CHICAGO BLOG » libertà economica http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 La pianta del tè /2010/08/29/la-pianta-del-te/ /2010/08/29/la-pianta-del-te/#comments Sun, 29 Aug 2010 08:10:42 +0000 Alberto Mingardi /?p=6880 Oggi Washington è stata letteralmente invasa dagli ammiratori di Glenn Beck, per una manifestazione enfaticamente intitolata “Restoring Honor”, pensata a sostegno delle forze armate Usa ma anche dei valori di “fede, speranza e carità” incarnati da figure esemplari della società civile. L’evento è stato in prima battuta un fund raiser per la Special Operations Warrior Foundation – e poi un test per la popolarità del conduttore radiofonico. In diversi hanno associato questa manifestazione ai “Tea Party” ma effettivamente si è trattato di un evento molto diverso da quello che lo scorso 12 settembre ha visto un numero straordinario di americani correre nella capitale per dire il loro “no” alla cultura dei bail-out.

L’evento di Beck è stato una manifestazione bella e imponente. Il colpo d’occhio era spaventoso (vedete le foto nel post scattate col cellulare, ma anche e soprattutto quelle sul sito ufficiale), ad essere bella era la gente, i partecipanti.

Persone normali, pulite, semplici. Nonne e nonni coi nipotini, mamme coi passeggini, veterani e ragazzine acqua e sapone con una “Liberty Bell” tatuata a pochi centrimetri dall’ombelico. È vero, come hanno scritto i media mainstream, che era a dir poco difficile trovare un partecipante di colore (pur avendo navigato la folla in lungo e in largo, ne avrò visti sì e no una decina, di cui uno con la maglia di Balotelli). Ma è anche vero che c’erano persone diversissime, per età, background, e soprattutto reddito. Gente che per venire a Washington s’è fatta sedici ore di macchina, dormendo sul sedile posteriore. Madri di famiglia che nella capitale non c’erano mai state, e nel pomeriggio hanno preso d’assalto i musei. E smaliziati manager abituati a passare da un lounge d’aeroporto all’altro. Tutti assieme, confusamente, con un grande senso di solidarietà, una forma di rispetto profonda, riuniti da un’amicizia imprevista ma non banale. Non s’è sentito uno slogan razzista, ma anzi grandi applausi e profonda commozione nel ricordo di Martin Luther King.

Lo show (costato un paio di milioni di dollari) era tecnicamente perfetto. A me non era mai capitato di ascoltare Beck, ma non faccio fatica a capire perché gli riesca facile mobilitare tanta gente. Sul messaggio, si può discutere. Può piacere o non piacere. Nel mio caso, davvero non era “my cup of tea”: in quaranta minuti ho fatto il pieno di Dio, patria, famiglia e onore per i prossimi tre anni.

Detto questo, guardandosi attorno, interrogando questi “compagni di gita” e standoli a sentire,  l’impressione era davvero quella di stare in una manifestazione della “maggioranza silenziosa”.

La stessa maggioranza silenziosa che poi si è sciolta e riunita a grappoli per eventi più piccoli, quelli sì organizzati da gruppi vicini ai Tea Party. In questi eventi, anziché nominare Dio invano si faceva più modestamente ma anche più costruttivamente riferimento alla Costituzione e ai padri fondatori. L’obiettivo di queste organizzazioni è schiettamente politico: andare a influenzare l’esito delle elezioni di Novembre, all’interno del partito repubblicano di cui perseguono “un’opa ostile” (così Matt Kibbe e Dick Armey nel loro “Tea Party Manifesto”). Da alcuni punti di vista, l’enfasi “religiosa” di Beck fa persino pensare che la sua manifestazione sia stata un tentativo di fare rientrare nella politica americana proprio quei temi che i Tea Party avevano contribuito a mettere fra parentesi, focalizzando l’attenzione di nuovo sulle intrusioni dello Stato nella vita economica. Va detto però che gli appelli al Signore di Beck non sono in nessun caso diventati indicazioni politiche (pro o contro il matrimonio omosessuale, l’eutanasia, l’aborto….) – ma hanno preso piuttosto la forma di un richiamo etico-religioso.

Circa i patiti del tè: attenzione a non esagerare descrivendo come fossero una realtà omogenea i Tea Party, che invece sono contraddittori e plurali come inevitabilmente tutti i movimenti che crescono dal basso e restano acefali. Alcuni gruppi grass-roots (FreedomWorks e Americans for Prosperity su tutti) cercano di dare loro un’infarinatura di cultura politica, come ha ben documentato Kate Zernike sul New York Times, dopo aver partecipato ad uno di questi seminari). L’impressione è che effettivamente mobilitino persone che sono rimaste fino a pochissimo tempo fa “politicamente apatiche”. L’opinione pubblica, anche da noi, è nettamente divisa: da una parte gli ammiratori acritici, dall’altra gli animosi critici.

Avendo seguito una delle convention tenutesi a Washington in questi giorni, posso solo dare alcune impressioni:

  • i consumatori di tè tendono ad essere, almeno retrospettivamente, critici dell’amministrazione Bush – e alcuni di essi arrivano a leggere le scelte stataliste di Obama in sostanziale continuità con essa. In Italia, alcuni commentatori paventavano l’“isolazionismo” dei Tea Party. A me farebbe piuttosto paura la tendenza a difendere a scatola chiusa tutte le decisioni di politica estera della passata amministrazione repubblicana. Alcuni consumatori di tè lo fanno. Non tutti, per fortuna;
  • i consumatori di tè sono un gruppo molto eterogeneo, sia per età che per reddito. La cosa notevole però è che l’eterogeneità non produce la stessa “divisione del lavoro” che si vedeva in passato: i ricchi che ci mettono i soldi, i poveri che ci mettono le braccia. Al contrario. Anche fra persone di ceto elevato, c’è molta voglia di contribuire donando tempo e passione. Anche fra persone di mezzi modesti, c’è il desiderio di mettere il proprio, per quanto piccolo, obolo a disposizione;
  • i consumatori di tè sono un gruppo numericamente consistente. Se preferite l’opera ai concerti rock, è naturale che i loro meeting vi mettano un po’ a disagio. Il volume della musica  è molto alto, si tende a parlare per slogan, si urla e si applaude. Non troverete fra i consumatori di tè analisi politiche particolarmente raffinate. È normale. Perché un movimento di massa dovrebbe funzionare come un covnegno?
  • se c’è una cosa che unisce i consumatori di tè (anche nella variante del tè aromatizzato al Glenn Beck), è la preoccupazione per un fatto che risulta palmare quando vi mettete a girare per i tanti negozi che a Washington vendono merchandise politico. Quali che siano le sue posizioni in politica estera, Obama impersona come nessuno prima la “presidenza imperiale”. C’è un culto della personalità che travalica in manifestazioni imbarazzanti. Alla Union Station di Washington potete comprare un fumetto sulla vita di Barack, “child of hope”, e un libretto da colorare sulla “Obama family”. I bevitori di tè sono preoccupati dal fatto che un Presidente così popolare possa finire per accentrare e consolidare enormemente il potere;
  • i libertari da sempre sottolineano come sia irrazionale separare libertà “economiche” e libertà “civili”. È vero, ma è un dato di fatto che nella più parte del mondo le persone che desiderano pagare meno tasse sono anche quelle che vogliono che la marijuana sia illegale. Non sarà una grande prova di intelligenza, ma bisogna prenderne atto. Gruppi come FreedomWorks e Americans for Prosperity fanno un eccellente lavoro nel canalizzare queste energie sul fronte delle libertà economiche, cercando di far sì – il meccanismo è noto da tempo – che nei diversi collegi si affermino non solo dei “repubblicani”, ma dei repubblicani fiscalmente responsabili. È un meccanismo che estende per scala quanto in passato aveva già provato a fare il “Club for Growth”.

È possibile immaginare qualcosa del genere anche in Italia? Qualcuno ci sta provando – per esempio Tea Party Italia e il Movimento Libertario.

Inoltre, per ora, da noi manca l’evento catalizzatore: che in America è stato sostanzialmente lo “stimolo” obamiano. Inoltre, le differenze fra noi e gli Usa sono fin troppo ovvie. Rispetto al “metodo” (influenzare le elezioni collegio per collegio) è evidente che è impossibile pensare di procedere nello stesso modo, grazie alla nostra sciagurata legge elettorale.

Questa “maggioranza silenziosa” è tale perché è cresciuta in un orizzonte simbolico nel quale sono centrali Costituzione e Dichiarazione d’indipendenza. Al netto di qualsiasi, più approfondita discussione fra federalisti/antifederalisti, etc, queste persone leggono i documenti fondamentali della storia americana come un manifesto del governo limitato. Potranno giocare a fare i rivoluzionari, ma a tenerli uniti è l’idea che ci sia una “tradizione” degna di essere preservata. “Restore” America contro un “change” presuntuoso e socialisteggiante: ancora, al netto di qualsiasi “inquinamento” di quella tradizione politica che possa esserci stato dal New Deal in poi (non è certo Obama ad aver fatto degli Stati Uniti uno Stato tutto fuorché “minimo”).

Che dire? Il messaggio forse è semplice, ma il fatto che sia semplice non significa che non possa essere giusto. Gli obiettivi del movimento sono ambiziosi. Staremo a vedere se davvero i Tea Party riusciranno prima a fare eleggere dei candidati effettivamente sostenitori del governo limitato, e poi soprattutto se sapranno vigilare contro l’inevitabile tendenza al compromesso che quelli stessi candidati potrebbero sviluppare, una volta eletti.

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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/2 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni2/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni2/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:19:43 +0000 Alberto Mingardi /?p=6474 Stagnaro sottolinea come l’Indice si basi sempre su benchmark che non sono Hong Kong o Singapore, ma Paesi europei, che in qualche senso ci somigliano e dai quali è possibile imparare. Gli indicatori su cui viene valutato, rispetto al benchmark, ogni settore censito dall’Indice sono talora di natura qualitativa, talora quantitativi. A partire dai diversi indicatori, si definisce un “indice di liberalizzazione” per i diversi settori.

Questi ambiti dell’economia sono ritenuti rappresentativi dell’economia italiana e da questi quindici settori si arriva a una definizione del “grado di liberalizzazione” della nostra economia. Dodici dei settori censiti sono propriamente valutabili in termini di liberalizzazione (divisi fra settori infrastrutturati e settori non infrastrutturati), tre invece (PA, fisco, mercato del lavoro) fanno parte del quadro giuridico che influenza l’attività di tutte le imprese.

Quali sono i risultati di quest’anno? L’Italia è in parte un Paese dove vi sono assieme mercati “abbastanza” liberalizzati (sopra il 60% del benchmark europeo) e mercati molto poco liberalizzati (sotto il 40% del benchmark). Un esempio di dinamica positiva è il mercato elettrico: il grado di liberalizzazione è andato crescendo dal 2007 al 2010 (quasi +10 punti percentuali rispetto al benchmark britannico). Il mercato elettrico italiano oggi è radicalmente diverso oggi rispetto a prima dell’avvio della liberalizzazione, dieci anni fa.

In altri settori vale il ragionamento opposto. Per esempio il trasporto ferroviario: l’incapacità di risolvere i conflitti d’interesse in capo a Trenitalia, insieme all’aumento dei sussidi a vantaggio dell’impresa pubblica, ha prodotto paradossalmente un decremento della libertà economica nel settore (nonostante sul piano normativo in realtà esistano regole non peggiore che in altri Paesi europei).

Ci sono settori in cui c’è più libertà d’entrata di quanto si creda: i servizi idrici (il peggioramento rispetto al benchmark è dovuto al miglioramento del benchmark stesso). Ci sono settori in cui dovremmo prepararci alla liberalizzazione (i servizi postali: c’è la spada di Damocle di una direttiva europea), ma la classe politica fa lo struzzo…

ps: avete mai notato che Stagnaro ormai parla come un vescovo? (con l’autorevolezza di un vescovo, ma anche con il brio di un vescovo…)

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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/1 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni1/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni1/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:02:54 +0000 Alberto Mingardi /?p=6470 All’Hotel Four Seasons di Milano si presenta l’Indice delle liberalizzazioni 2010. Il Presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà ha avuto un problema dell’ultimo minuto, lo sostituisce Antonio Pilati (Componente AGCM). Coordina Daniele Bellasio,  ieri al Foglio ora al Sole 24 Ore, ed introduce dicendo parole belle sull’Istituto Bruno Leoni (grazie Daniele!). Apre il convegno Carlo Stagnaro, presentando i risultati della ricerca di quest’anno.

Carlo sottolinea come le liberalizzazioni siano “parte del gioco”. A dispetto delle oscillazioni del discorso pubblico, in realtà la riflessione sulla libertà economica non è uscita dal campo di gara, durante la grande crisi – e anzi diventa più cogente man mano che si addensano ombre scure sul futuro della finanza pubblica. Siamo alla quarta edizione dell’Indice: non si tratta di un grandissimo numero di osservazioni, ma se non altro cominciamo a poter vedere il “film” dell’apertura (o non-apertuura) di certi mercati, non ci limitiamo più a scattare “istantanee”.

Ma che cos’è una liberalizzazione? È un processo che porta alla rimozione di ostacoli di natura normativa, regolatoria, fiscale o parafiscale in un determinato mercato.  Liberalizzare significa soprattutto deregolamentare: vedasi il bel saggio di Peltzman in apertura dell’Indice di quest’anno.

Attenzione alla certezza del diritto: gestire l’incertezza politico-regolatoria è difficile da parte delle imprese, e aiuta solo quelli che sono in grado di “catturare” gli attori politici e i regolatori.

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Libertà economica. Italia meglio, ma sempre male /2010/01/20/liberta-economica-italia-meglio-ma-sempre-male/ /2010/01/20/liberta-economica-italia-meglio-ma-sempre-male/#comments Wed, 20 Jan 2010 08:17:43 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4846 Ai tempi del liceo, nulla era più crudele che veder la propria versione di greco valutata “3+”. Passi il 3: sapevi fin da principio che l’avevi fatta male. Ma quel benedetto “+” ti dava la sensazione della beffa. Ecco: l’Indice della libertà economica 2010, pubblicato oggi a cura di Heritage Foundation e Wall Street Journal in collaborazione, tra gli altri, con l’IBL, ricorda quel tipo di sensazione. Col 62,7 per cento, l’Italia migliora sia in valore assoluto (1,3 punti percentuali in più dell’anno scorso), sia in graduatoria (siamo settantaquattresimi, due posti avanti rispetto al 2009). Ma, appunto, restiamo classificati come “moderatamente liberi”, e davanti a noi stanno altri 73 paesi. Dietro di noi, in Europa, solo la Bulgaria.

La testa della classifica resta saldamente in mano a quattro paesi dell’Asia e del Pacifico – Hong Kong, Singapore, Australia e Nuova Zelanda – mentre i cambiamenti più clamorosi riguardano il mondo anglosassone: Stati Uniti e Gran Bretagna sono i due paesi che, in assoluto, vedono la propria libertà economica flettere in misura più significativa (-2,7 e -2,5 per cento, rispettivamente), in conseguenza del keynesismo anticrisi. Come conseguenza, gli Usa scendono all’ottavo posto, la Gb addirittura esce dalla top ten (assestandosi in undicesima posizione). All’altro estremo, spiccano la Polonia (+2,9 per cento) e il Messico (+2,5 per cento). Il fenomeno più importante, dunque, quest’anno sta nel radicale rimescolamento delle carte, specie nel gruppo dei paesi più liberi, che diventa sempre più europeo: nove dei primi venti paesi sono europei, e sette (Irlanda, Danimarca, Uk, Lussemburgo, Paesi Bassi, Estonia, Finlandia) stanno nell’Unione europea. Come europei questo ci riempie di orgoglio e di fiducia: come italiani, è deprimente, visto che noi restiamo fanalino di coda (è una scarsa consolazione che la Francia, 64,2 per cento, non se la passi molto meglio).

Torniamo, dunque, all’Italia. Il nostro paese soffre dei mali di sempre: una scarsa libertà fiscale (55,2 per cento, in discesa), una pervasiva corruzione (48 per cento, in discesa), una spesa pubblica disastrosa (31,2 per cento, in salita), e un’insufficiente tutela dei diritti di proprietà (55 per cento, in salita). Il miglioramento di 1,3 punti percentuali è attribuibile soprattutto ai modesti, ma significativi, progressi nella libertà di scambio e in quella di investimento: l’una è attribuibile largamente a politiche comunitarie, e quindi godiamo di un merito non interamente nostro; più o meno lo stesso vale per la libertà di investire, che risente positivamente del rigetto delle golden share imposto da Bruxelles.

Oltre a questo, vale la pena sottolineare un progresso relativo che l’Italia compie, anche se non si vede: mentre molte delle economie più libere arretravano, noi abbiamo tenuto grazie alla scelta di non cedere alle sirene degli “stimoli”. Come ha commentato Alberto Mingardi:

Siamo oggi un Paese più economicamente libero non per nostra virtù ma per vizio altrui. Viene premiato, con un piccolo segnale positivo, il buon senso di non aver messo in atto costosi piani di stimolo, ritornando a insostenibili posizioni keynesiane. Ma non è certo possibile accontentarsi. C’è una lunga china, tutta da risalire. E investire oggi sulla libertà economica è fondamentale per potere finalmente uscire dalla spirale del declino.

Quanto meno, dunque, possiamo vantare il successo di non aver perso terreno, quando molti altri – compresi quelli a cui guardavamo e guardiamo come shining cities atop a hill - hanno percorso la via lastricata di buone intenzioni. La consolazione, però, finisce qui: in valore assoluto restiamo molto meno liberi, e dunque quelle realtà, nonostante il degrado post-crisi, restano più attrattive e più libere. Vale la pena ricordare, va da sé, che quello che stiamo misurando qui è la libertà economica, non la ricchezza o la qualità della vita, che possono essere ancora maggiori in Italia rispetto ad altre realtà. Tuttavia, è nostra convinzione che vi sia un nesso molto forte tra la libertà economica (intesa come contesto) e la ricchezza e la qualità della vita (intese come risultato di quel contesto). Lo confermano le correlazioni, che restano molto alte anche nel 2010, tra la libertà economica e il Pil pro capite, la qualità della vita, la “felicità”. Ed è un monito importante quello che viene dalla correlazione, pure meno significativa nel breve termine, tra gli aumenti della spesa pubblica e la riduzione della crescita.

Queste dinamiche non vanno perse di vista, perché è probabile che nei prossimi anni si aggravino. Dal che può venire un vantaggio comparato per chi, come l’Italia, ha resistito. Ma solo se sapremo cogliere l’occasione per avviare quelle riforme, a partire da quelle fiscali, che possono curare le nostre malattie. Le ragioni, le spiega molto bene Terry Miller, curatore dell’Index, sul Wall Street Journal di oggi:

These trends are important because study after study shows a strong correlation between economic freedom and prosperity. Citizens of economically freer countries enjoy much higher per-capita incomes on average than those who live in less free economies. Economic freedom also has positive impacts on overall quality of life, political and social conditions, and even on protection of the environment. Perhaps of most significance in these hard times, Index data indicate that freer economies do a much better job of reducing poverty than more highly regulated economies.

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Il fumo tedesco? Un po’ più libero /2009/10/13/il-fumo-tedesco-un-po-piu-libero/ /2009/10/13/il-fumo-tedesco-un-po-piu-libero/#comments Tue, 13 Oct 2009 16:37:20 +0000 Giovanni Boggero /?p=3252 Una delle norme che spesso e volentieri viene citata per testimoniare la bontà dell’azione di governo di Silvio Berlusconi è quella voluta dall’ex Ministro della Salute Girolamo Sirchia: il divieto di fumo in tutti i luoghi pubblici ed aperti al pubblico, come bar, pub, ristoranti e così via. Citando John Stuart Mill, si è tentato addirittura di ricondurre tale legge al paradigma liberale. La mia libertà finisce, dove incomincia quella altrui. Un’ottima frase ad effetto che non significa nulla, perlomeno sinché non si definisce la libertà. Qui si crede che la libertà sia innanzitutto assenza di imposizioni arbitrarie, approvate da una maggioranza contro una minoranza. Ma non solo. Il liberalismo è liberalismo del tu, non dell’io, per citare le parole del bel saggio di Carlo Lottieri pubblicato in un ampio volume sul diritto naturale; ovvero non è da principi astratti (kantiani), bensì è nella cooperazione e nel rapporto con l’alterità che si scopre e si consolida la libertà del singolo.

Qui in Germania lo stigma affibbiato ai tabagisti di essere pericolosi corruttori della morale pubblica, è moneta corrente, ma fino ad un certo punto. Persino la Corte Costituzionale di Karlsruhe, lo scorso anno, ha deciso di difendere parzialmente gli amanti della bionda, decretando l’inammissibilità di alcune norme approvate in due regioni. Un passo coraggioso, giustificato con una parola che si ritrova anche nella Legge Fondamentale del 1949: Berufsfreiheit, libertà di esercitare la professione. In particolare per le Kneipen più piccole, ovvero per i pub con una sola stanza, il ripristino della libertà di fumo- parte integrante dell’ambiente di questi locali- non ha comportato un anarchico disprezzo per le sorti degli altri clienti. Molte Kneipen stanno tentando di trovare soluzioni originali, in grado di attrarre più fette di clientela contemperandone le preferenze. In Bassa Sassonia, ad esempio, alcuni gestori hanno deciso di loro spontanea volontà di restringere l’ingresso ai fumatori solo fino ad una certa ora. Una sera mi è persino capitato di trovare persone, disposte a spegnere la sigaretta o ad allontanarsi. La capacità del mercato, ovvero dei suoi operatori, di escogitare soluzioni variegate ed intelligenti esiste. La mannaia della legge imposta dall’altro è destinata inevitabilmente a frustrarla.

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Quando il liberismo c’è ma non si vede /2009/08/27/quando-il-liberismo-ce-ma-non-si-vede/ /2009/08/27/quando-il-liberismo-ce-ma-non-si-vede/#comments Thu, 27 Aug 2009 09:44:24 +0000 Guest /?p=2365 Riceviamo e pubblichiamo da Davide Chicco.

Non ce ne rendiamo mai conto, ma buona parte della nostra vita si svolge già ora sotto il segno della libertà economica, grazie a relazioni volontarie che individui e imprese intrecciano fra di loro. Forse non a caso, è spesso la parte più piacevole.
Un esempio “vacanziero”.  Sabato scorso mi sono recato a Bogliasco, vicino a Genova, per un evento promozionale organizzato dalla multinazionale australiana Billabong e da un negozio sportivo di Genova,, con ospite d’eccezione Andy Irons, surfista statunitense tre volte campione del mondo. Ci vado per stringergli la mano ma, serendipity!, rimango sorpreso da come l’evento è stato ben cucinato dagli organizzatori. C’è un piccolo stand sulla spiaggia, si regalano magliette, cappellini, costumi, portafogli ed altri gadget a decine a chi aspetta l’arrivo del campione, mentre si sbocconcellano aneddoti sulla sua vita. Nel tardo pomeriggio si presenta il tanto atteso campione, che, gentilissimo e disponibile, firma autografi a centinaia e posa con le persone le più diverse, venute a portarsi a casi una foto memorabile. Si conclude con una grigliata sulla spiaggia, mentre scorrono le immagini delle gesta di Irons. Tutto gratis, ma con l’obiettivo legittimamente autointeressato di far propaganda ad un marchio.
Organizzativamente, eventi come questo sono complessi: possono compiersi solo sotto il segno della globalizzazione, della libera circolazione non solo dei campioni portati sugli allori ma anche del merchandise (non crediamo certo che i portafogli fossero fatti in Australia, e non in Cina), delle persone che fattivamente rendono l’evento possibile, dei capitali che lo sostengono e, alla fine, delle merci che devono essere vendute e “giustificano” così queste promozioni in grande stile.
Parte della nostra vita è già così. Ma purtroppo, in tanti ambiti della vita italiana, non  tutti hanno la possibilita’ d’esprimersi come meglio credono per realizzare i propri obiettivi, ma abbondano gli ostacoli e le barriere create piu’ per sbarrare la strada ai volenterosi e ai talentuosi che per garantire il cosiddetto “bene comune”.

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