CHICAGO BLOG » licenziamenti http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Fincantieri. Non sappiamo né il giorno né l’ora, ma sappiamo che quel giorno e quell’ora arriveranno /2010/09/30/fincantieri-non-sappiamo-ne-il-giorno-ne-lora-ma-sappiamo-che-quel-giorno-e-quellora-arriveranno/ /2010/09/30/fincantieri-non-sappiamo-ne-il-giorno-ne-lora-ma-sappiamo-che-quel-giorno-e-quellora-arriveranno/#comments Thu, 30 Sep 2010 08:08:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7175 Tra smentite, richieste e mezze promesse di nuove commesse pubbliche, dietrofront, rassicurazioni e manifestazioni, l’unica cosa certa per Fincantieri sono i conti. Nel primo semestre 2010 i ricavi sono scesi del 10,7 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In flessione sono pure tutti i principali indicatori finanziari, e se il portafoglio ordini non è vuoto, non è neppure pieno abbastanza: gran parte degli impianti restano sotto utilizzati e la parola più ricorrente dentro le fabbriche è ancora “cassa integrazione”. Non tutti i rischi, dunque, sono stati scongiurati: forse perché non potevano essere scongiurati.

All’origine di questa tempesta ci sono le indiscrezioni – smentite – sul Piano industriale 2010-2014 che, per far fronte a una crisi che è contemporaneamente strutturale e congiunturale, avrebbe previsto 2.500 esuberi, la chiusura di due stabilimenti (Riva Trigoso e Castellammare di Stabia) e un’accelerazione nel graduale processo di riposizionamento del baricentro del gruppo dalla sponda tirrenica a quella adriatica (compresa l’accentuazione dei poteri decisionali a Trieste). Le interpretazioni più politiciste leggono in questa vicenda un “carotaggio” voluto dal management per saggiare le reazioni a una serie di provvedimenti che, almeno in parte, tutti sanno essere inevitabili; altri ancora vi vedono l’ennesima prova dell’influenza leghista, determinata a attirare o trattenere investimenti pubblici nelle zone elettoralmente più generose.

Può esserci del vero in queste interpretazioni, ed è sicuramente politica la scelta (se sarà fatta e nella misura in cui è già stata fatta) di portare la testa e il sistema nervoso di Fincantieri da Genova a Trieste. E’ politica anche la decisione – posto che si debbano chiudere degli impianti – di farlo a Riva e Castellammare anziché, poniamo, ad Ancona. Ma dietro queste scelte politiche c’è una razionalità industriale che è difficile negare: se la si nega, le cose non potranno che andare peggio. Soprattutto per quei lavoratori che continueranno a cullarsi nell’illusione di un posto per la vita.

La razionalità, dicevo, sta nel contesto di una crisi che è congiunturale per la cantieristica, e strutturale per Fincantieri. L’effetto della congiuntura è evidente nel bilancio 2009 (che del 2010 è solo l’antipasto): gli ordini sono in calo del 30 per cento rispetto al 2008, gli investimenti di un quarto, i margini dell’11 per cento. In crescita, soltanto indebitamento (più 135 per cento), passivo di cassa (circa raddoppiato), e il personale: che cresce del 15 per cento a causa dell’acquisizione di Fincantieri Marine Group ma, se si considera la sola capogruppo, è anch’esso in lieve calo. Per questo è alquanto bizzarro che la classe politica ligure (e, suppongo, anche quella campana) abbia accolto le indiscrezioni sul (falso?) piano industriale come un fulmine a ciel sereno. Il fulmine può esserci stato, ma il cielo era burrascoso da almeno quarant’anni.

Del possibile accorpamento degli stabilimenti liguri di Riva Trigoso e Muggiano si parla da decenni. E’ un tormentone che si ripresenta ogni volta che il barometro economico internazionale segna cattivo tempo. Finora, la baracca si è mantenuta in piedi grazie all’uso delle commesse militari in funzione anticiclica, non senza che nel periodo più recente si siano superati un difficile processo di efficientamento e lo sviluppo di produzioni di nicchia (navi da crociera e super yacht). Durante le crisi precedenti, il calo congiunturale veniva controbilancianto con le commesse pubbliche. Oggi questo non è più possibile, perché l’Italia non è in procinto di muovere guerre (e dunque se la può cavare con la flotta che ha), e soprattutto perché sono venute meno le due fondamentali leve attraverso cui il meccanismo veniva finanziato. La sovranità monetaria si è spostata a Francoforte, sicché non esiste più il bottone dell’inflazione; mentre i vincoli del bilancio pubblico impediscono di incrementare il deficit, e dunque per costruire nuove navi militari dovremmo rinunciare ad altre spese che comunemente sono considerate più importanti, come quelle per la sanità, l’istruzione e le pensioni. Per giunta, molti interventi strutturali sono stati già portati a termine, come il trasferimento della sede per la cantieristica da Genova a Trieste negli anni Ottanta e il feroce taglio dei costi. Questi si sono ridotti di circa il 40 per cento, nell’ultimo decennio, soprattutto attraverso il ricorso massiccio ad appalti esterni e l’ingresso di manodopera straniera.

E’ in quest’ottica che vanno visti anche i bilanci degli esercizi precedenti, nei periodi di vacche grasse. Le commesse pubbliche non sono mai mancate, e hanno fatto da base – anche per la, uh, chiamiamola disponibilità della Difesa a ritirare le navi in ritardo e senza troppe pretese – per un rilancio che è avvenuto soprattutto grazie alla capacità di Fincantieri di re-inventarsi come soggetto capace di stare al passo coi tempi. Venendo meno il driver di mercato, il gruppo si è istanteamente ritrovato in un passato non troppo remoto. Venendo meno – complice il rigore tremontiano – il supporto pubblico, la bolla Fincantieri è, se non scoppiata, quasi. Così, siamo allo stesso punto in cui ci trovavamo negli anni Novanta: l’azienda non regge e, dato l’outlook macroeconomico, rischia di non avere il fiato per arrivare alla ripresa.

La peculiarità del 2010, rispetto alle crisi precedenti, è appunto questa: il danno della recessione non può essere tamponato né con misure di efficienza (perché in buona parte già implementata), né facendo appello al buon cuore del Tesoro, né liberandosi di lavoratori prossimi alla pensione (già congedati tra prepensionamenti normali, speciali, e all’amianto). Se queste sono le condizioni al contorno, le mosse previste dal piano industriale “fantasma” sono, almeno in prima approssimazione, una risposta possibile.

In questo senso, c’è oggettivamente poco da fare. E’ sempre meglio un’azienda più piccola ma viva, di una grande, grossa e morta. Se i politici liguri e campani e i rappresentanti dei lavoratori non si schiodano dall’ostinata difesa dell’esistente, il crollo potrà forse essere rimandato, ma non evitato – almeno se il management è davvero convinto che questa sia la strada da percorrere. Meglio, allora, concentrarsi sui margini negoziali veri, che riguardano essenzialmente due aspetti: le modalità e i tempi del ridimensionamento. Senza dimenticare, però, che la proprietà pubblica è anche in questo caso un impaccio, perché finisce per politicizzare una scelta tecnica e industriale, fa sì che tutto venga sempre buttato in un indistinto “tengo famiglia”. E’ un’illusione, e lo è sempre più, ma è un’illusione difficile da sconfiggere. Dunque: privatizzare è necessario, come premessa per un ordinato svolgimento delle razionalizzazioni.

Partiamo dalla tempistica: forse, Fincantieri sarebbe disposta a barattare la pace sociale con un allungamento delle scadenze, per esempio rimandando il D-Day dal 2014 al 2016 o 2018. In questo modo, si potrebbe contenere l’emorragia occupazionale, sia accompagnando i dipendenti più anziani (quelli che restano) alla pensione, sia trovando soluzioni per trasferire gli altri verso gli stabilimenti più promettenti, sia incentivando uscite volontarie (sulla falsariga dell’accordo Telecom di agosto). Si potrebbero, così, minimizzare i licenziamenti unilaterali: ma, dati i numeri, è possibile che alcuni restino, senza contare l’impatto sui fornitori e l’indotto.

Qui si aprirebbe uno spazio dove una politica responsabile vedrebbe esaltato il proprio ruolo non già in quanto colonna reggente, ma crepata, dello status quo, bensì come soggetto incaricato di gestire la transizione. Qualche suggerimento, di cui il ceto politico dovrebbe far tesoro, sta nel programma elettorale di Filippo Penati, candidato del centrosinistra alla regione Lombardia. In quelle pagine, il giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino, adatta alla normativa vigente la sua proposta di riforma del mercato del lavoro. All’azienda viene chiesto di destinare una parte del vantaggio economico ottenuto con la maggiore flessibilità di fatto (seppure a diritto vigente) alla copertura del costo sociale derivante dalle loro scelte. Essa, cioè, dovrebbe impegnarsi a erogare servizi per la riqualificazione del lavoratore licenziato e la ricerca di un nuovo impiego (col contributo della regione); interamente a carico dell’impresa sarebbe, invece,

un congruo indennizzo economico al lavoratore licenziato e un congruo trattamento complementare di disoccupazione, che costituirà anche un potente incentivo all’efficienza dei servizi di ricerca e riqualificazione mirata: più sarà rapida la rioccupazione dei lavoratori, minore sarà il costo del trattamento complementare.

La logica di questo approccio è difendere i lavoratori, creando per loro degli “scivoli” e aiutandoli trovare una nuova, e più produttiva, occupazione. Al contrario, la tentazione di salvaguardare gli attuali stabilimenti senza riguardo alla competitività può avere costi sociali assai più consistenti dei benefici. Infatti, per mantenere livelli occupazionali altrimenti insostenibili, si rischia o di dissestare le finanze pubbliche (come nel passato), oppure di trovarsi a gestire un crollo improvviso. Il conflitto lascia solo macerie. Quella della responsabilità e della lungimiranza è una via stretta e irta di ostacoli, ma almeno non porta dove finiscono i sentieri lastricati di buone intenzioni. La smentita del piano industriale 2010-2014 non cancella le ragioni di una riorganizzazione. Bisogna augurarsi che politici e sindacalisti usino bene il tempo a loro disposizione, senza farsi trovare impreparati a un appuntamento di cui non sappiamo né il giorno, né l’ora. Ma che sappiamo prima o poi ci sarà.

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