CHICAGO BLOG » liberalizzazione http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Basta con gli sregolati. Rimettere le regole al centro /2010/10/28/basta-con-gli-sregolati-rimettere-le-regole-al-centro/ /2010/10/28/basta-con-gli-sregolati-rimettere-le-regole-al-centro/#comments Thu, 28 Oct 2010 15:49:37 +0000 Oscar Giannino /?p=7427 Tutti siamo servi della legge perché possiamo essere liberi, scriveva Cicerone nell’ Oratio pro Cluentio. Proprio per questo il magistrato romano si rivolgeva all’assemblea con una formula di rito, per la quale se nella legge si fosse successivamente scoperto che qualcosa vi era di illegittimo, l’approvazione sarebbe stata nulla. Può sembrare anticaglia, ricordarlo. Invece, è essenziale. In un Paese come l’Italia, dove si stima che il mancato rispetto della rule of law e l’incertezza del diritto ci costino l’equivalente di 400 miliardi di mancato Pil ogni anno cioè quasi un terzo della ricchezza prodotta, riporre le regole al centro della vita pubblica è una strategia di successo sicuro per la crescita. Ed è questo, ciò che propone Roger Abravanel con il suo nuovo libro, intitolato proprio “Regole”, dopo il grande successo della sua precedente opera, dedicata alla meritocrazia, e che tanto ha fatto discutere politica ed economia. Viene facile immaginare il contrasto immediato, tra chi vuole mettere buone regole al centro di un tentativo di ripresa dell’Italia, e il panorama di sregolatezza assoluta – privata e pubblica – che ci propone la politica da qualche tempo a questa parte. Ma su questo non mi soffermo, lascio a ciascuno tutta la riprovazione del caso per una politica ridotta a budoir, dossier, inchieste, appartamentini, amanti e serietà consimili. Preferisco restare al punto, e parlare delle regole nuove.

Solo che per “regole” bisogna intendersi: per noi antistatalisti haykyani, l’ipernormativismo dirigista è un errore altrettanto se non più grave che avre poche regole sbagliate.  Dal nostro punto di vista, isogna tornare cioè alla saggezza antica e a quella della vera civiltà liberale. Non alla prevalenza della legge positiva su quella efficace perché espressione del convergere della società e dei suoi corpi intermedi. Non alla prevalenza dello Stato sulla società, della macro sulla microeconomia, l’unica fa crescere davvero perché si fonda sull’effetto che incentivi e disincentivi esercitano nelle scelte di lavoro, consumo, risparmio e investimento di milioni e milioni di individui.

Dal disordinato prevalere dell’iperproduzione legislativa nata dall’errore socialista e kelseniano, che identificava legge e decisione dello Stato, bisogna tornare alla legge come processo di scoperta invece che come puro atto decretato. Per chi volesse approfondire la fondamentale distinzione, qui un dialogo di Hayek assolutamente illuminante. In questo processo, giocoforza non è più tanto o solo il politico – lontano e spesso ignorante dei processi produttivi e dei veri mali che ritardano la crescita italiana – ma l’uomo d’impresa e chi ha cognizione di economia e sviluppo, a proporre “dal basso” in un processo di ordine spontaneo le nuove regole più efficaci per la crescita.

Analogamente – anche se fino a un certo punto, perché in realtà su questo anch’egli cede a qualche forma di dirigismo -  Abravanel nel suo libro lancia una sorta di appello, perché proprio nel mondo economico e nella società civile anche in Italia si trovi l’equivalente dei 25 baroni che nel 1215 imposero al Re d’Inghilterra la Magna Charta Libertatum. Abravanel non si limita alla dimostrazione di come e quanto perdiamo per la trasgressione e l’illegalità diffuse in tutta la società italiana, figlie non di un DNA deviato ma di un circolo vizioso di cattiva regolazione ed eccessiva invadenza pubblica. L’autore avanza cinque proposte concrete.

Ma, prima dell’analisi, due premesse. La prima è che il passaggio in corso da anni dalle regole per lo sviluppo industriale a quello sempre più basato sui servizi non si risolvono solo in deregulation e semplificazione, ma in una vera e propria riregolazione, cioè in norme nuove che devono presiedere ai cambiamenti che nel mondo nuovo attendono settori come sanità, ambiente e finanza. E’ la grande lezione della crisi mondiale.

La seconda premessa è che sono assai meno categorico di Abravanel nell’identificare come una delle cause essenziali delle cattive regole la piccola impresa italiana. Anzi, sono in pieno dissenso. Quando Abravanel scrive “piccolo è brutto, anzi bruttissimo”, identifica tout court nel più della piccola impresa l’evasione di massa, la bassa produttività e l’alto tasso di concorrenza sleale con le aziende che competono invece grazie a legalità e innovazione. Ma così si rischia di cadere nello stesso errore di decenni fa, quando s’immaginò che anche l’Italia dovesse incamminarsi obbligatoriamente verso crescite dimensionali delle aziende del tipo americano e tedesco.

Da quell’errore nacque per esempio un sistema fiscale che, intendendo favorire la grande impresa finanziarizzata, le fa pagare anche 30 punti di tax rate meno di quanto chiede invece ai piccoli. Ma l’effetto è stata la decrescita verticale dei grandi gruppi italiani nelle graduatorie comparate mondiali. La piccola impresa italiana resta in molti settori capace – malgrado tutti questi ostacoli – di adattarsi ad alta velocità al mutare della domanda, ed è grazie a lei che la quota dell’export manifatturiero nel commercio mondiale è stata difesa anche in questi ultimi due terribili anni. E’ verop che piccola impresa significam meno patrimonio, meno investimenti,l meno ricerca, ostilità al passaggio proprietario gebnerazionale aprendosi al mercato e ai manager. Ma per ovviare a questi difetti bisogna pensare a nuove regole adatte per il tessuto reale dell’impresa italiana e accompagnarla alla crescita per più investimenti e innovazione, bisogna invece evitare di replicare regole inadeguate al nostro caso. Altrimenti, oltretutto,  l’intera rappresentanza d’impresa italiana non potrà sposare questa rivoluzione, visto che i piccoli prevalgono dovunque e si sentono – sono, a mio avviso – assai più vittime che colpevoli.

Veniamo alle proposte di Abravanel. La prima è nell’ambito dei servizi pubblici locali. La frammentazione attuale nelle oltre 7mila società controllate localmente dalle Autonomie italiane impedisce a settori come la raccolta dei rifiuti – vedi il disastro napoletano – e i servizi idrici efficienza e scala d’impresa tale da generare investimenti. E sin qui siamo perfettamente d’accordo. Per questo, la proposta è di riattribuire centralmente allo Stato la concessione, disegnando autorità nazionali indipendenti per nuove regole su ambiti operativi che abbiano più senso della parcellizzazione per singolo Comune. L’obiettivo è quello di gare poi per attribuire le concessioni su più vasta scala a soggetti che abbiano taglia d’impresa paragonabile ai giganti esteri come la francese Veolia, un po’ come si fece con l’energia elettrica ai tempi della riforma Bersani. Stante che la privatizzazione di massa che noi proponiamo non passa in nessun Comune né di destra né di sinistra, forse la proposta di Abravanel ha più chanche. Lo scandalo della monnezza e dell’acqua inefficiente in teoria glòi dà ragione. Ma col federalismo in corso d’attuazione scommetto che tutte le Autonomie griderebbero all’esproprio.

La seconda proposta riguarda il turismo. Realizzare in aree vocate l’accorpamento del frazionamento proprietario offrendo concessioni edilizie a lungo termine su aree di grandi dimensioni, in modo da consentire investimenti per alzare la qualità dell’offerta e preservare insieme il territorio. Come avvenne in Costa Smeralda e come a Ortigia sta provando da anni Ivan Lo bello, il presidente di Confindustrria Sicilia che proprio della legalità e della lotta ai collusi ha fatto la nuova bandiera di Confindustria nazionale. Su questa sono pienamente d’accordo. ma scommetto che media e ambientalisti griderebbero come un col suomo alla cementificazione speculativa, invexce di capire che poli turistici di livello hanno bisogno di economie di scala e investimenti adeguati, che sono collegati alla tutela ambientale invece che al disastro delle nostre coste attuali, disastro che è figlio del fai-da-te.

Terza proposta: estendere a tutti i livelli i test per misurare i risultati di docenti e studenti, rimettere al centro il potere del Ministero con un corpo di veri ispettori per verificare i risultati del sistema. Decentrare alle Regioni l’elaborazione di un vero piano dell’offerta formativa assorbendo i provveditorati, e aprendosi a esperienze come quelle dei voucher alle famiglie, nelle Regioni in cui esiste un mercato vero dell’offerta. Il capitolo è lungo: concordo, ma immagino la reazione dei sindacati e dei docenti.

Quarta proposta, nella giustizia civile, che vale più di quella penale come freno allo sviluppo e che ci vede nelle graduatorie al 156° posto sotto Guinea e Gabon: estendere a tutti i livelli la forma organizzativa della delivery unit già sperimentata con successo da Mario Barbuto, presidente di Tribunale di Torino e oggi di Corte d’Apello, che è riuscito a smaltirne l’arretrato in pochi mesi di anni. D’accordissimo. Immagino però la reazione delle correnti dell’ANM, agli occhi delle quali sin qui ogni criterio oggettivo di verifica di produttività e merito configura un rischio che la politica ne faccia uso per metter toghe alla berlina.

Quinta proposta di Abravanel: spezzare la logica della cattiva informazione iperpoliticizzata a partire da dove essa è più parossistica, cioè la Rai, abolendo commissione di vigilanza e governance di partuiti, e frapponendo una fondazione indipendente – con nominati con incarichi a scadenze diverse per limitare lo spoil system – tra proprietà pubblica e reti e testate, sul modello di Trust BBC. Io qui sono per la privatizzazione netta, invece: non credo possibile che la politica italian per come essa è non aggirerebbe anche il filtro di una fondazione di cui essa disegnerebbe le regole.

Come si vede, sono comunque proposte molto diverse dal tono generale della politica odierna e da ciò che propone. C’è da augurarsi che almeno qualcuna di queste venga posta al centro di una seria agenda italiana.  Ne dispero profondamente, però.

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RAI: il monopolio mai abolito – Daniele Venanzi /2010/10/22/rai-il-monopolio-mai-abolito-daniele-venanzi/ /2010/10/22/rai-il-monopolio-mai-abolito-daniele-venanzi/#comments Fri, 22 Oct 2010 16:16:42 +0000 Guest /?p=7355 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Daniele Venanzi:

Nello stato sociale il cittadino è costretto a cedere parte del suo guadagno alle istituzioni in cambio di servizi di cui non ha mai richiesto l’usufrutto e per i quali non è stato messo in condizioni di pattuire il prezzo. Lasciando da parte le convinzioni liberomercatiste, bisogna ammettere che esiste una scala gerarchica basata sull’utilità sociale nella lunga lista dei servizi erogati dallo stato al cui vertice vi sono sicurezza, sanità e istruzione.

Il modo migliore per cominciare a discutere del ridimensionamento delle competenze statali è iniziare a spuntare quella lista dal basso e depennare le voci di maggiore spreco e minore utilità pubblica. Basta un po’ di ragionevolezza per comprendere che la scomparsa improvvisa del welfare in una situazione di pressione fiscale particolarmente penalizzante pari a circa 70 punti percentuali e di mercato drogato dall’ingerenza statale comporterebbe grandi squilibri sociali tanto tra i privati cittadini quanto tra gli imprenditori.

La priorità va assegnata a quelle liberalizzazioni che pongono termine alla stagione del finanziamento pubblico a pioggia volto ad accentrare e mantenere posizioni di privilegio e di comando nelle mani dello stato tramite il possesso di aziende dalla presso che inesistente funzione di ammortizzazione sociale.

La RAI abusa sin dalla sua nascita di un privilegio di casta che comporta in primo luogo una gravosa spesa sulle spalle di ogni contribuente e in secondo momento una concorrenza tutt’altro che leale nei confronti delle altre emittenti televisive, poiché la sua esistenza è garantita non solo dall’offerta proposta sul mercato, i cui risultati verrebbero in condizioni normali ripagati dagli introiti pubblicitari, ma da un’imposta riscossa annualmente assicurata dallo stato che, di tanto in tanto, stabilisce persino degli aumenti, a riprova che non vi è alcun modo in cui la TV statale possa fallire per mancanza di fondi o quanto meno essere penalizzata dalle scelte del mercato. In questo modo la qualità del servizio viene compromessa poiché la RAI, a differenza delle sue concorrenti, non necessita di un palinsesto migliore per batterle. Nel caso in cui invece riesca ad ottenere un miglior dato Auditel, quest’ultimo sarà in ogni modo falsato dai maggiori fondi disponibili grazie all’imposizione tributaria al fine di rendere la trasmissione più concorrenziale.

La sentenza n. 202 della Corte Costituzionale che nel 1980 sancì la libertà di esercizio delle trasmissioni via etere su scala nazionale, permettendo così la nascita delle principali concorrenti dei canali di stato, non decretò di fatto la completa abolizione del monopolio, poiché la RAI continua ad essere la voce ufficiale dei governi che si susseguono all’amministrazione della cosa pubblica, ignorando qualsiasi logica di mercato.

È sufficiente pensare al terremoto che investe i vertici dell’azienda di Viale Mazzini ogni qualvolta il paese torna alle urne ed esprime la sua preferenza per una nuova maggioranza. Quello della televisione di stato è un espediente volto ad assicurare ai poteri forti del paese un canale preferenziale attraverso il quale diramare informazioni, spesso arbitrariamente distorte, e influenzare la coscienza comune secondo la propria volontà. Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, da strenuo difensore della libertà individuale, comprese i meccanismi perversi per cui si pretendeva di istituire il servizio di (dis)informazione pubblico ancora prima che questo fosse creato.

Seguendo l’insegnamento del filosofo libertario Murray N. Rothbard, potremmo asserire che l’informazione non è un diritto, bensì una libertà, poiché nessuno può negare a ciascun individuo le libertà di informarsi e di informare, il che lederebbe in primo luogo quelle di pensiero e parola. Questo però non implica, per i motivi sopra elencati, che lo stato possa arrogarsi il diritto di istituire il monopolio su dei media attraverso la creazione di reti di sua proprietà con la subdola e menzognera pretesa di garantire un’informazione equa e accessibile ad ogni cittadino.

Bisogna tenere a mente che da sempre i giornali sono fondati e diretti da privati cittadini e di sovente sono organi d’informazione ufficiale di partiti e movimenti politici. L’esistenza stessa del privato nel settore dell’informazione rende utopica la becera pretesa statalista del fare della divulgazione delle notizie un coro che decanta all’unisono le sole verità dello stato.

Tornando all’analisi della situazione italiana, la RAI grazie al canone ha generato nel 2009 introiti pari a 1.645,4 milioni di euro (bilancio ufficiale del 31.12.2009 disponibile sul sito RAI) che risulta a seguito di vari aumenti nel corso degli anni l’imposta più evasa dai contribuenti. I ricavi ottenuti dalla riscossione dell’imposta superano notevolmente i guadagni generati dagli spot pubblicitari: 998,5 milioni di euro (medesima fonte). Il ricavo netto totale RAI pari a 3.177,8 milioni di euro è leggermente inferiore a quello di Mediaset Italia che ammonta a 3,228,8 (fonte bilancio Mediaset 2009). Ma il notevole apporto finanziario al tesoretto costituito dalla riscossione del canone penalizza la godibilità della programmazione concorrente, in quanto, a differenza della RAI, necessita di una maggiore presenza di spazi pubblicitari al fine di sovvenzionarsi.

Le cifre dovrebbero far riflettere da un lato sul vantaggio che l’emittente statale detiene sulle rivali e dall’altro sull’ingiustizia di tale tassazione dimostrata dal modo in cui ne rispondono i cittadini. Il privilegio RAI si traduce, tra le tante ingiustizie, nella possibilità di stipulare contratti con i dipendenti ben al di sopra del loro valore di mercato, come testimoniato dalle eccessive retribuzioni dei cosiddetti “conduttori d’oro”. In questo modo si è in presenza di un “monopolio della qualità”, poiché i restanti principali canali televisivi non posso permettersi il lusso di strapagare i propri dipendenti migliori perché ne risentirebbe eccessivamente il bilancio aziendale.

Ai detrattori della liberalizzazione delle trasmissioni via etere vale la pena ricordare che già da molti anni prima della scesa in campo delle reti Mediaset il palinsesto RAI era principalmente composto da trasmissioni di svago e intrattenimento piuttosto che da programmi di informazione o approfondimento culturale, per cui le altre realtà inseritesi nel mercato non possono essere imputate di aver concorso a svilire la qualità media dell’offerta televisiva. Lo stato non detiene in alcun modo l’illiberale principio di auctoritas per cui si ritiene in diritto di imporre ai cittadini cosa è giusto guardare sui propri teleschermi.

Tirando le somme è ragionevole credere che l’imposta sul canone televisivo sia la prima delle tasse da abolire in un processo di liberalizzazione dell’Italia poiché, come dimostrato, racchiude nella sua natura l’essenza del principio liberale per il quale non possa esserci libertà individuale se si rinuncia a quella economica. Ne consegue che la cittadinanza dovrebbe chiedere con maggior forza ai propri rappresentanti l’abolizione della suddetta imposta per garantire anche agli individui più onesti e rispettosi delle istituzioni la liberazione da questa volgare forma di finanziamento della propaganda statalista. Infatti, non è l’evasione la strategia vincente con cui aggredire il burocratismo, poiché fino al momento in cui non sarà la legge a decretare la fine di questo sopruso il paese non potrà dirsene ufficialmente liberato.

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La liberalizzazione delle rette universitarie, per togliere ai ricchi e dare ai poveri /2010/10/05/la-liberalizzazione-delle-rette-universitarie-per-togliere-ai-ricchi-e-dare-ai-poveri/ /2010/10/05/la-liberalizzazione-delle-rette-universitarie-per-togliere-ai-ricchi-e-dare-ai-poveri/#comments Tue, 05 Oct 2010 12:48:06 +0000 Piercamillo Falasca /?p=7215 Pubblicato anche su Libertiamo.it - Partiamo da un dato: le rette universitarie sono molto inferiori al costo che lo Stato sopporta per erogare ad ogni studente l’istruzione universitaria. Come scrive Francesco Giavazzi su lavoce.info, uno studente universitario costa allo Stato circa 7mila euro l’anno, mentre le rette raramente superano i 3mila euro l’anno. Non giriamoci intorno: con ‘prezzi’ tanto più bassi del costo dell’istruzione, si riduce l’incentivo a studiare e pretendere una elevata qualità del servizio.

Ma c’è di più. Un punto cruciale delle tesi di Roberto Perotti nel suo libro “L’università truccata”  (Einaudi, 2008) è il seguente: rette uguali per tutti, o poco differenziate, sono di fatto un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. L’argomento dell’economista è il seguente: circa un quarto degli studenti universitari proviene dal 20 per cento più ricco delle famiglie; e meno di uno studente su dieci proviene dal 20 per cento più povero. Numero più numero meno – il libro di Perotti usa dati del 2006, ma le cose non sono mutate – la sostanza è questa: all’università vanno soprattutto i figli dei più abbienti, che potrebbero pagare rete più alte, mentre la loro laurea viene finanziata con le tasse di tutti, incluse i contribuenti più poveri, che solo eccezionalmente mandano i loro figli all’università.

E invece, con il risparmio derivante dall’innalzamento delle rette universitarie sarebbe possibile garantire non solo una migliore qualità complessiva, ma anche l’accesso gratuito dei poveri all’istruzione superiore attraverso borse di studio e prestiti d’onore. All’ombra dell’ideologica concezione della giustizia sociale, insomma, prospera la vera ingiustizia dell’accademia pubblica italiana.

Come nasce il problema? Gli atenei non sono liberi di determinare le loro rette, perché per legge (l’articolo 5 del DPR 306 del 1997) la contribuzione studentesca non può superare il 20 per cento dei trasferimenti statali ordinari. Con la conseguenza diabolica che la riduzione dei trasferimenti statali finisce per ridurre in proporzione anche l’ammontare delle risorse reperibili attraverso le rette. Da tempo Francesco Giavazzi e Roberto Perotti (ma l’argomento è da molti anni un cavallo di battaglia di Antonio Martino, per fare un esempio) sostengono che il taglio dei trasferimenti statali alle università – una costante di questa legislatura – è sostenibile e ‘intellettualmente onesto’ solo se accompagnato dalla concessione alle stesse di piena autonomia nella determinazione delle rette. E da tempo il governo fa orecchie da mercante, forse timoroso delle inevitabili proteste dei tanti che, quando parlano di giustizia sociale, non sanno guardare oltre il proprio naso.

Con un emendamento firmato da tre deputati di Futuro e Libertà (Barbaro, Della Vedova e Di Biagio) la proposta di liberalizzazione delle rette arriva oggi in Commissione Cultura alla Camera, dove è appunto in discussione la riforma dell’università. Difficile che la maggioranza si apra, ed altrettanto difficile che il centrosinistra sostenga l’iniziativa, ‘catturato’ com’è in questi ambiti dal peggior sindacalismo studentesco. Ma l’emendamento di FLI è come una goccia di benzina: di per sé non serve a far girare il motore, ma un piccolo incendio nel dibattito lo può provocare. Soprattutto se chi ha davvero a cuore il futuro dell’università italiana farà sentire la propria voce a supporto.

Accanto alla proposta di eliminazione del tetto alla contribuzione studentesca, i tre deputati hanno presentato un’altra misura a nostro giudizio interessante: la deducibilità all’80 per cento delle donazioni private alle università, potenzialmente una spinta decisiva per una vera autonomia degli atenei. Vedremo.

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Lo spezzatino indigesto di Tremonti /2010/09/14/lo-spezzatino-indigesto-di-tremonti/ /2010/09/14/lo-spezzatino-indigesto-di-tremonti/#comments Tue, 14 Sep 2010 09:56:59 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7037 Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si è recentemente lamentato delle privatizzazioni all’italiana. In particolare, ha detto:

L’apparato produttivo del Paese ha perso la sua massa critica. Ci devono spiegare perche’ le privatizzazioni sono state fatte cosi’. Lo ’spezzatino’ indica quali erano gli appetiti… L’unica struttura dimensionale all’altezza la conservano i gruppi che sono ancora dello Stato. Mi chiedo a cosa sia servito, ad esempio, lo spezzatino dell’Enel, mentre la Francia oggi puo’ contare in questo settore su un colosso di dimensioni internazionali.

A parte che, l’ultima volta che ho controllato, l’Enel – sia pure spezzatinata – aveva ancora lo Stato come azionista di controllo, forse il ministro non si è accorto di alcuni, trascurabili risultati che sono stati raggiunti negli ultimi anni.

Anzitutto, la storia. Enel nasce nel 1962 con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e assorbe tutta la pluralità di operatori privati allora esistenti. Sopravvivono solo un pugno di municipalizzate. Rimane un ente di Stato fino al 1992, quando viene trasformata in società per azioni (il cui capitale è interamente nelle mani del Tesoro). Gli anni fino al 1998 sono un periodo di profonda riorganizzazione, durante i quali la trasformazione da “ministero” a società deve prendere, e prende, sostanza. Sono anche gli anni in cui matura il progetto (poi abortito) dell’Enel “multiutility”, ma questa è una storia diversa (e sovrapposta). Contemporaneamente, il paese inizia a dotarsi degli strumenti richiesti dalle direttive europee in vista della liberalizzazione: la stessa Autorità per l’energia diventa operativa nel 1997, sotto la guida di Pippo Ranci.

La svolta è però nel 1999, quando il decreto Bersani apre formalmente il mercato alla concorrenza, imponendo tra l’altro un tetto antitrust del 50 per cento alla quota di mercato dell’Enel. Da qui nasce l’esigenza dello spezzatino: esso viene fatto per “liberare” i consumatori dal monopolio. L’effettiva libertà di scelta è ancora lontana, ma il frutto non può essere distinto dall’albero. E alle radici dell’albero c’è questa scelta che è virtuosa e, come vedremo, conveniente. Ma, prima ancora dello spezzatino, Enel viene quotata in borsa. Questo è l’inizio della “privatizzazione”: l’anno è il 1999, cioè l’anno del decreto Bersani, l’anno in cui lo Stato deve far tornare i conti per entrare nell’euro, l’anno in cui tutte le decisioni successive vengono, se non prese, almeno impostate.

Lo spezzatino si sostanzia col conferimento di un pacchetto di centrali a tre GenCo – Eurogen, Elettrogen, Interpower – attraverso le quali Enel aliena circa 15.000 MW di potenza. Teoricamente i tre portafogli vengono composti in modo “equo”, cioè in modo tale da non mantenere i gioielli nel recinto Enel e le carrette al di fuori. Non sempre le ciambelle riescono col buco, e non tutti i buchi sono delle dimensioni adatte, ma – ancora una volta – il meglio è nemico del bene e qui, indubbiamente, di bene stiamo parlando. I primi acquirenti delle Genco sono, rispettivamente, Edipower (2002), un consorzio tra Endesa Italia e Asm Brescia (2001), e un consorzio tra Acea ed Electrabel-Suez (2002). Successive riorganizzazioni societarie, e soprattutto l’incredibile e (per quel che ne so) senza precedenti ondata di investimenti che dopo il 2003 ha rinnovato gran parte della flotta esistente ha infine plasmato il mercato e determinato la struttura dei principali attori. Una sorta analoga segue la rete di trasmissione nazionale, conferita inizialmente a una società del gruppo Enel (Terna) e gestita da un organismo pubblico (il Grtn): il sistena troverà la sua razionalità nel 2004, con l’alienazione di Terna e la sua “privatizzazione” e la conseguente unificazione di proprietà e gestione. Anche qui, l’ultima volta che ho controllato Terna aveva lo Stato come azionista di controllo. Sempre l’ultima volta che ho controllato, negli anni in cui tutto questo avveniva (2001-2004) il presidente del consiglio era Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia era Giulio Tremonti, che nella sua “lettera d’addio” (quando a Via XX Settembre fu sostituito da Domenico Siniscalco) rivendicò i risultati raggiunti:

nel periodo in cui ho avuto l’onore di servire il Paese come ministro dell’Economia nel governo Berlusconi, l’Italia ha operato circa un terzo delle privatizzazioni operate in tutto il mondo, in pari periodo, e ha centrato il record europeo delle privatizzazioni.

(Hat tipo: Goffredo Galeazzi).

Il resto non è storia ma cronaca, o qualcosa che sta nel mezzo. Enel è cresciuta sana e robusta (seppure indebitata per l’importante campagna di acquisizioni) e oggi si definisce ”una multinazionale dell’energia”: non sono sicuro che, potendo scegliere tra l’essere azionista di Enel o di Edf (il presunto esempio positivo nella citazione iniziale di Tremonti), il ministro dell’Economia preferirebbe il gruppo francese. L’apparente paradosso è che, contemporaneamente, sono cresciute sia Enel, sia i concorrenti, tanto che oggi esistono almeno cinque gruppi di grandi dimensioni nella generazione elettrica (Enel, Edison, Eni, Edip0wer, E.On) e svariati altri di dimensioni medie o piccole.

La privatizzazione e lo spezzatino si sono sviluppati di pari passo con la progressiva apertura del mercato, che dal 1 luglio 2007 riguarda tutti i consumatori, compresi quelli domestici. Come spieghiamo nell’Indice delle liberalizzazioni, il mercato ha così raggiunto un grado di apertura dignitoso sia in assoluto, sia rispetto ai benchmark più sfidanti (nel nostro caso, la Gran Bretagna). Con o senza benefici per i consumatori? La risposta sta non solo nei risultati raggiunti in termini di “switch” (cioè l’effettiva mobilità dei consumatori) che non sono disprezzabili, ma anche e soprattutto nel mutamento generale che privatizzazione e liberalizzazione e spezzatino hanno imposto al settore. Il bilancio di questi anni sta nella presentazione della relazione annuale del Presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis:

A questi fini serve pure completare e sostenere le liberalizzazioni e le regolazioni che hanno già garantito risultati importanti: nel settore elettrico del nostro Paese, ad esempio, una riduzione di oneri stimabile in più di 4,5 miliardi di euro all’anno, rispetto al 1999. A questo dato ha contribuito, per il 40%, la riduzione di componenti tariffarie regolate e, per il 60%, la pressione competitiva che ha indotto investimenti per impianti nuovi e più efficienti.

Ciascuno è libero di valutare autonomamente questi dati – se siano positivi o negativi, meglio o peggio di quanto si attendeva – ma sarebbe sbagliato ignorarli. E’ appena il caso di osservare che, nonostante l’aumento esponenziale dei prezzi dei combustibili nel periodo pre-crisi, i prezzi dell’energia elettrica in Italia sono restati (in termini reali) costanti o moderatamente crescenti, e ciò per effetto proprio della cornice competitiva che è stata creata. Dunque, per tornare al punto di partenza, è difficile sostenere che la somma di privatizzazione, spezzatino e liberalizzazione abbia penalizzato l’Italia. E sarebbe ingeneroso pensare che la sola liberalizzazione, senza la (parziale) privatizzazione e senza lo spezzatino, avrebbe sortito risultati altrettanto significativi in così poco tempo. Chi è sfiorato da questo dubbio, dovrebbe chiedersi perché nulla del genere si sia verificato nel contiguo settore del gas, dove – a una liberalizzazione formale – non ha corrisposto il tentativo di “smontare” il monopolio dando respiro alla concorrenza (in parte, va riconosciuto, perché i fondamentali del business sono diversi: ma non così diversi da impedire un’evoluzione parallela). Questo non significa che tutto va bene: significa che tutto va meglio (e potrebbe andare ancora meglio se applicassimo, con più convinzione, gli insegnamenti di questo decennio). Per usare una formula abusata, rovesciandola, molto resta da fare, ma molto è stato fatto. Con errori e ingenuità, ma nondimeno nella direzione giusta e con conseguenze concrete.

Il ministro Tremonti ci ha abituati al suo gusto per la provocazione, ma la provocazione non può prescindere da una base fattuale che, nel caso in questione, esiste, è facilmente accessibile e si suppone sia nota al responsabile dell’Economia, quanto meno nella sua veste di azionista di Enel (e percettore di dividendi forse perfino troppo lauti). Dunque, la domanda di Tremonti non è retorica. Il ministro si chiedeva “a cosa sia servito… lo spezzatino dell’Enel”. E’ servito a creare un’azienda seria, un mercato che funziona abbastanza bene, e un sistema elettrico che non ha nulla da invidiare, e molto da insegnare, ai competitor europei.

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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/ 3 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni-3/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni-3/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:54:02 +0000 Alberto Mingardi /?p=6478 Stagnaro conclude citando Rahm Emanuel: non bisogna sprecare una buona crisi. Bellasio giustamente sottolinea come purtroppo Emanuel e Obama abbiano approfittato della crisi non certo per andare nella direzione della libertà economica.

Interviene Antonio Pilati. Servizi pubblici locali, gas e tlc sono per Pilati l’ambito su cui rilanciare l’azione liberalizzatrice. Non sono riuscito a sentire tutto l’intervento di Pilati e mi scuso per la sintesi.

Interviene Maurizio Sacconi. Esprime espressamente per il rapporto “che segnala delle strozzature” anche se si può essere in disaccordo sui contenuti delle “liberalizzazioni”.  Siamo condizionati da tre fattori strutturali che rendono difficile crescere: la “condizione del debito sovrano” e la necessità di intervenire sul debito pubblico,  il declino demografico, la contrazione dei consumi interni.  Sacconi: serve meno Stato e più società, in cui c’è anche “più mercato”. Bisogna snellire le strutture dello Stato, e soprattutto evitare che con il pretesto della “ri-regolamentazione” si aumenti la regolamentazione: “è opportuno continuare a parlare di deregolamentazione”. Questa riflessione va fatta a tutti i livelli: il fatto che esista la Calabria non può servire sempre da alibi per le Regioni del Nord (più efficienti, ma solo rispetto al benchmark). Bisogna ridurre la spesa e la spesa liberata va usata per ridurre le tasse. Il cambiamento è necessario perché noi siamo in competizione con democrazie molto più “semplici” della nostra, con Stati più snelli. Pomigliano, continua Sacconi, è un caso di scuola: Fiat non ha chiesto più soldi, ma ha accettato di fare un “patto con la società”. Passare “da più Stato a più società” significa passare da relazioni segnate dall’intervento pubblico, a momenti di cooperazione spontanea fra individui e corpi sociali. “In questo senso Pomigliano fa scuola”. Anche i percorsi del mercato del lavoro non sono necessariamente formalizzabili in forma di legge: si sostanziano fuori da ogni centralismo regolatorio e si sostanziano in una vasta deregolamentazione. Lo stesso Statuto dei Lavoratori potrebbe essere sostituito non da norme di legge ma in parte può essere rimesso alla deregolabilità ed alla adattabilià  delle parti sociali. Il piano triennale per il lavoro che Sacconi presenterà alle parti sociali si intitolerà “Liberare il lavoro per liberare i lavori”. Sacconi chiude con due rilievi: manca la giustizia, nell’Indice (l’eliminazione del patto di quota lite, dice in polemica con le liberalizzazioni di Bersani, porterebbe ad aumento del “contenzioso temerario”). L’incertezza che grava sulla giustizia è forse il principale problema per le imprese. Sulle telecomunicazioni, Sacconi trova l’indice troppo “generoso” – l’osservazione è però rivolta allo stato degli investimenti sulla rete dell’incumbent.

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Acqua: sostenibilità, efficienza e solidarietà. Di Emiliano Massimini /2010/04/29/acqua-sostenibilita-efficienza-e-solidarieta-di-emiliano-massimini/ /2010/04/29/acqua-sostenibilita-efficienza-e-solidarieta-di-emiliano-massimini/#comments Thu, 29 Apr 2010 07:50:38 +0000 Guest /?p=5810 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Emiliano Massimini, capo della segreteria tecnica del ministro delle Politiche comunitarie, Andrea Ronchi. Sul tema sono intervenuti in passato Carlo Stagnaro e Federico Testa.

Il problema della “privatizzazione” dell’acqua è mal posto. L’acqua è pubblica e l’attribuzione della qualifica contenuta nella legge Galli è stata determinata dalla necessità di attribuire alle acque sotterranee la qualità di pubbliche, per qualificare il reato d’inquinamento della immissione in falda di agenti inquinanti e, in tal modo, prevenire l’inquinamento delle sorgenti.

L’acqua non può essere utilizzata per soddisfare gli interessi della collettività se non incanalata e così trasportata alle utenze. Tale stato di fatto richiede:

-           Un piano generale degli acquedotti

-           La predisposizione di una rete di distribuzione

-           La individuazione degli obblighi di mantenimento della rete e l’attribuzione della  competenza per gli interventi

-           Un protocollo relativo alla qualità della fornitura, da modulare in relazione alle esigenze dell’utenza

-           La quantificazione dei costi per l’emungimento, il trasporto, la distribuzione e la potabilizzazione

-           La determinazione delle modalità di gestione della rete e della distribuzione

-           La determinazione della tariffa per la fruizione della risorsa, che deve essere predisposta in relazione alla scelta politica di coprire quantomeno il costo industriale della captazione, del trasporto, della distribuzione, del recupero e della manutenzione degli impianti fissi.

L’acqua, come risorsa naturale, è componente dell’ambiente e, come tale interagisce con ogni componente dell’ambiente medesimo e, in particolare, con i fattori inquinanti e, a sua volta, non deve essere portatrice di inquinamento. Per tale motivo, l’acqua come risorsa naturale deve essere gestita secondo criteri di sostenibilità, di efficienza e di solidarietà.

Il cosiddetto decreto Ronchi disciplina le modalità di erogazione del servizio di distribuzione e di gestione della rete. Non esistono disposizioni normative che esonerino l’utente dal pagamento della fornitura idrica.

Tutto ciò comporta la necessità di prevedere:

-           Un controllo sull’uso dell’acqua secondo criteri di sostenibilità, efficienza e solidarietà

-           Un controllo sulla rispondenza della fornitura alle norme di efficienza del servizio

-           Un modello di atto di concessione della gestione del servizio e della rete che assicuri la trasparenza dei rapporti tra concedente e concessionario, l’obbligo del concessionario di garantire un servizio rispondente alle regole di qualità previste dall’ente preposto al controllo della fonte acquifera in relazione alle individuate esigenze degli utenti.

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Più stoccaggi per tutti /2010/04/24/piu-stoccaggi-per-tutti/ /2010/04/24/piu-stoccaggi-per-tutti/#comments Sat, 24 Apr 2010 14:05:27 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5753 Il governo ha approvato ieri, dopo una lunga e incerta trattativa, lo schema di decreto sugli stoccaggi del gas predisposto dal ministero dello Sviluppo economico. Il decreto punta a superare le attuali rigidità del mercato, concedendo all’Eni un margine di flessibilità in più rispetto ai tetti antitrust esistenti (in scadenza alla fine di quest’anno) ma vincolando questa flessibilità alla realizzazione di investimenti adeguati. E’ inoltre prevista la partecipazione di soggetti industriali, direttamente o attraverso consorzi. In questo modo si spera di accompagnare lo sviluppo del settore creando un polmone di dimensioni adeguate, che dia liquidità agli scambi di gas metano, ed erodendo la posizione dominante di Stogit (che sta nel perimetro di Snam Rete Gas, controllata dall’Eni). Sul Sole 24 ore di oggi, Federico Rendina fornisce tutti i dettagli della manovra, e spiega perché essa segna una rivoluzione profonda nel settore. Il decreto introduce sensibili miglioramenti, di cui va dato atto al ministro, Claudio Scajola, e al sottosegretario competente, Stefano Saglia.

Il deficit di capacità di stoccaggio è, infatti, una delle ragioni per cui il mercato del gas, pur formalmente liberalizzato nel 2003, si dimostra asfittico. Nell’anno termico 2008/9, il sistema ha offerto una capacità pari a 13,9 miliardi di metri cubi, di cui circa 5,1 miliardi di metri cubi destinati allo stoccaggio strategico, contro una domanda pre-crisi di quasi 90 miliardi di metri cubi. La quasi totalità di questa capacità (13,5 miliardi di metri cubi) è gestita da Stogit, seguita a distanza siderale da Edison Stoccaggi, con 0,4 miliardi di metri cubi. Un certo numero di società si sono fatte avanti per ottenere la concessione a realizzare ed esercire nuovi siti di stoccaggio – la più rilevante essendo quella di Rivara, da 3 miliardi di metri cubi che potrebbero aggiungere alla disponibilità giornaliera di punta (circa 152 milioni di metri cubi) circa 32 milioni di metri cubi. Tutti i progetti, comunque, sono nelle more dei procedimenti amministrativi.

In questo contesto, è chiaro che un intervento teso a “oliare” il mercato e accelerare la realizzazione di nuove infrastrutture di stoccaggio è come manna dal cielo, sia nell’ottica del funzionamento quotidiano del mercato, sia in quella più di lungo termine della creazione di una borsa del gas degna di questo nome. L’entusiasmo per questo importante passo avanti, il primo dopo anni di tiramolla senza sostanziali sviluppi, è sostanzialmente unanime tra gli stakeholder, compresa Confindustria. Non bisogna, però, confondere un sensibile miglioramento con la soluzione del problema. Resta sul tavolo, infatti, la questione non triviale dei tetti antitrust – strumento odioso ma, nell’attuale assetto del mercato, tristemente necessario a contenere gli abusi, attuali e potenziali. La soluzione potrebbe arrivare solo con la separazione proprietaria degli stoccaggi dall’incumbent, più volte sollecitata, tra gli altri, dal presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis. Infatti,

Circa lo stoccaggio, mentre apprezziamo che ENI sembri apprestarsi volontariamente ad operazioni di cessione (la cui adeguatezza andrà valutata), segnaliamo che le sole misure di regolazione non possono superare gli ostacoli derivanti da un assetto proprietario che vede concentrata in un unico soggetto la massima parte sia degli stoccaggi esistenti sia dei giacimenti potenzialmente riconvertibili a stoccaggio.

Oggi è, dunque, una giornata importante per la travagliata storia della liberalizzazione del gas in questo paese. Soddisfazione ed esultanza sono pienamente giustificati. Sarebbe però ingenuo pensare che qui si chiuda un percorso travagliato e segnato da innumerevoli retromarce e campi minati.

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A proposito di acqua e servizi pubblici locali. Di Federico Testa /2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/ /2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/#comments Sat, 24 Apr 2010 08:22:02 +0000 Guest /?p=5750 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Federico Testa, economista e deputato Pd. In risposta ai dubbi avanzati ieri da Carlo Stagnaro, Testa esprime le ragioni di perplessità sul decreto Ronchi.

Il tema dei servizi pubblici locali è certamente complesso, lo dimostrano anche i tentativi di intervenire fatti nel passato e non sempre riusciti. Quando si parla di servizi pubblici locali si parla di servizi che vanno a soddisfare bisogni fondamentali della collettività, pertanto è importante, da un lato, lavorare per un approccio organico -e l’articolo inserito in un decreto-legge che parla d’altro non rappresenta certamente un approccio organico- ma è anche importante capire cosa si mette al centro.


Io credo che, se si vuole affrontare correttamente questo tema, al centro sia doveroso mettere il cittadino e il suo diritto ad avere servizi di buona qualità ad un prezzo corretto, il minimo possibile.

Da questo punto di vista, quando si ragiona di questo tema, il primo punto su cui bisogna confrontarsi  è sempre quello privatizzazione-liberalizzazione, perché la teoria ci dice che bisogna prima liberalizzare e poi privatizzare, altrimenti  si corre il rischio o di trasferire una rendita di monopolio dal pubblico al privato.

In questo senso, quello che a me pare manchi nel recente decreto legge su cui il Governo ha posto la fiducia, sono interventi seri proprio sul fronte delle liberalizzazioni. Ma cosa non ha funzionato nelle liberalizzazioni in Italia? Non ha funzionato, ad esempio, tutto il tema delle gare: molto spesso abbiamo a che fare con gare che sono assolutamente non vere e ciò dipende anche dal fatto che i soggetti che sono chiamati a bandire le gare, da un lato, non hanno le competenze per poterlo fare, dall’altro, molto spesso sono in palese conflitto di interessi rispetto chi si aggiudicherà la gara stessa.

Inoltre, vi è la questione dell’autorità di regolazione, nel senso che la concorrenza perfetta non è uno stato naturale del mercato; le imprese vanno alla ricerca di un vantaggio competitivo nei confronti delle altre, e quindi là dove lo si ritenga opportuno, bisogna realizzare interventi affinché la concorrenza venga mantenuta.

Il Governo, con il recente provvedimento, ragiona al contrario, ossia pone vincoli molto rigidi in tema di privatizzazione, e quindi l’effetto che si ottiene pare essere prevalentemente quello, diciamo così, di “spartire” la rendita di monopolio del pubblico con qualche privato, il tutto senza alcun vantaggio certo e chiaro per i cittadini e per i consumatori. Questo è reso evidente dal fatto che le concessioni in house vanno a scadenza purché nel soggetto pubblico che ne è titolare entri il privato almeno per il 40 per cento. Quindi, in questo modo, invece di stabilire di bandire una gara, visto che si tratta di una concessione in house e che magari chi ha vinto la gara poteva non essere il soggetto che dava la migliore qualità e il miglior prezzo ai cittadini, si prevede di fare entrare un privato e questo, di per sé, sana la questione.

L’approccio al tema, invece, dovrebbe essere profondamente diverso: occorre mettere al centro i consumatori sapendo che si deve tra l’altro affrontare –in tema di ciclo idrico- una questione delicatissima, che è quella degli investimenti che bisogna effettuare nel nostro Paese, in quanto il dato di oltre il 35 per cento di perdite degli acquedotti in Italia è purtroppo realistico.

Occorre, dunque, fare investimenti e che questi siano finanziati: sia che li faccia il pubblico, sia che li faccia il privato, gli investimenti devono avere una sostenibilità finanziaria. Se il finanziamento è a carico della fiscalità generale, dobbiamo avere il coraggio di andare a dire che la fiscalità generale probabilmente deve crescere o diventare più efficiente per finanziare gli investimenti nell’acqua; se gli investimenti devono essere finanziati dal settore stesso, dobbiamo sapere che probabilmente le tariffe sono destinate a crescere perché si dovrà investire parecchio, o che bisognerà riuscire a recuperare, attraverso gli interventi regolatori, importanti spazi di efficienza e produttività.

Quindi, l’autorità indipendente di garanzia –che il provvedimento del governo non prevede- è importante proprio perché, nel momento in cui si vanno a chiedere maggiori risorse ai cittadini per finanziare gli investimenti, è fondamentale che tali maggiori risorse vadano alla destinazione richiesta e non vadano, invece, a costituire profitto o sprechi.

Da questo punto di vista, forse, la scelta migliore era quella di non perseguire un approccio ideologico qual è quello che, a mio modo di vedere, si è voluto assumere ma, invece, di mettere correttamente in competizione pubblico e privato allo scopo di garantire la qualità e il servizio migliore ai cittadini.

In questo senso credo che, un’altra volta, si sia persa un’occasione importante per intervenire in un settore che, proprio perché riguarda i bisogni fondamentali dei cittadini, è assolutamente importante e rilevante per tutti noi.

(Pubblicato per la prima volta su Management delle utilities, vol.8, no.1, 2010, pp.97-98).

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Acqua. Mr Pierluigi ma anche, e sempre più, Dr Bersani /2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/ /2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/#comments Fri, 23 Apr 2010 18:06:03 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5748 Comincia domani la guerra dell’acqua. Il comitato “Acqua bene comune” avvia la raccolta delle firme per tre quesiti referendari, per l’abrogazione dell’art.23 bis del “decreto Ronchi” e delle altre norme il cui combinato disposto produce l’attuale (insoddisfacente) assetto di parziale liberalizzazione. La battaglia populisticamente, e scorrettamente, intitolata all’acqua pubblica – populisticamente e scorrettamente perché non c’è un rigo, nelle norme, che “privatizzi” l’acqua - ha trovato, fin da subito, il sostegno (esplicito e forte) dell’Italia dei Valori, e quello (implicito e paraculesco) della Lega. Da ieri, il Partito democratico si è, più o meno, aggregato alla carovana.

Dico “più o meno” perché, pur avversando il decreto Ronchi in merito alla “privatizzazione” dell’acqua, durante l’apposita conferenza stampa il segretario, Pierluigi Bersani, ha parlato di tutelare la proprietà pubblica della risorsa idrica e il “ruolo fondamentale delle regioni e degli enti locali nelle scelte di affidamento del servizio idrico integrato” (così si legge nella nota distribuita alla stampa). Tradotto in italiano corrente: il Pd difende lo status quo. Il colpo al cerchio: il Pd raccoglierà le firme su una proposta di legge di iniziativa popolare. Il colpo alla botte: il Pd non raccoglierà le firme per il referendum. (Ma, verosimilmente, lo appoggerà nel caso in cui vada in porto).

Ora, c’è un che di stupefacente in tutto questo. Quello che meraviglia non è tanto l’incapacità per il Pd di ammettere (capire, lo capiscono) che il decreto Ronchi, pur non essendo in alcun modo perfetto, è il migliore dei mondi politicamente possibili. Non meraviglia neppure che, dentro il Pd, vi siano voci simili a quelle che si sentono comunemente provenire dalle parti della sinistra massimalista: qualche dissonanza c’è sempre stata. Quel che lascia a bocca aperta è che, di tutti i democratici, sia proprio Bersani a impugnare lo scettro dell’acqua pubblica. Stupisce perché, come riconosce un critico intellettualmente onesto quale Giuseppe Altamore, non c’è tutta queste differenza tra il decreto Ronchi e il mitico, e affossato dalle opposizioni interne, ddl Lanzillotta (in realtà l’acqua era stata esclusa, ma il ministro Lanzillotta disse a più riprese che aveva subito una forzatura, e poté contare, tra l’altro, sul soccorso dell’Antitrust). Non risulta che, all’epoca, Bersani si sia opposto agli sforzi di Lanzillotta. Risulta, dalla cronaca e dall’anedottica, il contrario: che Mr Pierluigi, che cesellò attorno sé l’epica del liberalizzatore coraggioso, si sia battuto per ottenere quello che poi non avvenne.

Stupisce e delude, allora, assistere oggi al “contrordine compagni” del Dr Bersani, che non sa trovare un modo migliore di interpretare il proprio ruolo se non quello di cedere agli istinti più belluini del suo partito. E sì che questa sarebbe una splendida occasione per dimostrare la maturità del Pd, a fronte dello spettacolo che il Pdl sta offrendo al paese. Sic transit gloria, si fa per dire, mundi.

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Nucleare. Tre proposte per migliorare il decreto /2010/01/19/nucleare-tre-proposte-per-migliorare-il-decreto/ /2010/01/19/nucleare-tre-proposte-per-migliorare-il-decreto/#comments Tue, 19 Jan 2010 10:14:11 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4836 Oggi inizia, nelle Commissioni parlamentari competenti, l’esame dello schema di decreto approvato dal governo il 22 dicembre 2009, sulla realizzazione e l’esercizio degli impianti nucleari. Il decreto, segnato chiaramente dalla mano del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, rappresenta finalmente un solido elemento di discussione: si cominciano, insomma, a vedere i contorni di un fatto reale, e non più mere parole o promesse. Rispetto alle intenzioni originali, è possibile constatare significativi passi avanti, tesi a calare la tecnologia atomica nel contesto di un mercato liberalizzato. Diego Menegon, in questo Briefing Paper dell’IBL, entra nel merito dei problemi.

Il giudizio è generalmente positivo, soprattutto rispetto alla scelta di lasciare al mercato (cioè agli operatori) l’individuazione dei siti. L’Agenzia per la sicurezza, infatti, emanerà delle linee guida ad excludendum, che consentiranno di definire le condizioni ostative alla creazione di un impianto. Spetterà però a chi è materialmente interessato a investire nell’atomo – in primis la cordata Enel/Edf, a seguire altre eventuali cordate concorrenti – trovare un sito appropriato e presentare un progetto alla roulette autorizzativa. Questo processo è molto più logico del contrario – lo Stato individua i siti e li assegna tramite gara – non solo perché scorre parallelo a quanto avviene per qualunque altro impianto di produzione elettrica, ma anche e soprattutto perché indebolisce, e molto, le possibilità governative di pianificazione numerica e, dunque, di decidere direttamente chi deve fare cosa e quanto.

Restano, però, degli elementi ambigui, che meritano un intervento. I tempi ci sono e, se il governo continuerà a gestire il nucleare in un’ottica di dialogo con l’opposizione, non è improbabile che almeno alcuni punti vengano fissati. In particolare, Menegon avanza tre proposte:

-          ribaltare le regole del dialogo tra poteri pubblici e operatori privati nella definizione delle linee strategiche. Il testo trasmesso al parlamento prevede che l’esecutivo definisca una strategia nucleare alla quale le imprese sono tenute a dare attuazione con propri programmi equiparati per molti aspetti ad atti della pubblica amministrazione. Occorre, invece, chiarire la natura di soft law della strategia nucleare, garantire la partecipazione degli operatori alla sua definizione e liberare i successivi passi della politica nucleare (definizione dei parametri per l’individuazione dei siti e presentazione delle istanze di autorizzazione) dall’adozione definitiva della strategia nucleare.

-          unificare (davvero) il procedimento. Attualmente è previsto un procedimento di certificazione dei siti, su iniziativa degli operatori, distinto dal procedimento autorizzativo degli impianti. Accorpando i due procedimenti si avrebbe non solo una semplificazione ed una significativa riduzione dei tempi (probabilmente di oltre 14 mesi), ma si garantirebbe in modo più efficace la certezza del diritto e il principio di legittimo affidamento; concentrando il momento della concertazione con regioni ed enti locali in alcuni momenti salienti del processo decisionale, infatti, si conterrebbe il rischio di veder sconfessata da una nuova maggioranza politica un’intesa conseguita con l’amministrazione regionale uscente.

-          affidare le attività di smantellamento degli impianti a fine vita agli esercenti. Lo schema di decreto contraddice l’orientamento del legislatore comunitario, conferendo ad un unico soggetto un diritto di esclusiva sull’espletamento delle medesime attività, per altro in un regime di fissazione dei costi che sfugge ad ogni controllo e che espone gli operatori all’impossibilità di poter verificare la giustezza delle richieste economiche loro avanzate. È opportuno, invece, che siano gli operatori a provvedere al decommissioning e che il relativo fondo sia istituito per garantire le risorse in caso di default dell’operatore.

A queste criticità se ne aggiungono altre due, una interna e una esterna al decreto. Quella interna riguarda le modalità di compensazione a favore dei cittadini delle aree interessate. Pensare di applicarle alla bolletta della luce è discutibile, sia per ragioni antitrust, sia perché di fatto significherebbe fiscalizzarle, secondo processi tortuosi e ambigui. Si possono considerare diverse opzioni: io resto persuaso che il modo migliore sia attraverso un contributo cash, che sia una tantum o ricorrente. Il secondo problema è quello dell’Agenzia di sicurezza, il cui ruolo – tecnico e di comunicazione – è, contemporaneamente, la pietra di volta e l’anello debole della catena nucleare. Vuoi per il sottofinanziamento (1,5 milioni di euro nel 2010…), vuoi per la procedura di nomina insufficiente a garantire l’indipendenza (nomina governativa senza ratifica parlamentare a maggioranza qualificata) è forte il rischio che tale organismo venga visto come un’emanazione diretta dell’esecutivo, piuttosto che un ente di garanzia, tecnicamente credibile e socialmente accettato. La qualità delle nomine potrà davvero fare la differenza.

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