CHICAGO BLOG » libertà http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 La pianta del tè /2010/08/29/la-pianta-del-te/ /2010/08/29/la-pianta-del-te/#comments Sun, 29 Aug 2010 08:10:42 +0000 Alberto Mingardi /?p=6880 Oggi Washington è stata letteralmente invasa dagli ammiratori di Glenn Beck, per una manifestazione enfaticamente intitolata “Restoring Honor”, pensata a sostegno delle forze armate Usa ma anche dei valori di “fede, speranza e carità” incarnati da figure esemplari della società civile. L’evento è stato in prima battuta un fund raiser per la Special Operations Warrior Foundation – e poi un test per la popolarità del conduttore radiofonico. In diversi hanno associato questa manifestazione ai “Tea Party” ma effettivamente si è trattato di un evento molto diverso da quello che lo scorso 12 settembre ha visto un numero straordinario di americani correre nella capitale per dire il loro “no” alla cultura dei bail-out.

L’evento di Beck è stato una manifestazione bella e imponente. Il colpo d’occhio era spaventoso (vedete le foto nel post scattate col cellulare, ma anche e soprattutto quelle sul sito ufficiale), ad essere bella era la gente, i partecipanti.

Persone normali, pulite, semplici. Nonne e nonni coi nipotini, mamme coi passeggini, veterani e ragazzine acqua e sapone con una “Liberty Bell” tatuata a pochi centrimetri dall’ombelico. È vero, come hanno scritto i media mainstream, che era a dir poco difficile trovare un partecipante di colore (pur avendo navigato la folla in lungo e in largo, ne avrò visti sì e no una decina, di cui uno con la maglia di Balotelli). Ma è anche vero che c’erano persone diversissime, per età, background, e soprattutto reddito. Gente che per venire a Washington s’è fatta sedici ore di macchina, dormendo sul sedile posteriore. Madri di famiglia che nella capitale non c’erano mai state, e nel pomeriggio hanno preso d’assalto i musei. E smaliziati manager abituati a passare da un lounge d’aeroporto all’altro. Tutti assieme, confusamente, con un grande senso di solidarietà, una forma di rispetto profonda, riuniti da un’amicizia imprevista ma non banale. Non s’è sentito uno slogan razzista, ma anzi grandi applausi e profonda commozione nel ricordo di Martin Luther King.

Lo show (costato un paio di milioni di dollari) era tecnicamente perfetto. A me non era mai capitato di ascoltare Beck, ma non faccio fatica a capire perché gli riesca facile mobilitare tanta gente. Sul messaggio, si può discutere. Può piacere o non piacere. Nel mio caso, davvero non era “my cup of tea”: in quaranta minuti ho fatto il pieno di Dio, patria, famiglia e onore per i prossimi tre anni.

Detto questo, guardandosi attorno, interrogando questi “compagni di gita” e standoli a sentire,  l’impressione era davvero quella di stare in una manifestazione della “maggioranza silenziosa”.

La stessa maggioranza silenziosa che poi si è sciolta e riunita a grappoli per eventi più piccoli, quelli sì organizzati da gruppi vicini ai Tea Party. In questi eventi, anziché nominare Dio invano si faceva più modestamente ma anche più costruttivamente riferimento alla Costituzione e ai padri fondatori. L’obiettivo di queste organizzazioni è schiettamente politico: andare a influenzare l’esito delle elezioni di Novembre, all’interno del partito repubblicano di cui perseguono “un’opa ostile” (così Matt Kibbe e Dick Armey nel loro “Tea Party Manifesto”). Da alcuni punti di vista, l’enfasi “religiosa” di Beck fa persino pensare che la sua manifestazione sia stata un tentativo di fare rientrare nella politica americana proprio quei temi che i Tea Party avevano contribuito a mettere fra parentesi, focalizzando l’attenzione di nuovo sulle intrusioni dello Stato nella vita economica. Va detto però che gli appelli al Signore di Beck non sono in nessun caso diventati indicazioni politiche (pro o contro il matrimonio omosessuale, l’eutanasia, l’aborto….) – ma hanno preso piuttosto la forma di un richiamo etico-religioso.

Circa i patiti del tè: attenzione a non esagerare descrivendo come fossero una realtà omogenea i Tea Party, che invece sono contraddittori e plurali come inevitabilmente tutti i movimenti che crescono dal basso e restano acefali. Alcuni gruppi grass-roots (FreedomWorks e Americans for Prosperity su tutti) cercano di dare loro un’infarinatura di cultura politica, come ha ben documentato Kate Zernike sul New York Times, dopo aver partecipato ad uno di questi seminari). L’impressione è che effettivamente mobilitino persone che sono rimaste fino a pochissimo tempo fa “politicamente apatiche”. L’opinione pubblica, anche da noi, è nettamente divisa: da una parte gli ammiratori acritici, dall’altra gli animosi critici.

Avendo seguito una delle convention tenutesi a Washington in questi giorni, posso solo dare alcune impressioni:

  • i consumatori di tè tendono ad essere, almeno retrospettivamente, critici dell’amministrazione Bush – e alcuni di essi arrivano a leggere le scelte stataliste di Obama in sostanziale continuità con essa. In Italia, alcuni commentatori paventavano l’“isolazionismo” dei Tea Party. A me farebbe piuttosto paura la tendenza a difendere a scatola chiusa tutte le decisioni di politica estera della passata amministrazione repubblicana. Alcuni consumatori di tè lo fanno. Non tutti, per fortuna;
  • i consumatori di tè sono un gruppo molto eterogeneo, sia per età che per reddito. La cosa notevole però è che l’eterogeneità non produce la stessa “divisione del lavoro” che si vedeva in passato: i ricchi che ci mettono i soldi, i poveri che ci mettono le braccia. Al contrario. Anche fra persone di ceto elevato, c’è molta voglia di contribuire donando tempo e passione. Anche fra persone di mezzi modesti, c’è il desiderio di mettere il proprio, per quanto piccolo, obolo a disposizione;
  • i consumatori di tè sono un gruppo numericamente consistente. Se preferite l’opera ai concerti rock, è naturale che i loro meeting vi mettano un po’ a disagio. Il volume della musica  è molto alto, si tende a parlare per slogan, si urla e si applaude. Non troverete fra i consumatori di tè analisi politiche particolarmente raffinate. È normale. Perché un movimento di massa dovrebbe funzionare come un covnegno?
  • se c’è una cosa che unisce i consumatori di tè (anche nella variante del tè aromatizzato al Glenn Beck), è la preoccupazione per un fatto che risulta palmare quando vi mettete a girare per i tanti negozi che a Washington vendono merchandise politico. Quali che siano le sue posizioni in politica estera, Obama impersona come nessuno prima la “presidenza imperiale”. C’è un culto della personalità che travalica in manifestazioni imbarazzanti. Alla Union Station di Washington potete comprare un fumetto sulla vita di Barack, “child of hope”, e un libretto da colorare sulla “Obama family”. I bevitori di tè sono preoccupati dal fatto che un Presidente così popolare possa finire per accentrare e consolidare enormemente il potere;
  • i libertari da sempre sottolineano come sia irrazionale separare libertà “economiche” e libertà “civili”. È vero, ma è un dato di fatto che nella più parte del mondo le persone che desiderano pagare meno tasse sono anche quelle che vogliono che la marijuana sia illegale. Non sarà una grande prova di intelligenza, ma bisogna prenderne atto. Gruppi come FreedomWorks e Americans for Prosperity fanno un eccellente lavoro nel canalizzare queste energie sul fronte delle libertà economiche, cercando di far sì – il meccanismo è noto da tempo – che nei diversi collegi si affermino non solo dei “repubblicani”, ma dei repubblicani fiscalmente responsabili. È un meccanismo che estende per scala quanto in passato aveva già provato a fare il “Club for Growth”.

È possibile immaginare qualcosa del genere anche in Italia? Qualcuno ci sta provando – per esempio Tea Party Italia e il Movimento Libertario.

Inoltre, per ora, da noi manca l’evento catalizzatore: che in America è stato sostanzialmente lo “stimolo” obamiano. Inoltre, le differenze fra noi e gli Usa sono fin troppo ovvie. Rispetto al “metodo” (influenzare le elezioni collegio per collegio) è evidente che è impossibile pensare di procedere nello stesso modo, grazie alla nostra sciagurata legge elettorale.

Questa “maggioranza silenziosa” è tale perché è cresciuta in un orizzonte simbolico nel quale sono centrali Costituzione e Dichiarazione d’indipendenza. Al netto di qualsiasi, più approfondita discussione fra federalisti/antifederalisti, etc, queste persone leggono i documenti fondamentali della storia americana come un manifesto del governo limitato. Potranno giocare a fare i rivoluzionari, ma a tenerli uniti è l’idea che ci sia una “tradizione” degna di essere preservata. “Restore” America contro un “change” presuntuoso e socialisteggiante: ancora, al netto di qualsiasi “inquinamento” di quella tradizione politica che possa esserci stato dal New Deal in poi (non è certo Obama ad aver fatto degli Stati Uniti uno Stato tutto fuorché “minimo”).

Che dire? Il messaggio forse è semplice, ma il fatto che sia semplice non significa che non possa essere giusto. Gli obiettivi del movimento sono ambiziosi. Staremo a vedere se davvero i Tea Party riusciranno prima a fare eleggere dei candidati effettivamente sostenitori del governo limitato, e poi soprattutto se sapranno vigilare contro l’inevitabile tendenza al compromesso che quelli stessi candidati potrebbero sviluppare, una volta eletti.

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Il pianista Bahrami: “riapriamo i commerci con l’Iran!” /2010/08/18/il-pianista-bahrami-%e2%80%9criapriamo-i-commerci-con-l%e2%80%99iran%e2%80%9d/ /2010/08/18/il-pianista-bahrami-%e2%80%9criapriamo-i-commerci-con-l%e2%80%99iran%e2%80%9d/#comments Wed, 18 Aug 2010 15:47:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=6830 Ramin Bahrami è uno dei pianisti più importanti della sua generazione, ma è anche una personalità caratteristica di questo nostro tempo, segnato da intrecci e incroci. Nato a Teheran nel 1976, a otto anni è ammesso alla Hochschule für Musik di Francoforte, ma a causa della Rivoluzione khomeinista e della crisi economica che ne deriva è presto costretto a tornare in patria. Grazie all’interessamento di un console italiano, in seguito ottiene però la possibilità di venire a Milano, dove studia con Piero Rattalino e avvia una carriera che ne ha fatto, in pochi anni, uno tra i massimi interpreti di Johann Sebastian Bach.
Bahrami ha sottolineato a più riprese come Bach, l’autore che ama più di ogni altro, sia stato un tedesco capace di assorbire insegnamenti provenienti da ovunque, e qualche giorno fa egli ha preso la parola per chiedere alle grandi nazionali occidentali di sospendere gli embarghi contro l’Iran.

Il pianista non può essere sospettato di simpatie per il regime fondamentalista: specie se si considera che suo padre, che era un ingegnere, fu imprigionato dopo l’avvento al potere degli ayatollah e poi ucciso nel 1991. Egli però ritiene che impedire i commerci tra Teheran e l’Occidente danneggi le condizioni di vita della povera gente e allontani ogni possibilità di integrazione tra l’Iran e il resto del mondo. L’embargo non rappresenta una strategia dura, ma necessaria: è invece una politica illiberale che colpisce la popolazione civile iraniana, ostacola ogni forma di integrazione economica e culturale, rafforza i regimi al potere.

Lo si è già visto a Cuba, dove dopo anni e anni di un rigoroso embargo statunitense si continua a fare i conti con la “dinastia socialista” dei Castro, che se oggi inizia a perdere colpi è solo a causa dei disastri (di ogni genere) conseguenti al collettivismo imposto all’isola caraibica.

Detto questo non so se Bahrami abbia compreso quanto le libertà del commercio capitalistico siano strettamente intrecciate con la grande civiltà musicale che egli fa rivivere quando si mette dinanzi a una tastiera; e neppure se egli abbia chiaro come la libertà degli artisti sia inscindibile dal dinamismo di una società di mercato.

Ma il suo appello di questi giorni perché si riaprano le frontiere tra Iran e Occidente coglie un punto importante ed esprime una richiesta giusta. Andrebbe ascoltato.

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Il treno dei liberali, ovvero ricchezza per tutti/Di Giancarlo Maero /2010/08/18/il-treno-dei-liberali-ovvero-ricchezza-per-tuttidi-giancarlo-maero/ /2010/08/18/il-treno-dei-liberali-ovvero-ricchezza-per-tuttidi-giancarlo-maero/#comments Wed, 18 Aug 2010 13:46:26 +0000 Guest /?p=6827 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Giancarlo Maero:

Questa estate, una sera d’agosto, chiacchierando davanti ad un bicchiere di vino bianco con un amico socialista, in una taverna del Sud, mi sento dire: la società è come un treno che ha diversi vagoni e diverse classi. Io socialista vorrei un treno con un’unica classe, nel quale i passeggeri ricevono tutti gli stessi servizi; tu liberale, vorresti mantenere il treno diviso in diverse classi, con vagoni – i primi – per ricchi, altri per meno ricchi e gli ultimi per poveri.

Non nego che lì per lì il paragone mi ha un po’ spiazzato. Tanto che me la sono cavata rispondendo che la metafora del treno non mi pareva calzante e che, comunque, i poveri, che del “treno” della metafora se ne intendono, preferiscono salire sull’ultimo vagone del primo treno – quello diviso in classi -, piuttosto che sul treno con un’unica classe, sempre che su questo treno li lascino salire. Si trattava di una risposta istintiva e nello stesso tempo empirica, basata sull’esperienza che si ricava dall’osservazione. Una risposta che, però, mi ha lasciato insoddisfatto, come, credo, non abbia convinto il mio amico socialista.

Tant’è che il giorno dopo, mentre pedalavo all’ombra di un grande bosco, ho indirizzato il mio pensiero alla ricerca di una spiegazione, di un supporto razionale, alla risposta che avevo dato. E mi sono venuti in soccorso alcuni argomenti di cui ero venuto a conoscenza in questi ultimi mesi leggendo due bei libri, che si occupano di economia, diritto, politica, genetica ed evoluzione: La politica secondo Darwin, di Paul H. Rubin e Il gene agile di Matt Ridley. Due libri veramente molto interessanti.

Si racconta che i geni del nostro antenato, simile allo scimpanzé moderno, si siano formati in un periodo di circa 1,6 milioni di anni: il Pleistocene. Negli ultimi 40.000 anni del Pleistocene i nostri antenati erano cacciatori (i maschi)-raccoglitori (le femmine). E gli scambi erano limitati (anche se ne fu l’inizio, con conseguenze ritenute molto importanti) all’interno della coppia, oltre che destinati, naturalmente, al nutrimento della prole. In questa situazione il nutrimento era fornito esclusivamente dalla natura, con alcune conseguenze: che poteva sopravvivere solamente un numero limitato di animali per ciascuna specie, che poiché il cibo era limitato erano destinate a sopravvivere le specie più forti ed all’interno di ciascuna specie gli individui più forti (la situazione di homo hominis lupus) e, soprattutto, ai nostri fini, che ciò che cacciava e raccoglieva un nostro antenato veniva sottratto ad un altro nostro antenato, che vedeva pertanto ridotte le possibilità di sopravvivenza propria e dei propri figli e, di conseguenza, dei propri geni. E non c’è, allora, da stupirsi che sia stato lentamente selezionato nel patrimonio genetico dei nostri antenati un sentimento, utile in quell’era per la sopravvivenza, di rancore nei confronti di chi cacciando e raccogliendo più cibo ne toglie la disponibilità agli altri: l’invidia. L’invidia risulta dunque un sentimento utile per la sopravvivenza; e lo stesso uso della violenza (che ai giorni nostri inizia con la coercizione), che nell’invidia ha la sua fonte, ha una giustificazione nell’esigenza di sopravvivenza che è la situazione prima di ogni cosa che vive e che come tale va soddisfatta con ogni mezzo e rispettata.

Questo, dunque, in un’economia come quella descritta, fatta da cacciatori-raccoglitori, consistente in un’attività a somma zero. In cui, per tornare al nostro treno, i posti a sedere sono contati, ed i servizi che si possono avere sono ugualmente limitati: quel che ottiene un passeggero viene necessariamente sottratto ad un altro passeggero. Ma le cose sono cambiate negli ultimi 10.000 anni (dopo il Pleistocene). Per una serie fortunata di combinazioni i nostri antenati hanno cominciato a coltivare la terra a ad allevare gli animali. Ovverosia, hanno cominciato a specializzarsi nello svolgimento di attività dirette alla produzione di beni e servizi. Ed alla specializzazione – alla divisione del lavoro – è seguito lo scambio. Infatti, in mancanza dello scambio la specializzazione nella produzione di un bene – la divisione del lavoro – non avrebbe alcun senso. E, circostanza mai sufficientemente evidenziata, è proprio la capacità di scambiare beni e servizi, capacità che si è sviluppata, non a caso, parallelamente allo sviluppo di quella parte del cervello dei nostri antenati che ci fa “intelligenti”, che distingue la nostra specie dalle altre. Infatti tutti gli animali delle altre specie sono generalisti ed autosufficienti, incapaci di praticare lo scambio, e, prima ancora, di produrre beni e servizi.

Ed a partire dalla acquisita capacità di praticare lo scambio, da questo “miracolo laico”, in conseguenza del quale è felice chi dà e chi riceve, la situazione è completamente cambiata. L’attività degli uomini ha cessato di essere una attività a somma zero per cominciare a diventare un’attività a somma positiva. Ovverosia, l’acquisizione di un bene o di un servizio da parte di un individuo è diventata motivo di ricchezza per un altro individuo, e non più sottrazione di un bene o di un servizio ad un altro individuo. La ricchezza di una persona, dipendendo essenzialmente dalla sua capacità di produrre beni e servizi che le altre persone ritengono per loro utili al punto di essere disposte ad acquistarle o, in tempi passati, a permutarle con beni da loro prodotti (ma è la stessa cosa), è diventata, ben lungi da causa oggettiva di povertà per le altre persone, occasione di ricchezza anche per queste. Il lavoro, che non consiste più nella caccia e nella raccolta di beni che ci offre la natura, ma nella produzione di beni e servizi da scambiare con altri che li ritengano utili, è in realtà l’unica attività “socialmente utile”. E, si ripete, la ricchezza di una persona, nella misura in cui è il frutto di scambi veramente liberi, non corrotti dall’inganno o dall’altrui intervento (intervento esterno a chi scambia), dall’altrui coercizione, rappresenta la vera ed unica occasione per chi è povero di migliorare la propria situazione, di passare dall’ultima classe del nostro treno alle classi dotate di migliori servizi.

Alla luce di queste riflessioni ritengo che fossero fondate sia la mia perplessità circa la correttezza del paragone, della metafora del treno, sia l’osservazione che i poveri preferiscono salire sul primo treno, quello diviso in classi. Compresa la riserva circa la stessa possibilità per i poveri di salire sul secondo treno, a posti fissi e tutti uguali: in questo treno, infatti, o i servizi sono già stati divisi fra i pochi egoisti viaggiatori, e non c’è più posto per altri, né è pensabile, a causa dell’alta imposizione fiscale, creare nuova ricchezza (metafora dei Paesi Scandinavi socialdemocratici), o non sarebbe in ogni caso conveniente salire, in quanto i passeggeri sono tutti ugualmente costretti da una minoranza di conducenti a produrre beni utili per far correre (?) il treno (metafora dei Paesi comunisti).

Peraltro la parabola del treno risulta illuminante sotto un altro aspetto. Serve a spiegare le ragioni per le quali esistono ancora molti socialisti (di destra di centro e di sinistra): immaginano le nostre società come un treno con un numero di posti a sedere limitato e con servizi limitati, ovverosia come società in cui continuano a svolgersi attività a somma zero, come nell’ultimo periodo del Pleistocene, quando i nostri antenati erano cacciatori-raccoglitori. Il treno rappresenta, infatti, bene la situazione di quel periodo, in cui i nostri antenati, cacciatori-raccoglitori, si alimentavano esclusivamente cacciando e raccogliendo quello che la natura donava; ed ogni animale o frutto cacciato, così come ogni posto sul treno o servizio usufruito da un passeggero, significava un animale o un frutto in meno, ovverosia un posto od un servizio in meno, per un altro individuo. Ma, fortunatamente, negli ultimi 10.000 anni le cose sono cambiate. Ed il treno, da luogo a posti fissi ed a servizi limitati, si è trasformato in un treno in continua espansione, con sempre nuovi vagoni e nuovi posti nella prima, nella seconda e nella terza classe; un treno sul quale si possono trovare beni e servizi sempre più numerosi e sempre nuovi, a disposizione di un numero sempre maggiore di passeggeri; un treno sul quale possono salire sempre più persone. E questo processo è destinato ad incrementarsi in proporzione anche all’aumento del numero dei ricchi, ovverosia di coloro che producono beni e servizi che gli altri considerano utili al punto di essere disposti ad acquistarli. E, naturalmente, anche i poveri, e spesso i poveri più degli altri, sono in grado di produrre beni e servizi in concorrenza o originali, tanto da migliorare sensibilmente in pochi anni la propria situazione.

Non a caso la popolazione aumenta soprattutto laddove gli scambi sono maggiormente liberi. Basti pensare ad Hong Kong, almeno prima dell’annessione con la Cina. Ma agli stessi USA.
L’illusione ottica che impedisce di vedere il treno nella sua realtà è la stessa che ha portato in passato ad indugiare sulle sofferenze e la povertà degli operai ammassati nelle periferie delle città-fabbrica inglesi, nel periodo della rivoluzione industriale al fine di indicarne in questa la causa, non vedendo, o forse, oscurando che si trattava di persone che per loro scelta avevano preferito quei sobborghi, con la speranza che portavano, alla inutilmente sperimentata terra.

Ed è la stessa che rende visibili i poveri dei sobborghi delle città USA e non i milioni di poveri che in pochi anni hanno trovato un’occupazione ed i molti poveri che nel giro di poche generazioni hanno acquistato posizioni di prestigio. Si tratta del solito vizio, di guardare il dito che indica, invece di quel che il dito indica.

Chiarito l’arcano del treno ritengo che si possa essere ottimisti e che lo stesso sentimento che alimenta l’invidia, con le distorsioni ottiche che causa e la violenza che ne consegue, sia destinato a diventare sterile; in quanto attualmente non più utile.

Occorre peraltro stare attenti e non dimenticare che la libertà, che ha nella libertà degli scambi la sua massima espressione, è un bene prezioso e non definitivamente acquisito, sempre in pericolo, almeno sino a quando ancora troppe persone vorrebbero costringerci a salire su un treno dove i posti sono contati, i servizi razionati e tutti sono uguali, esclusi loro, che guidano il treno.

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Le motivazioni politiche dell’abolizione della Corrida /2010/07/31/le-motivazioni-politiche-dell%e2%80%99abolizione-della-corrida/ /2010/07/31/le-motivazioni-politiche-dell%e2%80%99abolizione-della-corrida/#comments Sat, 31 Jul 2010 07:39:22 +0000 Andrea Giuricin /?p=6680 La decisione storica di vietare la corrida in Catalogna è arrivata lo scorso mercoledi, dopo un dibattito molto acceso. La legge prevede che dal primo gennaio del 2012 non sarà più possibile effettuare questa manifestazione in alcuna arena della regione Spagnola. La domanda che ci si può porre è quella se sia giusto che sia lo Stato a dover vietare una manifestazione, seppur cruenta. In questo modo si toglie libertà di scelta alle persone che ritengono questa manifestazione un evento tradizionale. Ma in realtà la decisione è una pura< manovra politica in vista delle prossime consultazioni regionali.

Le votazioni si sono terminate con 68 voti a favore, 55 contrari e tre astensioni e i principali partiti catalani hanno lasciato libertá di voto.

Davanti al Parlamento della Catalogna si sono affrontati i favorevoli ed i contrari all’abolizione. La principale critica a questa manifestazione era di torturare i tori, mentre i contrari all’abolizione volevano la libertá di scelta di poter assistere ad una “festa tradizionale”.

La domanda che ci si può porre è quella se sia giusto che sia lo Stato a dover vietare una manifestazione, seppur cruenta. In questo modo si toglie libertà di scelta alle persone che ritengono questa manifestazione un evento tradizionale.

Se la società catalana non voleva più le corride, forse molto semplicemente non avrebbe più riempito le arene. È così è stato, perché negli ultimi anni vi è stata una disaffezione a questa manifestazione. Nel 1977 ha chiuso l’Arena dei Tori in Piazza di Spagna a Barcellona, cittá nelle quali rimane attivo solo il Monumental.

Vi è stato un’altra Regione nella quale le corride sono state vietate, le Canarie. Nell’arcipelago tuttavia il dibattito è stato molto meno acceso, perché la manifestazione già non si svolgeva da nove anni, prima di vietarla per legge.

In Catalogna la tendenza era di un lento declino della manifestazione, ma il Parlamento è voluto intervenire direttamente.

Vi è tuttavia un perché politico a questo interventismo. Il rapporto tra Spagna e Catalogna è molto teso negli ultimi mesi, soprattutto dopo il “no” a diversi articoli dello Statuto Catalano da parte del Tribunale Costituzionale spagnolo.

L’indipendentismo è sempre più forte nella Regione dove si produce circa il 20 per cento della ricchezza nazionale in termini di prodotto interno lordo. Tuttavia la maggioranza della popolazione richiede maggiore autonomia e un Federalismo con più funzioni decentrate.

E durante il voto per l’abolizione della corrida è uscita questa voglia di rivalsa contro la Spagna. La corrida è vista infatti un simbolo della nazione spagnola e l’abolizione serve a dimostrare la diversità della Catalogna.

Vi sono due motivazioni per caratterizzare questo voto come totalmente politico.

In primo luogo la divisione dei partiti al momento del voto. La Catalogna è ora guidata da una coalizione di tre partiti di sinistra: il Partito Socialista Catalano (PSC) e due partiti di sinistra indipendentisti. Il Partito Popolare è all’opposizione ed ha una base di votanti molto limitata, mentre la vera opposizione è invece del CIU, Convergenza e Unione, un partito di centro-destra nazionalista (catalano).

Il voto ha tagliato l’attuale maggioranza di Governo e si è strutturato secondo uno schema nazionalista. A favore dell’abolizione hanno votato il CIU e i due partiti di sinistra catalani, mentre il PP e il PSC hanno detto no. I partiti nazionalisti hanno affermato che la decisione serviva solo a fermare “una barbaria”, senza mai dire direttamente che volevano eliminare un simbolo spagnolo.

Tuttavia la riconferma di questa volontà di affermare il “Catalanismo” e di eliminare un simbolo della Spagna unitaria arriva da una particolarità della legge. In Catalogna esiste una manifestazione che si chiama “Correbous”, nella quale si da’ fuoco alle corna del toro che corre nell’arena. Questa “festa” catalana non ha ricevuto alcun divieto, pur provocando la cecità del toro e potrà continuare indisturbata.

L’abolizionismo della corrida è dunque una manovra politica in vista delle elezioni regionali che si terranno il prossimo autunno.

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Proprietà e libertà. Sì, ma quali? /2010/06/25/proprieta-e-liberta-si-ma-quali/ /2010/06/25/proprieta-e-liberta-si-ma-quali/#comments Fri, 25 Jun 2010 20:02:17 +0000 Giovanni Boggero /?p=6371

It lies in the essence of owning that all rights belong to the owner except insofar as they belong to another person as a result of some acts performed by the owner M.N. Rothbard

Il diritto di ciascuno non vive nel vuoto, ma interagisce con le pretese degli altri alla ricerca obbligata di un equilibrio F.M. Nicosia

Il grande pregio della corposa monografia sulla proprietà data alle stampe ormai dieci anni or sono da Ugo Mattei è senza dubbio quello di aver contribuito a spezzare il recinto della diffidenza verso l’analisi economica del diritto nel nostro paese. Troppo a lungo, infatti, dottrina e giurisprudenza italiane hanno fondato la loro attività di ricerca sulla “regola migliore”, entro gli stretti confini della forma codicistica. Il contributo della Economic Analysis of Law -di casa Oltreoceano, ben poco qui da noi- ha di certo portato una ventata d’aria fresca, cambiando in parte il paradigma con il quale il giurista italico guarda alle norme e alla loro evoluzione.

Una è la tesi centrale del volume. L’Occidente è spaccato a metà tra sistemi di common law e di civil law. Inutile dire che lo sia quindi anche il modo di intendere la proprietà. Alla concezione tipica del diritto romano, corroborata poi dalle codificazioni napoleoniche e dalla pandettistica tedesca, di una proprietà come dominium, semplice controllo materiale e fisico di un soggetto su un oggetto usque ad inferos usque ad sidera, si contrappone una visione più sfumata e complessa, per certi versi immateriale dell’essere proprietari, riassumibile nell’espressione bundle of sticks. La proprietà è insomma un mazzo di prerogative, che possono essere fatte circolare disgiuntamente le une dalle altre (la proprietà del terreno non necessariamente deve ricomprendervi anche il sottosuolo; la proprietà del bosco a fini di legnatico non deve necessariamente ricomprendere quelli di caccia e così via). Tale tradizione, a ben vedere, non è del tutto estranea al panorama continentale, se si pensa a tutto quel florilegio di istituti, tipici dell’era medievale e poi spazzati via con un tratto di penna dalla Rivoluzione francese.

Tale bipartizione, di grande aiuto nel mettere a fuoco la staticità dell’assetto proprietario del nostro codice (si pensi ai rapporti di vicinato), scade invece nell’aporia, quando manca di segnare lo spartiacque “hayekiano” tra liberalismo di stampo anglosassone e liberalismo continentale. Il binomio proprietà-libertà viene infatti attaccato quale stolido assioma, creato da quel “matrimonio infausto tra naturalismo e positivismo statalista” che fu la Rivoluzione francese. In realtà, benché il paradigma proprietario della common law sia diverso da quello continentale, ciò non significa che in quel fascio di facoltà, poteri, soggezioni e obblighi il binomio proprietà-libertà non possa comunque trovare una sua conferma. Lo ricorda anche Carlo Lottieri nella sua cristallina introduzione al volume Il diritto dei proprietari: una concezione liberale della giustizia, edito da Facco/Rubbettino: la proprietà definisce l’ordine dei titoli legittimi. Null’altro. Il problema nell’assunto di Mattei è insomma a monte, nell’idea di una libertà liberale intesa come assoluta (la licenza di Hobbes) e di una proprietà liberale intesa come monade. In realtà, la riflessione libertaria- Rothbard su tutti- è la prima a ribaltare tale visione macchiettistica, riconoscendo la proprietà come limite. Un limite alla libertà altrui e un limite alla propria. In questo consiste il tanto vituperato “binomio”, che recupera così quella tara di dimensione relazionale, più volte lamentata da Mattei.

In conclusione, è vero che i diritti di proprietà non sono mai definiti una volta per tutte e che quindi pretendere di delimitare a priori le reciproche interferenze tra sfere proprietarie è spesso un atto ingegneristico sterile, d’altro canto è altrettanto vero che tale caleidoscopio di fasci e prerogative non può che trovare molti limiti in sé stesso (si pensi alla figura del residual claimant), senza quindi sfociare in un novero imprecisato, quasi “relativista” di pretese; come, ad esempio, quella del ladro che pretende di entrare in casa mia o quella del lavoratore che pretende di avere una qualche proprietà sul suo posto di lavoro. In parole povere, dire che la proprietà non è una monade non equivale  a dire che “tutto va bene”. A differenza delle cavillose norme sulle distanze, il divieto di immissio in alienum non può essere in sé e per sé derubricato a segno distintivo di quella concezione giusnaturalistica, “volta a concepire un sistema di proprietari titolari di diverse monadi non comunicanti”. Il divieto di immissio in alienum è corollario del concetto di proprietà privata. Se buttiamo a mare quello, buttiamo a mare la proprietà, sia quella “fisicista” continentale, sia quella “immateriale” anglosassone. A condividere in parte questo nichilismo di fondo v’è però anche l’approccio efficientista (e falsamente wertfrei) della Scuola di Chicago e del teorema di Coase, uno dei cui presupposti è l’irrilevanza della distribuzione dei titoli di proprietà. Allo stesso modo, il movimento delle enclosures nell’Inghilterra del XVIII secolo fu dettato da pure motivazioni di efficienza, che spesso si riverberarono in ingiustificate e brutali espropriazioni. Altro che liberalismo. In nessun conto fu tenuto l’homestead- il “preuso” si direbbe oggi qui da noi- dei piccoli coltivatori e allevatori delle campagne inglesi.

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Spiare la preda, di Gerardo Coco /2010/06/13/spiare-la-preda-di-gerardo-coco/ /2010/06/13/spiare-la-preda-di-gerardo-coco/#comments Sun, 13 Jun 2010 17:50:53 +0000 Guest /?p=6267 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gerardo Coco:

Si sono salvate banche, si sono salvati settori industriali. Ora si dovranno salvare gli Stati. Come si salveranno le economie? Si crede ancora che i governi possano riuscirci? Pensare questo significherebbe ammettere che i virus possano migliorare la salute umana.

Che i governi fossero dei parassiti lo si è sempre saputo. L’economia privata è la condizione della loro esistenza e il loro compito è inaridire questa forma permanente di ricchezza.

Adam Smith così si esprime sul governo:

“I paesi non sono mai impoveriti dalla cattiva gestione dei privati, mentre lo sono da quella dei governi. La totalità o quasi del reddito pubblico è impiegata nella maggior parte per mantenere il lavoro improduttivo. Quando questo aumenta in modo eccessivo, può consumare una quota così grande del prodotto nazionale da non lasciarne abbastanza per il mantenimento del lavoro produttivo che dovrebbe riprodurla…. consumare una parte così rilevante del reddito totale costringendo un numero così grande di persone ad intaccare i loro capitali è una violenta e forzata usurpazione”. (A. Smith, La ricchezza delle nazioni).

Tuttavia, scrive Smith, se

“le grandi spese del governo hanno senza dubbio ritardato il naturale cammino dei paesi verso la ricchezza e il progresso, esse non hanno però potuto arrestarlo.” (ibid.)

Ma ai tempi del grande economista e filosofo scozzese il debito (tutto lavoro improduttivo) del mondo civilizzato non viaggiava verso il 100% del reddito prodotto con la conseguenza di arrestarne il progresso. I titoli del debito pubblici che misurano l’entità di questo immane spreco hanno trasformato gli Stati stessi in subprime, ormai maturi per l’esplosione.

Nel Global Financial Stability Report dello scorso aprile, l’IMF scriveva chiaramente che “il rischio governo” è la minaccia per l’economia globale. I governi, osservava l’IMF, (carrozzone peraltro fallimentare ma bravo a scrivere rapporti) non solo si sono caricati di debiti inesigibili di istituzioni private, contratti con la complicità degli stessi governi, ma essendo questi ultimi malati di elefantiasi hanno la necessità di continuare ad indebitarsi per i prossimi anni. La situazione, concludeva candidamente l’ IMF, “potrebbe andare fuori controllo”…

Ma è già da decenni che è fuori controllo! Ora siamo alla resa dei conti.

I tagli di spesa, le misure, le manovre, le riforme annunciate e sbandierate per mantenere il controllo dei debiti, per lo sviluppo, sono solo specchietti per cacciare le allodole cioè per ingannare gli ingenui con lusinghe e prospettive di ripresa a patto che tutti si sacrifichino. Ma tutti già si stanno sacrificando, sono già stati sacrificati, hanno perso il lavoro, chi lo ha perso non lo ritroverà perché in condizioni di crisi e incertezza nessuno investe e interi settori industriali sono all’agonia.  Se fosse il governo ad “investire” aumenterebbe ancora di più il debito il che equivarrebbe a sparare sul paziente. Per ridurre l’esposizione in termini reali, i prodotti nazionali dovrebbero crescere molto più velocemente dei debiti per pagare quote capitale, interessi, e ammortizzare tutta la spazzatura che i governi hanno in pancia. Ma rebus sic stantibus, questo è impossibile.

Poiché la necessità di fondi illimitati costituisce la chiave di volta della politica economica degli stati assoluti occidentali, per risanare i debiti si applicherà il metodo di sempre: tassare.

Per cui, dopo aver devastato le economie, la loro mano avida si ficcherà in ogni angolo e fenditura della società ghermendo le spoglie dei cittadini. I governi stanno preparando nuove invenzioni e pretesti di tassazione e sorveglieranno la formazione del capitale e dei redditi come la loro preda. Infatti, i governi, da parassiti si sono trasformati in predatori che uccidono la preda allo scopo di cibarsene. D’ora in poi, il loro motto sarà “sorvegliare e punire” come dal titolo di un famoso saggio di Michel Focault sulla prigionia. I governi si sono appropriati dell’economia e i cittadini sono dei condannati, condannati a stipendiare un’amministrazione di burocrati e funzionari rapaci che non hanno eletto e che non vogliono, come accadeva una volta nei governi asiatici che li sottomettevano ad una confisca sistematica. Possedere ricchezze o essere sospettato di possederle comporterà il rischio non soltanto di vedersele portate via ma anche di subire maltrattamenti, vessazioni, galera.

L’obiettivo dei governi è stanare gli evasori. Ma, onestamente come si fa a condannarli se la morale è questa:

i contribuenti che subiscono danni devono pagare tasse inique agli stessi autori dei danni perché possano continuare indisturbati a farne altri. È davvero una morale depravata quella di voler far pagare le tasse non per erogare servizi utili ma per riparare ai guasti di una dissipazione e corruzione senza fine e freni.

Ma, si ripete, se le tasse le pagassero tutti, tutti pagherebbero meno tasse. Illusorio! Perché questo extra, prima o poi servirebbe a finanziare altra spesa pubblica e altra dissipazione. E’ una legge: Il costo della amministrazione statale cresce inesorabilmente sia nei governi di destra che di sinistra, indipendentemente da situazioni di sviluppo o recessione. Il costo ha una traiettoria incrementale. Si può eliminare un partito, un’intera classe politica ma mai di intere nomenclature amministrative predatorie. Alla fine i cittadini arriveranno ad accontentarsi del necessario per la sussistenza poiché avere di più significherebbe attrarre il predatore. Non è peregrina ormai l’ipotesi che gli Stati diventino i datori di lavoro di ultima istanza guidati da governi totalitari. Non si chieda pertanto protezione da parte del governo, ma la si chieda, con impegno civico, contro il governo.

Al diavolo quindi le nauseanti chiacchiere sulle riforme strutturali, sui chimerici pacchetti di rilancio, sugli incentivi, sulla stabilità (leggi: ristagno), sulle ridicole architetture e ingegnerie finanziare proposte con un’ insopportabile idioma da economisti da cattedra che, cercando di coprire la vergogna di un fallimento reale, mascherano con astuzie truffaldine (del tipo: tassare le cose e non le persone…) nuovi artigli per afferrare le “prede”.

C’è un’unica vera riforma da attuare: tagliare drasticamente le tasse sui capitali e sui redditi senza se e senza ma. Sono i capitali ad anticipare salari e stipendi, investimenti, a creare la domanda di lavoro e aumentarne la produttività. Tassare i capitali significa tassare i risparmi, scoraggiarne la formazione e diminuire la domanda di lavoro e l’occupazione. Sono capitale e profitti a consentire l’innovazione, a creare nuovi prodotti elevando gli standard di vita.

Tassare capitale e profitti significa non solo diminuire la domanda di lavoro ma equivale a tassare direttamente e indirettamente i lavoratori dipendenti ed indipendenti produttivi, cioè coloro che non solo reintegrano il valore del proprio consumo, ossia il capitale che li impiega, ma avanzano un surplus per mantenere l’amministrazione predatoria improduttiva che, non riproducendo un valore uguale al proprio consumo, deve essere mantenuta dalla produzione annua dei lavoratori produttivi.

Tagliare le tasse su capitali e profitti significa, invece, permettere alla piccola impresa di diventare media, e alla media di diventare grande, liberando le energie creative della società. Questo è lo sviluppo economico. Minimizzare il carico fiscale ai capitali ne arresterebbe la fuga e ne attirerebbe di nuovi rendendo i paesi più ricchi, aumentando, in ultima analisi, il “fondo” a disposizione per tutte le imposte e quindi il gettito complessivo. Non esisterebbe la caccia all’evasione e i capitali si accumulerebbero spontaneamente se i paesi non ne facessero oggetto di confisca ma ne riconoscessero il ruolo di motore di sviluppo. È il processo di accumulazione di capitale la chiave della prosperità e che ha permesso duecento anni fa la rivoluzione industriale. È il processo di accumulazione che ha permesso nel dopoguerra la rinascita delle economie e la cosiddetta rivoluzione del marketing, il pluralismo dei consumi, gli stili di vita, lo sviluppo della tecnologia, le infinite gamme di prodotti e tutto il benessere materiale e psicologico che ne è derivato. O si pensa forse che tutto questo lo abbiano creato i governi con spese pubbliche, deficit e indebitamenti?

È il processo di accumulazione che ha permesso ad una moltitudine di diseredati come i cinesi di trasformarsi in potenza economica, nel giro di una sola generazione. E questo, paradossalmente, è anche merito dei paesi occidentali che gli hanno fornito il capitale necessario allo sviluppo che nelle loro patrie di origine viene invece penalizzato.
Obiezione: bisogna colpire le rendite speculative, cioè tutti i proventi patrimoniali e dagli investimenti borsistici perché parassitari. Ma parassitari nei confronti di chi o cosa? Le rendite costituiscono risparmio e capitale e se si considera l’economia, schematicamente, come composta da due fondi, il “fondo capitale” ed il “fondo consumo”, il primo, al fine di alimentare il secondo, deve essere continuamente ricostituito dal risparmio altrimenti si imbocca la strada del sottosviluppo. Le famigerate rendite fanno parte del risparmio complessivo di un paese, che va automaticamente ad alimentare il suo fondo capitale, cioè direttamente o indirettamente attraverso la borsa, l’universo delle imprese che sono le istituzioni che creano e mantengono l’occupazione. Una tassazione punitiva non le ridistribuirebbe a favore della produzione ma a beneficio del predatore. È la rendita perpetua degli governi, garantita dagli iniqui regimi impositivi, ad essere parassitaria perché consuma il fondo capitale altrui senza ricostruirlo.

La riforma per la liberazione dal fisco predatore non avverrà mai per iniziativa di questi governi ed il loro apparato repressivo continuerà nella sistematica opera di spoliazione dei paesi.

Venite pure avanti predatori! Fatevi sotto avvolti! Ma ricordatevi che non durerete a lungo perché, come dice un vecchio detto anglosassone non puoi divorare la preda e dopo averla ancora.

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Epicèdio sentimentale della bicicletta senza casco /2010/04/28/epicedio-sentimentale-della-bicicletta-senza-casco/ /2010/04/28/epicedio-sentimentale-della-bicicletta-senza-casco/#comments Wed, 28 Apr 2010 08:18:17 +0000 Luigi Ceffalo /?p=5806 Ci stanno portando via tutto. Non ce ne accorgiamo ma ci stanno portando via tutto. Legge dopo legge. Codicillo dopo codicillo. Emendamento dopo emendamento. Senza troppo chiasso. Perché quando si tratta di dar del danno non c’è uno straccio di opposizione, non c’è un surrogato di corrente (né antica né moderna), non c’è un facsimile di movimento: niente. Ci stanno portando via tutto. Non soltanto parte significativa del nostro tempo, non soltanto quasi metà del nostro reddito, non soltanto il 49% della nostra libertà. Ci stanno portando via tutto. Non soltanto il nostro presente fatto di quotidiani affanni burocratici, di continue batoste fiscali, di onnipresenti insensati divieti e obblighi. Ci stanno portando via tutto. Non soltanto il nostro passato fatto di valori, tradizioni e consuetudini troppo genuine per essere compatibili con spietati programmi ministeriali di solidarietà pubblica e dunque laica. Ci stanno portando via tutto. Non soltanto il nostro futuro e quello dei nostri figli che dovranno vedersela con uno dei debiti pubblici più grandi del mondo, un sistema previdenziale insostenibile e in generale un’economia (e quindi una società) al collasso.

Ci stanno portando via tutto. Non soltanto ciò che abbiamo. Ci stanno portando via tutto. Anche ciò che siamo. Siamo stati creati intelligenti, capaci di badare a noi stessi, in grado di valutare i rischi e le insidie della vita. E ora stiamo forzosamente diventando stupidi, pavlovianamente dipendenti dallo Stato, senza facoltà di discernimento. Dio ci ha creato responsabili; il parlamento ci sta facendo irresponsabili. Per legge non possiamo anzi non dobbiamo più pensare alla nostra salute. Siamo tenuti invece a sottoscrivere una polizza in bianco al sistema sanitario nazionale. Pagando un “premio” che si fa sempre più alto in funzione degli insaziabili appetiti dei nostri governanti. Prima è stata la volta dell’obbligo di cintura in macchina; e superficialmente abbiamo detto: “sì, in effetti ci sono tanti incidenti, forse vale la pena di patire sempre quel terribile fastidio al collo: tanta gente avrà salva la vita e forse anch’io”. Poi è toccato all’obbligo di casco sui motorini; e abbiamo ancora giustificato l’imposizione riflettendo: “eggià, quanti ragazzini potrebbero farsi male e perfino lasciarci la pelle: son pur sempre veicoli motorizzati che possono raggiungere 50-60 Km/h…”. Quindi a essere finito nel mirino dei legulei salutisti è stato il fumo e ancora abbiamo supinamente concluso: “beh sì, il fumo è cancerogeno, non è poi così grave che nei locali (privati!) destinati al pubblico non si possa fumare, lo si può sempre fare fuori senza troppi incomodi”.

Ma adesso a essere bersaglio del parlamento è pure la bicicletta. Anche per guidare il caro vecchio velocipede a pedali l’uso del casco sarà coatto a pena di sanzione. E allora pensiamo alla nonna che ci accompagnava all’asilo sul portapacchi della “Graziella” con in testa solo un coloratissimo “mandillo” fiorito (che le aveva insegnato a portare sua madre e che non aveva dismesso perché aveva avuto la fortuna di andare a scuola solo fino alla terza elementare). Pensiamo a come allora ci sentivamo sicuri: di certo più sicuri di quanto ci potremo sentire con tutti i caschi omologati del mondo. Pensiamo poi alle prime scorribande adolescenziali che nella bicicletta hanno trovato non solo un mezzo ma anche una filosofia, quella dei primi allontanamenti senza la presenza talvolta ingombrante dei genitori, che in futuro saranno seguiti da contravvenzioni e sgridate. Pensiamo agli amori della gioventù, a quanto era bello portare “in canna” la fidanzatina che si è amata come nessuna poi mai, affrontare insieme l’aria che si infrangeva fra i capelli e la vita che ci si mostrava per la prima volta nella sua compiuta bellezza. Pensiamo all’importanza di potersi muovere privi dei soldi per la benzina o per il biglietto della corriera senza la paura ansiosa di dimenticare o vedersi rubato un ignobile elmetto di plastica. Pensiamo a tutto questo, e anche ad altro. Pensiamo a quanto siamo stati fortunati a non appartenere alle generazioni che verranno dopo di noi, vittime innocenti della insensibile dittatura del codice della strada. E ci prende un’assurda nostalgia. Vorremmo gridare, berciare, vomitare qualche mala parola verso i responsabili della fine di tutto questo. Ma noi -uomini qualunque che non sappiamo cosa significhi qualunquismo e non ci importa punto nemmeno di saperlo- non lo faremo. Perché sarebbe cedere ai loro facili costumi. Sarebbe dargliela vinta.

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Uomini liberi, case inviolabili. Di Marco Romano /2010/03/23/uomini-liberi-case-inviolabili-di-marco-romano/ /2010/03/23/uomini-liberi-case-inviolabili-di-marco-romano/#comments Tue, 23 Mar 2010 11:06:49 +0000 Guest /?p=5477 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Marco Romano.


“Questa casa è inviolabile”, scrivevano spesso orgogliosamente sulla porta i cittadini di qualche città nei primi secoli di questo millennio: perché per essere tali, cittadini di una città, dovevano avere il possesso di una casa, e tuttora, se vogliamo trasferirci in una nuova città, un vigile urbano verrà a controllare per l’appunto dove abitiamo.

Se sulle facciate delle case la città ha una qualche competenza e una qualche giurisdizione perché il loro aspetto esteriore contribuisce, come del resto sappiamo per esperienza, alla sua bellezza – e per questo fin dal Cinquecento vengono costituite commissioni edilizie per controllarne la corrispondenza ai canoni stabiliti dagli architetti rinascimentali – la pretesa di legiferare sul loro assetto interno ha un fondamento dubbio.

È che in quello stesso periodo nascono imprenditori edilizi che costruiscono interi quartieri da collocare sul mercato, sicché diventerà necessario stabilire regole certe anche per questo settore merceologico – accanto a quelle minuziosissime che regolavano tutti gli altri settori – e poiché il costo dei terreni edificabili era già allora una componente rilevante del prezzo di una casa, occorreva stabilire quanto potesse venire costruito su ogni lotto.

Il sistema più semplice era quello di fissare in una strada nuova l’altezza del filo di gronda lasciando poi agli acquirenti di decidere come regolarsi con l’altezza dei piani: ma era un accorgimento praticabile nel caso di una strada tracciata con intenti monumentali – nella via Alessandrina a Roma o in via Maqueda a Palermo o nel Cours Belsunce a Marsiglia – che per venire esteso a tutta la città doveva venire generalizzato con una regola.

Quando nel 1666 Londra brucerà nel Great fire, nella sua ricostruzione tutte le strade verranno allargate secondo misure standard che evitino il propagarsi di un altro incendio di casa in casa, e per ciascuna larghezza verrà stabilita un’altezza massima calcolata in modo da rendere possibile la suddivisione dei fabbricati in un numero definito di piani con un’altezza prestabilita: è quello che vediamo in tutte le città, un meccanismo che tuttavia – seppure nella forma di una regola di mercato e di una normativa antincendio – introduce una giurisdizione pubblica sull’interno delle case.

Nel corso dell’Ottocento poi gli igienisti, constatando le dubbie condizioni sanitarie dell’edilizia corrente – le case operaie con un servizio unico sul ballatoio, gli interrati abitati, le stanze non sufficientemente aereate – promuoveranno regolamenti edilizi particolarmente minuziosi proprio sulla disposizione interna degli appartamenti: ora la casa non è più inviolabile, perché a nessuno è più permesso di adattarla liberamente ai propri desideri.

Ma è ormai venuto il tempo rivedere le nostre convinzioni e ridurre al minino essenziale sia le norme di carattere urbanistico – oggi in sostanza al rapporto tra i metri quadrati di superficie di fabbricato edificabile e i metri quadrati di terreno disponibili, anche se personalmente preferirei tornare al rapporto tra larghezza stradale e altezza dei fabbricati, che dà luogo a una città più bella e meglio vivibile – sia quelle edilizie, lasciando alla consapevolezza del mercato di decidere come tagliare i singoli alloggi.

Su questa strada sembra aver fatto benissimo il governo ad avviare una prima cauta liberalizzazione dei lavori interni a un appartamento o a una casa, bypassando le procedure per ottenerne l’autorizzazione. Ma occorrerebbe una più radicale liberalizzazione perché l’interno di un alloggio ritorni a essere il dominio della libertà individuale: in questo caso non occorrono controlli di congruità urbanistica – già conseguiti all’origine del fabbricato – e non si vede perché il suo proprietario non possa abbassare i soffitti a 2,26, l’altezza perfetta suggerita da Le Corbusier, di stringere i corridoi (e pazienza se non lasceranno passare la carrozzella di un infermo), di aprire il bagno su una stanza oppure di non chiuderlo affatto, di dormire in un locale più piccolo di otto metri quadrati, di aprire soltanto una finestra nell’alto di un sottotetto, e quant’altro i suoi desideri possano suggerire: il principio dell’inviolabilità del domicilio, connaturato alla democrazia millenaria della civitas e quindi al suo mercato – come sostiene Salvati – può venire incrinato per gravi e drammatici motivi (come quelli del tardo Ottocento) ma deve appena possibile venire ripristinato.

La cosa curiosa è la modestia delle reazioni corporative: gli architetti dovrebbero essere felici di essere ora in grado di proporre ai loro clienti soluzioni planimetriche e arredamenti finalmente liberi e fantasiosi, offrendo finalmente sul mercato la loro libertà inventiva, e invece li vedo trincerarsi dietro alla pretesa di essere migliori garanti di un capomastro della stabilità statica degli edifici da restaurare: poco, mi pare.

Marco Romano è professore ordinario di estetica (http://www.esteticadellacitta.it) della città. Il suo ultimo libro è “La città come opera d’arte” (Einaudi, 2008).

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Gli effetti perversi dell’Art.67 della Costituzione. Una risposta di Mario Unnia /2010/03/01/gli-effetti-perversi-dell%e2%80%99art-67-della-costituzione-una-risposta-di-mario-unnia/ /2010/03/01/gli-effetti-perversi-dell%e2%80%99art-67-della-costituzione-una-risposta-di-mario-unnia/#comments Mon, 01 Mar 2010 13:57:32 +0000 Guest /?p=5284 Riceviamo dal Prof. Mario Unnia e volentieri pubblichiamo.

Ringrazio i lettori che hanno commentato il mio intervento sulla proposta di cancellare l’Art. 67 Cost. da me ritenuto responsabile, non l’unico certamente, dell’involuzione della nostra vita democratica. Va da sè che una riforma della Carta dovrebbe andare oltre la soppressione dell’articolo in questione, e delineare un assetto costituzionale ‘alternativo’ ben più profondo di quello accennato nella mia proposta.
Il rischio che il paese corre non è il ritorno all’assemblearismo sessantottino o addirittura alla Comune di Parigi (semiseria questa seconda, delirante il primo): è invece la ‘manutenzione concordata’ di cui va cianciando la coppia Fini-D’Alema, e di cui c’è traccia in alcuni commenti ispirati dal buon senso riformatore.
Il mio scetticismo in proposito è totale. Al punto in cui siamo, la nostra Carta avrebbe bisogno di un ribaltamento, sia della parte ‘ideologica’, sia di quella normativa, ma questo richiederebbe una discontinuità forte. Le discontinuità forti sono date dalle guerre civili (non dimentichiamoci che la Costituzione è nata da una guerra civile) o dai ‘golpe bianchi’, tipo quello di De Gaulle che diede avvio alla Quinta Repubblica. Purtroppo, e sottolineo il purtroppo, non c’è nulla di tutto questo all’orizzonte.

Mario Unnia

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Dal giudice via libera alla coltivazione di mais ogm. E Zaia sragiona /2010/01/30/dal-giudice-via-libera-alla-coltivazione-di-mais-ogm-e-zaia-sragiona/ /2010/01/30/dal-giudice-via-libera-alla-coltivazione-di-mais-ogm-e-zaia-sragiona/#comments Sat, 30 Jan 2010 09:29:19 +0000 Piercamillo Falasca /?p=4984 Zaia dixit. La reazione del ministro pro tempore delle Politiche Agricole e Forestali alla sentenza del Consiglio di Stato – che, su ricorso dell’ottimo Silvano Dalla Libera di Futuragra, riconosce il diritto degli agricoltori di seminare varietà di mais ogm iscritte al catalogo comune, in linea con la normativa comunitaria – è di quelle che lasciano esterrefatti.
Secondo Zaia, il giudice amministrativo sconfesserebbe con la sua decisione la “volontà della stragrande maggioranza dei cittadini e delle Regioni italiane”. Tra questi, continua la nota del ministro leghista, “quegli agricoltori, ancora una volta la stragrande maggioranza, che non vogliono OGM nei loro campi, consapevoli, innanzitutto, che è il valore identitario delle loro produzioni ad essere messo a repentaglio, la fertilità del loro futuro”.
Non contento, Zaia aggiunge che la coltivazione e la commercializzazione di ogm determinerebbero una nefasta divisione dei consumatori “in abbienti che hanno la possibilità di alimentarsi con cibi biologici e certificati e di classi socialmente disagiate che devono adattarsi al cibo geneticamente modificato”.Il primo dei due argomenti del ministro è un concentrato di populismo, corporativismo e nazionalismo. Anzitutto, ciò che vuole la maggioranza degli italiani, a detta di Zaia, prevarrebbe sulle norme, con buona pace di secoli di fini discussioni sul primato della legge e cose simili. Il principio della dittatura della maggioranza si applicherebbe addirittura per la categoria degli agricoltori, dove i più (ammesso che siano tali, andrebbe verificato quanto il sentimento degli agricoltori sia coincidente con quello delle politicizzatissime associazioni di settore) dovrebbero essere in grado di limitare la libertà d’iniziativa economica degli altri. Il riferimento al “valore identitario” delle produzioni, infine, è un concetto che Mussolini avrebbe molto apprezzato.
La seconda tesi zaiana è degna di un trattato di microeconomia bolscevica. Immettere nel mercato prodotti a basso costo, soggetti a controlli di qualità rigorosi, costringerebbe i meno abbienti a mangiare cibi diversi dai sofisticati, costosi e chiccosi prodotti da agricoltura biologica, appannaggio dei ricchi. Or bene, da questo deriva forse che non consentire il commercio di ogm permetterà ai poveri di assaporare lo stesso cibo dei ricchi? Non potendo spendere meno, le famiglie con un reddito più modesto saranno quindi libere di spendere di più?
A marzo ci sono le elezioni regionali e Luca Zaia è il candidato della coalizione di centrodestra per il Veneto.

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