CHICAGO BLOG » libero mercato http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 La grammatica dell’oro /2010/09/29/la-grammatica-dell%e2%80%99oro/ /2010/09/29/la-grammatica-dell%e2%80%99oro/#comments Wed, 29 Sep 2010 10:09:52 +0000 Guest /?p=7171 Riceviamo da Gerardo Coco e volentieri pubblichiamo

Le politiche di stimolo all’economia americana, la generale instabilità delle valute, la crescita dei debiti sovrani e la persistenza della crisi economica sono i fattori che hanno portato la quotazione dell’oro sopra 1300 dollari. Poiché questi fattori perdureranno il prezzo dell’oro è destinato ad aumentare inesorabilmente. Ricordiamo che negli ultimi dieci anni il suo prezzo è quasi quintuplicato ed è raddoppiato dall’inizio del 2008 ad oggi, cioè da quando sono iniziate le politiche inflazionistiche per i salvataggi finanziari e bancari sia negli USA che nell’eurozona. Il prezzo del l’oro è il voto di sfiducia  nei confronti di governi che spendendo, indebitandosi e creando inflazione provocano l’inarrestabile deprezzamento delle valute. A questo riguardo l’ascesa dell’oro può essere interpretata considerandolo come moneta ombra e il suo prezzo come un tasso di cambio rispetto alle valute officiali. In altre parole l’oro, nonostante la sua completa demonetizzazione avvenuta quaranta anni fa, rappresenta ancora il denaro vero, lo strumento di pagamento e di estinzione definitiva dei debiti. Sta qui la forza del metallo giallo. Se in questi ultimi anni le aziende e i privati avessero convertito i propri bilanci in oro avrebbero avuto l’immediata e drammatica rivelazione dell’annacquamento che ha subito la ricchezza espressa nelle proprie monete di conto.

Quando una volta si parlava di “moneta” si faceva riferimento ad un bene economico, cioè ad una ricchezza prodotta.

Infatti al fine di misurare il valore dei beni economici e dunque di qualsiasi ricchezza, occorre necessariamente produrre un bene dotato di valore che diventi lo strumento di valutazione di tutti gli altri beni. L’oro era quel bene economico che raccogliendo in più larga misura i requisiti più importanti dello scambio divenne l’unità pecuniaria di riferimento e la misura di tutti valori. Questa sua funzione non sorse per convenzione o per intervento dello Stato ma fu il libero mercato, in un lungo processo storico, a selezionare questo metallo come il mezzo più idoneo e razionale per stabilire l’equivalente di ogni scambio, una misura sempre uguale e uniforme dei valori dei beni che la permuta o baratto nelle economie individuali, non permetteva. Affinché un sistema economico basato sulla divisione del lavoro si doti di una misura certa e stabile della ricchezza che produce, bisogna che ne consacri una parte alla circolazione e tale porzione deve possedere oltre alla caratteristica della utilità (ad es., industriale), quella della rarità. Così funziona la teoria del valore.

L’oro è quella forma di ricchezza utile e rara, rispetto alle quale tutte le altre ricchezze ancora oggi possono essere valutate e quotate.

Che sia stato l’oro ad assolvere in modo ottimale la funzione di mezzo di scambio fu dovuto alle caratteristiche di questo metallo: divisibilità, incorruttibilità, trasferibilità, riconoscibilità e infine un alto valore specifico poco variabile. L’oro è il metallo eterno portavalori nel tempo e nello spazio. Altri beni rari avrebbero potuto svolgere un ruolo monetario, ad esempio i diamanti, ma se essi si spezzano perdono il loro valore e non si possono dividere o fondere. Metalli come rame e nickel pur avendo requisiti monetari mancano di quello della rarità. La caratteristica più importante dell’oro è la stabilità del valore, il suo potere d’acquisto rispetto a tutti gli altri beni: esso non cambia la posizione reciproca dei contraenti e questo e tanto più importante quando ci si riferisce a contratti a lunga scadenza. 

E’ chiaro che tutti questi requisiti non possono essere la prerogativa delle monete fiduciarie in quanto esse non sono beni economici, cioè ricchezza prodotta, ma pezzi di carta a corso forzoso riproducibili senza limiti e pertanto, non superando il test della rarità, il loro valore è destinato ad evaporare come l’alcol.

Quando Nixon nel 1971 decise di sganciare il dollaro dall’oro, Milton Friedman predisse che il prezzo del metallo sarebbe crollato perché, pur permanendone la domanda per usi industriali, in assenza di una domanda monetaria, l’enorme stock d’oro esistente accumulatosi nei secoli ne avrebbe depresso il prezzo. Naturalmente si sbagliava e, negli anni 70 fu il dollaro a crollare mentre l’oro mantenne il suo valore. Friedman commise l’errore di credere che l’oro derivasse il suo valore dal dollaro mentre è vero proprio il contrario, perché il dollaro come qualsiasi altra valuta non è un bene economico ma una semplice unità di conto il cui valore è determinato dalle autorità monetarie e non dal mercato. L’oro, dunque ha conservato nel tempo la sua funzione di moneta anche se non in modo ufficiale.

Tuttavia, per quanto l’oro sia stata l’unità di valore di riferimento monetaria più stabile, non è un valore assoluto perché essendo un bene economico, il suo valore corrente è soggetto alle oscillazioni della domanda ed offerta. Ma esso differisce rispetto agli altri beni perché il supremo regolatore del suo valore è il suo valore normale, cioè l’elevato costo di produzione necessario per ottenerlo e verso cui tende sempre a ritornare. Il suo valore corrente, pertanto non può discostarsi in modo permanente dal suo costo di produzione. Infatti, in un contesto di circolazione metallica, se il valore dell’oro fosse superiore ai costi necessari per ottenerlo, una parte del capitale attratta dai profitti eccezionali si dirigerebbe verso l’industria di estrazione del metallo, ma facendone aumentare l’offerta, ne ribasserebbe il valore al livello del costo di produzione. Se, al contrario, risultasse inferiore a questo costo, nell’industria mineraria non si otterrebbero guadagni e l’offerta del metallo subirebbe una contrazione che ne farebbe risalire il valore. In sostanza in un regime aureo le variazioni del valore corrente dell’oro non avrebbero conseguenze diverse da quelle delle variazioni di qualsiasi delle migliaia di beni la cui produzione non è controllata dagli Stati ma è determinata dal libero mercato.

Tuttavia essendo costoso ad estrarsi, l’oro rappresentava un capitale distolto da altri usi produttivi più utili ed urgenti per l’economia per cui l’ideale era ottenere il massimo degli scambi con la minima quantità possibile di metallo. Per questo motivo nel passato si creò il biglietto di banca che fungeva da titolo di credito per il portatore nel senso che la banca si obbligava a pagargli oro dietro presentazione della banconota. Era ovvio che la banca per fronteggiare le richieste di conversione dovesse tenere una proporzione adeguata di riserva in metallo. Per cui la banconota pur non essendo il mezzo di pagamento definitivo, caratteristica esclusiva dell’oro, assolveva comunque alle sua funzione monetaria. Quando questo sistema di riserva aurea fu eliminato gradualmente al solo scopo di permettere allo Stato di espandere senza limiti la spesa pubblica e di indebitarsi per poi estinguere i debiti con denaro svalutato, ebbe inizio l’era dell’inflazione permanente, del deprezzamento delle valute, delle crisi e della distruzione del potere d’acquisto. Il denaro divenne l’attributo della sovranità degli Stati e non più del mercato e lo stock di moneta senza un valore intrinseco fu gestito monopolisticamente dalle Banche Centrali. Si volle far credere che l’oro era un relitto storico, che non dava garanzie di stabilità, che provocava deflazione e che il mercato monetario sarebbe stato più efficiente se guidato dai burocrati. Ma i fatti hanno dimostrato esattamente il contrario. L’oro è stata la moneta più stabile nella storia altrimenti non avrebbe svolto questa funzione per 3000 anni permettendo lo sviluppo della civiltà (l’impero bizantino durò 1000 anni e fu il più lungo periodo di stabilità monetaria della storia umana dopo che nel III secolo  l’impero romano d’occidente aveva tolto l’oro dalla circolazione, crollando poi nel IV secolo). L’apice del gold standard dell’era moderna durò cento anni dal 1815 dalla fine delle guerre napoleoniche, al 1914, all’inizio della prima guerra mondiale quando le banche commerciali sospesero la convertibilità in oro perché si doveva finanziare la guerra attraverso l’inflazione. Questo periodo è noto come la seconda rivoluzione industriale finanziata, per così dire, dal sistema aureo. Infatti i grandi incrementi di produttività che non furono vanificati dall’inflazione, consentirono la discesa dei prezzi e lo sviluppo di capitali. Pertanto la deflazione, che viene confusa, con conseguenze drammatiche, con la discesa dei prezzi, e che significa invece crollo dei profitti, riduzione della liquidità, incapacità di ripagare i debiti, è proprio quel fenomeno che l’uso dell’oro monetario ha sempre contrastato.

Ma questo non verrà mai ammesso dagli stati, dalle banche centrali e dalle burocrazie internazionali cioè a coloro a cui interessa il mantenimento dello status quo e che vedono nell’oro una minaccia: la restrizione del proprio potere e della capacità di spesa per prosperare alle spalle di chi produce.

Le crisi ormai sono un fenomeno endemico perché si vuole ignorare la scienza economica e il suo cardine, la teoria del valore.

Voltaire una volta disse che, fino a che le persone crederanno alle assurdità, continueranno a commettere atrocità. E lo scenario atroce che si profila non è solo la progressiva perdita del potere d’acquisto del denaro che si accompagnerebbe anche alla progressiva restrizione della libertà economica culminante con la confisca degli attivi e dei risparmi privati de jure and de facto a seguito dei default dei governi. L’altro aspetto sinistro dello scenario è che ormai il debito degli stati è così elevato che può essere risolto solo con un default. In altre parole il debito non può essere più pagato perché non esiste il mezzo di pagamento per estinguerlo. Si ha dunque urgentemente bisogno che il denaro torni ad essere prodotto dal mercato perché l’ipertrofia e la disfunzione dei governi sono incompatibili con le valute forti e “oneste”.

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Campioni d’Italia /2010/08/11/campioni-ditalia/ /2010/08/11/campioni-ditalia/#comments Wed, 11 Aug 2010 15:29:14 +0000 Camilla Conti /?p=6762 Ultima notizia dal libero mercato. Dopo l’acquisizione definitiva di International Power da parte di GdF-Suez, l’Inghilterra non ha più gestori di energia a controllo inglese. Il settore elettrico di Sua Maestà Britannica è ormai gestito da francesi, cinesi, tedeschi e spagnoli. L’operazione con cui GdF si è portata a casa il 70% di International Power, creando un gruppo che, nelle intenzioni, dovrebbe diventare il primo al mondo, con posizioni di leader nelle regioni a maggior crescita, come l’America Latina, il Medio Oriente e l’Asia, non è stata commentata dal governo inglese. Viceversa il premier francese, François Fillon, ha dichiarato che una tale operazione industriale “dimostra la vitalità delle grandi imprese francesi, in un settore particolarmente strategico”. Entusiasmo prevedibile, anche perchè GdF è finanziata in maniera sostanziale dallo Stato , che ne detiene il 35%.  Anche la Francia ha aperto il suo mercato dell’energia, ma è difficile pensare che lo lascerà passare sotto controllo straniero. E l’Italia? Ha ragione  fabrizio Onida a sostenere sulle pagine del Sole24Ore che tutti i Paesi attuano misure per favorire i propri campioni nazionali e attrarre investimenti. Non c’è alcun motivo per scandalizzarsi: che male c’è se lo facciamo anche noi? In realtà, come ben dimostra l’operazione Gdf, ci sono due Europe: quella francese, che sostiene i campioni, ma anche quella britannica che al contrario non ha mai esitato troppo a cedere le sue utilities. Per quanto ci riguarda, l’Italia ha assistito a un’irruzione nel mercato nazionale dell’elettricità grazie al portage fatto fare, anni fa, dalle banche alla Fiat degli Agnelli a favore di Edf su Edison. Irruzione che oggi si sta praticamente sciogliendo nella vicenda A2A. Nel nostro caso il nodo principale da sciogliere è la politica industriale sul nucleare. Se i progetti allo studio rimarranno solo sulla carta, allora l’azionista pubblico si dovrà porre il problema di spingere Enel non solo a ridimensionare il debito per continuare ad assicurare i dividendi allo Stato. Ma anche ad accelerare lo shopping mondiale. Stesso discorso vale per Terna che ha un debito risibile e oggi potrebbe finanziare importanti acquisizioni con mere operazioni di mercato a basso costo. Perché campioni non si nasce, ma si diventa.

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Un mondo più uguale /2010/01/24/un-mondo-piu-uguale/ /2010/01/24/un-mondo-piu-uguale/#comments Sun, 24 Jan 2010 09:30:30 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4913 A noi piace sempre mettere l’accento sull’efficienza. Il mercato e la globalizzazione ci piacciono perché sono giusti – nel senso che valorizzano la libertà individuale – e perché sono efficienti – cioè massimizzano la ricchezza prodotta. Ma sono anche equi? L’obiezione è frequente e diffusa. L’ultimo esempio, seppure molto specifico, sta nelle parole di Giulio Tremonti, che ha negato la possibilità di tagliare le tasse in nome della lotta alla “macelleria sociale“. Queste obiezioni ora devono fare i conti con un avversario imprevisto: la realtà. La globalizzazione ha ridotto, non aumentato, le diseguaglianze sociale. Lo spiegano, numeri e dati alla mano, Maxim Pinkovskiy e Xavier Sala-i-Martin in questo articolo su Voxeu, che riprende le conclusioni di un loro corposo paper.

Dall’analisi delle evidenze disponibili sulla distribuzione dei redditi, Pinkovskiy e Sala-i-Martin trovano che non solo la povertà, intesa come massa di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, si è ridotta in misura straordinaria, tra il 1970 e il 2006. Questo già lo sapevamo (anche se è bene ricordarlo). Si sono ridotte anche le disuguaglianze, sia misurate attraverso i quintili di reddito, sia attraverso il coefficiente di Gini. I due grafici sotto, che riportano la distribuzione del reddito nel 1970 e nel 2006 per il mondo e per aree geografiche, non hanno bisogno di commenti.

L’osservazione di questi fenomeni non è priva di un sostegno teorico: i meccanismi di mercato tendono a creare ricchezza diffusa, perché favoriscono la mobilità sociale e, grazie alle pressioni competitive, rendono anche gli strati sociali meno abbienti dei mercati attraenti (e dunque li rendono più ricchi). Un aspetto molto significativo dello studio è che, ovviamente, esso doveva fare i conti con una modellizzazione non facile, in particolare per l’indisponibilità di dati sistematici e sufficientemente dettagliati, e per i difetti intrinseci dei dati stessi. Normalmente la distribuzione dei redditi viene valutata conducendo interviste, e questo può portare sia a sovrastimare la povertà (per esempio considerando solo i redditi formali e in moneta, non quelli informali e in natura) sia a sottostimarla (perché è difficile rintracciare i poveri, e trovare da loro una disponibilità a parlare, specie nei paesi poveri). Allo stesso modo, possono sottostimare la ricchezza (perché i ricchi sono normalmente meno disponibili e tendono a sminuire la loro ricchezza). Insomma: i quintili più alto e più basso tendono a essere i meno accurati, pur essendo – per certi versi – quelli più interessanti. L’aspetto veramente forte dello studio è dunque questo:

our methodology allows us to conduct a thorough stress-test of our results to alternative assumptions. World poverty and inequality fall markedly for all the variations we try.

La globalizzazione e il mercato servono non solo a creare ricchezza, ma anche a distribuirla in modo più diffuso. Saperlo rafforza le nostre convinzioni, e indebolisce le posizioni di quanti difendono lo status quo.

(Hat tip: Moro, Topa e Brusco)

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Creazionisti, evoluzionisti e mercatisti /2009/12/03/creazionisti-evoluzionisti-e-mercatisti/ /2009/12/03/creazionisti-evoluzionisti-e-mercatisti/#comments Thu, 03 Dec 2009 09:26:22 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=4103 Come dice Matt Ridley, in un articolo pubblicato su The Spectator, “se il mercato non ha bisogno di un pianificatore centrale, perché la vita dovrebbe necessitare di un artefice intelligente?”. Naturalmente si tratta di una semplificazione, ma fino a un certo punto. L’ordine spontaneo creato dal mercato ha molte analogie con quello che è il portato della selezione naturale, un modo di procedere per tentativi ed errori che spontaneamente e casulamente porta all’evoluzione biologica degli esseri umani. Ma se mercatisti e darwinisti dovrebbero andare a braccetto, perchè il più delle volte succede il contrario? Non che il dibattito in Italia non ci sia. Il “processo della scimmia“ dagli Stati Uniti è arrivato fino a noi. E da allora si sono creati due schieramenti: chi per riconoscere al creazionismo una certa scientificità, chi a dire che solamente l’evoluzionismo può dare spiegazioni scientifiche. Non manca anche la posizione terzista: sostenere le ragioni di una regia dall’alto non vuol dire escludere l’evoluzione.
L’ultima pietra dello scandalo, riportata da alcuni giorni sui quotidiani italiani, riguarda la pubblicazione degli atti di un convegno che coinvolge il vice-presidente del Cnr. E, allora, di nuovo a spaccarsi in due gli schieramenti: chi di qua, chi di là. Ma chi sta dalla parte del libero mercato (almeno a parole) non ne vuol sapere di sostenere le ragioni dell’autore dell’Origine della specie.
Un libro appena uscito per IBL Libri (e presentato ieri a Milano da Gilberto Corbellini, Oscar Giannino e Armando Massarenti) spariglia un po’ le carte. Udite udite: un economista liberista (o libertario, come preferite) che parte da un approccio evoluzionista per analizzare il rapporto fra le predisposizioni evolutive degli esseri umani e le società complesse in cui viviamo oggi. In realtà, quello che Rubin ha fatto con La politica secondo Darwin non è un caso isolato. Anche un’altro studioso, di area conservatrice (nell’accezione statunitense), ovvero Larry Arnhart, ha scritto un importante volume (Darwinian Conservatism) difendendo l’impostazione evoluzionistica, che porta acqua al mulino dei sostenitori dello small government.
Credo che il grosso merito di volumi come questi, oltre a sostenere la causa dell’evoluzione non pianificata dall’alto, sia quello di porre un argine nei confronti dell’invadenza dello Stato. Nel dibattito fra natura e cultura (ovvero, quanto c’è di innato nell’uomo? E quanto c’è di appreso dall’ambiente in cui si cresce?), spostare troppo l’accento sul secondo termine può risultare assai pericoloso. La concezione dell’essere umanano come tabula rasa – la convinzione cioè che al momento della nascita siamo come una lavagna completamente pulita (sulla quale si cominceranno a scrivere le esperienze della vita, cioè le esperienze che plasmeranno il carattere della persona) – ha portato a conseguenze catastrofiche. Nel suo libro, Rubin cita Lenin, a proposito di una sua affermazione che pretende di ravvisare nell’uomo una creatura completamente malleabile. Ma, senza andare troppo in là, a noi italiani basta il ricordo del regime fascista, e la pretesa del duce di forgiare l’uomo nuovo. Come uno scultore, Mussolini aveva la volontà di plasmare una materia ritenuta informe a suo piacimento. Questo modo di pensare è tipico dei regimi totalitari.
D’altro canto, porre troppo l’accento su una concezione innatista può portare a derive deterministiche e deresponsabilizzanti. Se siamo già programmati ad agire in un determinato modo allora il nostro comportamento sarà qualcosa di meccanico e di predeterminato. Rubin evita di giungere a tali derive, ma nello stesso tempo stabilisce, su solide basi scientifiche, delle tendenze presenti nel comportamento umano. Queste predisposizioni rappresentano una sorta di nocciolo duro, di tratti comuni che connotano il nostro agire. Naturalmente, poi, ogni persona è differente, e questo è il portato della diversità di geni che ognuno di noi possiede. Banalmente, uguali ma diversi. Inoltre, i nostri geni sono portati a “rispondere” alle sollecitazioni dell’ambiente. L’ambiente influisce nel modo in cui i nostri geni rispondono alle mutevoli circostanze.
L’individualismo, la cooperazione, l’altruismo, il senso religioso, l’invidia, ecc. sono predisposizioni (formatesi in tempi assai lontani) che caratterizzano ancora oggi gli umani, nonostante siamo passati dal vivere in piccole società composte da 25/150 individui alle nostre città multiculturali abitate da milioni di persone. La tesi di Rubin è che le nostre preferenze evolutive trovino maggiore appagamento nelle odierne democrazie liberali, e soprattutto negli Stati Uniti.  Non essendo un romanzo giallo, mi sono permesso di svelarvi la tesi (peggio sarebbe stato dirvi che l’assassino è il maggiordomo). Per approfondire il pensiero di Rubin, vi invito alla lettura del libro, cominciando dalla bellissima e articolata prefazione di Gilberto Corbellini.

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Ecco perché il progresso è una cosa bellissima /2009/10/01/ecco-perche-il-progresso-e-una-cosa-bellissima/ /2009/10/01/ecco-perche-il-progresso-e-una-cosa-bellissima/#comments Thu, 01 Oct 2009 07:05:08 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3046

(HT: Alex Tabarrok)

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Perché non sempre è meglio prevenire che curare /2009/07/02/perche-non-sempre-e-meglio-prevenire-che-curare/ /2009/07/02/perche-non-sempre-e-meglio-prevenire-che-curare/#comments Thu, 02 Jul 2009 16:16:09 +0000 Carlo Lottieri /?p=1323 Commentando su “L’Occidentale” la condanna inflitta a Madoff per la truffa colossale messi in piedi negli scorsi anni, Salvatore Rebecchini rileva giustamente che ora bisogna evitare

la facile ricetta che vuole regole più severe come soluzione del problema. Certamente una riflessione su eventuali fallacie del sistema si impone, ma la lezione più importante da trarre è che occorre massimizzare l’incentivo da parte degli investitori a verificare la reputazione dei soggetti a cui affidano i loro risparmi. Come d’altra parte occorre che i soggetti affidatari siano incentivati a promuovere e a investire in reputazione. Purtroppo il rischio di nuova e ulteriore regolamentazione è di obnubilare tali incentivi e indurre i soggetti all’acquiescenza, rifugiandosi nella più facile e meno onerosa strategia del tipo: “Adesso ci sono nuove regole e queste ci assicurano correttezza e onestà”.

Rebecchini riprende e opportunamente attualizza una lezione tenuta nei giorni scorsi da Jonathan Macey, persuaso che quanto più la regolazione invade lo spazio economico e sociale, quanto meno è avvertita la necessità di farsi una reputazione e – di conseguenza – di tenere comportamenti corretti: tali da dare effettive garanzie ai nostri interlocutori.

È un altro modo per dire che la moralità si sviluppa nelle società più libere e che la pretesa interventista di chi vuole prevenire ogni errore con una limitazione della libera iniziativa (e quindi con l’adozione di meccanismi regolatori) finisce per depotenziare quelle regole spontanee dell’interazione umana su cui maggiormente possiamo fare affidamento se vogliamo affrontare non del tutto disarmati la dimensione sempre strutturalmente aleatoria del futuro.

In talune circostanze si può affermare che “prevenire è meglio che curare”, ma questo non vale sempre. In particolare non vale dinanzi alla pretesa dei pianificatori della vita sociale di eliminare ogni rischio ed ogni errore attraverso una crescente compressione degli spazi di libertà.

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