CHICAGO BLOG » Keynes http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Perché da noi si mistificano i Tea Parties /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/ /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/#comments Tue, 09 Nov 2010 15:55:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7534 Ancora una volta, negli Stati Uniti il pendolo elettorale si è potentemente spostato. E ancora una volta lo ha fatto in una maniera che in Italia e nel più dell’Europa continentale risulta incomprensibile. Ve ne fornisco una modesta riprova.

Ho condotto un’indagine registrando sul mio pc 276 articoli dell’intero spettro della stampa quotidiana nazionale e locale italiana dal manifesto a Libero e comprese 15 testate locali più importanti, articoli dedicati alla presentazione delle elezioni di midterm nella settimana che ha preceduto le consultazioni, e oltre 350 nei tre giorni successivi, a commento del risultato. In queste elezioni la grande novità è rappresentata dalla storia e dalla posizione dei Tea Parties, che hanno invertito la polarità come il Contratto con l’America di Newt Gingrich fu la base del lunghi anni di Congresso repubblicano, da metà mandato di Clinton fino alla rivincita democratica sotto Bush figlio. Ebbene, su un totale di oltre 600 articoli, circa 480 davano conto dei Tea Parties come una rete potentemente sostenuta dalle grandi corporations, pressoché agli ordini o quanto meno astutamente strumentalizzata da Karl Rove – il mago della mobilitazione repubblicana sotto Bush padre e figlio – nonché come un movimento in cui abbondavano pazzi e spostati, razzisti del Sud armati fino ai denti, antiabortisti visionari e ballisti predicatori di castità come Christine O’Donnel, che ha finito per perdere disastrosamente in Delaware. Dettagliate e più corrette – a mio giudizio, naturalmente, non ho alcuna pretesa di parlare a nome di presunte “verità” – ricostruzioni dei Tea Parties come movimento che nasce si diffonde localmente, come protesta spontanea dal basso innanzitutto contro le politiche stataliste e salvabanche seguite da Bush figlio ben prima ancora che Obama vincesse le elezioni, prima del voto sono state offerte ai lettori italiani a malapena in una cinquantina di articoli, meno cioè del 10%.

Solo all’indomani del voto, la percentuale di analisi meno estreme dedicate ai Tea Parties si è leggermente equilibrata, soprattutto grazie a vittorie di personaggi di spicco come Marc Rubio in Florida, comunque descritto come politico di lungo corso abile nel cavalcare la protesta ma estraneo alla vera natura del movimento. Gli accenti già mutavano quando si passava alla descrizione di Rand Paul, il giovane oftalmologo vittorioso grazie soprattutto al fatto di essere figlio di Ron Paul, figura di riferimento dell’elettorato libertario pronto anche a candidarsi come indipendente nella gara per le ultime presidenziali, con proposte che in Europa lo fanno passare come matto quali l’abolizione della FED e il ritorno in sua vece al regime del gold standard. Tra parentesi, nella nuova Camera dei Rappresentanti a nettissima maggioranza repubblicana è proprio Ron Paul, il candidato senior repubblicano numero uno alla carica di presidente del sottocomitato alla politica monetaria che è l’interfaccia parlamentare al quale la FED di Bernanke risponde direttamente, visto che nell’ordinamento americano l’autonomia e l’indipendenza del regolatore monetario non lo sottrae a uno stretto regime di audizioni parlamentari, nelle quali i congressmen passano al setaccio le decisioni e gli orientamenti della banca centrale.

Commentando il voto nel mio appuntamento quotidiano con gli ascoltatori di Radio24, ho chiesto esplicitamente al direttore della Stampa, Mario Calabresi, che sul suo giornale insieme al Foglio di Giuliano Ferrara a mio personalissimo giudizio ha dato le informazioni più estese e corrette sui Tea Parties, se non pesasse un pregiudizio tutto italiano e per molti versi europeo, nel leggere i fenomeni spontanei della società americana attraverso lenti deformanti e spesso addirittura caricaturali. Mi ha risposto di sì, che anche nella sua esperienza di corrispondente dagli USA aveva spesso toccato con mano che questo pregiudizio c’è eccome.

Non è questione di malafede, o di voler artatamente leggere la politica americana con l’occhio italiano ed europeo, che è abituato a considerare i partiti politici come unici veri attori della politica e, di solito, con una forza o un polo a maggioranza moderato-cristiano alla quale si oppone un grande partito o un’alleanza progressista-socialista. Un doppio binario che negli States è fuorviante: perché lì la mobilitazione dal basso indipendentemente dai partiti è costitutiva dell’idea stessa dell’Unione, il socialismo non c’è mai stato, e l’impronta religiosa e cristiana vive e influenza pesantemente entrambe le basi e le dirigenze sia democratiche sia repubblicane, con accenti diversi ma a volte assolutamente trasversali su temi come l’aborto, la bioetica e la ricerca sulle cellule staminali.

C’è qualcosa di più profondo ancora del vizio politologico. E’ un difetto culturale, quello che tanto spesso ci impedisce di capire l’America profonda. Perché siamo pronti a comprendere l’America liberal, quella delle élite accademiche, mediatiche e e degli affari della costa orientale come californiana che da sempre costituiscono il bastione del pensiero progressista americano, favorevole all’intervento pubblico e alle politiche redistribuzioniste, alla forte impronta statalista nella sanità come nel campo ambientale. Sono quelle èlite, sommate a un forte scontento per la guerra in Iraq e in Afghanistan, che nel 2008 si mobilitarono per una riuscitissima campagna dal basso e di raccolta fondi online che risultò decisiva per la vittoria del primo presidente nero contro l’accoppiata McCain-Palin. Una vittoria della quale il primo fattore era l’elevata partecipazione al voto, perché tradizionalmente più si alza l’afflusso alle urne dei ceti a basso reddito, migliori diventano le chances dei democratici.

Ma come siamo tradizionalmente propensi ad avvertire l’impegno delle èlite progressiste americane come qualcosa di familiare a quanto avviene nella politica europea, restiamo invece diffidenti e incapaci di capire una mobilitazione dal basso che non passa affatto dalle élite e che anzi le contesta apertamente, a cominciare dal campo conservatore e da quelle del partito repubblicano. E’ esattamente questo il segno originale dei Tea Parties, che in tutti i sondaggi di cui i lettori italiani hanno letto poco o nulla hanno visto impegnati in maniera crescente elettori che si dichiaravano indipendenti fino a percentuali del 40%, meno lontani dai repubblicani ma comunque per un 16-17% dei casi dichiaratamente ex elettori democratici e non solo alle presidenziali per Obama, ma tradizionalmente al Congresso o per governatori dello Stato.

Che cos’è, allora, a impedirci di capire l’anelito libertario prima che liberista che viene espresso questa volta dai Tea Parties, ma che è una componente permanente e ricorrente dell’impegno civile americano fuori dai partiti e dalla lobbies, siano delle grandi banche che da decenni si sono “comprate” il regolatore USA odelle grande compagnie di ogni genere e settore, dal petrolio agli armamenti, dall’auto a Internet? Essenzialmente tre cose, tre valori, tre princìpi che sono fondanti per decine di milioni di americani nella loro vita quotidiana, prima ancora di ogni giudizio politico sull’amministrazione temporaneamente in carica. I tre princìpi riguardano la proprietà, la libertà e l’eguaglianza. Per moltissimi americani, queste tre parole hanno e manterranno un significato profondamente diverso da come suonano ormai a noi italiani ed europei.

Per noi, la libertà non è più minacciata da alcuna tirannide, e la proprietà privata costituisce non più un bene da affermare come diritto naturale pre esistente a qualuqnue pretesa dell’ordinamento positivo, dello Srato e della politica. La proprietà privata ormai da tempo, nel nostro Paese e nella generalità dell’Europa continentale e scandinava, è anzi un limite sempre più pesante al perseguimento dell’eguaglianza. Per milioni di americani al contrario, anche tra coloro a bassissimo reddito e con le qualifiche più basse nel mondo del lavoro – ce n’è un’infinità nei Tea Parties, non sono ricchi avvocati o rancheros texani – la libertà è per sua stessa natura non egualitaria, perché gli esseri umani differiscono tra loro per forza, intelligenza, ambizione, coraggio e per tutti i più essenziali ingredienti che contribuiscono al successo. Come ha scritto Richard Pipes nel suo bellissimo “Proprietà e libertà”, le pari opportunità e l’eguaglianza di fronte alla legge – nel senso enunciato da Mosè nel Levitico 24,22, “ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per il cittadino del Paese, poiché io sono il Signore vostro Dio” – sono non solo compatibili con la libertà, ma essenziali per la sua sopravvivenza. Ma la parità dei compensi e degli averi – tanto cara a noi – invece non lo è. Anzi essa è del tutto innaturale e pertanto raggiungibile solo attraverso la coercizione. E non c’è coercizione buona quando essa è esercitata in mille modi dagli incentivi e disincentivi pubblici o dalla fiscalità progressiva esercitata dallo Stato, perché al contrario tale coercizione stabilita e perseguita da chi esercita il potere per mandato elettorale risulta ancor più dispotica e inaccettabile di quella esercitata con la forza da un tiranno.

Per quei milioni di americani che si sono mobilitati nei Tea Parties gridando basta all’eccesso di debito pubblico acceso da Obama, ancora insufficiente per i liberals come Paul Krugman e potentemente monetizzato dalla ossequiente FED di Bernanke, l’uguaglianza redistributrice è subdola e inaccettabile perché alzerà ulteriormente le tasse, intaccherà ancor più gravemente le libertà naturali dell’individuo, attribuirà alle persone incaricate di garantirla una serie di privilegi che li innalzeranno ancor più al di sopra del popolo.

Un intero filone della storia americana continua a considerare l’eguaglianza come primo e vero nemico della libertà. E diffida dello Stato e del suo welfare invasivo. Per quegli americani, i diritti economici di libertà indidividuale – cioè la proprietà, e questo spiega anche il diritto a portare armi – resteranno sempre più forti dei diritti civili a un equo trattamento stabilito dall’alto. Per loro, la proprietà privata è l’essenza stessa della diseguaglianza, e al tempo stesso procurarsi una proprietà col successo personale è la più importante delle libertà.

L’Europa, dopo il crac della finanza ad alta leva che spingeva milioni di americani a procurarsi proprietà attraverso l’eccesso di debito, ha pensato che fosse venuto il momento di una vittoria epocale. Finalmente l’anelito proprietario e libertario americano era spezzato per sempre. Lo Stato e le sue politiche redistribuzioniste erano l’unica risposta, l’unica via alla civiltà che tempera l’individuo nel nome degli interessi generali. Che sciocca illusione roussoiana, questa europea. I Tea Parties ci dicono il contrario. L’America profonda sa che crescerà più e meglio di noi con meno Stato o senza Stato tra i piedi. Come è sempre stato. Per questo, del resto, negli USA per ogni cittadino che vive solo del proprio ce n’è non più di 0,6 che percepiscono un qualche reddito integrato o corrisposto dal settore pubblico, mentre in Europa la percentuale è più che doppia da noi, tripla in Francia e quadrupla in Svezia. NOI Siamo figli dell’idealismo organicista, in chiave solidarista cristiana o socialista. La maggioranza degli americani ne resta immune. Quando lo capiremo sarà sempre troppo tardi per noi. Perché, oltre a crescere meno, per questo errore culturale avremo anche subìto più del giusto gli effetti di un’egemonia americana che, nel mondo nuovo, è soggetta sì a potenti ridimensionamenti. Ma portati dalla Cina, non dalla vecchia Europa appesantita dalle sue illusioni.

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Il succo del voto midterm USA: Hayek contro Keynes /2010/11/02/il-succo-del-voto-midterm-usa-hayek-contro-keynes/ /2010/11/02/il-succo-del-voto-midterm-usa-hayek-contro-keynes/#comments Tue, 02 Nov 2010 15:23:10 +0000 Oscar Giannino /?p=7450 Il voto in corso negli USA avrà effetti notevolissimi in tutti i Paesi avanzati. Riequilibrerà l’eccesso di debito pubblico e di politiche delle banche centrali volte a monetizzarlo. O almeno questa è la nostra esplicita speranza, dopo due anni di illusione keynesiana che ha portato nei fatti il tasso di crescita USA a rallentare fortemente dopo l’apparente forte ripresa, e l’Europa a incagliarsi nella crisi dell’eurodebito e relativo dibattito tra rigoristi e deficisti. Qui una suggestiva maniera rappata di rappresentare l’eterno confronto tra Hayek e Keynes, dopo il fortunatissimo video che in qualche mese è stato scaricato da oltre due milioni di internauti. “Quando dopo le recessioni e l’esplosione dei debiti pubblici bisogn rimettere le copse a posto, allora Hayek ha molto da dirci”, ecco la prima lezione ricordata nel brevissimo panel che segue il rap. La seconda: nelle crisi si riallinea l’eccesso di capacità, determinato dai molti investimenti facilitati dalle oplitiche monetarie lasche che gonfiavano in bolla consumi e andamento degli asset quotati, riportandolo verso una domanda naturale non più artifciosamente sostenuta da politiche fiscali in deficit e politiche monetarie eterodosse, come il QE 2.0 che molti si aspettanop domani il FOMC della FED riprenda in grande stile per 500 miliardi di dollari, seguito dalla Bank of Japan che potrebbbero estenderlo dagli acquisti di bond anche a quello di tuitoli azionari. Un errore, a nostro modestissimo avviso. Un errore perché ancora inadeguato e insufficiente, dicono gli iperkeyenesiani alla Krugman. Tra poche ore capiremo che cosa ne pensano gli elettori americani. Buona visione.

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Krugman, Keynes, e strabismo congenito /2010/08/31/krugman-keynes-e-strabismo-congenito/ /2010/08/31/krugman-keynes-e-strabismo-congenito/#comments Tue, 31 Aug 2010 13:21:21 +0000 Guest /?p=6907 Riceviamo da Leonardo Baggiani (IHC) e volentieri pubblichiamo

Gli editoriali di Krugman sono spesso più che irritanti, per lo meno dall’ottica liberalista; non potrebbe essere diverso visto che il suo faro è Keynes. Al Nobel Krugman (Nobel per aver studiato profondamente i tassi di cambio senza aver detto niente di utile ma averlo detto bene, secondo me) è stato poi ribattuto in modo efficace anche su Chicago Blog (si veda ad esempio questo pezzo, ma anche questo, di Monsurrò), peccato non aver assistito alle relative contro-repliche. In uno degli ultimi interventi, tradotto il 7 agosto sul Sole24ore (“Keynes fa bene a chi sa osare per tempo”), Krugman è riuscito a dire una cosa in qualche modo giusta ma sporcandola con una delle sue ricostruzioni “forzate”della storia economica: che il keynesianismo non comprenderebbe deficit pubblici perpetui, e che l’Asia è fiorita sulla spesa pubblica.

Premesso che non condivido l’esaltazione del ruolo dello Stato e della sua spesa, come discende dal lavoro di Keynes, non posso comunque obiettare sul fatto che un bilancio pubblico finito in rosso debba prima o poi venir riportato in pareggio; ancor meno posso obiettare sull’accantonamento di riserve da spendere in un momento successivo. Krugman in fondo ci ricorda che Keynes, pur nel suo (deprecabile) sostenere le virtù dell’interventismo, aveva ben presente il problema, e pertanto avrebbe suggerito il precauzionale accantonamento di surplus nelle congiunture economiche positive ad spendere poi per “compensare” le congiunture recessive; nel caso di deficit spending, parimenti ben visto da Keynes, questo dovrebbe poi venir recuperato nella successiva congiuntura economica espansiva. In fondo si tratta del comportamento prudenziale di qualsiasi soggetto economico che accantona in vacche grasse per fronteggiare in vacche magre o che si indebita nella fasi negative per ritornare in pareggio durante la ripresa, permettendo così lo smoothing del proprio standard di vita.

Chiaramente il problema con lo Stato è la sua forza “impositiva” sulla ricchezza di tutti, sia dal lato del prelievo che dal lato della distribuzione, che comporta distorsioni nell’allocazione delle risorse rispetto ad un ambiente economico “libero” da prevaricazioni giuridiche. Queste distorsioni restano, sia che si applichi un keynesianismo “corretto” che un deficit spending spinto e perpetuo; questo punto non è in discussione. Fatta questa precisazione si deve riconoscere stavolta in Krugman un barlume di coscienziosità economica che non vuole un deficit permanente, e quindi un continuo e crescente depredare e consumare il futuro dei contribuenti e dei loro discendenti. Un sacrificio può esser fatto per proteggersi contro un futuro avverso; un anticipo sul futuro può esser chiesto, se si è pronti a saldare il conto il prima possibile. Ciò però stona con le prescrizioni di politica economica che provengono anche dallo stesso Krugman, quando ha più volte contrastato i proclama di contenimento della spesa pubblica, ciò che pomposamente qualcuno ha chiamato austerity, finalizzati al riordino dei conti pubblici. Krugman, tra molti altri, ha denunciato l’inappropriatezza di queste politiche perché spingono l’economia verso una nuova recessione, mentre adesso andrebbe incrementata la spesa (in deficit), spesa che tra l’altro avrebbe incrementato il PIL quindi le entrate fiscali e si sarebbe pertanto “pagata da sola” (una sciocchezza colossale che non so come si possa ancora sostenere, sia perché è palesemente insensata e sia perché la spesa pubblica dei precedenti decenni ha fatto tutto tranne che ripagarsi).

Ora, chiudo un occhio e dico che va bene spendere statalmente pure in deficit nelle fasi recessive in forza di quanto accumulato nel precedente boom, ma all’interno di questa regola di responsabilità fiscale come si può adesso chiedere ulteriore spesa se l’accumulo precedente non c’è stato? Io chiudo un occhio, Krugman li tiene aperti entrambi, però è strabico. Non è possibile mangiarsi ulteriormente il futuro dei contribuenti come si è fatto sia nella precedente recessione e nella successiva ripresa, il “debitore” deve pagare, punto e basta. Questo porterà un double dip? Be’ direi che non è altro che il prezzo del consumo di spesa pubblica goduto quando invece questa avrebbe dovuto ritirarsi, quindi si fa pari. Non è corretto ammettere, come fa Krugman, che gli Stati occidentali hanno sbagliato gestione, non hanno accumulato risorse da spendere in questa fase di difficoltà, e poi chiedere comunque il loro salvifico intervento di spesa. Il problema qui non è più “economico” ma “politico”; il ruolo di un economista, Krugman compreso, non deve essere quello di predicare bene e spingere a razzolare male, ma di illustrare le sue spiegazioni e indicare i suoi scenari a governanti e governati per poi lasciare che i secondi giudichino i primi e valutino le loro stesse pretese. Predicare l’equilibrio e poi strabicamente chiedere sempre e comunque spesa in deficit è invece un bel modo di illudere che ci possa sempre essere una via di fuga dai propri vincoli di bilancio.

E dopo aver detto una cosa “mezza-giusta”, Krugman spara una delle sue ormai classiche “bombe”: l’occidente non può uscire dalla recessione perché non ha accumulato in precedenza le risorse per farlo, mentre l’Asia viaggia a grandi ritmi proprio perché ha accumulato nel passato e ha potuto mettere in campo rilevanti stimoli keynesiani. Ora, gentile Paul, ma veramente ci vuoi raccontare che la forza dell’Asia e in particolare della Cina discende dal rigore finanziario avviato nel 1997 su richiesta del FMI? Il rigore del 1997 era la risposta dovuta alle crisi sui tassi di cambio, il “sudden stop and reversal” di Calvo, partito dall’eccesso di debito (quindi di spesa pubblica pregressa) costruito su un tasso di cambio fisso che non rifletteva lo stato delle finanze pubbliche e quindi gli incentivi effettivi sul controllo inflazionistico. La storia di quel “risanamento” è pertanto ben più articolata della banale ricostruzione offerta, non può ridursi ad una forza cinese costruita “solo” sulla spesa pubblica attuale di riserve accumulate a partire dal ‘97, e deve pure tenere conto di cosa significhi entrare nel WTO ed aver accesso a nuovi mercati disponendo di una enorme quantità (ancora non esaurita) di fattori produttivi che fino a quel momento non avevano trovato ragion economica di impiego. La Cina ha un rapporto debito/PIL ormai ridicolo per gli standard occidentali. È certo intervenuta negli ultimi tempi a sostenere l’economia, ma non sono stati questi interventi a costruire la sua attuale forza, quanto la possibilità di sfruttare le proprie sotto-utilizzate risorse grazie alla prodigalità dei partner occidentali che campavano praticamente di spesa pubblica. La spesa occidentale ha gonfiato le loro tasche, ma loro giustamente si sono ben guardati dal trasformare il tutto in nuova spesa; questo ha permesso di “aiutare” l’economia negli ultimi pochi anni, ma si è aiutato una economia non drogata e che ha potuto continuare a contare su un occidente incapace di tornare indietro dai precedenti livelli di spesa. Se la gestione di una finanza pubblica è all’origine della forza cinese, questa è la finanza occidentale ed in particolare statunitense.

Caro dott. Krugman, comunque tu la metta, finché il tuo occhio congenitamente strabico continua ad associare unicamente la spesa pubblica alla crescita economica, non puoi stupirti che il Keynesianismo sfoci regolarmente in una politica di deficit statali perpetui.

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Giavazzi&Giovannini su tassi, FED e BCE: viva Taylor! /2010/08/11/giavazzigiovannini-su-tassi-fed-e-bce-viva-taylor/ /2010/08/11/giavazzigiovannini-su-tassi-fed-e-bce-viva-taylor/#comments Wed, 11 Aug 2010 17:31:34 +0000 Oscar Giannino /?p=6764 Il comunicato FOMC della FEd di ieri comprensibilmente orienta verso il basso i mercati mondiali, poiché realisticamente prende atto del rapido deterioramento della ripresa americana  – meditino i deficisti keynesiani! Di qui le decisioni della FED: conferma della valutazione che i bassi tassi resteranno intoccabili a lungo, conferma – estendendola invece di farla diminuire – della politica eterodossa di quantitative easing, cioè di acquisti di bonds federali e di commercial papers, per sostenere il debito sovrano monetizzandolo e per sostenere la Borsa, da parte della banca centrale che si trova così esposta a rischi di ulteriore deterioramento del suo balance sheet ipertroficamente esteso a livelli record.  La domanda è: c’è un’alternativa a questa politica monetaria? se la plolitica continua nel suo deficit tednenmzialmente mostruoso, convinta che sia “la” risposta alla crisi quando l’aggrava, la banca centrale deve tener bordone, oppure può e anzi deve mandare al mercato e alla politica segnali in controtendenza? Sapete qual è la nostra risposta standard: può e anzi deve. Anzi, la crisi triennale è figlia proprio innanzitutto della politica monetaria lasca seguita dalla FED con Greenspan. Mentre noi crediamo che banche centrali indipendenti, seguendo la Taylor rule, abbiano il dovere di tenere i tassi mediamente più su di quanto piace alla politica. Tra il 2002 e il 2005, la distanza dai tassi bassi di Grrenspan e quanto avrebbe prescritto John Taylor giunse a superare i 400 punti base!   Ma anche limitarsi a chiedere l’applicazione della formula di Taylor è sbagliato. Perché i modelli devono inglobare la realtà che si modifica. E a questo poposito su questo tema è appena uscito un paper molto interessante di Francesco Giavazzi e Alberto Giovannini. Leggerlo attentamente farebbe molto bene, alla FED come alla BCE. Che cosa propongono, Giavazzi e Giovannini? Trovo la loro considerazione di partenza assai condivisibile. I banchieri centrali dopo questi tre anni non devonmo orientare la loro politica monetaria solo tenendo in considerazione inflazione attesa (aggiugno io: un’inflazione calcolata senza gli “alleggerimenti impropri” adottati dalla FED negli anni Greenspan isolando dall’inflazione core quella importata, i prezzi energetici etc, in modo da “far finta” di rispettare la Taylor rule aggirandola nella sostanza) , differenza tra inflazione attesa e inflazione-obiettivo, ed effetti dei tassi sull’output potenziale e cioè inanzitutto sul livello dell’occupazione oltre che in generale delle attività. A questo tre fattori la crisi attuale insegna che occorre aggiungerne almeno un quarto. Poiché una funzionne fondamentale a cui presiedono le banche centrali è assicurare  efficacia ed efficienza del trasferimento di liquidità agli intermediari e dagli intermediari ai prenditori, occorre aggiungere nella valutazione del tasso opttimale l’effetto che esso esercita su tale circuito: in maniera che agli intermediari bancari sia chiaro NON che la liquidità verrà comuqnue garantita dalla banca centrale attraverso politiche eterodosse di sostegno e salvataggio illimitate, bensì che il mercato sconta un premio al rischio di trasformazione della liquidità, per il quale può avvenire che uin circostanze eccezionali la banca centrale sussidi e sostenga la funzione, ma comunque entro certi limiti.

Il punto è stabilire “quali” limiti, e Giavazzi e Giovannini fanno benissimo a sollevare il problema, perché è esattamente la lezione dalla crisi che ancora le banche centrali – sospinte dall’emergenza politica che chiede loro solo di non ostacolare una ripresa indebolita negli USA e da sempre gracile in Europa, Germania esclusa – non mettono a  tema, dopo tre anni. Tre anni in cui, a dire la verità, FED e BCE hanno seguito tecnicamente due sentieri molto diversi, anche se analoghi nei presupposti di estendere i propri interventi ben oltre l’esaurimento della politica monetaria tradizionale quando il tasso ufficiale diventa zero o negativo.

In ogni caso, al di là dei tecnicismi che appassionano gli addetti ai lavoro (ma sono la sostanza), la sintesi è: i banchieri centrali dovrebbero avere più che mai opggi non solo buoni argomenti, ma sopratttuto determinazione e fegato per deludere i politici, e cominciare ad alzare i tassi.

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Gli USA e noi, ancora più deficit e tasse? /2010/08/03/glu-usa-e-noi-ancora-piu-deficit-e-tasse/ /2010/08/03/glu-usa-e-noi-ancora-piu-deficit-e-tasse/#comments Tue, 03 Aug 2010 16:42:37 +0000 Oscar Giannino /?p=6703 Negli Stati Uniti è partito il grande dibattito (vedi l‘impostazione che ne dà Morgan Stanley)  intorno a se confermare i tagli alle tasse introdotti da Bush e che il Congresso approvò solo “a tempo”, con scadenza al dicembre 2010. E il dibattito si innesta su richieste sempre più corpose di una nuova manovra di finanza pubblica con massiccio debito aggiuntivo, per sostenere l’economia. Non è un confronto che riguarda solo gli USA, ma l’exit strategy mondiale dalla crisi. La scelta americana su fisco e spesa pubblica avrà effetti complessivi. Perché a sua volta si innesta su una ripresa mondiale che nel secondo trimestre 2010 ha cambiato passo rispetto al primo, rivelatosi insostenibile. Tanto è vero che l’indice PMI degli ordini esteri globali è in frenata nella seconda metà 2010 rispetto alla prima, a luglio la previsione era su 54,4 (oltre quota 50 significa espansione) rispetto al 58,1 del primo semestre. E’ l’effetto combinato dell’atterraggio morbido della Cina, e dell’esaurimento progressivo dell’effetto aiuti pubblici negli USA. Il primo fattore merita un voto positivo. Il secondo, no.

La Cina ha visto la crescita del suo Pil nel secondo trimestre 2010 decelerare al più 1,9% rispetto al più 2,3% del primo, col che il tasso di crescita annuo è sceso dal più 11,9% a un pur sempre rispettabilissimo più 10,3%. Il freno segue alle politiche restrittive attuate per evitare il surriscaldamento del tono generale dell’economia e del credito, nonché per impedire che l’inflazione salga stabilmente sopra la soglia del 3% (era al 2,9% in giugno). L’indice Pmi manifatturiero cinese si tiene in area espansiva ma in giugno scende a 52,1 da 53,9, e nel mese la produzione industriale cresce sull’anno di un più 13,7% rispetto al precedente più 16,5%. Analogo il tono della crescita dell’export, che sull’anno in giugno sale di uno spettacolare più 43,9%, ma in attenuazione sul più 48,5% di maggio. Vedremo nei prossimi mesi quale sarà l’effetto che sulla domanda interna – e sull’export dei Paesi Ocse verso la Cina – sarà determinato dalle massicce politiche di aumento salariale in atto in Cina, dal più 10% al più 20% in termini annuali reali a seconda delle diverse aree e settori.

Quanto agli Usa, dopo un ultimo trimestre 2009 che vedeva la crescita del Gdp annuale quasi più vicina al 6 che al 5%, e dopo un primo trimestre 2010 più vicino al 4% che al 3, ecco che la prima stima del secondo trimestre è scesa ancora, ed è più vicina al 2% che al 3%. Per chi viene dalla “nostra” scuola di Chicago, è l’effetto fin troppo prevedibile della sopravvalutazione dei moltiplicatori keynesiani della spesa pubblica effettuata dall’amministrazione Obama con il grande deficit pubblico 2009 per sostenere l’economia. Nel breve l’effetto sembra portentoso, ma dopo tre-quattro trimestri ecco che l’effetto traino del deficit pubblico si rivela per quel che è: assai meno stabile e – soprattutto – sano di tagli duraturi alle tasse comprimendo la spesa, poiché gli attori del mercato iniziano a scontare l’aumento futuro delle tasse in cui inevitabilmente si tradurrà il deficit odierno. Nel marzo-aprile 2009, mentre l’amministrazione Obama si imbarcava nei maxi deficit pubbici a sostegno dell’economia, Harald Uhlig – economista tedesco che insegna a Chicago – aggiornava alla condizione degli USA di allora il suo noto studio sui più benefici effetti di aumento dell’output potenziale che vengono da tagli fiscali duraturi, rispetto alla spesa pubblica in deficit, mettendo in questione inoltre la riservatezza del modello econometrico DSGE seguito dalla FED, che improvvisamente asseverava moltplicatori keynesiani largamente superiori all’unità predicati dai consiglieri economici di Obama. Consiglio veramente a tutti di leggerlo, è molto istruttivo e pianamente affronta i punti salienti – verifiche alla mano – di ciò di cui siamo convionti noi portatori di questa visione.

Ma la via “offertista” alla ripresa è rimasta inascoltata in America. Tanto che oggi non solo il solito Paul Krugman, ma anche osservatori come Bob Shiller scrivono che in queste condizioni tanto vale fare come Roosevelt, e assumere un milione di americani a 30 mila dollari l’anno per 30 miliardi di deficit aggiuntivo, allo scopo di piantare alberi ai lati delle strade. La stessa Goldman Sachs invoca una nuova manovra in deficit nei suoi report macro riferiti agli USA.

Analogamente, Fareed Zakaria e tutta l’intellettualità liberal che in Europa fa sognare le sinistre ha preso a occupare le colonne del New York Times e del Washington Post invocando l’abrogazione integrale dei tagli fiscali bushiani, sostenendo che ne verrebbero oltre 100 miliardi di dollari di entrate aggiuntive da destinare alla spesa. Dimenticando puntualmente di ricordare che da questa decisione discenderebbe un’ulteriore decelerazione della crescita americana, da uno 0,5 a uno 0,7% di Pil in meno. Vedremo. Se fossi un cittadino americano sarei in piazza a protestare con chi anima il movimento dei tea parties, ma in novembre si avvicinano le elezioni del midterm e non c’è da contare sul fatto che l’Amministrazione non spenda altri dollari del contribuente, pur di non far scendere troppo la crescita. Nel breve, perché il medio-lungo è problema che per definizione i politici rimandano al dopo. In Europa, che ha intrapreso obbligatoriamente ma stentatamente la via del taglio al deficit, la politica tax and spend degli USA rischia di produrre pessimi effetti politici.

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I sogni di monete globali, il $ e il suo nemico /2010/07/13/i-sogni-di-monete-globali-il-e-il-suo-nemico/ /2010/07/13/i-sogni-di-monete-globali-il-e-il-suo-nemico/#comments Tue, 13 Jul 2010 15:36:41 +0000 Oscar Giannino /?p=6512 Ma quanto conta davvero, il fattore cambio tra le valute delle tre macroaree mondiali, ai fini dell’exit strategy? Se diamo un’occhiata alle tante proposte del post Lehman, c’è da perdere la testa. Mi faccio aiutare da una guida, elaborata in proposito da Kati Suominen del German Marshall Fund a Washington. La conclusione? Il dollaro ha un solo nemico al momento, checché dicano in tanti. Un nemico interno, però. Al G20 di Londra nell’aprile 2009, il governatore centrale della Cina, Zhou Xiaochuan, pose ufficialmente il tema. Il dollarocentrismo non andava più bene. Occorreva una profonda rivisitazione dell’attuale paniere sulla base dei quali sono definiti i Diritti Speciali di Prelievo (SDRs) in sede di FMI. Anche il presidente russo Dmitry Medvedev aggiunse la sua bocciatura al dollaro, invocando però un mix di valute regionali. Statisti ed economisti europei, timidamente, tentarono di sostenere un ruolo crescente dell’euro.

Washington rifiutò. Promise disciplina fiscale per mantenere solido il dollaro. Il governatore della BCE, Jean-Claude Trichet, prudentemente si astenne dalla partita, preferì dichiarare che il dollaro era lungi dall’aver terminato la sua missione. Una prudenza saggia, vista la crisi dell’eurodebito che sarebbe esplosa sui mercati da metà gennaio 2010.

Al G20 di Toronto a fine giugno, le valute sono scomparse dai comunicati finali. Per tre fattori diversi. L’eurocrisi del debito, appunto. La ripresa americana, comunque superiore al 3% anche se con segni di frenata da maggio. Il ritorno del renminmbi alla fluttuazione controllata già vista all’opera dal 2005 al 2008, prima di tornare nella crisi al cambio assolutamente fisso sul dollaro. In effetti, da fine 2009 a oggi la valuta cinese si è apprezzata di ben il 18% sull’euro, assai meno sul dollaro. I cinesi, fidandosi poco dell’euro a seguito della crisi di debiti sovrani del nostro continente, non sono tornati sul dollaro ma hanno ripreso a comprare massicciamente titoli in yen. Non capitava da anni.

Eppure, il tema continua a occupare la riflessione degli economisti.

Nella famosissima conferenza a Bretton Woods che mise le fondamenta di FMI e Banca Mondiale, John Maynard Keynes propose una valuta globale, il bancor, emessa da una International Clearing Union, e fondata sul valore di 30 commodities oro incluso, scambiabili a tassi fissi rispetto alle valute nazionali. I diversi Paesi avrebbero mantenuto conti in bancor presso l’ICU, attingendovi quando fossero incorsi in problemi di bilancia dei pagamenti. Le cose andarono diversamente. Ma ancora nel 1967, prima della tempesta che portò all’inconvertibilità del dollaro, il FMI prevedeva che a fine secolo gli SDRs avvrebbero rappresentato la metà delle riserve mondiali. Il Nobel Bob Mundell, teorico delle aree monetarie ottimali e padre putativo dell’euro, sposò la stessa tesi. Oggi ripresa da Zhou Xiaochuan.

Nel post Lehman diverse altre idee si sono fatte avanti. Fred Bergsten ha proposto la facoltà per i Paesi membri del Fmi di swappare dollari per SDRs, per diminuire l’esposizione sul biglietto verde. Un’apposita commissione ONU guidata da Joe Stiglitz è andata oltre, riprendendo l’idea di chi vorrebbe espandere i SDRs fino al bancor di Keynes. Strauss-Khan ha sostenuto a inizio 2010 che presto o tardi sarà l’FMI, a “stampare” SDRs. Una commissione nominata dal FMI ha invece proposto una vera e propria banca centrale indipendente globale, con un rating a quattro A senza rivali nel pianeta, capace di emettere bonds e altri strumenti finanziari denominati in una vera e propria valuta mondiale.

Lo scopo di tali proposte è comune. Assicurare stabilità ai cambi, benefici per ciascuno sulla base di economie di scala, abbattendo i privilegi impropri che al dollaro vengono dal signoraggio mondiale. Tuttavia, la realtà dista da questi intenti come gli oceani dai lavandini.

Il G20 ha espanso gli SDRs di 250 miliardi di dollari nella crisi. Ciò vale a malapena un 4% scarso delle riserve mondiali. Per superare il $ nelle riserve, ne occorrerebbero circa 4 triliardi in valore di SDRs neomessi. Il Fmi dovrebbe diventare una vera banca centrale mondiale. I nuovi SDRs dovrebbero essere trattati sui mercati e non solo attraverso operazioni di tesoreria tra Paesi membri del Fmi, per esporsi alla concorrenza con assets esistenti. Tutto questo non si vede come potrebbe avvenire, visto l’avverso interesse di Washington e il diritto di veto attribuito in sede FMI agli USA per emettere nuovi SDRs. Persino su una nuova composizione del basket di riferimento per gli SDRs atuali, basata su dollaro, euro, yen e sterlina, non si è riusciti a fare un solo passo avanti, rispetto a chi ha proposto di inserirvi valute come quella di Australia, Cile, Canada e altri detentori di materie prime.

Il fronte dei limitati sostenitori del renminmbi o dell’euro come nuove valute di riserva mondiale destinate a scalzare il dollaro si è raffreddato, dopo i primi entusiasmi post Lehman (pensate solo all’entusiasmo con cui tedeschi e italiani hanno salutato la recente svalutazione dell’euro sul dollaro). C’è infine l’idea di tornare ad avere più valute di riserva in concorrenza, come avveniva nel sistema finanziario mondiale precedente al 1914. E’ effettivamente a mio giudizio un’idea meno balzana di quanto appaia. L’Asia potrebbe avviarsi a una vera e propria unione dei mercati finanziari, fino a sfociare in una comune e molto potente area monetaria. E a quel punto le tre macroaree potrebbero trovare accordi temporalmente variabili di cambio, una sorta di maxi accordi tipo Plaza di anni fa, ma su basi valutarie integrate in ciascuna delle tre maggiori aree del mondo.

Fatto sta che siamo ancora molto lontani, da questi che al momento restano sogni ambiziosi. Dal che si deduce una sola cosa. Che il dollaro non corre alcun rischio, checché si dica, come vero sovrano monetario. Il vero nemico del re-dollaro è solo interno: l’eccesso di debito pubblico acceso da mister Obama. E servià probabilmente – penso io, assumendomi l’impopolarità del vaticinio – un altro presidente, per spegnerlo e tenere il dollaro in salvo.

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Degli errori della storia davanti alle crisi, inflazione e politica /2010/07/05/degli-errori-della-storia-davanti-alle-crisi-inflazione-e-politica/ /2010/07/05/degli-errori-della-storia-davanti-alle-crisi-inflazione-e-politica/#comments Mon, 05 Jul 2010 11:32:07 +0000 Oscar Giannino /?p=6438 Post a integrazione degli ultimi due di Pietro Monsurrò – veramente ottimi, a mio avviso, consentono anche a chi non sia tecnicamente esperto di farsi un’idea non solo del nostro punto di vista, ma della pluralità di orientamenti nella letteratura economica su cause e risposte alla grande crisi del ’29, rispetto alla crisi attuale (e cioè per come lavediamo noi al  riallineamento dei grandi debiti indotti da prezzi sopravvalutati di asset effetto della politica monetaeria lasca seguita dagli USA con Greenspan). E’ verissimo, che chi non mpara le lezioni della storia  è talvolta o spesso condannato a ripeterne errori. Ma è anche vero che confondere storie diverse – quella del ’29 e quella attuale – credendo si debba oggi applicare le ricette di allora significa candidarsi a errori ancora peggiori. Soprattutto quando non si ha chiaro o non si è convinti che quelle di Hoover e Roosevelt furono politiche comunque sbagliate, e per uscire da un lungo equilibrio di sottocupazione fu necessario il secondo conflitto mondiale. In larga misura e riducendo la questione al nocciolo, è per questo che diffidiamo fortemente della teoria “ancora più deficit pubblico” alla Paul Krugman, come dell’indifferenza all’elevata liquidità monetaria di Bernanke, nonché dell’intera panoplia di provvedimenti il cui segno generale è “più poteri ai regolatori”, come il Frank-Dodd Act, volti a rallentare o impedire il deleveraging asset-debiti necessario nell’intermediazione finanziaria.

Due esempi utili per capire corsi e ricorsi storici. Qui un’esilarante prova di come sotto Roosevelt si spiegasse alle masse nei cinematografi la via dell’inflazione come salvifica. Qui la lettera aperta scritta da Keynes a Roosevelt il 31 dicembre 1933 per separare le proprie responsabilità rispetto alla rigidità dei prezzi e dei salari praticata dall’Amministrazione di cui vi ha parlato giustamente Monsurrò, in teoria volta a difendere il potere d’acquisto dei lavoratori, in pratica responsabile dell’equilibrio di sottocupazione che per anni e anni impedì l’uscita dalla crisi. Se Keynes si discostò da Roosevelt allora, chissà che cosa direbbe di Krugman e dei krugmaniti tax-nd-spend nell’Europa di oggi.

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I dissensi nel G20 sono oggettivi /2010/06/26/i-dissensi-nel-g20-sono-oggettivi/ /2010/06/26/i-dissensi-nel-g20-sono-oggettivi/#comments Sat, 26 Jun 2010 17:57:09 +0000 Oscar Giannino /?p=6381 Al G8 concluso da qualche ora, e al G20 in corso fino a domani  in Canada, le tre macroaree mondiali sono arrivate divise. Il Fondo Monetario Internazionale ha lanciato venerdì un ultimo appello affinché le divisioni fossero superate, lanciando l’allarme emotivo su ben 30 milioni di posti di lavoro che sarebbero a rischio. Ma le divisioni non dipendono da scarsa buona volontà. Stati Uniti, Europa e Cina alla testa dei Paesi emergenti, a 22 mesi di distanza dal fallimento di Lehman Brothers e a 9 mesi dai primi segni di ripresa, hanno oggettivamente tra loro interessi diversi. Come del resto si comprende ricordando che i Paesi emergenti sono il vero motore della crescita mondiale – quest’anno sarà superiore al 4% – poiché crescono del 7% nel 2010 (la Cina intorno al 10%, e nel 2009 è diventata la potenza leader con il 22% del prodotto industriale mondiale rispetto agli Usa che dal 25% del 2001 sono calati di 10 punti). Senza scendere nel dettaglio, e al prezzo di inevitabili approssimazioni, cerchiamo di capire i punti di maggiore divergenza, per leggeremeglio  il comunicato del G20 che sarà diramat doomani pomeriggio.

La moneta

Gli Stati Uniti e l’Europa non hanno un eguale interesse all’apprezzamento dello yuan cinese. Per gli Usa, che continuano ad avere un pesantissimo deficit commerciale nell’ordine di 250 miliardi di dollari al mese, è vitale il deprezzamento del dollaro – sin qui tenuto su dall’aggancio fisso alla moneta cinese, a cui si è aggiunta negli ultimi mesi la crisi dell’eurodebito. Serve a guadagnare competitività per le merci USA– come avveniva da noi quando svalutavamo la lira – e a diminuire il valore reale dell’ingente massa di debiti delle famiglie e delle banche americane. L’Europa nel 2009 ha pressoché annullato il deficit commerciale verso la Cina. Per noi europei, e soprattutto per noi italiani che abbiamo un forte deficit energetico – tra i 4 e i 5 punti di Piul anno per anno a seconda dei prezzi petroliferi – il dollaro che scende liberamente significa soprattutto il barile che simmetricamente sale, con un’inflazione che aggraverebbe a casa nostra l’iniquità dei costi economici e sociali della crisi.

La “nuova” finanza

Obama è giunto al G20 sventolando l’accordo di venerdì tra Amministrazione, Camera e Senato americani sulla complessa riforma del sistema bancario e finanziario. Viene dagli errori della regolazione finanziaria americana, la crisi che iniziò a manifestarsi sui mercati esattamente tre anni fa. Eppure, dopo 22 mesi di impegno a concordare la “nuova” industria finanziaria con l’Europa e con l’Asia, gli Stati Uniti hanno di nuovo fatto tutto da soli. Pensando agli interessi del proprio sistema bancario, e dettando al resto del mondo il nuovo paradigma. Di qui per esempio la misura che consentirà alle grandi banche di continuare a utilizzare depositi – entro il 3% del capitale di vigilanza – in fondi speculativi. Dai nuovi poteri discrezionali e preventivi ai regolatori per evitare che le banche divengano “troppo grosse per fallire”, alla quotazione sui listini dei prodotti derivati alla responsabilità delle banche verso i risparmiatori, la riforma americana sottrae unilateralmente molti punti essenziali all’agenda multilaterale di una riforma condivisa, affidata al Financial Stability Board guidato da Mario Draghi.

Tassare le banche

E’ più che comprensibile che, di fronte a questo, Europa e Asia siano contrariate. Un punto di particolare frizione riguarda la tassazione delle banche. Gli Stati Uniti l’hanno adottata e riservata a quelle con 50 miliardi e più di asset. Ma serve a finanziare i costi della riforma più che a evitare nuove crisi. Appare anzi elevata la possibilità che rafforzi nelle grandi banche la certezza che verrebbero salvate comunque, inducendo dunque invece di evitare nuovi azzardi morali. L’Europa è divisa anche al proprio interno. Germania e Francia vogliono una tassa sulle banche innanzitutto per guadagnare popolarità di fronte ai rispettivi elettorati, alla luce del molto denaro pubblico speso in salvataggi bancari senza che al momento vi sia prospettiva di un guadagno statale, con la ripresa dei corsi, come in USA. L’Italia sta invece con l’intero blocco dei Paesi emergenti: chi non ha dovuto salvare banche coi denari pubblici è molto più interessato a rafforzare gradualmente il capitale degli istituti di credito, non a tassarli mettendosi a rischio di ulteriori strette degli impieghi e di traslazione a famiglie e imprese del costo aggiuntivo

Rigore o deficit

Obama è fuori di sé per la linea di rigore assunta dall’Europa a seguito della crisi greca e degli eurodebiti. Più volte ha telefonato al premier tedesco Merkel, per indurla a cambiare linea. Ma non ha ottenuto nulla. A Obama non piacciono gli energici piani pluriennali di contenimento del deficit varati da Berlino, Londra e Roma, e dai Paesi nel mirino dei mercati come Grecia e Spagna. Il ritorno al rigore dell’Europa dà argomenti negli USA all’opposizione: critica Obama per l’eccesso di deficit pubblico a due cifre, che ha creato sì molti posti pubblici ma senza per questo incidere sulla crisi dell’immmobiliare, che resta forte, né sin qui rilanciare l’occupazione privata. L’Europa ha una crescita attesa di poco superiore a un punto rispetto a quella americana, tre volte superiore ma appena corretta per altro al ribasso. Tuttavia i rischi che gravano sull’euro restano seri, testimoniati dalla forbice che resta molto elevata dei rendimenti dei diversi debiti pubblici anche dopo l’euroaccordo dell’8 maggio, e dalle recenti nuove impennate di sfiducia dell’interbancario, con le banche dell’euroarea che lasciano in deposito presso la BCE sino a 400 miliardi di euro al giorno. Per alcuni, gli USA spingono sul deficit perché hanno studiato Keynes meglio degli europei. E’ una frottola. Possono farlo solo perché il dollaro resta il tallone monetario del mondo. Nel nostro caso, il rigore è obbligato due volte. Perché il deflusso dei capitali e la sfiducia dei mercati ci colpiscono più di quanto facciano col dollaro. E perché abbiamo uno Stato che, già prima della crisi, gravava sull’economia molto più che in America.

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Hayek vs Keynes, hip hop version /2010/01/26/hayek-vs-keynes-hip-hop-version/ /2010/01/26/hayek-vs-keynes-hip-hop-version/#comments Tue, 26 Jan 2010 09:25:36 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4932 Russ Roberts and John Papola hanno prodotto un pezzo hip hop molto interessante, in cui Keynes e Hayek parlano di crisi economica. Il video si trova qui. Qui il sito col testo (che comunque si capisce molto bene).

Il principale problema delle idee in politica è che quelle sufficientemente semplici da essere comprese da tutti e sufficientemente interventiste da favorire la classe politica hanno successo, mentre l’aver ragione o meno è irrilevante.

Qui il testo:

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

[Keynes Sings:]

John Maynard Keynes, wrote the book on modern macro
The man you need when the economy’s off track, [whoa]
Depression, recession now your question’s in session
Have a seat and I’ll school you in one simple lesson

BOOM, 1929 the big crash
We didn’t bounce back—economy’s in the trash
Persistent unemployment, the result of sticky wages
Waiting for recovery? Seriously? That’s outrageous!

I had a real plan any fool can understand
The advice, real simple—boost aggregate demand!
C, I, G, all together gets to Y
Make sure the total’s growing, watch the economy fly

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

You see it’s all about spending, hear the register cha-ching
Circular flow, the dough is everything
So if that flow is getting low, doesn’t matter the reason
We need more government spending, now it’s stimulus season

So forget about saving, get it straight out of your head
Like I said, in the long run—we’re all dead
Savings is destruction, that’s the paradox of thrift
Don’t keep money in your pocket, or that growth will never lift…

because…

Business is driven by the animal spirits
The bull and the bear, and there’s reason to fear its
Effects on capital investment, income and growth
That’s why the state should fill the gap with stimulus both…

The monetary and the fiscal, they’re equally correct
Public works, digging ditches, war has the same effect
Even a broken window helps the glass man have some wealth
The multiplier driving higher the economy’s health

And if the Central Bank’s interest rate policy tanks
A liquidity trap, that new money’s stuck in the banks!
Deficits could be the cure, you been looking for
Let the spending soar, now that you know the score

My General Theory’s made quite an impression
[a revolution] I transformed the econ profession
You know me, modesty, still I’m taking a bow
Say it loud, say it proud, we’re all Keynesians now

We’ve been goin’ back n forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Keynes] I made my case, Freddie H
Listen up , Can you hear it?

Hayek sings:

I’ll begin in broad strokes, just like my friend Keynes
His theory conceals the mechanics of change,
That simple equation, too much aggregation
Ignores human action and motivation

And yet it continues as a justification
For bailouts and payoffs by pols with machinations
You provide them with cover to sell us a free lunch
Then all that we’re left with is debt, and a bunch

If you’re living high on that cheap credit hog
Don’t look for cure from the hair of the dog
Real savings come first if you want to invest
The market coordinates time with interest

Your focus on spending is pushing on thread
In the long run, my friend, it’s your theory that’s dead
So sorry there, buddy, if that sounds like invective
Prepared to get schooled in my Austrian perspective

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

The place you should study isn’t the bust
It’s the boom that should make you feel leery, that’s the thrust
Of my theory, the capital structure is key.
Malinvestments wreck the economy

The boom gets started with an expansion of credit
The Fed sets rates low, are you starting to get it?
That new money is confused for real loanable funds
But it’s just inflation that’s driving the ones

Who invest in new projects like housing construction
The boom plants the seeds for its future destruction
The savings aren’t real, consumption’s up too
And the grasping for resources reveals there’s too few

So the boom turns to bust as the interest rates rise
With the costs of production, price signals were lies
The boom was a binge that’s a matter of fact
Now its devalued capital that makes up the slack.

Whether it’s the late twenties or two thousand and five
Booming bad investments, seems like they’d thrive
You must save to invest, don’t use the printing press
Or a bust will surely follow, an economy depressed

Your so-called “stimulus” will make things even worse
It’s just more of the same, more incentives perversed
And that credit crunch ain’t a liquidity trap
Just a broke banking system, I’m done, that’s a wrap.

We’ve been goin’ back n forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No it’s the animal spirits

“The ideas of economists and political philosophers, both when they are right and when they are wrong, are more powerful than is commonly understood. Indeed the world is ruled by little else. Practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influence, are usually the slaves of some defunct economist.”

John Maynard Keynes
The General Theory of Employment, Interest and Money

“The curious task of economics is to demonstrate to men how little they really know about what they imagine they can design.”

F A Hayek
The Fatal Conceit

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Lezioni della crisi: oltre l’individualismo metodologico, ma con Hayek /2010/01/17/lezioni-della-crisi-oltre-lindividualismo-metodologico-ma-con-hayek/ /2010/01/17/lezioni-della-crisi-oltre-lindividualismo-metodologico-ma-con-hayek/#comments Sun, 17 Jan 2010 22:59:33 +0000 Oscar Giannino /?p=4820 Ci rimuginavo sopra da qualche mese, in particolare dalla lettura dell’ultimo libro di Richard Posner, che attribuisce la crisi alla dimostrata infondatezza dell’EMH, l’Ipotesi  sui Mercati Efficienti di Eugene Fama, e viene perciò potentemente usato dalla pubblicistica liberal per decretare la fine della scuola di Chicago. Alberto Mingardi ha scritto un articolo magistrale sul domenicale del Sole di oggi, rispondendo pan per focaccia. Ma al di là della battaglia delle idee versus i neokeynesiani apparentemente trionfanti del ritorno in grande stile della politica e dello Stato – vedi anche intervista di Giulio Tremonti sempre al Sole di oggi – quel che non mi soddisfaceva era l’assenza sin qui di una riflessione approfondita e al contempo “interna” alla nostra scuola, intorno alla sfida lanciata nella crisi dalla altre scuole di pensiero economico. Per la prima volta qualche giorno fa mi è invece sembrato di trovarla. L’autore l’avevo già segnalato all’inizio dell’anno, per un altro scritto su un altro tema. È Bob Ahdieh, professore alla Emory University School of Law. Il saggio è programmatico sin dal titolo: Beyond Individualism in Law and Economics. Ma il suo pregio è di accontentare i nostri avversari solo nel titolo. Sarei felice che parecchi dei lettori del nostro blog lo leggessero, e scrivessero che cosa ne pensano. 

In estrema sintesi, dirò qui solo perché Ahdieh convince me, e mi sembra tracci la via sulla quale è opportuno inoltrarsi di qui al futuro. Innanzitutto, è scritto “dal di dentro” della nostra visuale. L’autore si riconosce nella scuola di Law and Economics, che dalla scuola neoclassica assume i due princìpi basilari, l’individualismo metodologico e l’ipotesi dei comportamenti razionali di attori e mercato alla luce delle informazioni note. Ne ricorda le basi poste da Schumpeter sin dal 1908,

…the self-governing individual constitutes the ultimate unit of the social sciences; and . . . all social phenomena resolve themselves into decisions and actions of individuals that need not or cannot be further analysedin terms of superindividual factors

ma dopo aver ricordato tutti gli altri principali apporti al suo sviluppo, incardina saldamente l’individualismo metodologico ad Hayek, il quale respinge ogni olismo sociologico, ma al contempo riconosce fermamente che

The overall order of actions in a group is in two respects more than the totality of regularities observablein the actions of the individuals and cannot be wholly reduced to them. It is so not only in the trivial sense inwhich the whole is more than the mere sum of its part but presupposes also that these elements are related to each other in a particular manner. It is more also because the existence of those relations which areessential for the existence of the whole cannot be accounted for wholly by the interaction of the parts but only by their interaction with an outside world both of the individual parts and the whole.

In altre parole, Hayek fu e rimase sempre discosto dal disconoscere che nelle scelte collettive NON contasse altro che l’individuo.

Ahdieh passa poi al cuore del saggio, che prende le mosse dal poderoso attacco mosso dal 1994 – anni in cui neoclassici e Law And Economics sembravano ormai privi di avversari negli USA, per quanto ancora e sempre minoritari nelle tenure accademiche – da Kenneth Arrow nel suo famoso intervento all’American Economic Association. L’esogenità dei meccanismi di formazione delle preferenze individuali rispetto alla Teoria Generale dell’equilibrio neoclassica, che riconduce i meccanismi di formazione dei prezzi alle scelte degli individui disinteressandosi da ciò che quelle scelte può influenzare  per effetto di retaggi e influenze culturali o interazioni e induzioni collettive,  ha portato nel tempo una concezione estrema dell’individualismo metodologico a rivelarsi poco efficiente nell’interpretazione economica di quattro rilevanti fenomeni, le norme sociali, le economie di rete, i giochi cooperativi a equilibrio multiplo, e infine proprio quell’informazione economica che era e resta alla base dell’Ipotesi Mercati Efficienti. La parte più succosa e per me interessante delle considerazioni di Ahdieh è proprio nell’analisi di questi quattro capitoli. Applicare come unico criterio l’utilità marginale individuale non consente di comprendere al meglio le funzioni di ottimizzazione per il consumatore in caso di osu di massa di servizi in rete in monopolio d’infrastruttura naturale. Mentre la crisi finanziaria del 2007-08 nasce come drastico passaggio da un equilibrio elevato della fiducia che consente al sistema bancario di operare avendo una riserva frazionale rispetto al totale dei depositi, a un equilibrio subottimale di impiego del capitale per il quale i depositanti ne chiedono la restituzione tutti immediatamente : e questo proprio perché l’informazione nasce da interconnessione e coordinazione che non è mera somma di utilità individuali.

In conclusione, ha ragione Ronald Coase a lamentare che per tre decenni l’individualismo metodologico si è è troppo ingessato nella sua pretesa superiorità rifuggendo dagli interrogativi e dalle sfide che lo sviluppo del mercato gli poneva, e ha torto Posner che dalla crisi ripudia Chicago. Perché con un buon uso del behaviorismo e della teoria dell’inconsistenza dinamica  temporale, l’individualismo metodologico resta il miglior strumento interpretativo, ma a una condizione: quella di ricordare che per Hayek la formazione delle scelte e la valutazione delle esternalità negative non si risolveva affatto, nella mera somma di utilità individuali, ma anche e sempre nella valutazione delle loro interrelazioni. Sembra poco, ma è ciò che consente a Chicago di restare più che mai essenziale, per combattere con successo contro il neokeynesismo che crede di celebrare nuovi tronfi.

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