Ogni anno, agli studenti in università, sottopongo questionari su svariati argomenti. Non sono tenuti a rispondere, e garantisco naturalmente l’anonimato, ma chiedo loro di farlo per consentirmi di conoscere meglio chi mi trovo di fronte, che cosa pensi e quali idee si sia fatto non solo delle materie che studia, ma soprattutto della professione per la quale ciascuno ha in mente di prepararsi, del mondo del lavoro e dell’Italia più in generale. Anno dopo anno, accumulo questi piccoli test su un campione di un centinaio di studenti quasi sempre alla fine della laurea di specializzazione, ragazzi che in media hanno più 26 o 25 anni che 23 o 24 come dovrebbe essere. Chiedo anche che esperienza di lavoro abbiano accumulato, chi di loro abbia trascorso almeno più di quattro settimane impegnandosi in lavori a tempo o part time, reperiti come e con quale soddisfazione. Il test comprende anche una domanda sulla prima retribuzione attesa, per un’eventuale occupazione a tempo indeterminato. E poi una sulla remunerazione che sarebbe da ciascuno considerata ragionevole e giusta per lavorare a tempo pieno, al di là di quella ottenibile.
Nel mio campione annuale, gli universitari giungono a fine studi senza avere un’esperienza di lavoro vera in circa i due terzi dei casi, e in alcuni anni si sale addirittura a tre quarti. L’anno scorso, la media delle risposte alla domanda “ma tu quanto davvero riterresti giusto esser pagato, per un lavoro che credi di poter svolgere al meglio”, ha barrato la casella 2600-2800 euro. Netti, s’intende. Commentando, dissi scherzando che se mi indicavano in quale galassia stesse il pianeta in cui poteva avvenire una cosa simile, li avrei seguiti nel viaggio siderale. Seriamente, aggiunsi, le vostre aspettative sono così grossolanamente distanti dal vero perché conoscete poco la realtà del lavoro, ne avete un’idea sbagliata e per questo ancor più frustrante di quanto la realtà del mercato sia problematica in sé.
E’ impopolare dirlo, in un Paese dove a prevalere – anche nell’informazione – è la continua denuncia del lavorio sfruttato, del precariato che rapina presente e speranze future di famiglia dei giovani, e delle imprese che pagano poco e vogliono molto. Ma a me sembra che la difficoltà del lavoro giovanile molte volte dipenda da altro. Da un enorme condizionamento culturale, figlio del balzo in avanti nel benessere avvenuto in una sola generazione – tra fine anni 70 e soprattutto negli 80 – mentre per altri Paesi ha richiesto decenni. Moltissime famiglie – anche tra i redditi medi e bassi – tengono artificialmente i propri figli il più a lungo possibile “protetti” da ogni esperienza concreta di lavoro, da ogni seria consapevolezza delle remunerazioni realmente percepite per mansione e qualifica. La licealizzazione e l’università di massa realizzano così un doppio paradosso: un esercito di studenti (e d’insegnanti) frustrati poi perché le scelte d’indirizzo non corrispondono affatto né alla realtà del mercato del lavoro italiano, né tanto meno alle sue remunerazioni, e insieme l’impossibilità di perseguire sul serio merito ed eccellenza.
Non è solo il mio modestissimo test annuale, a comprovarlo. L’ennesima e ben più autorevole conferma è venuta da Confartigianato e dal rapporto Excelsior Unioncamere sulle difficoltà di reperimento di manodopera da parte delle imprese italiane. Apprendiamo così che se la disoccupazione è oggi all’altissima percentuale del 27,9% per i giovani tra 15 e 24 anni, essa al nwetto di un problema forte che continua a sussistere al Sud potrebbe praticamente azzerarsi o quasi altrove se solo formazione e aspettative dei giovani fossero indirizzate al mondo del lavoro vero, e non a uno che non c’è se non nelle menti delle loro ipertutelanti famiglie. Perché anche in questo difficile 2010 il 26,7% del fabbisogno di lavoro delle imprese italiane risulta insoddisfatto. Al vertice della classifica dei lavori rifiutati dai giovani, qualifiche tecniche come quella di installatori di infissi, panettieri e pastai, tessitori e maglieristi, addetti all’edilizia e pavimentatori, falegnami e verniciatori, saldatori e conciatori. Come si vede, qui non stiamo parlando di braccianti o muratori non specializzati, ma di quella che per secoli è stata l’aristocrazia del lavoro artigianale e d’opificio, tramandata con lunghi tirocini per la formazione di un capitale di conoscenza che non è solo manuale, ma interagisce oggi con macchinari e processi avanzati e specializzati.
In Germania questo non avviene, perché quel Paese ha avuto la lungimiranza di mantenere un canale di formazione professionale ad alta priorità nelle scelte sia dell’istruzione pubblica che delle famiglie. Dipendesse da chi scrive, parificherei in tutto e per tutto il tirocinio e l’apprendistato nelle piccole imprese, in quelle artigianali e di commercio, al titolo professionale dispensato dal sistema pubblico, oggi scartato dal più delle famiglie e dai giovani ignorando che retribuzioni per mansioni tecniche specializzate sono superiori a quelle impiegatizie a cui i laureati finiscono spesso per incanalarsi, pieni di delusione.
Ma non bastano solo le riforme ordinamentali e della formazione. Ciò che serve davvero è un cambio di mentalità. Ed è l’intero Paese a doverlo fare. Riconciliarsi con il lavoro vero significa spingere i figli fin da giovanissimi a sporcarsi le mani, a non disprezzare la manualità, a mettersi alla prova, a uscire di casa anche dieci anni prima di quanto ormai capiti. Apriamo tutti gli occhi, questa deve essere la parola d’ordine. Se in larga misura la disoccupazione giovanile deriva da un difetto percettivo, l’incapacità di vedere è nostra, non figlia di un destino cinico e baro.
]]>È arrivata questa settimana la riforma spagnola del mercato del lavoro. Celestino Corbacho, ministro del lavoro e tutto il governo Zapatero hanno approvato in solitudine un cambiamento necessario. Senza dubbio vi era bisogno di una riforma, perché come “certificato” anche dal World Economic Forum, la Spagna ha un mercato del lavoro estremamente complicato. La posizione nel ranking mondiale stilato dal WEF registra che il Paese iberico si trova al 130esimo posto su 139 Stati in classifica per quanto riguarda la flessibilità del mercato del lavoro. Questo dato potrebbe sorprendere, poiché in Spagna circa il 95 per cento dei nuovi contratti è a tempo determinato. Ma vi sono altri elementi che rendono la Spagna anti-competitiva in questo campo e che hanno portato il Paese ad avere un tasso di disoccupazione superiore al 20 per cento. Anche nelle regioni più ricche, quali la Catalogna o la Regione di Madrid si registrano tassi di disoccupazione superiori al 15/16 per cento. Un’anomalia europea.In primo luogo vi sono il costo molto elevato del licenziamento e la disparità dell’indennizzo di licenziamento tra contratti determinati e indeterminati. Questo argomento è al centro della riforma di Zapatero ed è un elemento che ha creato molta discussione.
Gli imprenditori ritengono che le innovazioni della nuova legge siano insufficienti, così come il partito d’opposizione il Partito Popolare, mentre i sindacati l’hanno giudicato contrario agli interessi dei lavoratori. Per questa ragione il 29 settembre è stato convocato uno sciopero generale da parte dei principali sindacati in un Paese nel quale gli scioperi non sono molto frequenti (come in Italia e Francia).
L’indennizzo per il licenziamento è stato abbassato a 33 giorni lavorativi per anno lavorato nei contratti a tempo indeterminato dai 45 giorni precedenti. Nei contratti a tempo determinato l’indennizzo è stato elevato a 12 giorni per anno lavorato. È stata introdotta inoltre la possibilità, per le aziende in difficoltá economica, di ridurre tale indennizzo a 20 giorni per anno lavorato anche nel caso di contratti a tempo indeterminato. Tale procedura dovrà tuttavia passare da un giudice e molti sono i dubbi sulla reale applicazione.
In questo campo la riforma fa un passo in avanti verso una maggiore flessibilità, anche se rimane una forte dualità tra contratti a tempo determinato e indeterminato.
La flessibilitá del mercato del lavoro spagnolo tuttavia ha altri punti deboli. In primo luogo continua ad esserci una contrattazione collettiva e la riforma non tratta minimamente questo punto. In Italia è stata introdotta la possibilità di stipulare contratti di secondo livello, mentre in Germania il 40 per cento dei contratti di lavoro non segue nessun contratto di lavoro collettivo.
Il sussidio di disoccupazione è un altro punto debole che non è affrontato nella riforma del Partito Socialista al Governo. Questo continua ad essere molto elevato. Inoltre non si sono introdotte clausole molto restrittive per rifiutare altri posti di lavoro da parte del disoccupato. Molti di questi “senza lavoro” preferiscono rimanere nel “paro” e ricevere per tre anni un sussidio molto elevato. La legge che prevede un aiuto di 426 euro al mese per i disoccupati di lunga durata è stata rinnovata un’altra volta, in un Paese nel quale il salario minimo è di poco superiore ai 600 euro.
Vi è un abuso del sussidio di disoccupazione, mentre il salario minimo, che introduce una rigidità del mercato del lavoro, non è mai stato al centro dell’attenzione del Governo.
La riforma è un piccolo passo in avanti, ma si comprende perché è stata criticata da tutte le parti sociali. Quella approvata è una riforma in solitario che difficilmente permetterà una discesa rapida della disoccupazione.
La Spagna continua ad avere un mercato del lavoro poco flessibile e vi sarebbe stato bisogno di una riforma più coraggiosa per scendere rapidamente a tassi di disoccupazione europei.
]]>Il contratto disdettato da Federmeccanica era l’ultimo sottoscritto dalla Fiom. Dopo l’accordo interconfederale sul salario decentrato di produttività, sottoscritto dalle associazioni imprenditoriali e da tutti i sindacati con l’eccezione della Cgil, si è aperta una nuova stagione di rinnovi contrattuali secondo le nuove regole. Per l’industria meccanica, l’intesa è stata raggiunta il 15 ottobre 2009. Senza la firma della Fiom, che nega l’intesa abbia valore di contratto e si è sempre riservata di impugnarlo di fronte al giudice del lavoro. Malgrado l’intesa preveda un aumento retributivo medio di 112 euro, con la prima tranche dell’aumento regolarmente versata sarà in busta paga nel gennaio 2010, con l’aggiunta sempre nel gennaio scorso ai circa un milione e 300mila lavoratori metalmeccanici di una tranche ulteriore, come elemento di perequazione per chi non ha la contrattazione integrativa.
Il motivo per il quale la Cgil non ha firmato l’intesa generali sui nuovi assetti contrattuali,e poi la Fiom altrettanto solitariamente non ha sottoscritto il nuovo contratto dei meccanici, sta nel fatto che sia l’intesa generale che quella di comparto introducevano due istituti che per quel sindacato sono inaccettabili. Il primo è la contrattazione decentrata come scelta generale su quote crescenti di salario, in cambio di più produttività. La seconda è la facoltà di procedere a deroghe nei confronti del contratto nazionale: deroghe da contrattare col sindacato, ma deroghe azienda per azienda, stabilimento per stabilimento, deroghe per comparti – come quello dell’auto, in cui insiste Fiat – o deroghe estese addirittura all’intero settore. Scelte che innovano in profondità la rigidità della vecchia contrattazione, incentrata sull’intangibilità del contratto nazionale sia per la parte normativa, sia per la parte salariale. Due novità che mettono di comune intesa – impresa e sindacati – lo scambio tra produttività e salario come sfida necessaria da condividere: per rilanciare la manifattura italiana, per metterla in condizione di agganciare al meglio la ripresa mondiale secondo le specifiche esigenze di miglior utilizzo degli impianti, dei turni, degli orari, che solo in ciascuno specifico insediamento produttivo possono essere meglio sfruttati, non in un solo contratto per tutti siglato a Roma.
La convinzione condivisa tra Confindustria e maggioranza dei sindacati è che solo così, nel mondo globalizzato, possiamo continuare a restare la quinta potenza industriale mondiale difenendo i posti di lavoro – spesso tendiamo a dimenticarlo, che siamo i quinti al mondo dopo Cina, Usa, Giappone e Germania, e pur nella crisi difendiamo bene la nostra posizione mentre tutte le altre nazioni avanzate sono in caduta libera, con l’eccezione tedesca.
Con il caso Fiat-Pomigliano è venuto il primo banco di prova delle nuove regole. E si è toccato con mano che la maggioranza dei lavoratori e dei sindacati, sia pur di fronte alla durissima polemica della Fiom, ancora una volta hanno detto sì. A questo punto, di fronte al rischio che Fiom si riservasse impugnative a raffiche delle nuove intese in nome del vecchio contratto del 2008, Confindustria fa un altro passo: e cioè, questa è la vera decisione di ieri, apre subito un tavolo con tutti i sindacati che hanno condiviso i passi sin qui compiuti per definire insieme le ampie deroghe contrattuali consentite dagli accordi del 2009. La prima riunione per l’auto è già convocata per il 15 settembre. Confindustria e Fiat sono sulla stessa linea di Cisl, Uil, Ugl, Fismic. Non c’è nessuna violazione di legge e tanto meno di Costituzione. C’è un cammino a tappe condiviso, per entrare insieme nel mondo nuovo. Non c’è nessun attacco ai diritti del lavoro, né tanto meno alcun disconoscimento del legittimo diritto della Fiom e della Cgil a non riconoscersi nelle nuove regole. Purché questo non voglia più dire però che basta il no di una sola organizzazione – per quanto storicamente importante non maggioritaria da sola nel mondo del lavoro italiano – per bloccare tutto. Per troppi anni è stato così. Con regole che restavano arcaiche, perché a dettare il passo era chi andava più lento.
E’ ovvio che Fiom e Cgil a questo punto alzino ulteriormente il tono della polemica. E’ ovvio allo stesso modo che Confindustria, Fiat e tutti gli altri sindacati debbano stare attenti a evitare passi falsi, a concordare ogni sviluppo senza prestare il fianco. Ce’ da temere che l’instabilità politica aggiunga benzina sul fuoco. Ma la rivoluzione cominciata a Pomigliano può responsabilmente e gradualmente oggi estendersi in tutta Italia. Se vincerà il futuro sul passato, Pomigliano diventerà finalmente il simbolo nazionale di un riscatto coraggioso, invece che di una scommessa mancata.
PS. per l’ultimo pst scritto qui e pubblicato anche su Panorama, “Houston, qui Fiom abbiamo un problema”, l’organizzazione sindacale ha deciso di non piotermi più cosniderare un interlocutore giornalistico, motivo per il quale alla trasnmisisone di domani mattina su radio24dedicata a questo temi non avrò nessuno chje porti al voce dell’unico sindacato dissenziente. Sono convinto di non aver diffamato nessuno, esponendo la mia critica. Considero un triste segno dei tempi, che di fronte al dissenso che essa rivendica, la Fiom decida di considerarmi invece un reietto perché io la esprimo nei suoi confronti.
]]>La premessa per comprendere meglio in che cosa consista, questo nuovo patto sociale, è la comprensione della nuova globalizzazione con cui siamo alle prese. Il mondo post crisi vede leader mondiale della produzione industriale la Cina e non più gli Stati Uniti. Vede l’intera costa occidentale del Pacifico, da Vietnam e Thailandia a Corea del Sud e Indonesia, non più sotto l’orbita economica e politica degli States, ma di Pechino, che ha agganciato l’export asiatico alla soddisfazione dei propri consumi interni, destinati a crescere vorticosamente sostituendo la tossicchiante domanda americana.
Chi era critico della globalizzazione anglosassone, resta ancor più critico anche di questa neoglobalizzazione a guida asiatica. Gode di vasto consenso, infatti, la tesi secondo la quale (vedi ultimi interventi di Luciano Gallino ed Eugenio Scalfari, su Repubblica) tentare di assicurarsi quote crescenti di quei mercati, che vedranno centinaia di milioni di neoconsumatori affacciarsi a bisogni crescenti, comporti una concorrenza al ribasso dei costi e dei diritti dei lavoratori dei Paesi avanzati. Come a dire che se la Fiat punta a diventare un gigante mondiale bisogna fermarla, perché se ci riesce significa che gli operai di Pomigliano, Melfi e Mirafiori saranno costretti alle basse paghe e agli zero diritti degli operai cinesi.
E’ una tesi popolare, abilmente insufflata da quel pezzo di sindacato e di sinistra che continua a guardare alla storia attraverso lo specchietto retrovisore. E le lenti della nostalgia, dei mitici anni in cui bandiere rosse e consensi a milioni tra gli operai facevano pensare che la fabbrica fosse finalmente nelle mani giuste, cioè quelle degli sfruttati in lotta naturale contro gli odiati e famigerati “padroni”.
Senonché, si tratta di una tesi completamente falsa. L’intera storia della globalizzazione, dalla prima rivoluzione industriale manchesteriana e dall’applicazione della legge dei rendimenti comparati e della specializzazione del lavoro, è fatta di Paesi che si affermano e restano per lungo tempo leader, anche nell’espansione dei mercati ad aree a più basso costo del lavoro. Purché naturalmente quei Paesi avanzati non dimentichino che devono preservare due condizioni. La prima è che devono avere una struttura produttiva flessibile, in grado di rispondere rapidamente alla mutata domanda internazionale. La seconda è che devono restare titolari di tecnologie di prodotto e processo, gestionali, commerciali e distributive, capaci di preservare la leadership nella parte più elevata del valore aggiunto, quella che i Paesi emergenti metteranno più tempo a raggiungere. E’ grazie a questa leadership, che si realizzano utili tali da continuare a sostenere redditi elevati tantod elle inmprese, che dei loro dipendenti. Così facendo la Gran Bretagna preservò la sua egemonia nell’Ottocento, e gli Stati Uniti la loro nel Novecento e fino alla grande crisi attuale. La differenza rispetto al passato è che semmai i Paesi meno avanzati oggi sono assai più rapidi di un tempo, nel dover concedere aumenti salariali e dei diritti: persino la Cina comunista, registra negli ultimi sei mesi aumenti retributivi tra il 15% e il 25% nel più della propria manifattura.
Ma perché la struttura produttiva sia flessibile e contemporaneamente capace di concentrarsi sull’affinamento e l’innovazione delle tecnologie, occorrono anche regole condivise capaci di rendere possibili queste innovazioni continue. A volte, come nel caso Fiat in Italia, innovazioni di forte discontinuità, visto lo stato di fortissima difficoltà dell’azienda quando Marchionne la prese in mano.
Ma il nuovo patto sociale indicato da Marchionne e Marcegaglia offre ai lavoratori più retribuzione netta e meno tassata, non meno. Oltre a rappresentare l’unica strada oggi possibile per difendere la base occupazione attuale, e per estenderla ulteriormente in futuro. Certo, trattare stabilimento per stabilimento e azienda per azienda le nuove condizioni di miglior utilizzo degli impianti attraverso turni, orari e straordinari, in cambio non solo di più retribuzione ma altresì di 20 miliardi di investimenti, implica l’addio ai vecchi riti e miti della contrattazione centralizzata e iperpoliticizzata.
Ma è di questo che c’è bisogno, nel mondo nuovo. Concretezza, rigore, reciproco vantaggio tra capitale e lavoro. Il nuovo patto sociale manda in soffitta i rottami ideologici della contrapposizione di classe. Non si fonda più sul collettivismo corporativo. Ma sull’utile comune e condiviso di una nuova responsabilità sociale. Che guarda al miglioramento del benessere e dei consumi di miliardi di individui nel mondo come a una possibilità per tutti, non come a una minaccia.
]]>Interviene Antonio Pilati. Servizi pubblici locali, gas e tlc sono per Pilati l’ambito su cui rilanciare l’azione liberalizzatrice. Non sono riuscito a sentire tutto l’intervento di Pilati e mi scuso per la sintesi.
Interviene Maurizio Sacconi. Esprime espressamente per il rapporto “che segnala delle strozzature” anche se si può essere in disaccordo sui contenuti delle “liberalizzazioni”. Siamo condizionati da tre fattori strutturali che rendono difficile crescere: la “condizione del debito sovrano” e la necessità di intervenire sul debito pubblico, il declino demografico, la contrazione dei consumi interni. Sacconi: serve meno Stato e più società, in cui c’è anche “più mercato”. Bisogna snellire le strutture dello Stato, e soprattutto evitare che con il pretesto della “ri-regolamentazione” si aumenti la regolamentazione: “è opportuno continuare a parlare di deregolamentazione”. Questa riflessione va fatta a tutti i livelli: il fatto che esista la Calabria non può servire sempre da alibi per le Regioni del Nord (più efficienti, ma solo rispetto al benchmark). Bisogna ridurre la spesa e la spesa liberata va usata per ridurre le tasse. Il cambiamento è necessario perché noi siamo in competizione con democrazie molto più “semplici” della nostra, con Stati più snelli. Pomigliano, continua Sacconi, è un caso di scuola: Fiat non ha chiesto più soldi, ma ha accettato di fare un “patto con la società”. Passare “da più Stato a più società” significa passare da relazioni segnate dall’intervento pubblico, a momenti di cooperazione spontanea fra individui e corpi sociali. “In questo senso Pomigliano fa scuola”. Anche i percorsi del mercato del lavoro non sono necessariamente formalizzabili in forma di legge: si sostanziano fuori da ogni centralismo regolatorio e si sostanziano in una vasta deregolamentazione. Lo stesso Statuto dei Lavoratori potrebbe essere sostituito non da norme di legge ma in parte può essere rimesso alla deregolabilità ed alla adattabilià delle parti sociali. Il piano triennale per il lavoro che Sacconi presenterà alle parti sociali si intitolerà “Liberare il lavoro per liberare i lavori”. Sacconi chiude con due rilievi: manca la giustizia, nell’Indice (l’eliminazione del patto di quota lite, dice in polemica con le liberalizzazioni di Bersani, porterebbe ad aumento del “contenzioso temerario”). L’incertezza che grava sulla giustizia è forse il principale problema per le imprese. Sulle telecomunicazioni, Sacconi trova l’indice troppo “generoso” – l’osservazione è però rivolta allo stato degli investimenti sulla rete dell’incumbent.
]]>Se la sinistra politica e sindacale fosse convinta che l’intesa su Pomigliano lede diritti indisponibili e viola la Costituzione, a cominciare dal diritto allo sciopero se lo considera inalienabile e più importante di quello alla codecisione per innalzare la produttività e difendere gli stabilimenti e il lavoro stesso, allora dovrebbe sposare la linea Fiom, dire un no secco all’accordo, chiedere ai lavoratori di votare no nel referendum del 22 giugno, rilanciare la linea antagonista contro ciò che a quel punto si ridurrebbe a una bieca provocazione padronale, perpetrata per approfittare della debolezza dei lavoratori.
Se fosse invece convinta invece che la competizione globale con cui si misura il nostro manifatturiero, la sfida americana in cui è impegnata la Fiat, nonché la storia particolare e il track record delle performance dello stabilimento di Pomigliano, rendano necessaria una svolta, e che naturalmente è meglio che a questo punto essa sia condivisa, e apra nella condivisione anche la strada a una serie di accordi simili dovunque necessari, allora – anche e proprio per evitare che Fiat e altre imprese interpretino la vicenda come un semplice “prendere o lasciare”, ripeto – la sinistra dovrebbe dire “noi ci siamo, diciamo un sì convinto, e lo facciamo con le nostre idee e convinti della loro peculiarità, perché più produttività e meno scioperi sono del tutto compatibili con la storia di una sinistra pienamente riformista”.
Non mi pare affatto che sia emersa una simile chiarezza, nell’atteggiamento di Cgil e Pd. La FIOM ha fatto la sua scelta antagonista, come sappiamo. La Cgil campana con una lunga nota fitta di distinguo ha chiesto ai lavoratori di votare sì, dopo aver scritto che l’accordo comprende temi che in quanto tali non sono sottoponibili un voto. Il segretario della FIOM, Landini, ha reoplicato che questa è una vera e propria “coltellata” alla schiena della FIOM e dei lavoratori.
Nel Pd, Chiamparino, Ichino e Treu hanno parlato chiaro, respingendo la tesi della violazione costituzionale e indicando la via di una compiuta scelta riformista. Il resto del partito li ha considerati incongrui ed eccessivi, come chi offre arfgomenti al nemico. Bersani ha detto che governo, azienda e Confindustria non devono illudersi, che Pomigliano non è un esempio né un precedente: oggettivamente, una sfida alla logica.
Le svolte vere sono tali se le classi dirigenti mostrano consapevolezza della posta in gioco. Marchionne ha sorpreso tutti, con la decisione nella della sua sfida. Quattro sindacati su cinque non dico che abbiano stappato, nè che ballino per la gioia, ma l’hanno capito. La sinistra continua a sorprendermi. Il “sì, ma” è la peggior posizione, testimonia solo di essere senza una linea vera. Al rimorchio di avvenimenti creati da altri, in primis dal mondo e dai suoi mercati.
]]>Dopo lo stop imposto dal Presidente, la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha modificato il testo, così da soddisfare i rilievi avanzati dalla più alta carica dello Stato. A questo punto, è però necessario che le nuove norme – volte ad aprire qualche spazio di libertà all’interno del mondo del lavoro, oggi tanto rigido e ingessato – vengano approvate al più presto. Ed è esattamente a questo fine che un gruppo di professori universitari e altri esperti della materia ha lanciato un appello “A favore dell’arbitrato nelle controversie del lavoro”.
L’iniziativa si deve ad Adapt (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e sulle Relazioni Industriali) e ha come primo firmatario il professor Michele Tiraboschi, noto giuslavorista e già allievo di Marco Biagi. Nel sito di questa associazione è possibile leggere l’appello e c’è pure l’opportunità di consultare una lunga serie di pareri sulla questione, formulati da alcuni tra i giuristi italiani più prestigiosi.
E così Giuseppe de Vergottini rileva come il rinvio presidenziale vada “sdrammatizzato”, tanto più che “il Presidente non contesta al Parlamento di potere l’arbitrato come alternativa alla composizione delle controversie di lavoro”. Altri eminenti costituzionalisti sottolineano che l’arbitrato “è un istituto che esalta l’autonomia e la libertà dei singoli consentendo una decisione rapida sul conflitto” (Tommaso Frosini), che l’arbitrato “è uno strumento snello e agile per la soluzione delle controversie, ed è ormai impiegato in tutti i settori” (Nicolò Zanon) e che, infine, “ha il pregio indiscusso di assicurare una soluzione tempestiva alle controversie di lavoro” (Ida Nicotra). Più specificamente, Luca Antonini sottolinea come “l’arbitrato di equità nella legge rinviata fosse stato circoscritto dal rispetto dei principi generali dell’ordinamento e come il Governo si fosse impegnato a intenderlo come rinvio ai principi regolatori della materia”.
In difesa dell’arbitrato – la cui introduzione è stata contrastata solo dalla Cgil – scendono in campo anche prestigiosi giuslavoristi, i quali affermano che “per un giovane precario che vuol far valere i suoi diritti è sicuramente preferibile un arbitrato per equità, che si concluda rapidamente e con costi legali certi, ad una causa dinanzi al giudice ordinario che dura almeno tre anni e che ha costi sicuramente maggiori” (Michel Martone); che “l’arbitrato irrituale costituisce un ottimo sistema di risoluzione delle controversie e non tocca affatto il diritto sostanziale, come si dice erroneamente” (Antonio Vallebona); che “il giudizio equitativo non è, né potrà mai essere, un giudizio contro le norme inderogabili di legge, ma, al più, come insegna la dottrina più accreditata, un giudizio volto a modellare tali norme al concreto caso da decidere” (Giampiero Proia).
Si tratta di voci molto ragionevoli e pacate, provenienti da studiosi che hanno ben presente quanto sia lenta, inefficace, farraginosa e quindi alla fine davvero iniqua la nostra giustizia ordinaria, e come sia dunque urgente dare spazio a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie che, in altre culture, hanno da tempo ottenuto un considerevole spazio.
Quanti vogliano sottoscrivere l’appello possono inviare una mail di adesione a [email protected].
]]>Insieme a lui che insegna ad Harvard, lo hanno scritto Paola Giuliano di UCLA, Yann Algan della Sorbona, e Pierre Cahuc dell’INSEE. E’ molto interessante. Mostra come le imprese, in caso di mercati rigidi del lavoro e caratterizzati da bassa mobilità geografica del lavoro – come in Italia – esercitino una sorta di monopsonio con relativa rendita, nell’offerta di lavoro. Per reazione, i lavoratori che considerano la bassa mobilità geografica un valore finiscono per preferire mercati del lavoro ancoras più rigidi, e per premiare sindacati e partiti che li vogliono ancora più rigidi. Su questo fondamento, gli autori innestano poi il ragionamento del recente libro di Alesina e Andrea Ichino, che attribuisce alla tradizione familista – molto forte in Italia – una radice storica di lungo periodo che influisce negativamente sulla realtà di un Paese come il nostro: chi ha tradizioni più familiste e vuole stare vicino a papà e mammà, tende a considerare la mobilità geografica un disvalore in nome della fedeltà alle radici, e di conseguenza preferisce la rigidità del lavoro come risposta impopria al monopsonio d’impresa. Ma finisce per beccarsi, così facendo, più disoccupazione e salari più bassi.
Le conseguenze reali dei mercati del lavoro rigido sono proprio quelle, come si vede in Italia. Anche se la Cgil preferisce addossarle agli imprenditori “cattivi”. Ma non sono affatto d’accordo sul fatto che la ragione sia l’amore per la famiglia. i cosiddetti bamboccioni” restano a casa per altre ragioni, che per amore di papà e mammà: in altre parole, pur da laico qual sono, le ragioni di Alesina mi smbrano weberismo antistorico, e calvinismo fuori luogo. Pensare che il cattolicesimo porti a mercati meno efficienti mi sembra una scioccheza. come a tutti coloro che seguono invece la lettura proposta dall’Acton Institute.
]]>L’occasione per questo post ci viene dal recente dibattito scaturito qui in Germania dalla proposta del governatore democristiano del Land dell’Assia, Roland Koch, secondo il quale sarebbe possibile battere la piaga dei parassiti percettori di sussidi sociali, obbligandoli a svolgere una qualsiasi attività di cosiddetta “pubblica utilità”. Beninteso, il problema esiste. Si calcola che nella sola regione di Berlino (sì, quella che vive alle spalle degli altri, essendo tecnicamente in bancarotta da anni) il 60% ottenga il sussidio proditoriamente. Così come è congegnato Hartz IV, erogato a disoccupati e a lavoratori con entrate molto basse, è d’altra parte un formidabile strumento di disincentivo al lavoro, tanto che l’ipotesi che l’entità dei contributi ad oggi in vigore venga tra qualche settimana aumentata ope iudicis dalla Corte Costituzionale di Karlsruhe è uno scenario da film dell’orrore. Come scriveva Frank Schäffler (FDP) qualche tempo fa sul blog della Initiative Neue Soziale Marktwirtschaft tale riforma degli ammortizzatori sociali voluta da Gerhard Schröder, pur partendo da obiettivi condivisibili, ossia la razionalizzazione del moloch welfaristico di stampo bismarckiano, ha prodotto un aumento delle uscite e non una sua diminuzione. E questo persino a fronte di un calo dei disoccupati nel biennio 2007-2008.
Tornando a Koch, la proposta in questione è tutto fuorché innovativa. Queste persone esistono già, sono un milione e seicentomila e ufficialmente non appaiono nelle statistiche quotidiane sul tasso di disoccupazione: nel gergo quotidiano si chiamano 1-Euro-Jobber. Al riguardo l’emittente televisiva ARD ha prodotto un eccellente reportage, dal titolo “Die Armutsindustrie”, l’industria della povertà. Per chi sa il tedesco qui il link alle tre parti (uno, due e tre).
In poche parole, dal momento che in passato troppe imprese tedesche hanno delocalizzato in Cina o nell’Est europeo e dal momento che lo Stato tedesco non si può politicamente permettere riforme che consentano una riduzione del costo del lavoro pena una guerra civile scatenata dai sindacati, si è deciso di utilizzare uno schema geniale. A pagare il conto è ovviamente colui che- per dirla con Bastiat- non si vede, ossia il contribuente. L’Agenzia federale per il lavoro manda il disoccupato da un’impresa convenzionata con lo Stato affinché costui possa compiere una sorta di attività di reinserimento o stage di formazione (sic) dai tre ad un massimo di dodici mesi, evitando così che rimanga con le mani in mano. Il disoccupato, già percettore di sussidio sociale, non instaura formalmente alcun rapporto di lavoro con l’impresa, ma di fatto è come se venisse assunto. In questo modo migliaia di società possono godere di manodopera a buon mercato pagata dallo Stato. Solo l’anno scorso l’Agenzia federale per il lavoro ha sborsato circa 7 miliardi per il pagamento di tali minime indennità (tra parentesi: chi è che contribuisce al dumping dei salari?) da versare ai malcapitati. Malcapitati che, come vedrete nel servizio, realizzano perfettamente l’assoluto nonsense insito in questo sistema. Molti non riescono neppure a capacitarsi del motivo per cui, se si manda un normale curriculum con la richiesta di essere impiegati si riceve un due di picche, mentre se si procede attraverso l’Agenzia federale il medesimo datore di lavoro è pronto a farti entrare in azienda…ma come “praticante”. Tutto ciò per dire che se questa è l’alternativa al tanto vituperato “modello mediterraneo”, ebbene no, noi davvero non ci stiamo.
]]>Insieme a Fabio Schiantarelli del Boston College, e Michel Serafinelli di Berkeley-UCLA, Giavazzi approfondisce l’influenza esercitata sui mercati del lavoro dei diversi Paesi OCSE dai fattori culturali che riguardano l’indipendenza e l’identità di genere, rispetto alle caratteristiche ”oggettive” rappresentate dalle normative, dal loro grado di flessibilità nell’hiring and firing, dai sistemi tributari e dal cuneo fiscale. Ebbene lo scoraggiamento alla partecipazione al mercato del lavoro e l’effetto di minor ore lavorate procapite c’è per le donne. Ma la protratta permanenza in famiglia non si rivela, alla prova dei fatti, un fattore capace di differenziare significativamente l’occupazione giovanile: su di essa, sono le caratteristiche normative e fiscali a pesare. I bambocci, dunque, non sono scansafatiche.
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