni prima della scesa in campo delle reti Mediaset il palinsesto RAI era principalmente composto da trasmissioni di svago e intrattenimento piuttosto che da programmi di informazione o approfondimento culturale, per cui le altre realtà inseritesi nel mercato non possono essere imputate di aver concorso a svilire la qualità media dell’offerta televisiva. Lo stato non detiene in alcun modo l’illiberale principio di auctoritas per cui si ritiene in diritto di imporre ai cittadini cosa è giusto guardare sui propri teleschermi.

Tirando le somme è ragionevole credere che l’imposta sul canone televisivo sia la prima delle tasse da abolire in un processo di liberalizzazione dell’Italia poiché, come dimostrato, racchiude nella sua natura l’essenza del principio liberale per il quale non possa esserci libertà individuale se si rinuncia a quella economica. Ne consegue che la cittadinanza dovrebbe chiedere con maggior forza ai propri rappresentanti l’abolizione della suddetta imposta per garantire anche agli individui più onesti e rispettosi delle istituzioni la liberazione da questa volgare forma di finanziamento della propaganda statalista. Infatti, non è l’evasione la strategia vincente con cui aggredire il burocratismo, poiché fino al momento in cui non sarà la legge a decretare la fine di questo sopruso il paese non potrà dirsene ufficialmente liberato.

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Io, rigassificatore /2009/10/20/io-rigassificatore/ /2009/10/20/io-rigassificatore/#comments Tue, 20 Oct 2009 07:59:37 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3364 Un gioiello di acciaio e cemento incastonato nell’Adriatico. A quindici chilometri dalla costa di Porto Viro, sorge il nuovo rigassificatore della Adriatic Lng, un consorzio tra Edison, ExxonMobil e Qatar Petroleum. Inaugurato ieri alla presenza di Silvio Berlusconi e dell’emiro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, il terminale è in realtà in funzione dai primi giorni di settembre. Da allora ha ricevuto cinque carichi di metano, mi dicono senza particolari inconvenienti, ma una volta a regime attraccheranno mediamente due metaniere a settimana. In tutto, faranno fino a otto miliardi di metri cubi di gas all’anno, grosso modo il 10 per cento del consumo nazionale. I quattro quinti arriveranno dal Qatar, partner dell’iniziativa, che si è legato alle controparti attraverso un contratto di lungo termine. Il restante 20 per cento di capacità è assoggettato al principio del “third party access”.

Per parafrasare il mitico paper di Leonard Read, “I, Pencil”, il rigassificatore è ben più di una struttura complessa destinata a contribuire alla nostra domanda. È anche un prodotto felice della globalizzazione. La seconda impresa elettrica italiana, la più grande multinazionale petrolifera americana e una dinamica compagnia di Stato mediorientale si sono messe assieme e hanno realizzato, con acciaio acquistato dal Belgio e le maestranze di un cantiere spagnolo, il maggior rigassificatore offshore al mondo, che riceverà gas da una pluralità di fornitori.

Ma a Rovigo non c’è solo la globalizzazione in atto. C’è anche la liberalizzazione italiana ed europea, di cui questo impianto è figlio e che il rigassificatore, con la sua esistenza, alimenta. Il nostro paese soffre di molti limiti normativi e regolatori. Ma oltre a questi pesa il fatto che, di riffa o di riffa, tutto il metano in ingresso passi per le mani dell’ex monopolista. Dal 2010, entreranno in Italia i primi otto miliardi di metri cubi di metano non Eni, e questa è una grande notizia per tutti.

Una sola nota di pessimismo, ma costruttivo. Rispondendo a una domanda dei giornalisti, il vicepremier e responsabile dell’energia qatarino, Abdullah bin Hamad al-Attiyah, ha detto:

È molto difficile procedere spediti, in Italia, a differenza di altri paesi. L’Italia è il paese più difficile.

Nulla di nuovo, per carità. Ma sentirselo ricordare anche in un’occasione di festa ci fa un po’ vergognare. Spero che il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, che sedeva di fianco a Attiyah, abbia preso nota e si attivi per risolvere questo problema. La storia del terminale di Rovigo è lunga e tormentata: inizia a metà anni Novanta e si conclude solo oggi. Avercela fatta dopo più di 12 anni è un successo per la tenacia delle imprese promotrici, una sconfitta per il nostro contesto istituzionale.

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Il cane a tre zampe /2009/09/02/il-cane-a-tre-zampe/ /2009/09/02/il-cane-a-tre-zampe/#comments Wed, 02 Sep 2009 13:38:10 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2431 L’aereo Pippo è tornato a volare sui cieli italiani e ha sganciato due bombe: una su Piazzale Mattei, l’altra su Via XX Settembre a Roma. Il quotidiano britannico Financial Times dedica oggi un colonnino della sua informatissima e velenosissima rubrica Lex al più spolverato dei campioni nazionali italiani, cioè l’Eni. La riflessione – che cita come fonte, ed è piuttosto anomalo, il fondo Kinight-Vinke Asset Management – è semplice: Eni è un monopolio verticalmente integrato in un’epoca in cui questa struttura non tiene più. Quindi, separarla in almeno due tronconi potrebbe far felici gli azionisti e risolvere varie magagne, politiche e regolatorie oltre che finanziarie.

Il modello prevalente nell’industria petrolifera, infatti, è diverso da quello dell’azienda di Paolo Scaroni: da un lato vi sono compagnie forti nell’upstream, come Total, Bp e Shell (e, oltreoceano, ExxonMobil, Chevron, eccetera). Il core business di questi gruppi è la ricerca ed estrazione di olio e gas, a cui sovente si accompagnano una forte presenza nella raffinazione e una presenza (in declino) nella distribuzione di prodotti raffinati. Altre compagnie, come Gas de France, E.On, e Centrica si occupano invece della commercializzazione del gas (sui mercati wholesale e retail) e, al più, delle infrastrutture di distribuzione nazionali e/o locali.

Il modello Eni, secondo il Ft e Knight-Vinke, non tiene più, e la dimostrazione starebbe nel taglio del dividendo, che riflette una performance inferiore alle attese. Sul tema era intervento a suo tempo anche il Wall Street Journal, dando voce alle preoccupazioni degli investitori abituati a percepire lauti rendimenti dai loro pacchetti azionari. Il quotidiano americano evidenziava che i peers non erano ancora arrivati a una mossa tanto drastica (ma pagavano anche meno dividendi). In realtà, Paolo Scaroni non aveva molte alternative, dovendo mantenere il rating e avendo in ballo una serie di investimenti tanto impegnativi quanto, nello scenario post-crisi, azzardati. Ma dietro il taglio del dividendo c’è anche un segnale (intenzionale o no, poco conta) di natura politica: poiché i dividendi delle aziende partecipate vengono tradizionalmente percepiti dal Tesoro come una sorta di entrata parafiscale, ridurli in un momento in cui pure il gettito erariale è in drastica flessione equivale a vincere un round di braccio di ferro contro Giulio Tremonti. Non è una vittoria facile, e probabilmente non sarà una vittoria senza conseguenze.

Dunque, il Ft riprende una stima di Knight-Vinke secondo cui la disintegrazione dell’Eni potrebbe creare valore, come è accaduto nel Regno Unito con lo scorporo di Centrica e National Grid da British Gas. Il messaggio è chiaramente indirizzato allo stesso Tremonti: tanto che, tra i vantaggi dell’operazione, quelli finanziari passano quasi in secondo piano rispetto a quelli, diciamo così, collaterali, che di per sé sarebbero di poco interesse per la comunità finanziaria. Vediamo:

In cima alla lista c’è lo stato italiano, fortemente indebitato, che possiede il 30 per cento dell’Eni e deve spremere ogni centesimo possibile dai suoi asset. Poi c’è la sicurezza energetica. Si dice spesso che le compagnie europee devono raggiungere la scala sufficiente a negoziare con bulli come Gazprom. Ma se la divisione dell’Eni valesse il doppio dell’Eni di oggi, il problema sarebbe risolto. Infine c’è la regolazione. Bruxelles vuole sempre più dividere la produzione e il trasporto di energia dalla distribuzione. L’Eni farebbe bene a seguire spontaneamente tale strada prima di esserne costretta.

Scaroni si è sempre opposto a tale prospettiva, spalleggiato dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, e nonostante i colpi del capo dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis. Certo è, come nota anche il Ft, che la riorganizzazione avviata da Scaroni, pur avendo probabilmente altre ragioni, risponde anche all’esigenza di distinguere i business regolati da quelli che non lo sono: da un lato con la vendita di Stogit e Italgas (prima controllata al 100 per cento dalla holding) a Snam Rete Gas (di cui Eni ha “solo” il 51 per cento); dall’altro col colpo di mano che ha portato alla rottamazione del brand Agip a favore di quello Eni.

E’ chiaro che la geometrica potenza manifestata fino a oggi dall’Eni di Scaroni tutto vuole fuorché il ridimensionamento. Ma non è detto che l’ipotesi di creare valore, arricchire le casse dello Stato, e ridimensionare un centro di potere talmente autonomo da potersi permettere il taglio del dividendo, non siano obiettivi degni dell’interesse di Tremonti. Il Dpef dice il contrario, ma il mondo, e perfino Tremonti, cambia.

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Fieg vs. Google: giornali e siti non sono tutti libere imprese? /2009/08/31/fieg-vs-google-giornali-e-siti-non-sono-tutti-libere-imprese/ /2009/08/31/fieg-vs-google-giornali-e-siti-non-sono-tutti-libere-imprese/#comments Mon, 31 Aug 2009 20:58:47 +0000 Carlo Lottieri /?p=2421 Nei giorni scorsi la stampa ha dato notizia dell’apertura di un’inchiesta dell’Antitrust nei riguardi di Google Italia. L’agenzia si sta muovendo sulla base di una denuncia dell’associazione delle aziende editoriali, la Fieg, secondo la quale “Google impedirebbe agli editori di scegliere liberamente le modalità con cui consentire l’utilizzo delle notizie pubblicate sui propri siti Internet” (ma i giornali non gestiscono forse a loro piacere le loro pubblicazioni?).

Per la Fieg, ad ogni modo, la conseguenza di tutto ciò sarebbe che “i siti editoriali che non vogliono apparire su Google News verrebbero automaticamente esclusi anche dal motore di ricerca Google”. È stata dunque avviata un’istruttoria per presunto abuso di posizione dominante.

Nel comunicato ufficiale trasmesso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato si può leggere che “gli editori italiani, che non ottengono alcuna forma di remunerazione diretta per l’utilizzo dei propri contenuti su Google News, non avrebbero inoltre la possibilità di scegliere se includere o meno le notizie pubblicate sui propri siti internet sul portale stesso: Google renderebbe infatti possibile ad un editore di non apparire su Google News, ma ciò comporterebbe l’esclusione dei contenuti dell’editore dal motore di ricerca della stessa Google”.

In sostanza, le cose funzionano così.

Google ha un proprio sito nel quale seleziona, gerarchizza e offre al lettore le notizie più diverse: provenienti da altri siti e giornali. Si tratta di un servizio di grande successo e che quindi attira pubblicità. Sulle modalità di questa gestione gli editori vorrebbe avere voce, ma Google Italia New pretende di mantenere una piena autonomia d’azione.

D’altra parte, come si può leggere nel sito stesso, “Google News è un sito di notizie generato automaticamente”. Per vedere le proprie notizie ospitate da Google News è comunque sufficiente inviare una richiesta, che dovrà poi essere vagliata dal sito stesso. Restando ben chiaro che quei giornali che non vogliono vedere utilizzate le loro notizie non hanno nulla da temere.

L’accusa rivolta a Google è che chi non mette a disposizione le proprie informazioni per il sito informativo (Google New), finisce per sparire anche dal motore di ricerca. La strategia dell’azienda multinazionale è chiara, ma non si capisce sulla base di cosa Google dovrebbe essere obbligata a trattare questo o quel soggetto all’interno del proprio motore di ricerca.

A ben guardare, tutta la vertenza manifesta il declino dell’idea di proprietà. I titolari dei giornali dovrebbero rivendicare la libertà di gestire come vogliono le loro aziende, e dovrebbero comprendere le buone ragioni che spingono le altre imprese a fare lo stesso. Nel corso degli anni, Google ha sviluppato servizi, tecnologie e competenze che ora vuole utilizzare al meglio: e nessuno può pretendere di dirgli cosa deve fare.

Quando Microsoft fu censurata per la decisione di “incorporare” (bundling) Media Player in Windows (e ora in Europa rischia un’altra condanna per l’analogo accorpamento di Internet Explorer), la conseguenza fu che l’azienda di Seattle fu obbligata a produrre anche un sistema operativo senza Media Player. E poco importa che nessuno, ovviamente, lo acquisti. Nella contorta e anti-imprenditoriale concezione della concorrenza elaborata dai regolatori, l’impresa non deve essere libera di usare le proprie risorse al fine di fare i propri interessi, ma deve seguire le direttive di chi vuole programmare tutto. Perché starebbe a politici e burocrati stabilire come deve funzionare ogni cosa.

Nel caso di Google non siamo lontani da questo spirito. Gli editori vorrebbero essere protagonisti del motore di ricerca di Google anche quando negano a Goggle (del tutto legittimamente) i loro prodotti per il sito sulle news. Scusate la trivialità dell’esempio, ma senza dubbio io ho tutto il diritto di non dare i miei soldi all’edicolante sotto casa, ma non posso pretendere che lui mi dia lo stesso quotidiani e settimanali.

Se il motore di ricerca è di Google, sta a Google gestirlo come vuole. E se non intende trattare le notizie di periodici e siti che in piena libertà decidono di non collaborare con Google News, non si vede cosa ci sia di illegittimo in tutto questo. Anche la Cgil non segue le pratiche pensionistiche di quanti non sono iscritti all’organizzazione.

Di diversa opinione è però il presidente della Fieg, Carlo Malinconico. Questi sottolinea anche che “il mercato pubblicitario è in crisi, e i generatori di contenuto guadagnano dal proprio lavoro sicuramente meno di quanto fa Google con il loro. Non nego che per una testata Google possa essere un’opportunità. Ma le modalità con cui il motore di ricerca ‘usa’ parte delle notizie di un giornale, senza alcun controllo da parte di chi le crea, non ci sembra trasparente”.

I giornali vogliono (com’è giusto che sia) gestirsi liberamente, ma non sembrano riconoscere lo stesso diritto alle altre imprese. E pretendono che l’Antitrust segni a loro favore un rigore che proprio non c’è.

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