CHICAGO BLOG » liberismo http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Quel duro conservatorismo travestito da “sociale” /2010/12/19/quel-duro-conservatorismo-travestito-da-sociale/ /2010/12/19/quel-duro-conservatorismo-travestito-da-sociale/#comments Sun, 19 Dec 2010 14:32:16 +0000 Oscar Giannino /?p=7868 Premessa. Parlerò d’altro, di mercato, Italia, e Corriere e Repubblica di oggi. Ma prima dirò perché non ho aggiunto commenti a chi al precedente mio post su Marchionne – chi fosse interessato, trova un mio ulteriore articolo sul tema, sul Messaggero di oggi – mi ha definito “trinariciuto liberista”, aggiungendo che urlo perché ho poche idee, e che ho anche seri problemi psicologici, e che infine non attaccherei i giornalisti di destra ma solo queklli di sinistra che fanno “eguali porcate”. Non l’ho fatto perchè i commenti non si riferivano al tema Fiat e Marchionne, ma alla puntata radiofonica sui radio24 in cui ho duramente criticato i direttori di quei giornali che, a proposito degli scontri di piazza il giorno della fiducia al governo, hanno per un giorno intero presentato la cosa proponendo ai propri lettori sequenze fotografiche nelle quali si avvalorava l’ipotesi che violenze e incendi nel centro di Roma fossero stati opera di agenti delle forze dell’ordine travisati, quando invece alla stessa ora in cui si selezionavano nelle redazioni i materiali fotografici per i siti e si chiudevano le edizioni del giorno dopo, veniva compiuta la scelta  di non pubblicare le foto che smentivano radicalmente tale tesi, comprovando il fermo del presunto agente travisato che invece era un minorenne manifestante. Ribadisco la durezza del mio giudizio contro quiei direttori, e ribadisco che l’ordine dei giornalisti – che vorrei abolito – se esiste dovrebbe  fare qualcosa, e non punire a senso unico. Se vi sfugge la gravità di quel che è avvenuto siete liberi di pensare che il matto sia io; se dimenticate che Feltri mi ha licenziato e che ho detto in radio, tv e per scritto che non mi riconosco nel giornalismo mazziere e muscolare filoberlusconiano, siete liberi e padroni di inveire conto di me e insultarmi, perché non siete tenuti a sapere che da sempre e coi fatti – facendomi cacciare o comunque andandomene da diverse testate – ho cercato di dare  prova e di volere un giornalismo moderato e sui fatti economici, civili e e culturali capace di proporre un’alternativa alta e di qualità al predominio della stampa sedicente liberale made in Repubblica-Espresso, sempre pronta a piegare i problemi di fondo a un giudizio politico contro questo o contro quello. Io sono però cresciuto in una città sconvolta dalla violenza per oltre 10 anni, Torino, perché negli anni tra il 1969 e il 1974 moltissimi intellettuali, giornalisti, uomini di cultura e del teatro, dell’università e delle accademie, iniziarono a dire anch’essi allora che le proteste potevano benissimo degenerare in violenze, visto il livello intollerabile delle risposte politiche che venivano dai governi democristiani di allora. L’effetto furono innumerevoli funerali e omicidi, una situazione completamente sfuggita di mano a tutti, nelle fabbriche come nelle scuole e università, situazione che poneva ogni settimana a chi stava nei licei ed era politicizzato ma odiava la violenza e la sua giustificazione intellettuale – come me , allora giovane repubblicano ugolamalfiano – il problema di denunciare o meno chi distribuiva molotov e pistole – pistole – ai minorenni che sfilavano e assaltavano sedi di partiti e luoghi o aziende simboli del capitalismo. Cari lettori del blog tutto questo non c’entra nulla con Berlusconi, comunque la pensiate. Tutto questo c’entra con una sola cosa, che è molto diversa. Se prestigiosi giornali e intellettuali ripetono l’errore dei primi anni 70, io penso che la mia esperienza di allora obblighi me ad alzare la voce per dire che è un errore gravissimo, e che non c’è passione politica antiberlusconiana che possa evitare a tutti – comunque votino – e massime se hanno grandi media in mano, di definire con precisione chuirurgica reati e delitti dove si compionio reati e delitti: assaltare i bancomat, incendiare veicoli privati e delle forze dell’ordine, pestare la gente per strada, tuitto ciò  è reato e delitto, e la protesta degli studenti e la comprensione verso di essa non devono e non possono  giustificare alcun ammiccamento. Tutto questo solo per dire che, se la cosa si ripresentasse, rifarò puntualmente quel che ho fatto e detto. E lo griderò ancora più forte, se necessario. Perchè io ai funerali, troppi funerali, ci sono andato, e l’ingegner Ghiglieno ammazzato per strada sotto i nostri occhi ce l’ho sempre in testa, come il povero studente universitario fuori sede bruciato vivo da una molotov sotto i nostri occhi per il solo fatto di essere andato in bagno prima di un appello in un bar a via Po, tacciato di essere “covo di fascisti”.  Veniamo al tema di oggi: il conservatorismo “sociale” sui grandi media, sul Corriere della sera. parlo degli articoli del mio amico Massimo Mucchetti, che conosco e stimo molto. E che continuerò a stimare anche dissentendo radicalmente da quanto scrive.

Gli articoli che ha scritto sul caso Fiat sono andati in crescendo, fino a chiedersi esplicitamente se ciò che va bene alla Chrysler debba andar bene all’Italia, se esista davvero il piano “Fabbrica Italia” di Marchionne, se la richiesta di regole nuove negli stabilimenti – più produttività ma in cambio di più salario detassato, parecchio in più, migliaia di euro che altrimenti non vanno ai lavoratori -  non sia solo una scusa teatrale, per non investire alla fine inItalia e abbandonare il campo, seguendo il nuovo orizzonte mondialista di una Fiat AUTO  mera azionista di Chrysler, forte in Brasile e Polonia ma con l’Italia ridotta a palla al piede. Non sono d’accordo su nulla, tanto meno che la risposta vera sarebbe adottare la cogestione alla tedesca: in Germania i sindacati hanno esattamente accettato tra 2002 e 2005 svolte di contratti aziendali come e peggio di quelli che Mucchetti respinge, perché in Germania si trattò di lavorare di più senza aumenti salariali, e tra 2002 e 2007 così la Deutschland AG aumentò di 17 punti la sua produttività manifatturiera abbassando al contempo di 13 punti percentuali il CLUP. Da noi, accadeva l’esatto opposto. E continuando a dire no a Marchionne, continerà ad accadere l’esatto opposto. Come Cisl e Uil hanno capito benissimo.

Oggi Mucchetti spiega ancor meglio quale sia la cornice delle sue critiche, parlando di Amazon che apre in Italia, ma proponendo a chi vuol lavorarvi di farlo da Paesi esteri, perché hanno tasse e regole del lavoro meno ostili di quelle italiane. Ed è a questo che bisogna dire no, scrive Mucchetti, perché questa mondializzazione che avviene grazie alla libera circolazione di persone, servizi e capitali serve gli interessi dei Paesi emergenti, ma uccide il ceto medio in quelli come l’Italia. E siccome gli italiani votano, dice Mucchetti, buisognerebbe che votassero contro chi propone di non erigere argini a questa barbarie.

Eugenio Scalfari, su Repubblica di oggi, fa il paio con gli interessi. Così, i lettori di Repubblica si vedono proposta la paradossale storiella di un euro a due velocità che sarebbe frutto della cospirazione delle nove maggiori banche mondali che pensano solo a come rilanciare la speculazione, individuando nell’euro il modo per continuare a fare utili arbitraggiando sui cds sovrani.

Berlusconi farà orrore – lo ripeto solo per evitare che lo ritiriate in causa. Ma queste visioni proposte dai due maggiori quotidiani italiani fanno rabbrividire. Sono una puntuale riproposizione del peggior conservatorismo economico-sociale che affligge il nostro Paese. Non è che si spieghi – lo fa benissimo Irene Tinagli oggi sulla Stampa – che al nostro paese, ai suoi giovani così privi di futuro come alle classi dirigenti così evidentemenre non all’altezza, che a tutti noi farebbe bene capire come è cambiato il mondo, e come uil cambiamento è ultreriormente accelerato dal opost crisi. E cioè che non è affatto scritto chy i Paesi avanzati perdano la priopria forza e reddito procapite, se capiscono – come la Germania -  che anche con l’esplosione della crescita dei paesi a basso costo della manodopera si resterà forti puntando sull’alto capitale umano e sulle tecnologie, su sistemi di formazine basati sul solo merito e non sul posto agli insegnanti, su welfare più magri di risorse ma solo concentrate su chi è davvero svantaggiato e non come capita da noi alll’esatto contrario, con meno spesa pubblica e meno tasse come puntualmente hanno capito i britannici sotto il governo Cameron-Clegg. No, si preferisce dire che davanti a noi c’è solo il disastro dell’impoverimento, che le tensioni sull’euro non sono provocate da chi non ha capito e continmua a crescere troppo poco a spesa pubblica e tasse troppo alte, no a  volerle e anzi a crearle sono gli orchi cattivi della finanza e delle banche straniere, che per questo Marchionne  è del giro tanto lo sanno tutti che è canado-svizzero, e per di più si accusa chi non la pensa così di stare solo al caldo con le proprie rendite, e di perseguire il modello Ruby Rubacuiori berlusconiano. Si fa in fretta, dice Massimo, a dire ai figli degli altri che la loro vita sarà quella di fare i lavapiatti.

No, non si fa in fretta. Io due settimane fa ho indicato Londra a una nuova coppia di giovanissimi amici, motivatissimi e stracapaci, due giornalisti che hanno già malgrado la loro età verde esperienze estere senza essere figli di nessuno, ma mettono in conto di doversi fare un bel fondoschiena vista la situazione italiana dell’editoria.  Indico la via della formazione estera a moltissimi figli di coppie che conosco, senza che debbano essere milionari, perché nopn per tutti c’è la Bocconi come dice massimo, ma l’alternativa non è detto che sia la dequalificata università italiana pubblica dove – con tutte le numerose eccezioni – comunque impera l’idea che la formazione sia una mangiatoia per chi ci lavora e non una fonte di skills oper chi la frequenta.  Non aver paura del mondo nuovo e libero, e indicare ai figli find alla più tenera età la via di buttarcisi dentro per imparare a nuotar meglio, è la differenza tra chi pensa sia eternabile il sistema degli alti costi inefficienti italiani – dall’università al mercato del lavoro, dal funzionamento della Pa ai 28 mila precari assunti a tempo indeterminato in Sicilia la settima ascorsa con tutti i partiti d’accordo, fino ai 900mila euro stanziati due giorni fa dalla regione campania per dare la laurea di specializzazione a tutti i dipendenti dopo aver speso ancor più per quella magistrale, naturalmente senza frequentare nè dare esami se non all0′uinterno del palazzo regionale ah ah – e trra chi invece pensa che proprio la concorrenza tra ordinamenti pubblici e privati obbligehrà più presto che tardi anche il nostro paese, a canmbiare testa e idee, e a tornare ad essere quel che siamo stati in molte luminose parti della nostra antica e recente storia italiana, cioè capaci di affermarci nel mondo e di migliorare il nostro reddito procapite attraverso il meglio di cui siamo capaci, non di sdraiarci sui fasti del passato e dello Statuto dei lavoratori e di tasse e spesa oltre il 5905 del Pil come propongono Mucchetti , Scalfari e tutti i conservatori sociali. Votino per o contro Berlsconi- perché sono maggioranza da ambo le parti -  in realtà la pensano allo stesso modo, tranne dividersi su chi comanda.

Io capisco bene che all’Italia a basso reddito dipendente come ai giovani espropriati dei diritti insostenibili dei propri genitori – io vengo di lì, di lavori ne ho cambiati a decine da quando avevo 17 anni, casupole e abituri e città e paesi –   tutto quel che proponiamo noi possa sembrare una traversata nel deserto. Capisco bene dunque quale sia la presa, dell’appello “sociale” dei Mucchetti e degli Scalfari. Ma resta la domanda: perché tedeschi e  britannici lo capiscono, e da noi no? O meglio, lo capiscono per i fatti loro un bel po’ di milioni di italiani, quelli che reggono il Paese sui mercati continuando a fare impresa che esporta e se la batte malhrado tutti gli osctacoli, anche se non so fino a quando? Perché la differenza sta appunto nelle classi dirigenti, nei giornali e nelle università e tra gli intellettuali, ancor prima che tra i capipartito. Perché capipartito per merito e mercato verranno, solo se i pifferai del conservatorismo sociale appariranno col tempo meno autorevioli e  più smentiti dai fatti. Noi qui, microbi trinariciuti, lavoriamo per quello. Senza culo al caldo né Ruby Rubacuori, ma rapinati di tasse. Buona domenica a tutti.

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Il “Contro-Rapporto Monti” dell’IBL: per un’Europa più integrata dal mercato e più aperta al mondo /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/ /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/#comments Thu, 02 Dec 2010 21:16:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=7754 Qualche mese fa, su invito di José Barroso, l’ex commissario europeo Mario Monti ha redatto un rapporto intitolato A new strategy for the single market at the service of Europe’s economy and society , con l’obiettivo di indicare talune linee fondamentali di sviluppo per l’Europa di oggi e di domani.

Il rapporto contiene talune proposte ragionevoli e in particolare auspica una crescita del mercato interno, che faccia saltare le molte e talvolta assai alte barriere che impediscono una piena integrazione tra i vari Paesi dell’Europa a 27 e le loro distinte economie. Ma, al tempo stesso, il testo redatto da Monti contiene argomenti e proposte assai discutibili. In particolare, esso formula una netta difesa di vecchi vizi statalisti europei (specie in tema di welfare) e per giunta esprime una esplicita avversione per la concorrenza istituzionale: soprattutto in materia fiscale.

Per questo motivo l’Istituto Bruno Leoni ha pensato di predisporre una sua interpretazione del “rapporto Monti”, affidando a un gruppo di lavoro internazionale il compito di commentare – capitolo dopo capitolo – tutte le tesi contenute nel testo predisposto dall’economista italiano. Questo lavoro a più mani si intitola Il “Rapporto Monti”: una lettura critica (qui in italiano e qui in inglese) e ha potuto avvalersi del contributo di vari studiosi, italiani e no: Filippo Cavazzoni, Luigi Ceffalo, Luca Fava, Pierre Garello, Carlo Lottieri, Diego Menegon, Alberto Mingardi, Lucia Quaglino, Dalibor Rohac, Josef Sima e Carlo Stagnaro.

Il testo è stato presentato a Bruxelles oggi, 2 dicembre, nel corso di un seminario cui ha partecipato lo stesso Monti. L’obiettivo è stato quello di evidenziare i limiti delle proposte avanzate dall’ex commissario, non sempre coerenti con una visione autenticamente di mercato, sottolineando come la logica dirigista di molte tesi del Rapporto  ostacoli – al di là delle dichiarazioni e delle intenzioni – lo sviluppo di un’economia europea davvero dinamica, integrata e concorrenziale.

I temi essenziali della critica sviluppata dal “contro-rapporto” targato IBL emergono con chiarezza in questo passo, tratto dall’introduzione:

Dietro la riflessione di Monti si vede la proposta di un “grande scambio”: per costruire il mercato interno, gli Stati membri devono dotarsi di sistemi di welfare state sufficienti ad ammortizzare la transizione e sostenere il consenso; perché questo sia possibile, occorre perseguire un grande disegno di armonizzazione fiscale, volto a colpire sia la “concorrenza fiscale” all’interno dell’Ue, sia – a maggior ragione – quella dei “paradisi fiscali”.

L’analisi dell’IBL punta insomma a raccogliere la sfida del “Rapporto Monti”, per valorizzarne gli aspetti positivi, ma anche e soprattutto per sottolineare come un vero mercato non possa essere “unico” (e cioè ristretto alla piccola Europa), non possa basarsi su una tassazione e su una regolamentazione asfissianti (tratti caratteristici del modello welfarista “renano”) e non possa in alcun modo avvantaggiarsi da un’armonizzazione fiscale costruita dall’alto, che riduca quella pressione competitiva che finora ha impedito ai governi europei di espandere in maniera illimitata le loro pretese.

Se infatti le aliquote marginali delle imposte dirette sono significativamente calate un po’ ovunque (dopo che negli anni Settanta erano giunte a livelli altissimi, e non soltanto in Svezia), questo è stato dovuto non tanto a un cambiamento di orientamenti culturali (che pure in parte si è verificato), ma è stato soprattutto conseguente allo sforzo di quei ministri dell’Economia dei vari Paesi europei che hanno fatto il possibile per non perdere tutti i propri contribuenti più importanti. Quando i capitali si muovono e si trasferiscono altrove, che senso ha, infatti, tenere aliquote molto alte, se esse sono ormai prive di una base imponibile? Meglio portare a casa il 45% di 50 che il 90% di 5.

Su questo specifico punto sviluppa una riflessione molto sofisticata un altro lavoro discusso oggi a Bruxelles, anche’esso promosso dall?IBL, e cioè il saggio Tax Competition: A Curse or A Blessing? (qui in inglese, ma qui c’è una sintesi in italiano) di Dalibor Rohac, un giovane e brillante economista slovacco che oggi è un ricercatore del Legatum Institute e che qualche anno fa fu pure a Sestri Levante quale relatore di Mises Seminar organizzato dall’IBL. Avvalendosi della teoria dei giochi, nel suo studio Rohac mostra come un’armonizzazione calata dall’alto blocchi ogni processo di apprendimento e soprattutto ostacoli quel dinamismo degli attori che – sul medio e lungo termine – favorisce l’abbassamento delle aliquote e, in questo modo, aiuta a realizzare una migliore integrazione delle economie.

Un’Europa fiscalmente armonizzata, insomma, è destinata a diventare un vero inferno fiscale. Più di quanto non lo sia già oggi.

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Poche tasse, molte entrate. Perché l’Irlanda non vuole alzare le imposte sulle imprese /2010/11/25/poche-tasse-molte-entrate-perche-l%e2%80%99irlanda-non-vuole-alzare-le-imposte-sulle-imprese/ /2010/11/25/poche-tasse-molte-entrate-perche-l%e2%80%99irlanda-non-vuole-alzare-le-imposte-sulle-imprese/#comments Thu, 25 Nov 2010 20:03:13 +0000 Carlo Lottieri /?p=7689 Alle prese con gravi problemi di bilancio conseguenti alla decisione davvero improvvida di salvare le proprie banche e quindi costretta ad affrontare un deficit fuori controllo (superiore al 30% del pil), l’Irlanda sta studiando in vari modi come ridisegnare la propria economia. Ci saranno tagli alle spese e, soprattutto, vi sarà un massiccio aiuto dal resto d’Europa. Non è sorprendente che in questa situazione si inviti l’Irlanda a modificare le proprie regole in materia fiscale, in particolare accrescendo il prelievo sulle imprese, che oggi è tra i più modesti d’Europa, dato che è solo al 12,5%.

Da questo orecchio, però, gli irlandesi sembrano non sentirci, per ragioni che un recente intervento di Nicolas Lecaussin dell’Iref (Institut de Recherches économiques et fiscales) ha illustrato molto bene.

L’Irlanda è infatti il Paese europeo che ottiene le entrate fiscali maggiori. Può sembrar strano che aliquote limitate producano grandi attivi, ma è così. In questo caso non si tratta in primo luogo di portare la mente alla “curva di Laffer” (che evidenzia come la tassazione, oltre un certo livello, deprima la produzione e quindi finisca per comprimere anche le entrate tributarie), quanto invece di aver ben presente che siamo ormai in un’economia largamente basata sulla concorrenza tra sistemi fiscali, legali e regolamentari. E poiché molte attività hanno una forte propensione a spostarsi, è normale che si trasferiscano dove il prelievo è più modesto.

In questo senso, i dati sono eloquenti. Con un’aliquota del 12,5% l’Irlanda riesce a introitare il 3,9% del pil, mentre la Francia ottiene solo il 3% (nonostante una tassazione al 34,4%), la Germania il 2,1% (con una tassazione al 29,8%) e la vecchia Europa “a 15” il 3,4% (con una tassazione media del 23,2%). Senza questa limitata tassazione, l’Irlanda non avrebbe mai conosciuto lo straordinario sviluppo che ha avuto negli ultimi trent’anni.

Il boom della Tigre celtica è stato figlio in larga misura, infatti, proprio della lungimirante decisione di abbassare le imposte, i contributi sociali, la regolamentazione. E se ora a Dublino la situazione è divenuta drammatica, questo si deve al fatto che le banche irlandesi – come quelle americane – si sono lanciate in operazioni irragionevoli (dando soldi a chi non era in grado di restituirli) e poi alla “generosità” con il ceto politico è corso in loro aiuto.

Ora anche i Paesi europei hanno messo mano al portafoglio, per togliere l’Irlanda dai guai, ma l’hanno fatto anche al fine di premere sul governo dell’isola affinché cambia la sua fiscalità. Gli “inferni fiscali” del continente – Germania, Francia, Italia ecc. – non sono disposti a sopportare la concorrenza delle economia a limitata pressione fiscale, ma i dati sulle entrate e l’esigenza di guardare al futuro sembrano indurre gli irlandesi a non modificare il loro sistema tributario. Speriamo sappiano resistere a lusinghe e minacce.

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Perché da noi si mistificano i Tea Parties /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/ /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/#comments Tue, 09 Nov 2010 15:55:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7534 Ancora una volta, negli Stati Uniti il pendolo elettorale si è potentemente spostato. E ancora una volta lo ha fatto in una maniera che in Italia e nel più dell’Europa continentale risulta incomprensibile. Ve ne fornisco una modesta riprova.

Ho condotto un’indagine registrando sul mio pc 276 articoli dell’intero spettro della stampa quotidiana nazionale e locale italiana dal manifesto a Libero e comprese 15 testate locali più importanti, articoli dedicati alla presentazione delle elezioni di midterm nella settimana che ha preceduto le consultazioni, e oltre 350 nei tre giorni successivi, a commento del risultato. In queste elezioni la grande novità è rappresentata dalla storia e dalla posizione dei Tea Parties, che hanno invertito la polarità come il Contratto con l’America di Newt Gingrich fu la base del lunghi anni di Congresso repubblicano, da metà mandato di Clinton fino alla rivincita democratica sotto Bush figlio. Ebbene, su un totale di oltre 600 articoli, circa 480 davano conto dei Tea Parties come una rete potentemente sostenuta dalle grandi corporations, pressoché agli ordini o quanto meno astutamente strumentalizzata da Karl Rove – il mago della mobilitazione repubblicana sotto Bush padre e figlio – nonché come un movimento in cui abbondavano pazzi e spostati, razzisti del Sud armati fino ai denti, antiabortisti visionari e ballisti predicatori di castità come Christine O’Donnel, che ha finito per perdere disastrosamente in Delaware. Dettagliate e più corrette – a mio giudizio, naturalmente, non ho alcuna pretesa di parlare a nome di presunte “verità” – ricostruzioni dei Tea Parties come movimento che nasce si diffonde localmente, come protesta spontanea dal basso innanzitutto contro le politiche stataliste e salvabanche seguite da Bush figlio ben prima ancora che Obama vincesse le elezioni, prima del voto sono state offerte ai lettori italiani a malapena in una cinquantina di articoli, meno cioè del 10%.

Solo all’indomani del voto, la percentuale di analisi meno estreme dedicate ai Tea Parties si è leggermente equilibrata, soprattutto grazie a vittorie di personaggi di spicco come Marc Rubio in Florida, comunque descritto come politico di lungo corso abile nel cavalcare la protesta ma estraneo alla vera natura del movimento. Gli accenti già mutavano quando si passava alla descrizione di Rand Paul, il giovane oftalmologo vittorioso grazie soprattutto al fatto di essere figlio di Ron Paul, figura di riferimento dell’elettorato libertario pronto anche a candidarsi come indipendente nella gara per le ultime presidenziali, con proposte che in Europa lo fanno passare come matto quali l’abolizione della FED e il ritorno in sua vece al regime del gold standard. Tra parentesi, nella nuova Camera dei Rappresentanti a nettissima maggioranza repubblicana è proprio Ron Paul, il candidato senior repubblicano numero uno alla carica di presidente del sottocomitato alla politica monetaria che è l’interfaccia parlamentare al quale la FED di Bernanke risponde direttamente, visto che nell’ordinamento americano l’autonomia e l’indipendenza del regolatore monetario non lo sottrae a uno stretto regime di audizioni parlamentari, nelle quali i congressmen passano al setaccio le decisioni e gli orientamenti della banca centrale.

Commentando il voto nel mio appuntamento quotidiano con gli ascoltatori di Radio24, ho chiesto esplicitamente al direttore della Stampa, Mario Calabresi, che sul suo giornale insieme al Foglio di Giuliano Ferrara a mio personalissimo giudizio ha dato le informazioni più estese e corrette sui Tea Parties, se non pesasse un pregiudizio tutto italiano e per molti versi europeo, nel leggere i fenomeni spontanei della società americana attraverso lenti deformanti e spesso addirittura caricaturali. Mi ha risposto di sì, che anche nella sua esperienza di corrispondente dagli USA aveva spesso toccato con mano che questo pregiudizio c’è eccome.

Non è questione di malafede, o di voler artatamente leggere la politica americana con l’occhio italiano ed europeo, che è abituato a considerare i partiti politici come unici veri attori della politica e, di solito, con una forza o un polo a maggioranza moderato-cristiano alla quale si oppone un grande partito o un’alleanza progressista-socialista. Un doppio binario che negli States è fuorviante: perché lì la mobilitazione dal basso indipendentemente dai partiti è costitutiva dell’idea stessa dell’Unione, il socialismo non c’è mai stato, e l’impronta religiosa e cristiana vive e influenza pesantemente entrambe le basi e le dirigenze sia democratiche sia repubblicane, con accenti diversi ma a volte assolutamente trasversali su temi come l’aborto, la bioetica e la ricerca sulle cellule staminali.

C’è qualcosa di più profondo ancora del vizio politologico. E’ un difetto culturale, quello che tanto spesso ci impedisce di capire l’America profonda. Perché siamo pronti a comprendere l’America liberal, quella delle élite accademiche, mediatiche e e degli affari della costa orientale come californiana che da sempre costituiscono il bastione del pensiero progressista americano, favorevole all’intervento pubblico e alle politiche redistribuzioniste, alla forte impronta statalista nella sanità come nel campo ambientale. Sono quelle èlite, sommate a un forte scontento per la guerra in Iraq e in Afghanistan, che nel 2008 si mobilitarono per una riuscitissima campagna dal basso e di raccolta fondi online che risultò decisiva per la vittoria del primo presidente nero contro l’accoppiata McCain-Palin. Una vittoria della quale il primo fattore era l’elevata partecipazione al voto, perché tradizionalmente più si alza l’afflusso alle urne dei ceti a basso reddito, migliori diventano le chances dei democratici.

Ma come siamo tradizionalmente propensi ad avvertire l’impegno delle èlite progressiste americane come qualcosa di familiare a quanto avviene nella politica europea, restiamo invece diffidenti e incapaci di capire una mobilitazione dal basso che non passa affatto dalle élite e che anzi le contesta apertamente, a cominciare dal campo conservatore e da quelle del partito repubblicano. E’ esattamente questo il segno originale dei Tea Parties, che in tutti i sondaggi di cui i lettori italiani hanno letto poco o nulla hanno visto impegnati in maniera crescente elettori che si dichiaravano indipendenti fino a percentuali del 40%, meno lontani dai repubblicani ma comunque per un 16-17% dei casi dichiaratamente ex elettori democratici e non solo alle presidenziali per Obama, ma tradizionalmente al Congresso o per governatori dello Stato.

Che cos’è, allora, a impedirci di capire l’anelito libertario prima che liberista che viene espresso questa volta dai Tea Parties, ma che è una componente permanente e ricorrente dell’impegno civile americano fuori dai partiti e dalla lobbies, siano delle grandi banche che da decenni si sono “comprate” il regolatore USA odelle grande compagnie di ogni genere e settore, dal petrolio agli armamenti, dall’auto a Internet? Essenzialmente tre cose, tre valori, tre princìpi che sono fondanti per decine di milioni di americani nella loro vita quotidiana, prima ancora di ogni giudizio politico sull’amministrazione temporaneamente in carica. I tre princìpi riguardano la proprietà, la libertà e l’eguaglianza. Per moltissimi americani, queste tre parole hanno e manterranno un significato profondamente diverso da come suonano ormai a noi italiani ed europei.

Per noi, la libertà non è più minacciata da alcuna tirannide, e la proprietà privata costituisce non più un bene da affermare come diritto naturale pre esistente a qualuqnue pretesa dell’ordinamento positivo, dello Srato e della politica. La proprietà privata ormai da tempo, nel nostro Paese e nella generalità dell’Europa continentale e scandinava, è anzi un limite sempre più pesante al perseguimento dell’eguaglianza. Per milioni di americani al contrario, anche tra coloro a bassissimo reddito e con le qualifiche più basse nel mondo del lavoro – ce n’è un’infinità nei Tea Parties, non sono ricchi avvocati o rancheros texani – la libertà è per sua stessa natura non egualitaria, perché gli esseri umani differiscono tra loro per forza, intelligenza, ambizione, coraggio e per tutti i più essenziali ingredienti che contribuiscono al successo. Come ha scritto Richard Pipes nel suo bellissimo “Proprietà e libertà”, le pari opportunità e l’eguaglianza di fronte alla legge – nel senso enunciato da Mosè nel Levitico 24,22, “ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per il cittadino del Paese, poiché io sono il Signore vostro Dio” – sono non solo compatibili con la libertà, ma essenziali per la sua sopravvivenza. Ma la parità dei compensi e degli averi – tanto cara a noi – invece non lo è. Anzi essa è del tutto innaturale e pertanto raggiungibile solo attraverso la coercizione. E non c’è coercizione buona quando essa è esercitata in mille modi dagli incentivi e disincentivi pubblici o dalla fiscalità progressiva esercitata dallo Stato, perché al contrario tale coercizione stabilita e perseguita da chi esercita il potere per mandato elettorale risulta ancor più dispotica e inaccettabile di quella esercitata con la forza da un tiranno.

Per quei milioni di americani che si sono mobilitati nei Tea Parties gridando basta all’eccesso di debito pubblico acceso da Obama, ancora insufficiente per i liberals come Paul Krugman e potentemente monetizzato dalla ossequiente FED di Bernanke, l’uguaglianza redistributrice è subdola e inaccettabile perché alzerà ulteriormente le tasse, intaccherà ancor più gravemente le libertà naturali dell’individuo, attribuirà alle persone incaricate di garantirla una serie di privilegi che li innalzeranno ancor più al di sopra del popolo.

Un intero filone della storia americana continua a considerare l’eguaglianza come primo e vero nemico della libertà. E diffida dello Stato e del suo welfare invasivo. Per quegli americani, i diritti economici di libertà indidividuale – cioè la proprietà, e questo spiega anche il diritto a portare armi – resteranno sempre più forti dei diritti civili a un equo trattamento stabilito dall’alto. Per loro, la proprietà privata è l’essenza stessa della diseguaglianza, e al tempo stesso procurarsi una proprietà col successo personale è la più importante delle libertà.

L’Europa, dopo il crac della finanza ad alta leva che spingeva milioni di americani a procurarsi proprietà attraverso l’eccesso di debito, ha pensato che fosse venuto il momento di una vittoria epocale. Finalmente l’anelito proprietario e libertario americano era spezzato per sempre. Lo Stato e le sue politiche redistribuzioniste erano l’unica risposta, l’unica via alla civiltà che tempera l’individuo nel nome degli interessi generali. Che sciocca illusione roussoiana, questa europea. I Tea Parties ci dicono il contrario. L’America profonda sa che crescerà più e meglio di noi con meno Stato o senza Stato tra i piedi. Come è sempre stato. Per questo, del resto, negli USA per ogni cittadino che vive solo del proprio ce n’è non più di 0,6 che percepiscono un qualche reddito integrato o corrisposto dal settore pubblico, mentre in Europa la percentuale è più che doppia da noi, tripla in Francia e quadrupla in Svezia. NOI Siamo figli dell’idealismo organicista, in chiave solidarista cristiana o socialista. La maggioranza degli americani ne resta immune. Quando lo capiremo sarà sempre troppo tardi per noi. Perché, oltre a crescere meno, per questo errore culturale avremo anche subìto più del giusto gli effetti di un’egemonia americana che, nel mondo nuovo, è soggetta sì a potenti ridimensionamenti. Ma portati dalla Cina, non dalla vecchia Europa appesantita dalle sue illusioni.

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La vera bussola: l’orologio del terrore debito pubblico /2010/11/01/la-vera-bussola-lorologio-del-terrore-debito-pubblico/ /2010/11/01/la-vera-bussola-lorologio-del-terrore-debito-pubblico/#comments Mon, 01 Nov 2010 18:18:27 +0000 Oscar Giannino /?p=7429 Da qualche giorno sul sito dell’Istituto Bruno Leoni e su questo blog – in alto a destra – trovate una novità. Abbiamo deciso di introdurla proprio perché la situazione politica sta visibilmente e tangibilmente precipitando. Questa volta, fa molta fatica a funzionare il consueto meccanismo reattivo di addossare il tentativo di delegittimare il premier all’opposizione strenua di procure e media ostili – ci sono entrambi, a mio giudizio è un fatto costitutivo della Costituzione materiale italiana dacché Berlusocni è in campo, e lui le ha del resto anche deliberatamente alimentate con continuie sfide per polarizzare il Paese. Vedremo che avverrà della telefonata del premier al gabinetto della Questura di Milano, per rilasciare la minorenne Ruby dopo l’avviso personale dato al premier da una prostituta brasiliana. Da ormai vecchio osservatore della politica, mi limito a notare che questa volta l’accorruomo di tutto il centrodestra a difesa del premier fatica anch’esso visibilmente a scattare. La Lega è nervosa. Al Senato, dopo il documento dei 25, il Pdl da solo non sembra più di fatto avere una maggioranza autonoma dai finiani, come aveva pensato tre settimane fa. L’assenza di dibattito esplicito nel Pdl per la sua natura carismatica rende il partito soggetto, nelle malaparate, a improvvise cadute, fughe in avanti e fughe laterali di parlamentari e amministratori.  Quel che si diffonde d’ora in ora è una sensazione peggiore dell’incertezza: siamo tra il panico del che fare, e la rassegnazione sussurrata de ‘”l’avevo detto io”, tranne il fatto che a dirlo in pubblico al Capo non era stato naturalmente nessuno. Poiché in tali condizioni può avvenire in effetti pressoché di tutto, abbiamo deciso come liberisti antistatalisti di dare un piccolo contributo perché tutti – classi dirigenti come ogni singolo cittadino – abbiano una bussola sicura alla quale guardare. La bussola è il nostro spaventoso debito pubblico. Per questo abbiamo elaborato il contatore del debito pubblico italiano, che come vedete cresce di più di 2 mila e 700 euro ogni secondo che Dio manda in terra (vedte l’aggiornamento moltiplicato per tre perchè avviene appunto ogni 3 secondi). Ci stiamo dando da fare per installarlo in qualche piazza di grande città del Paese, a costo di cercare denari tra sostenitori volontari per ammortizzarne il costo. La rivoluzione della serietà italiana non può che partire dal basso. E per questo bisogna che ciascuno abbia ben chiara l’idea del debito pubblico che pende in continua crescita sulle nostre teste, e conosca minuto per minuto il pessimo regalo che ci fa la politica del famelico statalismo sciupone. Vi aggiungeremo un contatore individuale, ancor più esplicito dei troppi zeri dell’ammontare complessivo. Fin da ora vi diciamo: dateci una mano.

Naturalmente, non ci siamo inventati niente. Era il 1989, quando l’immobiliarista newyorkese conservatore Seymour Durst ebbe l’idea di installare un public debt clock all’angolo tra Times Square e la 42a Strada. Dopo l’interruzione per qualche anno, quando il debito inizio a ridursi, oggi è sulla Sixth Avenue. Seymour è morto da 15 anni, ci pensa suo figlio a continuarne la mabnuitenzione: dal’89 a oggi il debito pubblico USA è quadruplicato.  Sia per Bush figlio, sia per l’immensa botta di deficit pubblico di Obama. Quella che Paul Krugman giudica tutti i giorni insufficiente e inadeguata. E che mi auguro costi invece il controllo del Congresso ai democratici, nel midterm di domani.

Noi siamo tra quelli che pensano che debito pubblico e banche centrali che lo monetizzano siano la via alla stagnazione e all’instabilità. Una strada maestra è quella di tagliare la tanta pessima e inutile spesa pubblica, abbattere le tasse con energia e in maniera credibile – cioè in modo che famiglie e imprese non debbano temere che si gtratti di un esperimento a tempo dopo il quale le tasse risaliranno più di prima, per fronteggiare magari il deficit ulteriormente accresciuto. Per questo – assumendo come certo l’imperfettismo dell’uomo e l’inaffidabilità dei suoi impegni, e massime se è uomo politico – i tedeschi si sono messi un bel vincolo in Costituzione, al deficit e alle tasse. Io vorrei la stessa cosa.

Penso che la stragrande maggioranza degli italiani paghi altissime tasse senza rendersi conto davvero, di quanto immenso sia il debito pubblico e di quanto nulla si faccia per diminuirlo, e molto invece per continuare ad accrescerlo.  Per questo, a Berlino per esempio un analogo contatore sovrasta il portone di un’associazione di contribuenti, il Bund der Steuerzahler. Penso che da noi l’idea dovrebbe essere venuta ad associazioni d’impresa di tutti i tipi, industriali commercianti e artigiani, alle rappresentanze dei professionisti e dei lavoratori autonomi, delle partite IVA come agli stessi sindacati. Ma se non ce l’ha avuta nessuno, anche perché purtroppo la vita pubblica italiana è un continuo tentativo di assicurarsi per sé fette crescenti di risorse del contribuente con la scusa di questo o quell’incentivo, allora ci pensiamo noi.

Diffido e anzi dispero, che la politica italiana imbocchi la strada di una energica riduzione del debito pubblico e delle tasse. Le modalità concrete ci sono, ne abbiamo parlato e le abbiamo illustrate mille volte, dalla vendita del patrimonio all’uscita dal perimetro pubblico di grandi comparti di servizi che possono essere meglio roganizzati e offerti al pubblico se gestiti da privati e con personale privato, nel rispetto di rigorosi e semplici standard invigilati da autorità di settore.

Ma proprio perché la politica italiana non lo ha fatto finora e assai difficilmente lo vorrà fare ora, che a Berlusconi anzi si appioppa tra gli altri difetti anche quello di aver accresciuto di troppo poco il deficit pubblico, allora ecco a che cosa serve il nostro orologio. E’ un orologio del terrore che ci riguarda assai più da vicino di quello che misurava durante la Guerra Fredda il tempo che ci separava da una guerra nucleare. Di fronte al contatore del terrore fiscale italiano, una volta che le mettessimo in qualche piazza, ogni anno saremmo pronti a contarci il giorno in cui si finisce di lavorare per lo Stato ladro e corruttore, che spende e anzi in larga misura dilapida il 52,5% del PIl italiano. E a giurare ogni volta il nostro impegno a opporci, con parole e opere perché l’opinione pubblica capisca e reagisca, protesti e si ribelli. Saremmo in pochi all’inizio, inutile iludersi: ma è così che iniziano le rotture nella storia. Pochi apparenti pazzi, che svegliano con la loro testa dura il senno addormentato e rassegnato dei più. Perché non è lo Stato che fa l’uomo, come dannatamente si pensa ormai nel nostro Paese e i tutti quelli colpiti dall’ondata di statalismo keynesista, ma l’uomo lo Stato.

Ps: Una nota metodologica, per rassicurarvi su come sono elaborate le cifre dell’orologio del terrore fiscale. Abbiamo stimato il tasso medio di incremento stagionale, che correggiamo ogni mese sulla base dei dati Bankitalia del mese precedente. In sostanza partiamo dall’assunzione – rozza, per questo la dichiariamo – che se in passato il debito cresceva più nel mese x che nel mese y secondo gli andamenti del ciclo della spesa pubblica, anche in futuro probabilmente lo farà. L’errore però è contenuto perché, non appena esce il dato “vero” sul mese x, noi ne teniamo conto in 2 modi: a- correggendo manualmente il contatore (cioè se il dato vero è 100 e noi abbiamo stimato 99 o 101, inseriamo manualmente 100): in questo modo sappiamo che, qualunque errore dovesse essere riportato sul valore assoluto, non può durare più di un mese; b- usiamo il dato reale sullo stock del mese x naturalmente anche per correggere la stima sul tasso di incremento a venire.

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Il treno dei liberali, ovvero ricchezza per tutti/Di Giancarlo Maero /2010/08/18/il-treno-dei-liberali-ovvero-ricchezza-per-tuttidi-giancarlo-maero/ /2010/08/18/il-treno-dei-liberali-ovvero-ricchezza-per-tuttidi-giancarlo-maero/#comments Wed, 18 Aug 2010 13:46:26 +0000 Guest /?p=6827 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Giancarlo Maero:

Questa estate, una sera d’agosto, chiacchierando davanti ad un bicchiere di vino bianco con un amico socialista, in una taverna del Sud, mi sento dire: la società è come un treno che ha diversi vagoni e diverse classi. Io socialista vorrei un treno con un’unica classe, nel quale i passeggeri ricevono tutti gli stessi servizi; tu liberale, vorresti mantenere il treno diviso in diverse classi, con vagoni – i primi – per ricchi, altri per meno ricchi e gli ultimi per poveri.

Non nego che lì per lì il paragone mi ha un po’ spiazzato. Tanto che me la sono cavata rispondendo che la metafora del treno non mi pareva calzante e che, comunque, i poveri, che del “treno” della metafora se ne intendono, preferiscono salire sull’ultimo vagone del primo treno – quello diviso in classi -, piuttosto che sul treno con un’unica classe, sempre che su questo treno li lascino salire. Si trattava di una risposta istintiva e nello stesso tempo empirica, basata sull’esperienza che si ricava dall’osservazione. Una risposta che, però, mi ha lasciato insoddisfatto, come, credo, non abbia convinto il mio amico socialista.

Tant’è che il giorno dopo, mentre pedalavo all’ombra di un grande bosco, ho indirizzato il mio pensiero alla ricerca di una spiegazione, di un supporto razionale, alla risposta che avevo dato. E mi sono venuti in soccorso alcuni argomenti di cui ero venuto a conoscenza in questi ultimi mesi leggendo due bei libri, che si occupano di economia, diritto, politica, genetica ed evoluzione: La politica secondo Darwin, di Paul H. Rubin e Il gene agile di Matt Ridley. Due libri veramente molto interessanti.

Si racconta che i geni del nostro antenato, simile allo scimpanzé moderno, si siano formati in un periodo di circa 1,6 milioni di anni: il Pleistocene. Negli ultimi 40.000 anni del Pleistocene i nostri antenati erano cacciatori (i maschi)-raccoglitori (le femmine). E gli scambi erano limitati (anche se ne fu l’inizio, con conseguenze ritenute molto importanti) all’interno della coppia, oltre che destinati, naturalmente, al nutrimento della prole. In questa situazione il nutrimento era fornito esclusivamente dalla natura, con alcune conseguenze: che poteva sopravvivere solamente un numero limitato di animali per ciascuna specie, che poiché il cibo era limitato erano destinate a sopravvivere le specie più forti ed all’interno di ciascuna specie gli individui più forti (la situazione di homo hominis lupus) e, soprattutto, ai nostri fini, che ciò che cacciava e raccoglieva un nostro antenato veniva sottratto ad un altro nostro antenato, che vedeva pertanto ridotte le possibilità di sopravvivenza propria e dei propri figli e, di conseguenza, dei propri geni. E non c’è, allora, da stupirsi che sia stato lentamente selezionato nel patrimonio genetico dei nostri antenati un sentimento, utile in quell’era per la sopravvivenza, di rancore nei confronti di chi cacciando e raccogliendo più cibo ne toglie la disponibilità agli altri: l’invidia. L’invidia risulta dunque un sentimento utile per la sopravvivenza; e lo stesso uso della violenza (che ai giorni nostri inizia con la coercizione), che nell’invidia ha la sua fonte, ha una giustificazione nell’esigenza di sopravvivenza che è la situazione prima di ogni cosa che vive e che come tale va soddisfatta con ogni mezzo e rispettata.

Questo, dunque, in un’economia come quella descritta, fatta da cacciatori-raccoglitori, consistente in un’attività a somma zero. In cui, per tornare al nostro treno, i posti a sedere sono contati, ed i servizi che si possono avere sono ugualmente limitati: quel che ottiene un passeggero viene necessariamente sottratto ad un altro passeggero. Ma le cose sono cambiate negli ultimi 10.000 anni (dopo il Pleistocene). Per una serie fortunata di combinazioni i nostri antenati hanno cominciato a coltivare la terra a ad allevare gli animali. Ovverosia, hanno cominciato a specializzarsi nello svolgimento di attività dirette alla produzione di beni e servizi. Ed alla specializzazione – alla divisione del lavoro – è seguito lo scambio. Infatti, in mancanza dello scambio la specializzazione nella produzione di un bene – la divisione del lavoro – non avrebbe alcun senso. E, circostanza mai sufficientemente evidenziata, è proprio la capacità di scambiare beni e servizi, capacità che si è sviluppata, non a caso, parallelamente allo sviluppo di quella parte del cervello dei nostri antenati che ci fa “intelligenti”, che distingue la nostra specie dalle altre. Infatti tutti gli animali delle altre specie sono generalisti ed autosufficienti, incapaci di praticare lo scambio, e, prima ancora, di produrre beni e servizi.

Ed a partire dalla acquisita capacità di praticare lo scambio, da questo “miracolo laico”, in conseguenza del quale è felice chi dà e chi riceve, la situazione è completamente cambiata. L’attività degli uomini ha cessato di essere una attività a somma zero per cominciare a diventare un’attività a somma positiva. Ovverosia, l’acquisizione di un bene o di un servizio da parte di un individuo è diventata motivo di ricchezza per un altro individuo, e non più sottrazione di un bene o di un servizio ad un altro individuo. La ricchezza di una persona, dipendendo essenzialmente dalla sua capacità di produrre beni e servizi che le altre persone ritengono per loro utili al punto di essere disposte ad acquistarle o, in tempi passati, a permutarle con beni da loro prodotti (ma è la stessa cosa), è diventata, ben lungi da causa oggettiva di povertà per le altre persone, occasione di ricchezza anche per queste. Il lavoro, che non consiste più nella caccia e nella raccolta di beni che ci offre la natura, ma nella produzione di beni e servizi da scambiare con altri che li ritengano utili, è in realtà l’unica attività “socialmente utile”. E, si ripete, la ricchezza di una persona, nella misura in cui è il frutto di scambi veramente liberi, non corrotti dall’inganno o dall’altrui intervento (intervento esterno a chi scambia), dall’altrui coercizione, rappresenta la vera ed unica occasione per chi è povero di migliorare la propria situazione, di passare dall’ultima classe del nostro treno alle classi dotate di migliori servizi.

Alla luce di queste riflessioni ritengo che fossero fondate sia la mia perplessità circa la correttezza del paragone, della metafora del treno, sia l’osservazione che i poveri preferiscono salire sul primo treno, quello diviso in classi. Compresa la riserva circa la stessa possibilità per i poveri di salire sul secondo treno, a posti fissi e tutti uguali: in questo treno, infatti, o i servizi sono già stati divisi fra i pochi egoisti viaggiatori, e non c’è più posto per altri, né è pensabile, a causa dell’alta imposizione fiscale, creare nuova ricchezza (metafora dei Paesi Scandinavi socialdemocratici), o non sarebbe in ogni caso conveniente salire, in quanto i passeggeri sono tutti ugualmente costretti da una minoranza di conducenti a produrre beni utili per far correre (?) il treno (metafora dei Paesi comunisti).

Peraltro la parabola del treno risulta illuminante sotto un altro aspetto. Serve a spiegare le ragioni per le quali esistono ancora molti socialisti (di destra di centro e di sinistra): immaginano le nostre società come un treno con un numero di posti a sedere limitato e con servizi limitati, ovverosia come società in cui continuano a svolgersi attività a somma zero, come nell’ultimo periodo del Pleistocene, quando i nostri antenati erano cacciatori-raccoglitori. Il treno rappresenta, infatti, bene la situazione di quel periodo, in cui i nostri antenati, cacciatori-raccoglitori, si alimentavano esclusivamente cacciando e raccogliendo quello che la natura donava; ed ogni animale o frutto cacciato, così come ogni posto sul treno o servizio usufruito da un passeggero, significava un animale o un frutto in meno, ovverosia un posto od un servizio in meno, per un altro individuo. Ma, fortunatamente, negli ultimi 10.000 anni le cose sono cambiate. Ed il treno, da luogo a posti fissi ed a servizi limitati, si è trasformato in un treno in continua espansione, con sempre nuovi vagoni e nuovi posti nella prima, nella seconda e nella terza classe; un treno sul quale si possono trovare beni e servizi sempre più numerosi e sempre nuovi, a disposizione di un numero sempre maggiore di passeggeri; un treno sul quale possono salire sempre più persone. E questo processo è destinato ad incrementarsi in proporzione anche all’aumento del numero dei ricchi, ovverosia di coloro che producono beni e servizi che gli altri considerano utili al punto di essere disposti ad acquistarli. E, naturalmente, anche i poveri, e spesso i poveri più degli altri, sono in grado di produrre beni e servizi in concorrenza o originali, tanto da migliorare sensibilmente in pochi anni la propria situazione.

Non a caso la popolazione aumenta soprattutto laddove gli scambi sono maggiormente liberi. Basti pensare ad Hong Kong, almeno prima dell’annessione con la Cina. Ma agli stessi USA.
L’illusione ottica che impedisce di vedere il treno nella sua realtà è la stessa che ha portato in passato ad indugiare sulle sofferenze e la povertà degli operai ammassati nelle periferie delle città-fabbrica inglesi, nel periodo della rivoluzione industriale al fine di indicarne in questa la causa, non vedendo, o forse, oscurando che si trattava di persone che per loro scelta avevano preferito quei sobborghi, con la speranza che portavano, alla inutilmente sperimentata terra.

Ed è la stessa che rende visibili i poveri dei sobborghi delle città USA e non i milioni di poveri che in pochi anni hanno trovato un’occupazione ed i molti poveri che nel giro di poche generazioni hanno acquistato posizioni di prestigio. Si tratta del solito vizio, di guardare il dito che indica, invece di quel che il dito indica.

Chiarito l’arcano del treno ritengo che si possa essere ottimisti e che lo stesso sentimento che alimenta l’invidia, con le distorsioni ottiche che causa e la violenza che ne consegue, sia destinato a diventare sterile; in quanto attualmente non più utile.

Occorre peraltro stare attenti e non dimenticare che la libertà, che ha nella libertà degli scambi la sua massima espressione, è un bene prezioso e non definitivamente acquisito, sempre in pericolo, almeno sino a quando ancora troppe persone vorrebbero costringerci a salire su un treno dove i posti sono contati, i servizi razionati e tutti sono uguali, esclusi loro, che guidano il treno.

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L’altruismo, il mercato, l’obiezione cattolica e Adam Smith /2010/08/17/lastruismo-il-mercato-lobiezione-cattolica-e-adam-smith/ /2010/08/17/lastruismo-il-mercato-lobiezione-cattolica-e-adam-smith/#comments Tue, 17 Aug 2010 11:54:42 +0000 Oscar Giannino /?p=6818 David Schindler è una figura essenziale nell’ermeneutica cattolica dei nostri tempi, e dai primi anni Ottanta – quando era già direttore della versione americana di Communio, una catena internazionale di riviste teologiche alla cui idea fondativa avevano congiuntamente lavorato Hans Urs von Balthasar, Joseph Ratzinger ed Henri de Lubac – con le sue opere e i suoi corsi in primarie università statunitensi ha potentemente contribuito ad affinare il pensiero cristiano su temi come il rapporto tra l’uomo e la tecnica, la persona e lo Stato, la comunità e il mercato.Nel suo Ordering Love, pubblicato da Eerdmans pochi mesi fa e anticipato in italiano dal Sussidiario, affronta tra gli altri un tema centrale per noi liberisti. Quello della compatibilità etica tra mercato e altruismo, tra individuo e “bene degli altri”. È un tema sul quale i cattolici in passato hanno avversato il mercato. Prima di trovare una nuova sintesi evolutiva delle precedenti posizioni, per me del tutto condivisibile e in alcuni passaggi a ben leggerli oserei  direi anche coraggiosa rispetto ai tempi che viviamo, nel magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ma vediamo di spiegarci.Il tema che Schindler affronta si riferisce al più classico e noto tra i classici e noti passaggi della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith: «Non é dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi» in cui colui che viene considerato il fondatore della moderna scienza economica in quanto tale, oltre che conseguentemente della teoria del libero mercato e dei suoi vantaggi, svolge un punto essenziale: il rapporto tra inclinazione individuale all’utile per sé, ed effetto concatenato che ciò determina spontaneamente in utile per gli altri e per la comunità, al solo patto naturalmente che tale meccanismo venga lasciato funzionare senza improprie interferenze sui prezzi che ne alterino funzionamento ed esito.

È “il” dilemma dei dilemmi, per chi in chiave teorica affronti il problema della maggiore efficienza del mercato abbracciando una prospettiva classica e neoclassica – in termini di scuole economiche – rispetto a chi invece antepone – da David Ricardo in poi, variamente declinato nel tempo a seconda dei suoi discepoli che potremmo impropriamente definire più “di destra” o “di sinistra” – il problema del valore come condizione prioritaria per l’allocazione e il rendimento dei diversi fattori della produzione.

Ma il testo di Schindler non è una dissertazione di teoria economica. Va al punto della questione con un linguaggio piano, affrontandola con l’occhio alla dottrina sociale della Chiesa. E poiché Schindler sceglie di evitare ogni argomento da economista, rappresenta le obiezioni a Smith nella loro versione più diretta e immediata. Prima obiezione: l’affectio sui del macellaio e del birraio non è egoismo irriducibilmente antitetico all’amore per l’altro? Seconda obiezione: la virtù del mercato come definita da Smith, non mette al centro di tutto l’utile da realizzare come fine ultimo, invece dell’effetto che esso produce sia a chi lo realizza sia agli altri? Terza obiezione: ma se il libero mercato realizza meglio di ogni altro sistema la libertà dell’uomo, non è che la libertà in esso finisce però circoscritta a nozioni di egoismo e strumentalità tecnica, una sorta di tirannia del profitto che inibisce alla libertà ogni orizzonte di bene comune? Quarta obiezione: la libertà iperindividuale e “tecnica” del mercato liberale non finisce dunque per essere negazione di ogni idea stessa di Dio? Le risposte che Schindler avanza sono funzionali in realtà a rispondere all’ultimo interrogativo, quello che più gli preme: esiste un’alternativa?

Personalmente, ritengo la pedagogia economica di Schindler molto utile, proprio perché affronta le obiezioni al liberismo di Smith nella loro versione più rozza e meno mediata. Insomma, dà voce proprio agli argomenti che ricorrono nelle teste e sulla bocca di chi è convinto che il libero mercato sia una sorta di giungla dove vige la legge del più forte, e in cui una spietata selezione naturale tende a far prevalere le ragioni del capitale su quelle del lavoro e della sua dignità.

In realtà, non è così nelle opere di Smith. E su questo bastano poche righe a ricordarlo, anche se postulano studio e cognizioni di storia dell’economia. Soprattutto, – ma questo è molto più delicato – non è così nella realtà. Anche se il discorso si fa qui più difficile, perché l’analisi della realtà è terreno scivoloso in quanto ciascuna scuola pretende di vedervi cose diverse. E dunque io posso solo dire a quali condizioni non è così nella realtà, ma dal mio punto di vista.

Che Smith e la sua scuola non abbiano mai pensato davvero a ciò a cui la riduzione in vulgata del loro pensiero li riduce – e cioè una sorta di fiducia cieca nella superiore bontà della famosa “mano invisibile” del mercato, espressione che in tutta L’Indagine sulla Ricchezza delle Nazioni ricorre una sola volta! – è smentito dall’intera parabola personale di Smith. Era un allievo di Hutcheson, filosofo morale cristianissimo che approfondiva proprio le virtù altruistiche come distinte dalle egoistiche e come fondatrici della coscienza morale. E Smith stesso subentrò in cattedra proprio ad Hutcheson, scrivendo la Teoria dei Sentimenti Morali – epitome dei suoi corsi di Etica a Glasgow – ben 17 anni prima della Ricchezza delle Nazioni. Non è qui il caso di approfondire, ma per Smith solo la nozione della “simpatia” – come capacità di immedesimarsi negli altri per dar loro e ottenerne soddisfazione e stima – era il fondamento attraverso il quale il libero mercato poteva funzionare e dare i suoi frutti. Distinta e distante da ogni idea di egoismo sopraffattore. Il filone “morale” di una libertà di mercato che si fonda sulla interazione e cooperazione altruistica misurata da liberi prezzi per realizzare il profitto sarà il fondamento vero del liberalismo ottocentesco britannico nella sua versione “sociale” di John Stuart Mill e del suo On Liberty. Se ne distingueranno invece gli empiristi seguaci di David Hume e gli utilitaristi puri alla Bentham, oltre che tutte le scuole che da Ricardo desumeranno – sbagliando, a mio avviso – che il valore prescinde dalla libertà e la incatena a sopraffazioni obbligate.

Se si tiene presente tutto ciò, e cioè ciò che concretamente Smith e i suoi discepoli e seguaci scrissero davvero, le risposte ai primi quattro interrogativi posti da Schindler dovrebbero essere ben diverse da quelle che egli dà. Basta aver letto ad esempio – rimanendo in ambito di stretta ortodossia cattolica – le opere di Michael Novak o di Padre Sirico – due tra i maggiori teologi artefici della piena riconciliazione tra cattolicesimo e libero mercato nell’ambito nordamericano – per rispondere dunque che no, l’altruismo non è affatto assente dal libero mercato, che esso non mette il solo utile al centro di tutto, che la libertà in esso non è schiava della tecnica, e che non di conseguenza affatto nemico della fede in Dio.

Tuttavia, capisco bene che Schindler batta invece una strada diversa. Quella di riconoscere la fondatezza a molte delle obiezioni antimercato, per giungere comunque a concludere che il cristiano debba vivere nel libero mercato giovandosi dei suoi frutti storici ed economici, ma ponendo al centro di tutto una nuova antropologia, e cioè l’idea stessa dell’uomo come misura di ogni negozio economico, dell’allocazione dei fattori della produzione e della ripartizione – da ogni singola impresa fino alla scala planetaria – dei suoi utili.

Su questa conclusione, che è ciò che conta, sono d’accordo. E l’ho ripetuto in innumerevoli incontri dedicati, nell’ultimo anno, alla Caritas in Veritate di Benedetto XVI. Ve ne ripropongo solo alcuni brani, che orientano anche il dibattito italiano in queste difficili settimane in cui tutti parliamo di Fiat, produttività e delocalizzazione. Il Papa nell’Enciclica usa parole coraggiose, quando analizza una delle funzioni più centrali per un’economia solida e capace di generare giusto benessere: l’investimento. “Investire ha sempre un significato morale oltre che economico”, afferma l’Enciclica. Continua, al Paragrafo 40: “non c’è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all’estero piuttosto che in patria. Bisogna evitare che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo profitto a breve termine, e non anche la sostenibilità dell’impresa a lungo termine”. Molti politici, oggi, non avrebbero il coraggio di difendere in maniera tanto rigorosa l’efficacia e il dovere di investimenti anche all’estero, per affrontare meglio la concorrenza ed estendere i mercati. Che lo abbia fatto il Papa nell’Enciclica, è stato per me motivo di vera e propria ammirazione.

Quanto all’idea stessa di mercato, rispetto a tutti coloro che dal settembre 2008 hanno riprovato a dire che la colpa della crisi era del mercato in quanto tale, invece che di regole sbagliate date al mercato, l’Enciclica ha efficacemente e autorevolmente corretto il tiro. “ Il mercato – è l’incipit del Paragrafo 35 dell’Enciclica – se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri” “ La società – leggo dal paragrafo 36 – non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte di rapporti autenticamente umani. E’vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, ma non perché questa sia la sua natura, bensì perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso”. Coerentemente a questa visione, Benedetto XVI scrive che “il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo”.

Lasciatemi dire che, in un Paese e in dibattito pubblico italiano in cui spesso mercato e profitto continuano a registrare ostilità e avversione spesso del tutto pregiudiziale, l’equilibrio e la saggezza delle parole del Pontefice costituiscono una lezione per molti. Una lezione sulla quale sarebbe bene che riflettessero, tutti coloro grazie ai cui errori le imprese italiane continuano a doversi misurare con una realtà fatta di eccessiva inframmettenza pubblica, di tasse alte che gravano sul lavoro impiegato e che penalizzano investimenti e nuove tecnologie, di vincoli amministrativi asfissianti. L’Italia è ancor oggi troppo spesso caratterizzata da improprie economie di relazioni che falsano ogni nozione di mercato, di libera concorrenza e di assoluta trasparenza per vincere gare come per aggiudicarsi lavori. Tutto questo mortifica le prospettive di crescita, penalizza le imprese, è un vero e proprio schiaffo alla dignità non solo di chi le guida, ma di tutti coloro che vi lavorano.

Come scrive Schindler, le virtù civiche e il rispetto della legge, la tenuta dei vincoli familiari e quindi la capacità della famiglia di trasferire i legami tradizionali alle nuove generazioni e comportamenti sociali improntati a moralità e a civismo, i legami di reciprocità nella società civile, la buona amministrazione nelle istituzioni producono effetti anche economici di notevole entità, dentro e fuori l’impresa.

L’impresa non è mai l’unica protagonista dei propri successi, né l’unica colpevole dei propri insuccessi. Ma, nel dire questo, è di grande rilievo che l’Enciclica abbia mostrato quanto sia ormai superata la vecchia idea calvinista, quella secondo l’avversione della Chiesa cattolica per i beni terreni spiegasse un suo pregiudizio anticapitalista. Benedetto XVI E Giovanni Paolo II prima di lui sostengono la crescita, rafforzandola con indicatori dello sviluppo umano come propongono tanti liberali come Amartya Sen (sui quali ho più dubbi, quando in mani di antrisviluppisti diventano negazioni dei presupposti stessi della crescita e a favore di teorie alla Latouche, ma è altro paio di maniche). E riprendono la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, chiedendo un mercato in cui regole e princìpi pongano un limite alla finanza per la finanza. È semmai proprio il mondo calvinista, quello che aveva dimenticato le buone regole di Adam Smith sulla fiducia e le regole da preservare, ad averci di fatto – NON voglio dire per concatenazione dottrinaria della libera interpretazione del Libro e per salvezza da Dio a prescindere dalle opere – ma comunque ad averci di fatto, oggettivamente regalato gli eccessi della finanza strutturata.

L’etica come fondamento dell’impresa e del libero mercato non è una scelta che discenda dal solo fatto che sia giusta. Non serve solo a preservare meglio la comunità d’interessi che vive all’interno delle aziende. L’etica è un fondamento dell’impresa anche perché contribuisce a produrre migliori utili. Essa rafforza il presupposto basilare senza del quale non c’è libero mercato. Il libero mercato non è la lotta di tutti contro tutti in cui vince il più forte. È una gara entro un solido quadro di regole, nella quale deve primeggiare non il più forte ma il più bravo. Ed è un monito che deve valere in tutti gli ambiti del mercato. A cominciare dalla finanza da cui questa crisi è partita.

L’etica, la centralità dell’uomo nell’economia alla quale Schindler tutti invita, è un moltiplicatore economico, non solo un comandamento morale.

]]> /2010/08/17/lastruismo-il-mercato-lobiezione-cattolica-e-adam-smith/feed/ 34 Gli USA e noi, ancora più deficit e tasse? /2010/08/03/glu-usa-e-noi-ancora-piu-deficit-e-tasse/ /2010/08/03/glu-usa-e-noi-ancora-piu-deficit-e-tasse/#comments Tue, 03 Aug 2010 16:42:37 +0000 Oscar Giannino /?p=6703 Negli Stati Uniti è partito il grande dibattito (vedi l‘impostazione che ne dà Morgan Stanley)  intorno a se confermare i tagli alle tasse introdotti da Bush e che il Congresso approvò solo “a tempo”, con scadenza al dicembre 2010. E il dibattito si innesta su richieste sempre più corpose di una nuova manovra di finanza pubblica con massiccio debito aggiuntivo, per sostenere l’economia. Non è un confronto che riguarda solo gli USA, ma l’exit strategy mondiale dalla crisi. La scelta americana su fisco e spesa pubblica avrà effetti complessivi. Perché a sua volta si innesta su una ripresa mondiale che nel secondo trimestre 2010 ha cambiato passo rispetto al primo, rivelatosi insostenibile. Tanto è vero che l’indice PMI degli ordini esteri globali è in frenata nella seconda metà 2010 rispetto alla prima, a luglio la previsione era su 54,4 (oltre quota 50 significa espansione) rispetto al 58,1 del primo semestre. E’ l’effetto combinato dell’atterraggio morbido della Cina, e dell’esaurimento progressivo dell’effetto aiuti pubblici negli USA. Il primo fattore merita un voto positivo. Il secondo, no.

La Cina ha visto la crescita del suo Pil nel secondo trimestre 2010 decelerare al più 1,9% rispetto al più 2,3% del primo, col che il tasso di crescita annuo è sceso dal più 11,9% a un pur sempre rispettabilissimo più 10,3%. Il freno segue alle politiche restrittive attuate per evitare il surriscaldamento del tono generale dell’economia e del credito, nonché per impedire che l’inflazione salga stabilmente sopra la soglia del 3% (era al 2,9% in giugno). L’indice Pmi manifatturiero cinese si tiene in area espansiva ma in giugno scende a 52,1 da 53,9, e nel mese la produzione industriale cresce sull’anno di un più 13,7% rispetto al precedente più 16,5%. Analogo il tono della crescita dell’export, che sull’anno in giugno sale di uno spettacolare più 43,9%, ma in attenuazione sul più 48,5% di maggio. Vedremo nei prossimi mesi quale sarà l’effetto che sulla domanda interna – e sull’export dei Paesi Ocse verso la Cina – sarà determinato dalle massicce politiche di aumento salariale in atto in Cina, dal più 10% al più 20% in termini annuali reali a seconda delle diverse aree e settori.

Quanto agli Usa, dopo un ultimo trimestre 2009 che vedeva la crescita del Gdp annuale quasi più vicina al 6 che al 5%, e dopo un primo trimestre 2010 più vicino al 4% che al 3, ecco che la prima stima del secondo trimestre è scesa ancora, ed è più vicina al 2% che al 3%. Per chi viene dalla “nostra” scuola di Chicago, è l’effetto fin troppo prevedibile della sopravvalutazione dei moltiplicatori keynesiani della spesa pubblica effettuata dall’amministrazione Obama con il grande deficit pubblico 2009 per sostenere l’economia. Nel breve l’effetto sembra portentoso, ma dopo tre-quattro trimestri ecco che l’effetto traino del deficit pubblico si rivela per quel che è: assai meno stabile e – soprattutto – sano di tagli duraturi alle tasse comprimendo la spesa, poiché gli attori del mercato iniziano a scontare l’aumento futuro delle tasse in cui inevitabilmente si tradurrà il deficit odierno. Nel marzo-aprile 2009, mentre l’amministrazione Obama si imbarcava nei maxi deficit pubbici a sostegno dell’economia, Harald Uhlig – economista tedesco che insegna a Chicago – aggiornava alla condizione degli USA di allora il suo noto studio sui più benefici effetti di aumento dell’output potenziale che vengono da tagli fiscali duraturi, rispetto alla spesa pubblica in deficit, mettendo in questione inoltre la riservatezza del modello econometrico DSGE seguito dalla FED, che improvvisamente asseverava moltplicatori keynesiani largamente superiori all’unità predicati dai consiglieri economici di Obama. Consiglio veramente a tutti di leggerlo, è molto istruttivo e pianamente affronta i punti salienti – verifiche alla mano – di ciò di cui siamo convionti noi portatori di questa visione.

Ma la via “offertista” alla ripresa è rimasta inascoltata in America. Tanto che oggi non solo il solito Paul Krugman, ma anche osservatori come Bob Shiller scrivono che in queste condizioni tanto vale fare come Roosevelt, e assumere un milione di americani a 30 mila dollari l’anno per 30 miliardi di deficit aggiuntivo, allo scopo di piantare alberi ai lati delle strade. La stessa Goldman Sachs invoca una nuova manovra in deficit nei suoi report macro riferiti agli USA.

Analogamente, Fareed Zakaria e tutta l’intellettualità liberal che in Europa fa sognare le sinistre ha preso a occupare le colonne del New York Times e del Washington Post invocando l’abrogazione integrale dei tagli fiscali bushiani, sostenendo che ne verrebbero oltre 100 miliardi di dollari di entrate aggiuntive da destinare alla spesa. Dimenticando puntualmente di ricordare che da questa decisione discenderebbe un’ulteriore decelerazione della crescita americana, da uno 0,5 a uno 0,7% di Pil in meno. Vedremo. Se fossi un cittadino americano sarei in piazza a protestare con chi anima il movimento dei tea parties, ma in novembre si avvicinano le elezioni del midterm e non c’è da contare sul fatto che l’Amministrazione non spenda altri dollari del contribuente, pur di non far scendere troppo la crescita. Nel breve, perché il medio-lungo è problema che per definizione i politici rimandano al dopo. In Europa, che ha intrapreso obbligatoriamente ma stentatamente la via del taglio al deficit, la politica tax and spend degli USA rischia di produrre pessimi effetti politici.

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Crisi economica e anomal-Italy /2010/07/19/crisi-economica-e-anomal-italy/ /2010/07/19/crisi-economica-e-anomal-italy/#comments Mon, 19 Jul 2010 19:24:34 +0000 Oscar Giannino /?p=6592 Ho appena finito di leggere un paper benemerito che consente di spiegare in due parole la persistente anomalia politica italiana. Anche se naturalmente ciascuno è libera di pensarla  liberi come volete, senza ricorrere alla consueta categoria “B come Berlusconi”  (per inciso: il presidente Fini a Palermo ha appena finito di dire alla commemorazione di Borsellino che alle istituzioni bisogna portare rispetto anche se chi se le incarna talora non è all’altezza, e secondo me non si riferiva a se stesso: che circo Barnum ormai, questo Pdl, rispetto al mandato che aveva ottenuto! ). No, parlo di amomalia politica alla luce dei comportamenti e delle proposte concrete della destra e della sinistra, di fronte alla crisi economica, e in chiave comparata cioè rispetto alla media  degli altri Paesi Ocse. Di questo tratta lo studio del professor Vincenzo Galasso, dell’IGIER Bocconi. Vale i 5 dollari che vi sono necessari a scaricarlo, se non siete abbonati al SSRN.Galasso ha esaminato i comportamenti di fronte a crisi economiche di una certa serietà delle diverse coalizioni politiche al governo in 25 diversi Paesi Ocse, negli anni dal 1975 al 2008.  L’analisi empirica mostra che nelle crisi la reazione politica prevalente è quella di liberalizzare i mercati dei prodotti, per stimolare crescita aggiuntiva, mentre al contempo si riregolamenta cioè si abbassa la concorrenza dei mercati finanziari. Ma c’è una differenza tra destra e sinistra. La prima nelle crisi tende a libneralizzare di più i mercati e a rendere più flessibile il mercato del lavoro, ma a privatizzare di meno facendo invece dimagrire il welfare. La sinistra, al contrario, nelle crisi privatizza di più della destra per fare cassa pur di non toccare il welfare, e  adotta meno liberalizzazioni della destra nel mercato del lavoro e dei prodotti. In generale, più le coalizioni sono frammentate e dunque maggiore il potere d’interdizione di ciascuno dei suoi componenti, maggiore è la regolamentazione conseguente su lavoro, prodotti e finanza.

In Italia, oggi condividiamo con l’esperienza accumulata in 33 anni da 25 Paesi avanzati solo quest’ultima caratteristica negativa. Poiché tanto nei governi di centrosinistra che di centrodestra susseguitisi al governo da 16 anni a questa parte sempre una componente minoritaria aveva potere di veto, il tasso di regolamentazione complessivo resta superiore alla media sia sul mercato dei prodotti sia in quello del lavoro (Italia solo liberalizzata al 49%, dice il recentissimo Indice delle liberalizzazioni curato da IBL).

Ma destra e sinistra italiane restano anomale, rispetto a media OCSE. La destra nella crisi non taglia il welfare di troppo e anzi è fiera di difenderlo, rinviando riforme strutturali degli ammortizzatori sociali come del costo standard sanitario. Si limita, ed è già molto, a contenere la dinamica della spesa pubblica aggiuntiva, ma senza indicare la necessità di condurla di 6-7 punti sotto l’attuale 53,5% di Pil a livelli quanto meno tedeschi. Soprattutto, non liberalizza praticamente nulla. Quanto alla sinistra, non solo non privatizzetrebbe più alcunché, se oggi fosse al potere, ma raccoglie un milione e quatttrocentomila le firme contro una privatizzazione dell’acqua che semplicemente non esiste, e grida e urla contro un’aziendalizzazione delle università e della sanità altrettanto fantasmatiche.

L’effetto “B” esiste, come anomalia. Chi dice di no. Ma pensate anche a questo paper, se siete davvero convinti che l’unica anomalia sia “B”. Perché ce n’è una ancor maggiore, che riguarda l’intera politica italiana attuale. Ammalata di statalismo e regolamentite da sinistra a destra, con pochissime, purtroppo irrilevanti eccezioni.

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Liberismo e legalità /2010/07/16/liberismo-e-legalita/ /2010/07/16/liberismo-e-legalita/#comments Fri, 16 Jul 2010 09:45:35 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6559 Quanto è diversa, e come e perché, la “nuova Tangentopoli” da quella vecchia? La mia sensazione è che siamo all’eterno ritorno dell’eguale, per la banale ragione che le cause profonde che hanno portato a Mani pulite sono state rimosse solo in parte. Non so quanto ci sia di vero nei diversi filoni di inchieste di cui le cronache di questi giorni sono piene: immagino che alcune arriveranno a delle condanne, altre finiranno nel nulla; qualcuno ne uscirà pulito, altri no. Penso che sospetti fondati convivano con sonore sciocchezze (suvvia, la P3, se questi progettano il golpe le “istituzioni democratiche” possono dormire sonni tranquilli, come peraltro fanno in tutte le possibili interpretazioni del termine). Penso che, per certi versi, la cosa più desolante sia il panorama tristemente zeppo di ladri di galline: almeno, i mariuoli della Prima repubblica avevano una loro dignità. Ma penso che tutte queste cose – così come il concentrarsi su specifiche indagini, per sostenere le tesi dei pm o difendere le ragioni dei sospettati – sia in fin dei conti fuorviante. Il problema vero non è che qualcuno delinqua: succederà sempre. Il problema vero è: perché la delinquenza, la corruzione, la propensione ad aggirare le leggi per aiutare gli amici degli amici (con annessa mancia) è così comunemente diffusa?

La risposta ovvia è che l’origine di tutto sta nel collateralismo tra politica e affari. Come tutte le risposte ovvie è probabilmente vera, ma come molte risposte ovvie è anche tautologica. Perché politica e affari sono collaterali? In realtà, messa così è ipocrita e populista, perché ovunque nel mondo ci sono punti di contatto tra politica e affari. La miglior formulazione che riesco a trovare della domanda è: perché in Italia politica e affari hanno così tanti punti di contatto, sovrapposizioni, linee di confine tanto sfumate? E’ chiaro che, meno punti di contatto ci sono, meno numerose e meno sostanziose sono le tentazioni. Se la tentazione fa l’uomo ladro, a parità di tutto il resto (non credo che gli italiani in generale, e perfino i politici italiani, siano antropologicamente meno onesti degli altri), meno tentazioni vuol dire meno ladri. Meno ladri – o meno zone esposte al furto – vuole anche dire più facilità nel controllo e nell’enforcement, più deterrenza, e quindi ancora meno ladri (perché cresce il costo opportunità del furto). (Uso le parole “ladri” e “furto” in senso del tutto generico e populista).

Penso a questi temi da qualche giorno, principalmente perché ho trovato molto interessante – e molto poco condibisibile – un bell’articolo di Massimo Mucchetti sul Corriere di mercoledì (qui una mia letterina al Foglio e qui la risposta di Massimo). Prima di cercare di esprimere la mia lettura delle cose, e delle cause, e dunque suggerire la riforma che io farei se fossi il Dittatore Benevolente di questo paese, vorrei attirare la vostra attenzione su due grafici. I grafici, costruiti su dati World Governance Indicators, mettono in relazione la corruzione (che ho definito come l’opposto del “controllo della corruzione” misurato dalla Banca mondiale) con la qualità della regolazione (figura di sinistra) e la rule of law (figura di destra). La scala su entrambi gli assi va da -2,5 a 2,5, dove valori più alti sono “buoni” per qualità della regolazione e rule of law, cattivi per la corruzione.

Questi due grafici mostrano una cosa molto semplice, molto intuitiva e molto indagata in letteratura (a partire almeno da qui). Cioè che i paesi regolati meglio – dove meglio è normalmente sinonimo di poco – sono meno corrotti, e i paesi con una più forte cultura della rule of law sono meno corrotti. Una correlazione non è necessariamente una causa, ma sarebbe davvero sorprendente che questa correlazione non indicasse un nesso di causalità, e ancor più sorprendente sarebbe se il nesso di causalità andasse in direzione opposta (cioè la corruzione determina la qualità della regolazione e la rule of law).

Cosa dicono questi grafici? Dicono essenzialmente quello che ho cercato di esprimere nella lettera al Foglio, e che ribadisco qui. La corruzione (e anche la cattiva regolazione, o la regolazione “catturata”, che in fondo è corruzione d’alto bordo) esiste perché il sistema legale è sufficiente confuso, o sufficientemente folle, o entrambe le cose da rendere il comportamento corruttivo “conveniente”, dati i rischi e i payoff attesi. Quindi ci sono solo due modi per ridurre la corruzione: uno è aumentare i rischi, cioè armare la mano della magistratura o di chiunque sia impegnato a controllare/intervenire contro la corruzione. Ma questo è un metodo relativamente inefficiente, perché gli stessi controllori possono essere corrotti e perché, in ogni caso, non si può pensare (e non sarebbe neppure desiderabile) avere un paio d’occhi in ogni angolo di strada.

L’altro modo è rendere più difficile la corruzione, cioè aumentarne i costi; oppure renderla meno utile, cioè abbassare i payoff. Per rendere difficile la corruzione, bisogna adottare sistemi legali (autorizzativi, fiscali, ecc.) trasparenti. Esempio banale e d’attualità: la mafia e la corruzione stanno all’eolico come le mosche al miele perché i procedimenti autorizzativi sono fottutamente opachi e discrezionali. Rendeteli lineari, e avrete meno corruzione. Per abbassare i payoff della corruzione, bisogna restringere la zona grigia in cui Stato e mercato di sovrappongono, facendo chiarezza e tagliando le unghie a politici e burocrati: io corrompo un politico o un burocrate se penso, in questo modo, di poter guadagnare di più (per esempio aggiudicandomi una gara con un’offerta più bassa o alzando i costi di ingresso sul mercato per la concorrenza). Ripeto una precisazione già fatta: uso il termine “corruzione” in modo piuttosto indifferente rispetto a cattura del regolatore, perché le due cose, sebbene diverse sotto il profilo giuridico, sono abbastanza indifferenti riguardo gli effetti economici. Se dunque il politico o il burocrate non ha il potere di aiutarmi, non ha senso che io lo corrompa. Perché c’è la mafia nell’eolico e non, che so, nei panifici (suppongo), e soprattutto perché la mafia nell’eolico è una patologia cronica e nei panifici sarebbe solo una manifestazione acuta di un problema? Perché i politici hanno molte meno possibilità di influenzare il business del pane di quanto non abbiano con quello del vento.

In senso molto brutale sto dicendo che se ci sono poche leggi/norme/regole e sono chiare, ci sono anche poche norme da violare, e la violazione è per definizione più facilmente identificabile. Sto cioè dicendo che, come le tasse per essere pagate devono essere pagabili, le leggi per essere rispettate devono essere rispettabili, e per essere rispettabili devono essere poche, chiare, e possibilmente “giuste”. Quindi, chi crede che la legalità sia un valore (senza farne un feticcio, e non voglio qui entrare nella discussione sul rispetto di leggi ingiuste), non dovrebbe invocare più regolamentazione, più sbirri e più paletti o vincoli: dovrebbe invocare meno norme, meno Stato e più mercato. Basta leggere la cronaca di questi giorni per rendersi conto che le cose stanno così, ed è proprio il proliferare delle norme l’alveo in cui la corruzione/cattura si verifica, non il suo opposto. Non il capitalismo selvaggio, ma lo statalismo impiccione.

Se le etichette hanno un senso – e raramente ce l’hanno – chi oggi crede che esista una questione morale, come esisteva nei primi anni Novanta, dovrebbe riconoscere che la questione morale è figlia dello statalismo all’italiana. Se la legalità è il fine, lo strumento non può che essere la deregulation e il liberismo.

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