CHICAGO BLOG » mercato http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Quel duro conservatorismo travestito da “sociale” /2010/12/19/quel-duro-conservatorismo-travestito-da-sociale/ /2010/12/19/quel-duro-conservatorismo-travestito-da-sociale/#comments Sun, 19 Dec 2010 14:32:16 +0000 Oscar Giannino /?p=7868 Premessa. Parlerò d’altro, di mercato, Italia, e Corriere e Repubblica di oggi. Ma prima dirò perché non ho aggiunto commenti a chi al precedente mio post su Marchionne – chi fosse interessato, trova un mio ulteriore articolo sul tema, sul Messaggero di oggi – mi ha definito “trinariciuto liberista”, aggiungendo che urlo perché ho poche idee, e che ho anche seri problemi psicologici, e che infine non attaccherei i giornalisti di destra ma solo queklli di sinistra che fanno “eguali porcate”. Non l’ho fatto perchè i commenti non si riferivano al tema Fiat e Marchionne, ma alla puntata radiofonica sui radio24 in cui ho duramente criticato i direttori di quei giornali che, a proposito degli scontri di piazza il giorno della fiducia al governo, hanno per un giorno intero presentato la cosa proponendo ai propri lettori sequenze fotografiche nelle quali si avvalorava l’ipotesi che violenze e incendi nel centro di Roma fossero stati opera di agenti delle forze dell’ordine travisati, quando invece alla stessa ora in cui si selezionavano nelle redazioni i materiali fotografici per i siti e si chiudevano le edizioni del giorno dopo, veniva compiuta la scelta  di non pubblicare le foto che smentivano radicalmente tale tesi, comprovando il fermo del presunto agente travisato che invece era un minorenne manifestante. Ribadisco la durezza del mio giudizio contro quiei direttori, e ribadisco che l’ordine dei giornalisti – che vorrei abolito – se esiste dovrebbe  fare qualcosa, e non punire a senso unico. Se vi sfugge la gravità di quel che è avvenuto siete liberi di pensare che il matto sia io; se dimenticate che Feltri mi ha licenziato e che ho detto in radio, tv e per scritto che non mi riconosco nel giornalismo mazziere e muscolare filoberlusconiano, siete liberi e padroni di inveire conto di me e insultarmi, perché non siete tenuti a sapere che da sempre e coi fatti – facendomi cacciare o comunque andandomene da diverse testate – ho cercato di dare  prova e di volere un giornalismo moderato e sui fatti economici, civili e e culturali capace di proporre un’alternativa alta e di qualità al predominio della stampa sedicente liberale made in Repubblica-Espresso, sempre pronta a piegare i problemi di fondo a un giudizio politico contro questo o contro quello. Io sono però cresciuto in una città sconvolta dalla violenza per oltre 10 anni, Torino, perché negli anni tra il 1969 e il 1974 moltissimi intellettuali, giornalisti, uomini di cultura e del teatro, dell’università e delle accademie, iniziarono a dire anch’essi allora che le proteste potevano benissimo degenerare in violenze, visto il livello intollerabile delle risposte politiche che venivano dai governi democristiani di allora. L’effetto furono innumerevoli funerali e omicidi, una situazione completamente sfuggita di mano a tutti, nelle fabbriche come nelle scuole e università, situazione che poneva ogni settimana a chi stava nei licei ed era politicizzato ma odiava la violenza e la sua giustificazione intellettuale – come me , allora giovane repubblicano ugolamalfiano – il problema di denunciare o meno chi distribuiva molotov e pistole – pistole – ai minorenni che sfilavano e assaltavano sedi di partiti e luoghi o aziende simboli del capitalismo. Cari lettori del blog tutto questo non c’entra nulla con Berlusconi, comunque la pensiate. Tutto questo c’entra con una sola cosa, che è molto diversa. Se prestigiosi giornali e intellettuali ripetono l’errore dei primi anni 70, io penso che la mia esperienza di allora obblighi me ad alzare la voce per dire che è un errore gravissimo, e che non c’è passione politica antiberlusconiana che possa evitare a tutti – comunque votino – e massime se hanno grandi media in mano, di definire con precisione chuirurgica reati e delitti dove si compionio reati e delitti: assaltare i bancomat, incendiare veicoli privati e delle forze dell’ordine, pestare la gente per strada, tuitto ciò  è reato e delitto, e la protesta degli studenti e la comprensione verso di essa non devono e non possono  giustificare alcun ammiccamento. Tutto questo solo per dire che, se la cosa si ripresentasse, rifarò puntualmente quel che ho fatto e detto. E lo griderò ancora più forte, se necessario. Perchè io ai funerali, troppi funerali, ci sono andato, e l’ingegner Ghiglieno ammazzato per strada sotto i nostri occhi ce l’ho sempre in testa, come il povero studente universitario fuori sede bruciato vivo da una molotov sotto i nostri occhi per il solo fatto di essere andato in bagno prima di un appello in un bar a via Po, tacciato di essere “covo di fascisti”.  Veniamo al tema di oggi: il conservatorismo “sociale” sui grandi media, sul Corriere della sera. parlo degli articoli del mio amico Massimo Mucchetti, che conosco e stimo molto. E che continuerò a stimare anche dissentendo radicalmente da quanto scrive.

Gli articoli che ha scritto sul caso Fiat sono andati in crescendo, fino a chiedersi esplicitamente se ciò che va bene alla Chrysler debba andar bene all’Italia, se esista davvero il piano “Fabbrica Italia” di Marchionne, se la richiesta di regole nuove negli stabilimenti – più produttività ma in cambio di più salario detassato, parecchio in più, migliaia di euro che altrimenti non vanno ai lavoratori -  non sia solo una scusa teatrale, per non investire alla fine inItalia e abbandonare il campo, seguendo il nuovo orizzonte mondialista di una Fiat AUTO  mera azionista di Chrysler, forte in Brasile e Polonia ma con l’Italia ridotta a palla al piede. Non sono d’accordo su nulla, tanto meno che la risposta vera sarebbe adottare la cogestione alla tedesca: in Germania i sindacati hanno esattamente accettato tra 2002 e 2005 svolte di contratti aziendali come e peggio di quelli che Mucchetti respinge, perché in Germania si trattò di lavorare di più senza aumenti salariali, e tra 2002 e 2007 così la Deutschland AG aumentò di 17 punti la sua produttività manifatturiera abbassando al contempo di 13 punti percentuali il CLUP. Da noi, accadeva l’esatto opposto. E continuando a dire no a Marchionne, continerà ad accadere l’esatto opposto. Come Cisl e Uil hanno capito benissimo.

Oggi Mucchetti spiega ancor meglio quale sia la cornice delle sue critiche, parlando di Amazon che apre in Italia, ma proponendo a chi vuol lavorarvi di farlo da Paesi esteri, perché hanno tasse e regole del lavoro meno ostili di quelle italiane. Ed è a questo che bisogna dire no, scrive Mucchetti, perché questa mondializzazione che avviene grazie alla libera circolazione di persone, servizi e capitali serve gli interessi dei Paesi emergenti, ma uccide il ceto medio in quelli come l’Italia. E siccome gli italiani votano, dice Mucchetti, buisognerebbe che votassero contro chi propone di non erigere argini a questa barbarie.

Eugenio Scalfari, su Repubblica di oggi, fa il paio con gli interessi. Così, i lettori di Repubblica si vedono proposta la paradossale storiella di un euro a due velocità che sarebbe frutto della cospirazione delle nove maggiori banche mondali che pensano solo a come rilanciare la speculazione, individuando nell’euro il modo per continuare a fare utili arbitraggiando sui cds sovrani.

Berlusconi farà orrore – lo ripeto solo per evitare che lo ritiriate in causa. Ma queste visioni proposte dai due maggiori quotidiani italiani fanno rabbrividire. Sono una puntuale riproposizione del peggior conservatorismo economico-sociale che affligge il nostro Paese. Non è che si spieghi – lo fa benissimo Irene Tinagli oggi sulla Stampa – che al nostro paese, ai suoi giovani così privi di futuro come alle classi dirigenti così evidentemenre non all’altezza, che a tutti noi farebbe bene capire come è cambiato il mondo, e come uil cambiamento è ultreriormente accelerato dal opost crisi. E cioè che non è affatto scritto chy i Paesi avanzati perdano la priopria forza e reddito procapite, se capiscono – come la Germania -  che anche con l’esplosione della crescita dei paesi a basso costo della manodopera si resterà forti puntando sull’alto capitale umano e sulle tecnologie, su sistemi di formazine basati sul solo merito e non sul posto agli insegnanti, su welfare più magri di risorse ma solo concentrate su chi è davvero svantaggiato e non come capita da noi alll’esatto contrario, con meno spesa pubblica e meno tasse come puntualmente hanno capito i britannici sotto il governo Cameron-Clegg. No, si preferisce dire che davanti a noi c’è solo il disastro dell’impoverimento, che le tensioni sull’euro non sono provocate da chi non ha capito e continmua a crescere troppo poco a spesa pubblica e tasse troppo alte, no a  volerle e anzi a crearle sono gli orchi cattivi della finanza e delle banche straniere, che per questo Marchionne  è del giro tanto lo sanno tutti che è canado-svizzero, e per di più si accusa chi non la pensa così di stare solo al caldo con le proprie rendite, e di perseguire il modello Ruby Rubacuiori berlusconiano. Si fa in fretta, dice Massimo, a dire ai figli degli altri che la loro vita sarà quella di fare i lavapiatti.

No, non si fa in fretta. Io due settimane fa ho indicato Londra a una nuova coppia di giovanissimi amici, motivatissimi e stracapaci, due giornalisti che hanno già malgrado la loro età verde esperienze estere senza essere figli di nessuno, ma mettono in conto di doversi fare un bel fondoschiena vista la situazione italiana dell’editoria.  Indico la via della formazione estera a moltissimi figli di coppie che conosco, senza che debbano essere milionari, perché nopn per tutti c’è la Bocconi come dice massimo, ma l’alternativa non è detto che sia la dequalificata università italiana pubblica dove – con tutte le numerose eccezioni – comunque impera l’idea che la formazione sia una mangiatoia per chi ci lavora e non una fonte di skills oper chi la frequenta.  Non aver paura del mondo nuovo e libero, e indicare ai figli find alla più tenera età la via di buttarcisi dentro per imparare a nuotar meglio, è la differenza tra chi pensa sia eternabile il sistema degli alti costi inefficienti italiani – dall’università al mercato del lavoro, dal funzionamento della Pa ai 28 mila precari assunti a tempo indeterminato in Sicilia la settima ascorsa con tutti i partiti d’accordo, fino ai 900mila euro stanziati due giorni fa dalla regione campania per dare la laurea di specializzazione a tutti i dipendenti dopo aver speso ancor più per quella magistrale, naturalmente senza frequentare nè dare esami se non all0′uinterno del palazzo regionale ah ah – e trra chi invece pensa che proprio la concorrenza tra ordinamenti pubblici e privati obbligehrà più presto che tardi anche il nostro paese, a canmbiare testa e idee, e a tornare ad essere quel che siamo stati in molte luminose parti della nostra antica e recente storia italiana, cioè capaci di affermarci nel mondo e di migliorare il nostro reddito procapite attraverso il meglio di cui siamo capaci, non di sdraiarci sui fasti del passato e dello Statuto dei lavoratori e di tasse e spesa oltre il 5905 del Pil come propongono Mucchetti , Scalfari e tutti i conservatori sociali. Votino per o contro Berlsconi- perché sono maggioranza da ambo le parti -  in realtà la pensano allo stesso modo, tranne dividersi su chi comanda.

Io capisco bene che all’Italia a basso reddito dipendente come ai giovani espropriati dei diritti insostenibili dei propri genitori – io vengo di lì, di lavori ne ho cambiati a decine da quando avevo 17 anni, casupole e abituri e città e paesi –   tutto quel che proponiamo noi possa sembrare una traversata nel deserto. Capisco bene dunque quale sia la presa, dell’appello “sociale” dei Mucchetti e degli Scalfari. Ma resta la domanda: perché tedeschi e  britannici lo capiscono, e da noi no? O meglio, lo capiscono per i fatti loro un bel po’ di milioni di italiani, quelli che reggono il Paese sui mercati continuando a fare impresa che esporta e se la batte malhrado tutti gli osctacoli, anche se non so fino a quando? Perché la differenza sta appunto nelle classi dirigenti, nei giornali e nelle università e tra gli intellettuali, ancor prima che tra i capipartito. Perché capipartito per merito e mercato verranno, solo se i pifferai del conservatorismo sociale appariranno col tempo meno autorevioli e  più smentiti dai fatti. Noi qui, microbi trinariciuti, lavoriamo per quello. Senza culo al caldo né Ruby Rubacuori, ma rapinati di tasse. Buona domenica a tutti.

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Cournot e Bertrand in aeroporto /2010/12/16/cournot-e-bertrand-in-aeroporto/ /2010/12/16/cournot-e-bertrand-in-aeroporto/#comments Thu, 16 Dec 2010 19:55:31 +0000 Camilla Conti /?p=7863 Come incidono il potere contrattuale delle compagnie e le discriminazioni tarrifarie praticate dai gestori sul mercato aeroportuale e sul consumatore finale? A questa domanda hanno cercato di rispondere empiricamente Jonathan Haskel, Alberto Iozzi and Tommaso Valletti del Ceis di Tor Vergata ricorrendo a due modelli standard di oligopolio applicate al settore: quello di Cournot e quello di Bertrand.

Nel primo caso le imprese concorrono sulla quantità da produrre, il prezzo di mercato risulta maggiore del prezzo in concorrenza perfetta ma minore del prezzo in caso di monopolio, il guadagno di ogni impresa risulta positivo. Il modello di Bertrand, invece,  prevede due sole imprese in cui si ipotizza che ciascuna di esse fissi il prezzo a cui vendere il proprio prodotto, assumendo che l’altra non modifichi il suo prezzo.

Ciascuno dei produttori non può migliorare, quindi, la sua posizione praticando una politica di prezzi più bassi senza provocare un egual ribasso da parte del concorrente. Ebbene, il potere contrattuale delle compagnie con  i gestori aeroportuali  sul fronte dei diritti di atterraggio (landing fees) ha un effetto sui prezzi praticati ai consumatori finali solo nel caso di duopolio alla Bertand mentre nel modello alla Cournot ciascuna compagnia può tenere per sé il surplus.

Lo studio dimostra ad esempio che un aumento della concentrazione a monte o della sostituibilità tra gli aeroporti aumenta sempre la tassa di atterraggio. Non solo. La capacità di mettere in campo un contropotere attraverso un aumento della concentrazione a valle, dipende dal regime di concorrenza tra compagnie aeree e dalla possibilità per gli aeroporti di attuare discriminazioni di prezzo: la concentrazione delle linee aeree consente di ridurre la tassa di atterraggio quando la concorrenza a valle è in quantità, ma se la concorrenza a valle è nei prezzi, le tasse si riducono solo quando gli aeroporti non possono praticare listini differenziati.

Nello stesso paper, viene infine analizzata la trasformazione del business aeroportuale negli ultimi anni. Partendo dai cambiamenti avvenuti nella struttura del mercato: il successo delle compagnie low cost ha fatto scendere in campo nuovi giocatori come gli scali più decentrati. Scali gestiti da privati hanno avviato una dura battaglia a colpi di tariffe per attirare compagnie aeree anche in grandi città come Mosca, Melbourne, Miami e Londra.

Non solo. Secondo: 55 Paesi hanno privatizzato parzialmente o completamente il loro aeroporti.  Non vanno infine sottovalutati i cambiamenti normativi attuati anche a livello europeo e la sempre maggiore congestione degli scali.

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Un programma per crescere, uomini pericolosi cercansi /2010/12/05/un-programma-per-crescere-uomini-pericolosi-carcansi/ /2010/12/05/un-programma-per-crescere-uomini-pericolosi-carcansi/#comments Sun, 05 Dec 2010 19:17:20 +0000 Oscar Giannino /?p=7782 C’è da augurarsi che il fine settimana abbia portato consiglio su Mirafiori. Non è in gioco solo la presenza in Italia della Fiat e del suo indotto. La politica ha la testa altrove, nella conta dei fedeli e dei traditori. Ma è l’intera manifattura italiana da una parte, e dall’altra la PA e i servizi, che avrebbero bisogno di una nuova cornice fatta da misure atte ad alzare stabilmente la produttività, e a dare insieme più reddito disponibile ai lavoratori dipendenti, minori esternalità negative a tutti in termini di inflazione, gap infrastrutturale e e sovraccosto energetico. Sogni? No. Servono uomini pericolosi, per realizzarlo. Pericolosi e irriducibili, rispetto alla stantia rassegnazione che domina il dibattito pubblico,  al fuoco statalista che rianima illusioni pericolose. Forse è il caso di ripassare alcuni dati.

Nel 2007 precrisi, la manifattura garantiva il 25% del totale del valore aggiunto delle attività di mercato in Italia – se escludiamo l’immobiliare e relative locazioni – occupando un quinto della manodopera nazionale, 5 milioni di persone. In Italia la manifattura è declinata meno che in altri Paesi avanzati. Nella crisi abbiamo scoperto che è un bene, perché oltre il 70% della reklativa e insufficiente crescita a breve del Paese viene di lì, e dall’export industriale. Per questo l’Italia è rimasta quinta potenza industriale al mondo, con il 3,9% della produzione planetaria. Insieme alla Germania – l’unica a crescere – siamo l’unico Paese avanzato che ha mantenuto nella crisi una quota di mercato pari al 4,8% del valore del commercio mondiale. E se consideriamo il prodotto industriale procapite, dopo la Germania al mondo continuiamo a venire noi, prima della Cina, USA e del Giappone. Nel 2008 la bilancia commerciale dell’export manifatturiero è stata positiva per 63 miliardi di euro, e anche nel terribile 2009 lo è rimasta per 47. Tutto ciò è avvenuto perché dopo le violente ristrutturazioni seguite all’ingresso nell’euro e al venir meno delle svalutazioni monetarie, all’ingresso della Cina nel WTO, all’indebolimento della domanda interna figlia delle manovre di contenimento della finanza pubblica, la manifattura italiana ha risposto con innovazioni di prodotto e processo, organizzative e gestionali, commerciali e di marketing, grazie alle quali ha preso a esportare ormai per il 60% in settori come le macchine industriali, la metallurgia e i prodotti chimici, mentre l’export tradizionale legato a tessile, moda, scarpe, mobili etc vale solo più il 15%.

Se le imprese manifatturiere con sedi produttive proprie all’estero in almeno due altri Paesi oltre l’Italia sono salite a circa 15 mila, con circa 200mila imprese italiane nel proprio indotto e catene di fornitura, ad aver fatto outsorcing all’estero per una parte almeno del proprio prodotto sono passate dal 12,5% del totale nazionale nel 200o a un considerevolissimo 25% nel 2009.

Ma questo processo incontra pesanti ostacoli “di sistema”. La produttività, se tralasciamo quella del settore delle costruzioni, è scesa dello 0,75 annuo in media dal 2000 al 2003, per poi tornare a crescere dell’1,3% annuo dal 2003 al 2007, quando è esplosa la crisi. Restiamo al 78° posto nella graduatoria del business environment della Banca Mondiale, per le difficoltà nell’esecuzione dei contratti, le tasse pesantissime, l’invasività delle norme regolatorie e amministrative.

Tra il 2000 e il 2007, il costo del lavoro unitario nel manifatturiero italiano è cresciuto del 19,6%, mentre è sceso del 5,7% in Francia, dell’8% negli USA, del 9,7% in Germania. Oltre alla bassa produttività si sono aggiunti rincari del costo del lavoro indipendenti dai profitti delle imprese, e il risultato è stata la perdita di 27 punti di competitività sulla Francia, 30 sugli Usa e 32 sulla Germania. Nel 2007 l’EBIT manifatturiero italiano era al più basso livello dal 1980, il 3%. I bassi profitti medi hanno abbassato gli investimenti: dalla media dell’1,7% di aumento annuale negli anni Ottanta, all’1,2% nei Novanta, allo 0,6% tra 2000 e 200 .

Questo scenario è insostenibile. Spiega in larga parte perché in termini di reddito procapite gli italiani siano scesi da 103 nel 2001 – fatta 100 la media dell’eurozona – a 93 nel 2009. Un calo drastico a cui ha dato una potente mano lo stallo di produttività dei servizi e della PA, entrambi in larghissima misura esclusi dall’effetto benifico della concorrenza sui e dai mercati esteri.

Per la manifattura italiana basse tasse, PA meno ostile, giustizia più efficiente, sono necessari nel breve per continuare a inseguire la rapidissima trasformazione mondiale in atto. Fino agli anni 80, il 60% del Pil planetario veniva dai Paesi di vecchia industrializzazione, e il 40% da quelli emergenti.

Ora solo il 30% della crescita mondiale viene dai paesi sviluppati, il 70% da Cina ed emergenti. Per il FMI, la crescita media annua del 4,5% di Pil mondiale prevista per il prossimo lustro continuerà stabilmente a venire per iol 3,3% dagli emergenti, per l1.2% dai vecchi industrializzati. Al 2030, ai ritmi attuali, l’Asia peserà per il 53% del Pil mondiale, il Nordamerica il 20%, l’Europa solo il 13%. Oggi, la popolazione con reddito procapite superiore ai 30 mila dollari l’anno è di circa un miliardo di individui, per l’80% nei paesi sviluppati. Di qui a 20 anni, il loro numero salirà di almeno 600 milioni, dei quali 470 nei Paesi emergenti, 200 milioni nella sola Cina e 70 milioni in India. Saranno consumatori diversi da quelli che conosciamo. Bisogna prepararsi sin da adesso. Più giovani di quelli a cui siamo abituati, Nati “digitali”. E con molte più donne a decidere.

Perché la manifattura italiana possa farcela, sbaglia in pieno chi crede che la concorrenza sia con le paghe e i diritti cinesi.

Il punto è di concentrarsi su tecnologie avanzate, pervasive e cross cutting: materiali avanzati, nanotecnologie, micro e nano elettronica, biotecnologie, fotonica. Conta aver a sostegno finanza, internazionalizzazione, classe dimensionale: condizioni che da noi difettano.

Concentrarsi su queste svolte a breve e di sistema per la manifattura. A fianco, avviare un programma di lungo periodo per produttività e concorrenza nella PA – da cedere in vasti pezzi al mercato, con relativi dipendenti – e servizi. Di questo e nient’altro, dovrebbe essere fatta, la priorità politica del Paese nell’eurocrisi che incombe.

Cercasi politici che ne mastichino, e che abbiano ambizione e carisma per girare pagina.

Sogni? No. Non tutti gli uomini sognano nello stesso modo. C’è chi sogna la notte, e al risveglio si deprime perché si arrende a una realtà che fa apparire vane le immagini notturne. E c’è chi sogna di giorno ed è pericoloso, perché può darsi che reciti i suoi sogni ad occhi aperti per attuarli. L’impossibilità è parola che si trova solo nel vocabolario dei rassegnati. Noi, non ci rassegnamo.

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Il “Contro-Rapporto Monti” dell’IBL: per un’Europa più integrata dal mercato e più aperta al mondo /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/ /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/#comments Thu, 02 Dec 2010 21:16:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=7754 Qualche mese fa, su invito di José Barroso, l’ex commissario europeo Mario Monti ha redatto un rapporto intitolato A new strategy for the single market at the service of Europe’s economy and society , con l’obiettivo di indicare talune linee fondamentali di sviluppo per l’Europa di oggi e di domani.

Il rapporto contiene talune proposte ragionevoli e in particolare auspica una crescita del mercato interno, che faccia saltare le molte e talvolta assai alte barriere che impediscono una piena integrazione tra i vari Paesi dell’Europa a 27 e le loro distinte economie. Ma, al tempo stesso, il testo redatto da Monti contiene argomenti e proposte assai discutibili. In particolare, esso formula una netta difesa di vecchi vizi statalisti europei (specie in tema di welfare) e per giunta esprime una esplicita avversione per la concorrenza istituzionale: soprattutto in materia fiscale.

Per questo motivo l’Istituto Bruno Leoni ha pensato di predisporre una sua interpretazione del “rapporto Monti”, affidando a un gruppo di lavoro internazionale il compito di commentare – capitolo dopo capitolo – tutte le tesi contenute nel testo predisposto dall’economista italiano. Questo lavoro a più mani si intitola Il “Rapporto Monti”: una lettura critica (qui in italiano e qui in inglese) e ha potuto avvalersi del contributo di vari studiosi, italiani e no: Filippo Cavazzoni, Luigi Ceffalo, Luca Fava, Pierre Garello, Carlo Lottieri, Diego Menegon, Alberto Mingardi, Lucia Quaglino, Dalibor Rohac, Josef Sima e Carlo Stagnaro.

Il testo è stato presentato a Bruxelles oggi, 2 dicembre, nel corso di un seminario cui ha partecipato lo stesso Monti. L’obiettivo è stato quello di evidenziare i limiti delle proposte avanzate dall’ex commissario, non sempre coerenti con una visione autenticamente di mercato, sottolineando come la logica dirigista di molte tesi del Rapporto  ostacoli – al di là delle dichiarazioni e delle intenzioni – lo sviluppo di un’economia europea davvero dinamica, integrata e concorrenziale.

I temi essenziali della critica sviluppata dal “contro-rapporto” targato IBL emergono con chiarezza in questo passo, tratto dall’introduzione:

Dietro la riflessione di Monti si vede la proposta di un “grande scambio”: per costruire il mercato interno, gli Stati membri devono dotarsi di sistemi di welfare state sufficienti ad ammortizzare la transizione e sostenere il consenso; perché questo sia possibile, occorre perseguire un grande disegno di armonizzazione fiscale, volto a colpire sia la “concorrenza fiscale” all’interno dell’Ue, sia – a maggior ragione – quella dei “paradisi fiscali”.

L’analisi dell’IBL punta insomma a raccogliere la sfida del “Rapporto Monti”, per valorizzarne gli aspetti positivi, ma anche e soprattutto per sottolineare come un vero mercato non possa essere “unico” (e cioè ristretto alla piccola Europa), non possa basarsi su una tassazione e su una regolamentazione asfissianti (tratti caratteristici del modello welfarista “renano”) e non possa in alcun modo avvantaggiarsi da un’armonizzazione fiscale costruita dall’alto, che riduca quella pressione competitiva che finora ha impedito ai governi europei di espandere in maniera illimitata le loro pretese.

Se infatti le aliquote marginali delle imposte dirette sono significativamente calate un po’ ovunque (dopo che negli anni Settanta erano giunte a livelli altissimi, e non soltanto in Svezia), questo è stato dovuto non tanto a un cambiamento di orientamenti culturali (che pure in parte si è verificato), ma è stato soprattutto conseguente allo sforzo di quei ministri dell’Economia dei vari Paesi europei che hanno fatto il possibile per non perdere tutti i propri contribuenti più importanti. Quando i capitali si muovono e si trasferiscono altrove, che senso ha, infatti, tenere aliquote molto alte, se esse sono ormai prive di una base imponibile? Meglio portare a casa il 45% di 50 che il 90% di 5.

Su questo specifico punto sviluppa una riflessione molto sofisticata un altro lavoro discusso oggi a Bruxelles, anche’esso promosso dall?IBL, e cioè il saggio Tax Competition: A Curse or A Blessing? (qui in inglese, ma qui c’è una sintesi in italiano) di Dalibor Rohac, un giovane e brillante economista slovacco che oggi è un ricercatore del Legatum Institute e che qualche anno fa fu pure a Sestri Levante quale relatore di Mises Seminar organizzato dall’IBL. Avvalendosi della teoria dei giochi, nel suo studio Rohac mostra come un’armonizzazione calata dall’alto blocchi ogni processo di apprendimento e soprattutto ostacoli quel dinamismo degli attori che – sul medio e lungo termine – favorisce l’abbassamento delle aliquote e, in questo modo, aiuta a realizzare una migliore integrazione delle economie.

Un’Europa fiscalmente armonizzata, insomma, è destinata a diventare un vero inferno fiscale. Più di quanto non lo sia già oggi.

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Basta con gli sregolati. Rimettere le regole al centro /2010/10/28/basta-con-gli-sregolati-rimettere-le-regole-al-centro/ /2010/10/28/basta-con-gli-sregolati-rimettere-le-regole-al-centro/#comments Thu, 28 Oct 2010 15:49:37 +0000 Oscar Giannino /?p=7427 Tutti siamo servi della legge perché possiamo essere liberi, scriveva Cicerone nell’ Oratio pro Cluentio. Proprio per questo il magistrato romano si rivolgeva all’assemblea con una formula di rito, per la quale se nella legge si fosse successivamente scoperto che qualcosa vi era di illegittimo, l’approvazione sarebbe stata nulla. Può sembrare anticaglia, ricordarlo. Invece, è essenziale. In un Paese come l’Italia, dove si stima che il mancato rispetto della rule of law e l’incertezza del diritto ci costino l’equivalente di 400 miliardi di mancato Pil ogni anno cioè quasi un terzo della ricchezza prodotta, riporre le regole al centro della vita pubblica è una strategia di successo sicuro per la crescita. Ed è questo, ciò che propone Roger Abravanel con il suo nuovo libro, intitolato proprio “Regole”, dopo il grande successo della sua precedente opera, dedicata alla meritocrazia, e che tanto ha fatto discutere politica ed economia. Viene facile immaginare il contrasto immediato, tra chi vuole mettere buone regole al centro di un tentativo di ripresa dell’Italia, e il panorama di sregolatezza assoluta – privata e pubblica – che ci propone la politica da qualche tempo a questa parte. Ma su questo non mi soffermo, lascio a ciascuno tutta la riprovazione del caso per una politica ridotta a budoir, dossier, inchieste, appartamentini, amanti e serietà consimili. Preferisco restare al punto, e parlare delle regole nuove.

Solo che per “regole” bisogna intendersi: per noi antistatalisti haykyani, l’ipernormativismo dirigista è un errore altrettanto se non più grave che avre poche regole sbagliate.  Dal nostro punto di vista, isogna tornare cioè alla saggezza antica e a quella della vera civiltà liberale. Non alla prevalenza della legge positiva su quella efficace perché espressione del convergere della società e dei suoi corpi intermedi. Non alla prevalenza dello Stato sulla società, della macro sulla microeconomia, l’unica fa crescere davvero perché si fonda sull’effetto che incentivi e disincentivi esercitano nelle scelte di lavoro, consumo, risparmio e investimento di milioni e milioni di individui.

Dal disordinato prevalere dell’iperproduzione legislativa nata dall’errore socialista e kelseniano, che identificava legge e decisione dello Stato, bisogna tornare alla legge come processo di scoperta invece che come puro atto decretato. Per chi volesse approfondire la fondamentale distinzione, qui un dialogo di Hayek assolutamente illuminante. In questo processo, giocoforza non è più tanto o solo il politico – lontano e spesso ignorante dei processi produttivi e dei veri mali che ritardano la crescita italiana – ma l’uomo d’impresa e chi ha cognizione di economia e sviluppo, a proporre “dal basso” in un processo di ordine spontaneo le nuove regole più efficaci per la crescita.

Analogamente – anche se fino a un certo punto, perché in realtà su questo anch’egli cede a qualche forma di dirigismo -  Abravanel nel suo libro lancia una sorta di appello, perché proprio nel mondo economico e nella società civile anche in Italia si trovi l’equivalente dei 25 baroni che nel 1215 imposero al Re d’Inghilterra la Magna Charta Libertatum. Abravanel non si limita alla dimostrazione di come e quanto perdiamo per la trasgressione e l’illegalità diffuse in tutta la società italiana, figlie non di un DNA deviato ma di un circolo vizioso di cattiva regolazione ed eccessiva invadenza pubblica. L’autore avanza cinque proposte concrete.

Ma, prima dell’analisi, due premesse. La prima è che il passaggio in corso da anni dalle regole per lo sviluppo industriale a quello sempre più basato sui servizi non si risolvono solo in deregulation e semplificazione, ma in una vera e propria riregolazione, cioè in norme nuove che devono presiedere ai cambiamenti che nel mondo nuovo attendono settori come sanità, ambiente e finanza. E’ la grande lezione della crisi mondiale.

La seconda premessa è che sono assai meno categorico di Abravanel nell’identificare come una delle cause essenziali delle cattive regole la piccola impresa italiana. Anzi, sono in pieno dissenso. Quando Abravanel scrive “piccolo è brutto, anzi bruttissimo”, identifica tout court nel più della piccola impresa l’evasione di massa, la bassa produttività e l’alto tasso di concorrenza sleale con le aziende che competono invece grazie a legalità e innovazione. Ma così si rischia di cadere nello stesso errore di decenni fa, quando s’immaginò che anche l’Italia dovesse incamminarsi obbligatoriamente verso crescite dimensionali delle aziende del tipo americano e tedesco.

Da quell’errore nacque per esempio un sistema fiscale che, intendendo favorire la grande impresa finanziarizzata, le fa pagare anche 30 punti di tax rate meno di quanto chiede invece ai piccoli. Ma l’effetto è stata la decrescita verticale dei grandi gruppi italiani nelle graduatorie comparate mondiali. La piccola impresa italiana resta in molti settori capace – malgrado tutti questi ostacoli – di adattarsi ad alta velocità al mutare della domanda, ed è grazie a lei che la quota dell’export manifatturiero nel commercio mondiale è stata difesa anche in questi ultimi due terribili anni. E’ verop che piccola impresa significam meno patrimonio, meno investimenti,l meno ricerca, ostilità al passaggio proprietario gebnerazionale aprendosi al mercato e ai manager. Ma per ovviare a questi difetti bisogna pensare a nuove regole adatte per il tessuto reale dell’impresa italiana e accompagnarla alla crescita per più investimenti e innovazione, bisogna invece evitare di replicare regole inadeguate al nostro caso. Altrimenti, oltretutto,  l’intera rappresentanza d’impresa italiana non potrà sposare questa rivoluzione, visto che i piccoli prevalgono dovunque e si sentono – sono, a mio avviso – assai più vittime che colpevoli.

Veniamo alle proposte di Abravanel. La prima è nell’ambito dei servizi pubblici locali. La frammentazione attuale nelle oltre 7mila società controllate localmente dalle Autonomie italiane impedisce a settori come la raccolta dei rifiuti – vedi il disastro napoletano – e i servizi idrici efficienza e scala d’impresa tale da generare investimenti. E sin qui siamo perfettamente d’accordo. Per questo, la proposta è di riattribuire centralmente allo Stato la concessione, disegnando autorità nazionali indipendenti per nuove regole su ambiti operativi che abbiano più senso della parcellizzazione per singolo Comune. L’obiettivo è quello di gare poi per attribuire le concessioni su più vasta scala a soggetti che abbiano taglia d’impresa paragonabile ai giganti esteri come la francese Veolia, un po’ come si fece con l’energia elettrica ai tempi della riforma Bersani. Stante che la privatizzazione di massa che noi proponiamo non passa in nessun Comune né di destra né di sinistra, forse la proposta di Abravanel ha più chanche. Lo scandalo della monnezza e dell’acqua inefficiente in teoria glòi dà ragione. Ma col federalismo in corso d’attuazione scommetto che tutte le Autonomie griderebbero all’esproprio.

La seconda proposta riguarda il turismo. Realizzare in aree vocate l’accorpamento del frazionamento proprietario offrendo concessioni edilizie a lungo termine su aree di grandi dimensioni, in modo da consentire investimenti per alzare la qualità dell’offerta e preservare insieme il territorio. Come avvenne in Costa Smeralda e come a Ortigia sta provando da anni Ivan Lo bello, il presidente di Confindustrria Sicilia che proprio della legalità e della lotta ai collusi ha fatto la nuova bandiera di Confindustria nazionale. Su questa sono pienamente d’accordo. ma scommetto che media e ambientalisti griderebbero come un col suomo alla cementificazione speculativa, invexce di capire che poli turistici di livello hanno bisogno di economie di scala e investimenti adeguati, che sono collegati alla tutela ambientale invece che al disastro delle nostre coste attuali, disastro che è figlio del fai-da-te.

Terza proposta: estendere a tutti i livelli i test per misurare i risultati di docenti e studenti, rimettere al centro il potere del Ministero con un corpo di veri ispettori per verificare i risultati del sistema. Decentrare alle Regioni l’elaborazione di un vero piano dell’offerta formativa assorbendo i provveditorati, e aprendosi a esperienze come quelle dei voucher alle famiglie, nelle Regioni in cui esiste un mercato vero dell’offerta. Il capitolo è lungo: concordo, ma immagino la reazione dei sindacati e dei docenti.

Quarta proposta, nella giustizia civile, che vale più di quella penale come freno allo sviluppo e che ci vede nelle graduatorie al 156° posto sotto Guinea e Gabon: estendere a tutti i livelli la forma organizzativa della delivery unit già sperimentata con successo da Mario Barbuto, presidente di Tribunale di Torino e oggi di Corte d’Apello, che è riuscito a smaltirne l’arretrato in pochi mesi di anni. D’accordissimo. Immagino però la reazione delle correnti dell’ANM, agli occhi delle quali sin qui ogni criterio oggettivo di verifica di produttività e merito configura un rischio che la politica ne faccia uso per metter toghe alla berlina.

Quinta proposta di Abravanel: spezzare la logica della cattiva informazione iperpoliticizzata a partire da dove essa è più parossistica, cioè la Rai, abolendo commissione di vigilanza e governance di partuiti, e frapponendo una fondazione indipendente – con nominati con incarichi a scadenze diverse per limitare lo spoil system – tra proprietà pubblica e reti e testate, sul modello di Trust BBC. Io qui sono per la privatizzazione netta, invece: non credo possibile che la politica italian per come essa è non aggirerebbe anche il filtro di una fondazione di cui essa disegnerebbe le regole.

Come si vede, sono comunque proposte molto diverse dal tono generale della politica odierna e da ciò che propone. C’è da augurarsi che almeno qualcuna di queste venga posta al centro di una seria agenda italiana.  Ne dispero profondamente, però.

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Benoît Mandelbrot. In memoriam /2010/10/18/benoit-mandelbrot-in-memoria/ /2010/10/18/benoit-mandelbrot-in-memoria/#comments Mon, 18 Oct 2010 17:02:11 +0000 Guest /?p=7319 Riceviamo e pubblichiamo da Galeazzo Scarampi del Cairo, Board member dell’Istituto Bruno Leoni.

Scomparso giovedì scorso a ottantacinque anni, Benoît Mandelbrot è stato un importante matematico che ha conservato la capacità “artistica” di visualizzare problemi astratti e la curiosità di cercare reppresentazioni matematiche di forme apparentemente non regolari. Mandelbrot preferiva parlare di “roughness”, intendendo rough come il contrario di regolare, ed ha saputo esprimere la (mancanza di) regolarità in un semplice numero, così come semplice è l’equazione (z–>  z^2 +c) sottostante al famoso “Mandelbrot set”

Il contributo di Mandelbrot alla finanza è stato decisamente paradossale. Storicamente, la parte più facile della sua analisi statistico matematica dei movimenti dei prezzi di mercato azionario è stata utilizzata amplissimamente nella cosiddetta “analisi tecnica”, disciplina considerata “minore” e destinata alla divulgazione per i “day traders”. Le implicazioni più profonde e più importanti del suo pensiero, ovvero l’importanza delle discontinuità ed il conseguente imperativo di evitare modelli “senza turbolenze” e le curve gaussiane sono state deliberatamente ignorate sia dagli ingegneri finanziari che dai risk managers delle grandi banche.

Leggere ora l’articolo scritto da Mandelbrot con Nassim Taleb il 23 Marzo 2006 sul Financial Times, “A focus on the exceptions that prove the rule” può fornire un’idea di quanto valida sia la impostazione teorica di Mandelbrot, esposta in esteso nel suo “The (mis) behavior of markets“, pubblicato 2 anni prima.

Credo che gradualmente le tesi di Mandelbrot abbiano iniziato  a mettere radice nei curriculum di finanza applicata e statistica e in una generazione o due (se non saremo tutti in bancarotta prima) porteranno ad un “irrobustimento” endogeno della finanza, che non può continuare a rivolgersi alle banche centrali come un’orchestra al suo direttore.

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La liberalizzazione delle rette universitarie, per togliere ai ricchi e dare ai poveri /2010/10/05/la-liberalizzazione-delle-rette-universitarie-per-togliere-ai-ricchi-e-dare-ai-poveri/ /2010/10/05/la-liberalizzazione-delle-rette-universitarie-per-togliere-ai-ricchi-e-dare-ai-poveri/#comments Tue, 05 Oct 2010 12:48:06 +0000 Piercamillo Falasca /?p=7215 Pubblicato anche su Libertiamo.it - Partiamo da un dato: le rette universitarie sono molto inferiori al costo che lo Stato sopporta per erogare ad ogni studente l’istruzione universitaria. Come scrive Francesco Giavazzi su lavoce.info, uno studente universitario costa allo Stato circa 7mila euro l’anno, mentre le rette raramente superano i 3mila euro l’anno. Non giriamoci intorno: con ‘prezzi’ tanto più bassi del costo dell’istruzione, si riduce l’incentivo a studiare e pretendere una elevata qualità del servizio.

Ma c’è di più. Un punto cruciale delle tesi di Roberto Perotti nel suo libro “L’università truccata”  (Einaudi, 2008) è il seguente: rette uguali per tutti, o poco differenziate, sono di fatto un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. L’argomento dell’economista è il seguente: circa un quarto degli studenti universitari proviene dal 20 per cento più ricco delle famiglie; e meno di uno studente su dieci proviene dal 20 per cento più povero. Numero più numero meno – il libro di Perotti usa dati del 2006, ma le cose non sono mutate – la sostanza è questa: all’università vanno soprattutto i figli dei più abbienti, che potrebbero pagare rete più alte, mentre la loro laurea viene finanziata con le tasse di tutti, incluse i contribuenti più poveri, che solo eccezionalmente mandano i loro figli all’università.

E invece, con il risparmio derivante dall’innalzamento delle rette universitarie sarebbe possibile garantire non solo una migliore qualità complessiva, ma anche l’accesso gratuito dei poveri all’istruzione superiore attraverso borse di studio e prestiti d’onore. All’ombra dell’ideologica concezione della giustizia sociale, insomma, prospera la vera ingiustizia dell’accademia pubblica italiana.

Come nasce il problema? Gli atenei non sono liberi di determinare le loro rette, perché per legge (l’articolo 5 del DPR 306 del 1997) la contribuzione studentesca non può superare il 20 per cento dei trasferimenti statali ordinari. Con la conseguenza diabolica che la riduzione dei trasferimenti statali finisce per ridurre in proporzione anche l’ammontare delle risorse reperibili attraverso le rette. Da tempo Francesco Giavazzi e Roberto Perotti (ma l’argomento è da molti anni un cavallo di battaglia di Antonio Martino, per fare un esempio) sostengono che il taglio dei trasferimenti statali alle università – una costante di questa legislatura – è sostenibile e ‘intellettualmente onesto’ solo se accompagnato dalla concessione alle stesse di piena autonomia nella determinazione delle rette. E da tempo il governo fa orecchie da mercante, forse timoroso delle inevitabili proteste dei tanti che, quando parlano di giustizia sociale, non sanno guardare oltre il proprio naso.

Con un emendamento firmato da tre deputati di Futuro e Libertà (Barbaro, Della Vedova e Di Biagio) la proposta di liberalizzazione delle rette arriva oggi in Commissione Cultura alla Camera, dove è appunto in discussione la riforma dell’università. Difficile che la maggioranza si apra, ed altrettanto difficile che il centrosinistra sostenga l’iniziativa, ‘catturato’ com’è in questi ambiti dal peggior sindacalismo studentesco. Ma l’emendamento di FLI è come una goccia di benzina: di per sé non serve a far girare il motore, ma un piccolo incendio nel dibattito lo può provocare. Soprattutto se chi ha davvero a cuore il futuro dell’università italiana farà sentire la propria voce a supporto.

Accanto alla proposta di eliminazione del tetto alla contribuzione studentesca, i tre deputati hanno presentato un’altra misura a nostro giudizio interessante: la deducibilità all’80 per cento delle donazioni private alle università, potenzialmente una spinta decisiva per una vera autonomia degli atenei. Vedremo.

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Mengozzi bond, chi li ha visti? /2010/09/14/mengozzi-bond-chi-li-ha-visti/ /2010/09/14/mengozzi-bond-chi-li-ha-visti/#comments Tue, 14 Sep 2010 15:28:23 +0000 Camilla Conti /?p=7049 Obbligazionisti Alitalia, marameo. Traditi, beffati, dimenticati. Non è solo la mancanza del presidente Consob, a testimoniare come il governo non si curi tanto della fiducia dei mercati. Non fa notizia purtroppo, ma di fronte al “bussate e non vi sarà aperto” del governo il popolo dei Mengozzi bond è rimasto a terra col cerino in mano. 

L’odissea del “volo” convertibile Alitalia 7,5% 2002-2010 ha infatti un inizio ma non una fine. Nel marzo 2008 il governo Prodi tratta con Air France la vendita di Alitalia, si parla di una cordata italiana. Il titolo della società agonizzante comincia un’altalena spericolata: ad aprile +18 per cento, il 28 maggio +2,25, il 3 giugno -7,1. Il 6 giugno 2008 Consob e Borsa decidono di sospendere le azioni.  La nuova compagnia decolla, più o meno, mentre la vecchia finisce nel dimenticatoio insieme con i suoi azionisti e obbligazionisti. Nel gennaio 2009 il titolo, dopo essere stato sospeso, viene cancellato dal listino, senza spiegazioni del Garante Cardia che ad aprile liquida così la questione: “Va data una qualche forma di risarcimento, soprattutto agli obbligazionisti”. In Parlamento piovono interrogazioni e dopo l’ennesima, il ministero dell’Economia risponde: i risparmiatori dovranno attendere fino al 31 maggio 2009 per eventuali risarcimenti. Ma il termine passa. Intanto si annuncia che azionisti e obbligazionisti saranno rimborsati attingendo al fondo dei conti dormienti che da due miliardi è però passato a 800 milioni.

A Luglio 2009 spunta il decreto legge anticrisi che estende anche agli azionisti la possibilità di sostituire i titoli con buoni del Tesoro di nuova emissione senza cedola. Queste le modalità di rimborso: per i bondholder, la legge prevede un indennizzo pari a 26,2 centesimi di euro che rappresenta il 70,97% del valore nominale delle obbligazioni detenute, fino a un valore massimo di rimborso di 100 mila euro. I vecchi titoli azionari AZ potranno essere invece ceduti al Tesoro a un prezzo di 27,22 centesimi, circa il 50% del valore medio dell’ultimo mese di contrattazioni del titolo (l’ultimo prezzo fatto registrare prima della sospensione, era stato di 0,445 euro), fino a un valore massimo di rimborso di 50 mila euro per azionista. I rimborsi sono però arrotondati per difetto: se io ho 7000 azioni Alitalia, mi spetterebbero 1.905 euro. Invece me ne daranno mille e se ne terranno 905. Alla fine, se tutto andrà bene, gli azionisti otterranno 0,27 euro ad azione, il 50 per cento del valore medio del titolo nell’ultimo mese di quotazione. E gli obbligazionisti il 70,9 per cento di quanto gli spettava (se fosse stata accettata l’offerta Air France avrebbero preso l’85 per cento). Con un tetto: 50 mila euro per gli azionisti, 100 mila per gli obbligazionisti. Il rimborso verrà effettuato tramite emissione di titoli di Stato, senza cedola, con scadenza 31 dicembre 2012 (fino ad allora insomma non diventeranno denaro e non potranno essere ceduti) e il taglio minimo sarà di 1.000 euro.

I termini per presentare la domanda scadono nell’agosto 2009. Una corsa contro il tempo per i risparmiatori traditi: poco più di 30 giorni, per giunta del mese di agosto, quando l’Italia va in ferie. Si parla di allungare i termini per l’adesione, tentando di inserire una proroga in disegni di legge. Ma la manovra viene respinta perché non c’era copertura finanziaria sufficiente per un’eventuale riapertura dei termini dello swap. Il governo promette comunque che entro il 31 dicembre 2009 provvederà a trasferire i titoli di Stato spettanti sui conti di deposito titoli di ciascun cliente.  A oggi nessuno li ha ancora visti.  Di nuovo c’è solo che gli azionisti non sono stati ammessi al passivi.

Qualche ragionamento in più sui numeri: se tutti avessero scelto il concambio, l’esborso per lo Stato sarebbe stato di circa 300 milioni: i risparmiatori coinvolti (ovvero chi al 29 agosto 2008 aveva in portafoglio bond o azioni della Magliana) sono oltre 10 mila. La compagnia aveva offerto ai cittadini il 38% di un prestito da 715 milioni emesso a luglio 2002, poi prorogato al 2010. In ballo c’erano quindi 270 milioni di obbligazioni (al valore nominale) e rimborsare il 70% significa spendere circa 190 milioni a cui si aggiungono, all’incirca altri 100 milioni per il rimborso delle azioni, per un totale appunto di poco meno di 300 milioni. La gran parte dei risparmiatori ha accettato il piano ma il ministero non paga. Certo, non avrebbero comunque potuto beneficiare della liquidità prima della fine del 2012 depositando quei titoli sul conto sarebbero potuti servire come garanzia per chiedere prestiti in banca.

Traditi,  beffati e dimenticati. Traditi perché ai possessori del prestito Alitalia 7,5% 2010 è stato precluso di avvantaggiarsi del futuro probabile buon andamento della società mentre il trattamento è dipeso dal prezzo a cui il commissario Fantozzi ha venduto le attività della società (aerei, slot, terreni, marchio, avviamento).  Beffati perché anche il magro premio di consolazione promesso dal governo che prima ha dovuto pagare i crediti di Stato, i dipendenti e le banche, non è stato consegnato. Dimenticati perché di Alitalia non si parla nemmeno più in parlamento e sui giornali si lascia spazio solo ai proclami di rilancio dei vertici, quando va bene, o di scioperi, quando va male.  Ecchissenefrega dei Mengozzi bond.

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Una “Fist Rule” a tutela del diritto (e per aprire a un nucleare di mercato) /2010/09/09/una-%e2%80%9cfist-rule%e2%80%9d-a-tutela-del-diritto-e-per-aprire-a-un-nucleare-di-mercato/ /2010/09/09/una-%e2%80%9cfist-rule%e2%80%9d-a-tutela-del-diritto-e-per-aprire-a-un-nucleare-di-mercato/#comments Thu, 09 Sep 2010 06:29:03 +0000 Carlo Lottieri /?p=6976 Da quando il diritto è stato ridotto alla semplice volontà del “sovrano” (in passato era un re, oggi in genere è un’assemblea parlamentare), uno dei problemi più gravi che ne sono derivati riguarda la tenuta delle regole. In definitiva, una delle funzione fondamentali di un buon sistema normativo consiste proprio nel limitare l’incertezza: nel garantire quale sarà l’orizzonte legale entro cui ci si troverà a operare in futuro. Ma se le leggi non sono altro che semplici decisioni del sovrano, è facile finire vittima della volubilità del legislatore.

Questo è particolarmente grave quando si riflette sulle prospettive economiche del Paese.

Chi investe oggi lo fa sulla base di un progetto (un business plan) che comporta una scommessa sul futuro (su ciò che in consumatori saranno interessati a chiedere, ad esempio), ma che ha bisogno – nei limiti del possibile – di delimitare l’aleatorietà del contesto in cui si troverà ad agire. L’impresa che oggi investe in produzioni tessili o automobilistiche può essere assai danneggiata da una riforma che, tra un anno o due, modifichi in maniera significativa il sistema regolamentare o fiscale.

Il problema è particolarmente avvertito ogni volta che si discute, nel nostro Paese, sull’ipotesi di far rinascere il settore nucleare. L’eventuale introduzione, oggi, di una normativa che tolga ogni sbarramento di sorta dinanzi a quanti vogliano puntare su tale settore non può certo rassicurare un eventuale investitore, poiché è sempre possibile che – domani – un cambio di orientamento politico blocchi progetti avviati e in cui si sono destinate somme considerevoli.

Di fronte a questioni di tale natura appare evidente l’esigenze di “super-norme”. Tipicamente, una super-norma è la Costituzione, dato che naturalmente può essere modificata, ma per fare tutto questo è necessaria una procedura assai più complicata. Non è un caso che da parte liberale si sia spesso invocata l’esigenza di porre una tutela costituzionale di fronte alla possibilità, per il Parlamento, di tassare le famiglie e il mondo produttivo, e anche di manipolare la moneta, aumentando la massa monetaria e producendo quindi inflazione.

Se non si volesse necessariamente offrire una garanzia costituzionale agli investimenti nell’energia nucleare si può comunque immaginare una Fist Rule quale è quella che fu proposta su “Il Foglio”, un paio di anni fa, da Michele Fiorini ed Ernesto Felli. L’idea è semplice e ingegnosa: per dare più stabilità alle norme, si può ipotizzare che una legge approvata, ad esempio, con il 90% dei voti di deputati e senatori possa essere abolita nel corso del primo decennio di vita solo se, in un momento successivo, trova in Parlamento un 90% di votanti disposti ad abolirla.

Una legge che aprisse la strada al nucleare e che trovasse in Parlamento una maggioranza davvero ampia, in presenza di una Fist Rule potrebbe forse proteggere meglio l’investitore. Può darsi – come hanno sottolineato gli stessi Felli e Fiorini nel loro intervento – che quella della Fist Rule sia un’idea da perfezionarsi e svilupparsi ulteriormente, ma è senza dubbio vero che è in questa direzione – di regole più “rigide” – che ci si deve orientare.

Diversamente, pochi avrebbero voglia e interesse a impegnare capitali in iniziative tanto rischiose. A meno che non si tratti di quelli del solito, e ignaro, contribuente.

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Andrew Keen e i privilegi della classe creativa /2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/ /2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/#comments Wed, 25 Aug 2010 11:59:54 +0000 Alberto Mingardi /?p=6846 L’Aspen Forum del Technology Policy Institute si è chiuso con un discorso di Andrew Keen, personaggio di cui ignoravo l’esistenza fino ad oggi  ma il cui libro è stato anche tradotto in italiano. Colpa mia non averlo né visto né letto, e se qualcuno invece l’ha fatto m’interesserebbe molto sapere che ne pensa.

Keen è un personaggio singolare, che alza la bandiera della “cultura del secondo novecento” (in Italia diremmo: post-sessantottina) sostenendo che si tratti del massimo prodotto di sempre della creatività umana. Prodotto che egli legge come in buona misura frutto di un “eco-sistema culturale” che ha consentito ai “creativi” (cinematografari, scrittori, musicanti) di trarre abbondante soddisfazione dal proprio lavoro. Di qui, parte con una filippica contro Internet, che di quella cultura sarebbe l’assassino. Sostanzialmente: lo sviluppo della rete avrebbe segnato una svolta ideologica per cui la qualità nella produzione culturale (si tratti di una rivista o di un CD) non dovrebbe essere più considerata degna di remunerazione monetaria. Questo ingenera una estrema “democratizzazione” della cultura, per cui tutto, non avendo prezzo, ha lo stesso valore: zero. Quei modelli di business che puntavano sulla costituzione di “piattaforme per la condivisione di contenuti” sperando di potere poi remunerare gli autori attraverso la pubblicità (un modello di per sé non certo nuovo: pensate alla televisione commerciale) sarebbero per Keen già obsolete, e in realtà sarebbero state sin dall’inizio votate al fallimento. Perché? Perché, banalizzo, “la qualità si paga”.

È un discorso affascinante anche se di dubbia consistenza. In prima battuta, a me possono piacere molto sia Bob Dylan che Saul Bellow e Philip Roth, ma prima di sostenere che i loro siano prodotti culturali intrinsecamente superiori a, chessò, Richard Strauss o Edvard Grieg piuttosto che Stendhal e Vittorio Alfieri ci penserei non due ma mille volte. Società diverse, in momenti diversi, hanno “pagato” gli artisti, i filosofi, i giornalisti, i musicisti in modo molto diverso. E siccome le preferenze sono individuali, ciascuno di loro può avere una diversa idea della moneta con cui desidera essere pagato.

C’è però un elemento di verità, o perlomeno a me sembra, nel discorso di Keen. Soprattutto grazie ad Amazon (Kindle) e a Apple (iPod/iTunes e giornali/iPad) si stanno affermando su Internet anche soluzioni per cui “la qualità si paga”. Questo vuol dire che tutto ciò che non è a pagamento fa schifo, oppure sia destinato a scomparire, perché dal momento che tutti hanno a disposizione tempo in quantità limitata lo dedicheranno solo ai contenuti “premium” per cui sborsano fior di quattrini? O, ancora, ciò che è gratuito sarà ridotto al rango di “assaggino”, per indurre all’acquisto, per esempio, di file audio o video?

Forse la faccenda è un po’ più complessa. Mi pare evidente che, con buona pace dei discografici, non esiste alcun tabù sociale che metta alla pari il donwnload illegale (com’era del resto ieri, con le videocassette copiate) con il furto. Mi pare altrettanto evidente che, con buona pace dei tecnofili, il libro va bene così com’è, non c’è bisogno di trasformarlo in una sorta di raccolta di link, e iniziative come il Kindle abbiano successo proprio perché ci consentono di procurarci in modo più pratico i cari vecchi libri.

Internet ci ha stupiti sin qui, e ci stupirà negli anni a venire. Non sarà tutta gratis, non sarà tutta a pagamento. I contenuti gratuiti, spiega Keen, danno l’impressione che “tutti siano uguali”, avvantaggiano il dilettante rispetto al reputato professionista delle arti e delle lettere. Ma siccome anche per leggere questo blog uno spende del tempo, davvero pensiamo che i lettori non sappiano giudicare e filtrare da sé i contenuti, investendo come meglio credono tempo e denaro?

È curioso che un “autoritario di sinistra”, come si definisce Keen, pensi che solo un prezzo in moneta possa rendere giustizia al valore di un’opera dell’ingegno – soprattutto perché, in tutta evidenza, anche al di fuori di Internet (pensiamo a libri o cd) i prezzi non riflettono solamente il “valore intrinseco” dell’opera, eterna chimera degli apologeti della “classe creativa”.

PS: Seth Godin sceglie di pubblicare in proprio sul web. La qualità che si paga, o la disintermediazione degli editori?

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