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Posts Tagged ‘Krugman’

Un divertissement per convincere gli americani a non europeizzarsi

22 gennaio 2010

Qualche giorno fa Paul Krugman sentenziò sulle pagine del New York Times che gli Stati Uniti avrebbero dovuto imparare dall’Europa (“Learning from Europeâ€), un’economia dinamica quanto quell’americana – a detta dell’economista liberal – che avrebbe dimostrato come “la giustizia sociale ed il progresso possono andare mano nella manoâ€. Per Krugman è solo un vecchio luogo comune quello che dipingerebbe la socialdemocrazia europea come un modello economico rigido, lento e decadente. Prosegui la lettura…

Piercamillo Falasca liberismo, mercato, welfare , , ,

Premiato per bancarotta

17 dicembre 2009

Se un ingegnere difendesse una teoria che fa crollare i ponti e fa ammazzare un sacco di persone, potrebbe non essere penalmente responsabile, ma perlomeno dovrebbe essere considerato tale intellettualmente. Se poi quell’ingegnere continuasse a dispensare consigli su come costruire ponti, e magari a provare a progettarne qualcuno, si dovrebbe pensare a fare qualcosa per fermarlo, come cacciarlo dall’Albo, perseguendolo in tribunale per i suoi progetti sistematicamente erronei, fargli pagare i risarcimenti per le vittime della sua incapacità. Qualsiasi cosa, purché lui e i suoi seguaci non progettino più ponti.

In economia no. In economia al progettista folle si dà il Premio Nobel proprio mentre il ponte sta crollando. Sto ovviamente parlando di Paul Krugman, che se non è il più self-righteous dei supposti salvatori della patria tramite debiti e inflazione (la palma spetta a Brad DeLong), non è in genere carente di arroganza, e ciò spero scusi il divertito tono di questo articoletto. Prosegui la lettura…

Pietro Monsurrò Senza categoria , , , , ,

Eco-protezionismo?

27 luglio 2009

Dove finisce l’ambiente e dove comincia il protezionismo? Sabato scorso ho partecipato alla giornata sull’energia della Scuola di politica di Michele Salvati e Salvatore Vassallo, nell’ambito della quale Ricardo Hausmann – economista e direttore del Centro per lo sviluppo internazionale dell’università di Harvard – ha svolto un interessante ragionamento sulle prospettive dei biocarburanti. Hausmann ha in particolare suggerito di stare molto attenti a distinguere le politiche ambientali da quelle industriali, perché – pur potendosi sovrapporre – hanno obiettivi e sfruttano mezzi diversi. Poiché la riflessione mi sembrava molto sensata, gli ho chiesto un commento sulla scelta dell’Unione europea di imporre dazi sui biocarburanti importati. Contrariamente a quello che mi aspettavo, Hausmann si è detto favorevole.

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Carlo Stagnaro energia, liberismo , , , ,

Krugman, Reagan e i tagli alle imposte

15 giugno 2009

Qualche ora fa, sul suo frequentatissimo blog Paul Krugman ha preso per i fondelli i repubblicani e contestato quanti attaccano il piano di stimoli predisposto da Barack Obama poiché non avrebbe prodotto i risultati annunciati, soprattutto in tema di occupazione. Con una certa abilità retorica, Krugman si limita ad esibire un grafico che mostra come durante la presidenza Reagan a seguito dei tagli alle imposte per più di un anno si ebbe un incremento del numero dei senza lavoro.

La polemica di Krugman, che da intellettuale “militante” ed insider di primo livello è uso a schierarsi con una parte e contro l’altra, non sarebbe così interessante se non offrisse l’occasione per considerazioni più generali.

Su un punto l’economista americano ha sicuramente ragione: e cioè che le buone scelte politiche non si giudicano nell’arco di pochi mesi. Non a caso il formidabile crollo della disoccupazione che caratterizzò in America gli anni Ottanta del reaganismo fu ben successivo alla fase ricordata da Krugman.

C’è però un altro elemento, assai più meritevole di attenzione. Bisognerebbe cominciare a ragionare su questi temi senza infatti cadere vittima di troppe ingenuità metodologiche. In una realtà complessa quale è quella dell’economia americana o di qualsiasi altro Paese, non è possibile attribuire ad una scelta politica (sia esso uno “stimolo” keynesiano o il taglio delle imposte) ciò che succede successivamente (ad esempio, l’aumento della disoccupazione). Solo una buona teoria può dirci quale relazione c’è, ceteris paribus, tra una scelta di politica economica e le sue conseguenze sul sistema della produzione e della distribuzione. L’empirismo dei puri fatti non porta da nessuna parte.

In secondo luogo, bisognerebbe capire che è davvero molto sbagliato sposare l’occupazione per se: e che certo questo è tanto più curioso se a farlo sono intellettuali che costantemente dichiarano di farsi ispirare solo dalla realtà, rigettando ogni prospettiva di ordine ideologico e/o morale. D’altra parte, nella vecchia Ddr o nell’Urss d’antan la disoccupazione proprio non esisteva. C’erano invece i lavori forzati.

Non solo. Chi scrive è tra coloro che sarebbe davvero felice di veder crescere di colpo la disoccupazione in Italia grazie a massicci licenziamenti nel settore pubblico. È un’ipotesi del tutto irrealistica e certamente sarebbe una medicina amara (molto dolorosa, in particolare, per chi finirebbe per trovarsi sulla strada), ma aiuterebbe la crescita effettiva del Paese, che ha bisogno di più privato e meno spesa pubblica, più imprese e meno uffici parastatali.

Per sviluppare una qualsivoglia analisi sociale, bisogna insomma evitare non soltanto l’ingenuo positivismo che oggi domina larga parte degli studi economici, ma saper anche includere – con la massima consapevolezza, e con il coraggio di esporre le proprie tesi alle altrui critiche – quelle opzioni culturali ed etico-politiche che comunque sorreggono ogni interpretazione della realtà. Anche quelle di economisti avversi – a parole – ad ogni ideologia e fedeli sacerdoti di un positivismo che si vorrebbe oggettivo e senza partiti.

Carlo Lottieri Senza categoria , , , , , ,

Krugman e il computer di Picasso

4 maggio 2009

A Paul Krugman hanno dato il premio Nobel per l’Economia, ma meriterebbe anche quello per la Pace. Se lo è guadagnato col suo editoriale di giovedì sul New York Times, nel quale afferma che l’adozione di uno schema di “cap & trade” negli Stati Uniti sarebbe un male necessario. Un male, perché come lui stesso riconosce che “limitare le emissioni avrebbe dei costi”. Ma necessario, non solo perché in questo modo potremmo “salvare il pianeta”, ma anche perché “darebbe alle imprese una ragione per investire”. Come ha notato David Henderson, però, con queste affermazioni Krugman adotta un punto di vista puramente keynesiano, secondo cui investire è tutto ciò che conta, a prescindere dalla produttività degli investimenti. E dunque, facciamo scavare alla gente delle buche che riempiranno il giorno dopo, oppure tappezziamo il paese di torri eoliche e pannelli solari.

Al di là di questo fraintendimento sul meccanismo che sta alla base della creazione di ricchezza, Krugman pare compiere una serie di assunzioni tutt’altro che pacifiche. Anzitutto, suppone che il cap & trade americano potrebbe funzionare. Non è scontato: in Europa è andata diversamente. Secondariamente, implicitamente sembra credere che (a) tutto il mondo si adeguerà introducendo politiche di controllo delle emissioni e (b) gli imprenditori americani siano idioti. Se infatti resterà almeno un paese sulla faccia della Terra che lasci libertà di CO2, e se esisterà almeno un imprenditore americano intelligente in un settore carbon-intensive, questi delocalizzerà le sue attività in quel paese, col risultato che i suoi concorrenti o chiuderanno la baracca, oppure si adegueranno. Ciò significa che, a livello globale, le emissioni non verranno significativamente ridotte, ma solo trasferite. Anzi, è probabile che addirittura aumentino, perché – come spesso accade – il paese in via di sviluppo di destinazione potrebbe essere meno efficiente, nell’uso dell’energia, degli stessi Stati Uniti. Per esempio, Dieter Helm – certo non sospettabile di anti-kyotismo – ritiene che il processo di “decarbonizzazione” dell’economia britannica non abbia in verità prodotto alcuna riduzione delle emissioni nette del paese, che si sarebbero solo spostate altrove.

Ma anche trascurando questo non secondario punto, e supponendo che gli imprenditori americani siano idioti e che tutto il mondo si innamori di Barack Obama a tal punto da seguirlo sulla via del cap & trade, c’è un ulteriore punto che a Krugman sembra sfuggire. Siamo sicuri che la riduzione di qualche punto percentuale delle emissioni globali abbia risultati discernibili sul clima? E, in subordine, siamo sicuri che il beneficio ambientale sia comparabile al costo economico? Le opinioni qui sono molto diverse e distanti, ma semplicemente il fatto che questa divergenza esista testimonia di una profonda incertezza di fondo. Ora, tra tutti i modi di gestire l’incertezza, quello meno efficace consiste nel rimpiazzarla con una falsa certezza. La sicumera con cui Krugman e quelli come lui affrontano le questioni climatiche, passando bellamente sopra all’infinità di cose che ignoriamo, ricorda quanto Pablo Picasso diceva del computer: “è inutile perché dà solo risposte”.

Carlo Stagnaro energia , , ,

Sto con Kobayashi, contro Krugman

29 aprile 2009

Ora che i cento giorni del mitico Obama sono alle spalle e non c’è giornale Usa che non noti come sia troppo presto per capire quale sia davvero il segno della presidenza Usa, a parte una massiccia reflazione davvero senza precedenti e un appeasement generale in politica estera che è riuscito a rilanciare insieme Corea del Nord, Iran, pirati somali e chi più ne ha più ne metta (ora capisco meglio gli amici che in Israele hanno cercato di “pararsi il culo” votando per Lieberman e salutando l’alleanza con Bibi, mentre io avrei forse un po’ ingenuamente votato Kadima…), viene il momento di dichiarare un primo tassello “identitario”, da sottoporre all’attenzione e al commento di tutti voi nostri iniziali lettori. Come la pensate, nella polemica a puntate che sta opponendo il Nobel Paul Krugman a Keiichiro Kobayashi, senior fellow al Research Institute of Economy, Trade and Industry nonché abituale alimentatore del sito voxeu.org? La domanda non è spocchiosa né di quelle che lasciano il tempo che trovano. Perché schierarsi nella controversia significa in realtà esprimere il giudizio più pregnante, tra quelli attualmente possibili, sull’amministrazione Obama. Per gli interessati ad approfondire, qui trovate l’ultima replica alla precedente di Krugman. Per chi si fosse perso le precedenti puntate, in sintesi Krugman difende a spada tratta la spesa pubblica aggiuntiva a tonnellate senza stare troppo a cavillare sul 75% che è destinato a pork barrel, anzi la critica perché ancora insufficiente. Kobayashi ha scritto per primo e continua a ripetere con nuovi argomenti che dieci anni di indebitamento pubblico a go go non risollevarono il Giappone negli anni Novanta, e che i primi segni di ripresa reale arrivarono solo nel 2003 quando infine le autorità si decisero a far fallire qualche banca dopo aver scrutinato dall’interno la qualità degli asset di tutti i maggiori istituti, invece di continuare a coprirne asintoticamente il balance sheet enfiato. Krugman replica che è falso, perché dal 2003 la ripresa giapponese aveva a che fare con la ripresa dell’export trainata dai consumi Usa e non dalla pulizia degli asset tossici. E Kobayashi gli controreplica che proprio quella ripresa dell’export fu resa possibile in realtà da lending bancario che tornava a poter incoraggiare i fondamentali. Che il dibattito non sia affatto teorico, si comprende intuitivamente dal fatto che, per esempio, Martin Feldstein sia a favore degli stress test, delle maxi garanzie pubbliche alle banche e anche della nazionalizzazione di qualcuna a tempo, se necessario, accompagnata dall’aggregazione o dal fallimento di quelle più “tossiche”, ma sia risolutamente contrario al più delle spese pubbliche varate dal Congresso allo scopo non di uscire dalla crisi, ma di realizzare il maggior inspessimento dell’intermediazione pubblica dai tempi della Great Society johnsoniana. Nei primi giorni di maggio capiremo meglio tutti, che cosa Tesoro e Fed ci riservano dopo i risultati degli stress test. Ma la tesi krugmaniana, se abbracciata fino agli estremi, implica per esempio che la temporanea conversione in equity dei k401 dei dipendenti Usa dell’auto in realtà non sarà temporanea affatto, perché prelude invece a una previdenza pubblica di un qualsivoglia diverso tipo ma comunque “europea”. Roba da far cambiare identità profonda all’America, ma partendo dal presupposto che gli americani davvero lo vogliano come modello di società, anche un domani che i consumi riprendessero, cosa che non sono affatto disposto a scommettere prima ancora di non augurarmelo dal profondo del cuore. In definitiva, se plaudo al fatto che la sventurata storia italica ha messo il nostro Paese nelle condizioni attuali di obbligare Tremonti a spendere il minimo di risorse reali tra tutti i Paesi Ocse, è proprio perché penso che Krugman abbia torto e Kobayashi ragione. Quanto poi agli stress test, e a che cosa far seguire loro, ne parleremo in profondità. Intanto vi segnalo un paper che mi è sembrato a oggi il più ricco di analisi comparata, intorno alle caratteristiche dei regolatori monetari e bancari che in questi mesi fanno cose che noi umani mai prima avevamo visto. Si intitola Governing the Governors: A Clinical Study of Central Banks, è di Lars Frisell, Kasper Roszbach e Giancarlo Spagnolo, è un quaderno di studi della Banca Centrale svedese e lo scaricate gratis qui.

Oscar Giannino Senza categoria, liberismo, mercato , , , ,