CHICAGO BLOG » Irap http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 31 Dec 2009 12:04:40 +0000 http://wordpress.org/?v=2.8.4 it hourly 1 Spostare la tassazione dalle imprese alle cose? /2009/10/29/spostare-la-tassazione-dalle-imprese-alle-cose/ /2009/10/29/spostare-la-tassazione-dalle-imprese-alle-cose/#comments Wed, 28 Oct 2009 23:07:32 +0000 Piercamillo Falasca /?p=3489 E’ quasi passata sotto silenzio, perchè sottovoce l’ha lanciata, la proposta di Guido Tabellini di riequilibrare la tassazione italiana abbattendo l’Irap ed alzando alcune aliquote Iva.
“Se potessimo farlo e se non ci fossero ripercussioni internazionali – ha scritto il rettore della Bocconi sulle pagine domenicali de Il Sole 24 ore- sarebbe il momento di sussidiare la produzione nazionale e tassare le importazioni”. Siccome non lo possiamo fare, Tabellini non vedrebbe male una riduzione della tassazione d’impresa finanziata da un leggero aggravio dell’imposta sui consumi, che è un modo indiretto di tassare un po’ di più le importazioni.
Il sottoscritto (che a Tabellini non potrebbe portare manco la borsa ma un po’ di senso politico ce l’ha) non scommetterebbe una lira sulla fattibilità di una proposta del genere: dire agli italiani che si finanza la riduzione dell’Irap alle imprese con la loro spesa quotidiana provocherebbe la prima rivoluzione armata dell’Occidente democratico.
Non andrebbe invece scartata a priori l’ipotesi di uno scambio Irpef-Iva, con la riduzione della tassazione sul reddito delle persone fisiche (abbattimento delle aliquote e irrobustimento di un’area di esenzione per i redditi medio-bassi) finanziata da un ritocco verso l’alto delle aliquote Iva.
Piazzo una piccola bomba carta sotto la sede di Chicago-Blog e scappo via dalla vergogna: la Polonia ha una tassazione del reddito personale a tre aliquote (zero, 18 e 32 per cento), con l’aliquota più alta che scatta sopra gli 85.528 sloty (pari a circa 20mila euro), ed un’aliquota Iva del 22 per cento.

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Accordo di governo: 24 bn di meno tasse…in Germania /2009/10/24/accordo-di-governo-24-bn-di-meno-tasse-in-germania/ /2009/10/24/accordo-di-governo-24-bn-di-meno-tasse-in-germania/#comments Sat, 24 Oct 2009 10:36:01 +0000 Oscar Giannino /?p=3429 Stamane è stato annunciato l’avvenuto accordo di governo in Germania, tra la Cdu-Csu guidata da Angela Merkel che sarà premier confermata, e la FDP di Guido Westerwelle che andrà agli Esteri. Alle Finanze sarà destinato il vecchio roccioso Wolfgang Schäuble, tosto ex ministro degli Interni. Con ogni probabilità, per “moderare” i liberali, un po’ troppo mercatisti per i gusti della Merkel. Ma il piatto forte dell’accordo è uno: non ci sono solo molti impegni “sociali”, su sanità e previdenza, ma ben 24 miliardi di euro di tagli alle tasse. A partire dal 2011, ma 24. Mediti, il governo italiano alle prese con l’IRAP.

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L’odiata IRAP, le parole e i fatti /2009/10/24/lodiata-irap-le-parole-e-i-fatti/ /2009/10/24/lodiata-irap-le-parole-e-i-fatti/#comments Sat, 24 Oct 2009 07:51:03 +0000 Oscar Giannino /?p=3424 Se dovessimo tenere un ideale referendum tra le imprese italiane sull’imposta più odiata, non c’è dubbio che l’IRAP vincerebbe la palma. Vincenzo Visco, che la inventò dieci anni fa unificando imposte diverse tra cui l’Iciap e l’ILOR, non è mai stato d’accordo. Il punto che lo lascia senza parole, è che senza Irap non ci sarebbe il pilastro regionale per finanziare la sanità, al di là dei trasferimenti nazionali al Fondo sanitario. Ma alcune caratteristiche dell’imposta l’hanno resa particolarmente odiosa. Colpisce più duramente quanto più manodopera l’impresa occupa. E lo Stato ne pretende il pagamento anche in caso di reddito negativo, quando l’impresa è in perdita.

Per questo, da anni i governi hanno di volta in volta annunciato il suo graduale abbattimento. Troppo graduale, hanno pensato le imprese dopo i primi taglietti effettuati dal governo Prodi. È per questo che il centrodestra ha fatto dell’annullamento dell’Irap un esplicito impegno elettorale. Rilanciato da Silvio Berlusconi tre giorni fa. Ribadito ieri da Tremonti e Letta, incontrando le Regioni. La soluzione finale verrà solo con il federalismo fiscale, ha detto Tremonti, proprio perché va compresa in un quadro di imposte e risorse proprie che rendano le Regioni responsabili di quello che spendono.

Bisogna dedurne che il governo ha deciso di accelerare sull’attuazione del federalismo fiscale. In caso contrario, tutte le imprese e dunque milioni di elettori avrebbero l’impressione che si tratta ancora di un annuncio per suscitare aspettative, dopo il quale si prende altro tempo. È vero, occorre essere responsabili per il debito pubblico, la prima preoccupazione di Tremonti ogni qualvolta gli si propongono misure che s traducano in deficit aggiuntivo. E l’Irap nel 2008 ha portato alle casse pubbliche oltre 38 miliardi di euro. È anche vero che gli introiti dello scudo fiscale, essendo una tantum, non possono finanziare tagli strutturali e permanenti alle entrate. È anche vero però, sostengono gli imprenditori che ieri hanno coperto di applausi a Mantova il capo dei piccoli di Confindustria Giuseppe Morandini, che ci sono ancora miliardi di euro di sprechi nella spesa pubblica, che le province nessuno le ha tagliate, che le cronache continuano a proporre esempi di carrozzoni pubblici con politici che assumono centinaia di raccomandati. La politica si dia una mossa, allora, se non vuole assistere all’asfissia crescente che grava su tantissime aziende.

Se davvero si volesse mettere mano da subito a una graduale riduzione dell’IRAP, una volta tagliata spesa pubblica equivalente, il problema diventa da dove cominciare. Le strade possibili sono almeno tre. C’è innanzitutto chi propone di concentrare la prima riduzione accrescendo la deduzione degli interessi passivi. L’effetto potrebbe essere però quello di concentrare i benefici sulle banche e sugli intermediari finanziari: è davvero questa, la priorità da seguire?

Una seconda strada è quella invece di attenuare o addirittura annullare la componente dell’imposta che grava sul numero di dipendenti. È sicuramente questa, la richiesta maggioritaria che viene dalle imprese manifatturiere e dei servizi. Ma attenzione: anche qui, se non si interviene con cura, si potrebbe finire per agevolare soprattutto le grandi imprese, piuttosto che le piccole che a migliaia sono ancora più a rischio.

La terza strada è quella di concentrarsi invece solo sulla piccolissima impresa, quella che attualmente gode del regime di franchigia. In questo terzo caso, però, significa limitarsi alla fascia di aziende fino a 180mila euro di fatturato. Non va bene neanche questo, a giudicare dagli allarmi levatisi ieri a Mantova. La soluzione preferibile sarebbe quella di una prima diminuzione concentrata su una fascia di piccole imprese più estesa. Nel quadro di un annuncio preciso, in termini temporali, degli sgravi ulteriori negli anni a seguire per le aziende, in maniera che esse da subito possano almeno pianificare i propri flussi finanziari. Questo, naturalmente, sempre che si voglia cominciare davvero. In caso contrario, avrebbe ragione Tremonti: era meglio, cioè, in definitiva, non annunciare nulla.

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Cha fare dell’ “Imposta RAPina”? /2009/10/16/cha-fare-dell-imposta-rapina/ /2009/10/16/cha-fare-dell-imposta-rapina/#comments Fri, 16 Oct 2009 16:34:12 +0000 Piercamillo Falasca /?p=3329 L’intervista di Innocenzo Cipolletta al Corriere, pubblicata giovedì, spiega meglio di tante denunce urlate le ragioni per le quali l’Irap va superata. E lo fa inquadrando il problema da un punto di vista “storico” ed ideologico: a metà degli anni Novanta i sindacati lamentavano il progressivo spostamento delle risorse delle imprese dal lavoro al capitale (che era in realtà un necessario ammodernamento della struttura produttiva italiana) e, con esso, il rischio che i contributi sanitari a carico dei dipendenti non fossero più sufficienti a finanziare il sistema sanitario universale. Visco tirò allora fuori dal cilindro questo ircocervo tributario, mezzo IVA e mezzo Ires (e da qui i continui borbottii di Bruxelles, della Corte di Giustizia Europea e di questa o quella sezione della Cassazione), che includeva nella base imponibile il costo del lavoro e gli interessi passivi a carico delle imprese. Costo della manodopera e costo del capitale, insomma.
Il risultato, dal 1997 ad oggi, è più che evidente: una distorsione da manuale dell’attività economica, con imprese che si trovano a pagare imposte pur senza avere avuto alcun utile, ed altre che vedono il proprio profitto prosciugato dall’Irap stessa. Per non parlare del sostanzialmente fallimento dell’imposizione di un’addizionale Irap come “penale” per gli sforamenti nella spesa sanitaria da parte delle Regioni: a pagare sono stati i contribuenti, non certo le classi dirigenti dei sistemi sanitari, che spesso hanno al contrario beneficiato di ricapitalizzazioni statali. Infine, l’insensatezza dell’inclusione tra i soggetti passivi Irap degli enti pubblici: soprattutto al Sud, dove gli enti locali soffrono di un ancestrale sovraccarico di dipendenti, l’Irap finisce per aumentare ulteriormente la porzione dei bilanci pubblici “mangiati”, direttamente o indirettamente, dal costo del lavoro.
“Graduale e progressiva abolizione dell’Irap”, recita il programma elettorale 2008 del Popolo della Libertà. Lo ha ricordato Francesco Giavazzi qualche giorno fa, invitando l’esecutivo a trovare le risorse (12 miliardi sembrano già essere disponibili, ne servirebbero altri 15 per il settore privato) per sopprimere l’imposta e dare così alle imprese la liquidità di cui necessitano.
Giavazzi è in buona compagnia nella sua richiesta plurimiliardaria di abolizione. E come tutta questa compagnia difetta – volente, pensiamo – di realismo: è evidente che Tremonti, rebus sic stantibus, non potrà reperire una tale massa di risorse. Non che Giulio non sappia quali gangli della spesa pubblica possano essere aggrediti, ma perché è politicamente impossibile che questo gli venga permesso. I miracoli esistono, ma sono rari: lo sappiamo noi liberisti impenitenti, figuriamoci se non lo sa Giavazzi.
E allora, più che chiedere l’impossibile – l’abolizione tout court dell’Irap, per poi criticare il ministro per la mancanza di coraggio – sfidiamo il Governo sul fronte del possibile. Si metta mano ad una riforma dell’Irap di questo tipo: una sforbiciata (quei famosi 12 miliardi o quanti sono) e la “scomposizione” in due parti di ciò che resta. La scomposizione era la proposta che l’IBL aveva immaginato nel Manuale delle Riforme: da un lato, un’addizionale regionale Ires, dall’altro un contributo sanitario regionale a carico dei soggetti che oggi sopportano l’Irap, completamente detraibile dalla base imponibile Ires come costo di produzione.
La prima componente avrebbe regionalizzato il sistema della tassazione d’impresa, permettendo una effettiva competizione tra territori. Se dovessimo riformulare oggi la proposta, lasceremmo libertà alle Regioni di scegliere tra un’addizionale Ires, una Irpef od una combinazione delle due. Solo in questo modo – come ha sottolineato Salvatore Padula su Il Sole 24 Ore – si correlerebbe almeno parzialmente il prelievo con la destinazione effettiva: la sanità è un servizio universale, ed è giusto che a pagarla siano i cittadini, e non solo le imprese (o le sole società di capitali).
Come per l’addizionale Ires/Irpef, anche il contributo sanitario stimolerebbe la competizione tra territori: le Regioni più capaci di ridurre le spese inutili e gli sprechi riuscirebbero a ridurre il carico contributivo delle imprese.
La “scomposizione” trovò qualche mese fa il favore di Federica Guidi, presidente dei Giovani di Confindustria, che la rilanciò proponendo la possibilità per le imprese di portare in parziale detrazione dal contributo sanitario le eventuali polizze sanitarie stipulate per i propri dipendenti. In questo modo, oltre che favorire lo sviluppo della sanità privata, si sarebbe prodotta un’innovazione nel modello delle relazioni industriali italiane, che avrebbero visto la polizza sanitaria entrare a far parte della negoziazione salariale tra imprese e lavoratori (ergo, sindacati).
Se si vuole, lasciamo per domani il rilancio di Guidi, e iniziamo oggi con la sforbiciata e la scomposizione, una proposta molto coerente con il federalismo fiscale prossimo venturo: se abbiamo scelto la sanità regionale, affidiamo davvero alle Regioni il problema del finanziamento.
E’ proprio cambiato il mondo se devono essere i Chicagoers a fare proposte coraggiose, ma pragmatiche.

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Da Londra, segni di speranza /2009/10/12/da-londra-segni-di-speranza/ /2009/10/12/da-londra-segni-di-speranza/#comments Sun, 11 Oct 2009 23:28:55 +0000 Oscar Giannino /?p=3200 Sono reduce da un fine settimana nella penisola calcidica, al congresso delle banche di Credito Cooperativo della Lombardia, che a tutti gli effetti è il maggior appuntamento nazionale dell’intero comparto delle BCC nazionale, il terzo pilastro del sistema creditizio italiano insieme alle banche SPA e alle Popolari. È la parte del sistema bancario con i più forti coefficienti di patrimonializzazione, e con un persistente aumento degli impieghi quasi a doppia cifra, rispetto allo zero e poco più per cento delle grandi banche SPA. Vorrei dilungarmi ma lo farò in altra occasione, visto che ho più volte scritto in questi ultimi tempi su Messaggero, Gazzettino e Mattino sul perché sarebbe il momento di fare delle BCC un Credit Agricole all’italiana, sul perché ancora siano più forti al Nord per storia e tecnica gestionale, e sul perché e sul percome il governo pensi di affidasi ad esse per la ormai stra-annunciata Banca del Sud. Qui voglio solo dirvi che le BCC sono giustamente perplesse su quanto finora si è sentito a proposito proprio della Banca del Sud, perché non sono disposte a travasi di raccolta dal Nord verso più impieghi al Sud. Il Sud di raccolta ne ha a iosa, il problema è di innalzare la tecnica e il merito di credito con cui vengono concessi gli impieghi. E quanto all’annunciato sgravio fiscale di 5 punti sulla raccolta reimpiegata al Sud, emerso in tralice dal Consiglio dei ministri di venerdì scorso, le BCC del Nord chiedono come un sol uomo che un tale sgravio venga dato a tutti, non solo alle meridionali. Hanno ragione, a mio modesto avviso. È l’unica platea bancaria al quale al sottoscritto vengano applausi scroscianti quando, appellandomi alla loro forte tradizione e identità cattolica, dico che se fossi un ministro di Dio ebbene non me la sentirei proprio, di amministrare sacramenti ai capi di Banca Intesa e di Unicredit. Se non dopo prove di redenzione assai diverse dalla lettera che Faissola, il presidente dell’ABI, a loro nome ha mandato al premier la settimana scorsa. Ma qui mi fermo. Perché se dovessi proprio dirvi negli ultimi giorni da dove ho raccolto il più promettente segno di speranza, direi che è da Londra.Personalmente NON sono un grande estimatore di David Cameron, il leader dei Tories che secondo tutti i sondaggi da mesi ha il futuro del Regno Unito in pugno, dopo le elezioni della prossima primavera. Sin qui troppo “sociale”, newagista e casinaro, per i  miei gusti. Ma giovedì pomeriggio alla Conferenza annuale del partito a Manchester ha fatto un discorso davvero non male. Più retorico che contenutistico, d’accordo. Ma, in gran parte, la retorica a cui ha dato piglio è la “buona” retorica di cui c’è bisogno in un Paese che rischia in tre anni dal 2008 di vedere accrescere il proprio debito pubblico di 37 punti di Pil. È vero, Cameron resta “sociale”, pensa che sia sorpassato il giudizio della Thatcher su “non esiste la società, esistono gli individui”.

I have some simple beliefs. That there is such a thing as society, it’s just not the same thing as the state. That there is a ‘we’ in politics, and not just a ‘me…

preferisce dire Cameron.   Ma si riprende almeno parzialmente subito dopo, quando va ai “valori”:

This is my DNA: family, community, country. These are the things I care about.

E su questi valori fonda la necessità che è tornata a risuonare come obiettivo preminente dei Tories: ridurre lo Stato- Leviatano.

We are going to solve our problems with a stronger society. Stronger families. Stronger communities. A stronger country. All by rebuilding responsibility.

Purtroppo, Cameron resta debolissimo sulla parte fiscale per ragioni elettorali, visto che difende l’aliquota fino al  50% sui più ricchi, che “devono pagare la propria parte”. Sono i poveri, a dover innanzitutto pagare meno tasse, ha scandito Cameron. Trent’anni fa i Tories combatterono e vinsero contro il Labour per non far pagare ai ricchi un’aliquota marginale che in realtà era al 98%. Oggi combattono  e vinceranno contro lo stesso avversario per abbattere l’aliquota marginale che finisce in realtà per giungere sino al 96% sui più poveri, visto che una madre single con due figli che guadagni 150 sterline a settimana resta solo con 4 sterline in tasca, ha detto. Di qui una tirata a effetto contro i laburisti affama-poveri…

Who made the poorest poorer? Who left youth unemployment higher? Who made inequality greater? No, not the wicked Tories… you, Labour: you’re the ones that did this to our society. So don’t you dare lecture us about poverty. You have failed and it falls to us, the modern Conservative Party to fight for the poorest who you have let down.

Di qui una parte strappalacrime su dolorose vicende di povere madri lasciate da sole a tirare la carretta. E su la necessità di battersi per ordine e sicurezza, polizia e forze armate.  Ma anche una solida virata verso i valori antistatalisti di sempre:

To be British is to be sceptical of authority and the powers-that-be. That’s why ID cards, 42 days and Labour’s surveillance state are so utterly unacceptable and why we will sweep the whole rotten edifice away.

Mancano i  numeri, tranne che sull’aumento dell’età pensionabile a 66 anni, e anzi Cameron ha detto che qualunque sia il programma stilato dall’opposizione, non è per questo che si vince ma per il proprio carattere e per ciò che la gente in base a questo si attende di fronte a difficoltà straordinarie. cosa che mi sembra onesta, a dire il vero, visto la fine che fanno i programmi di governo in questo momento non solo in Italia (da sempre), ma in tutta Europa.

L’effetto non è stato male. Se si pensa che oggi a Londra il governo Labour guidato da Gordon Brown annuncia in risposta a Cameron privatizzazioni per 16 miliardi di sterline nei prossimi due anni… Da noi posso dirvi che ieri, domenica, i vertici del governo erano furibondi perché Emma Marcegaglia presidente di Confindustria e Il Sole 24 ore con Guido Tabellini chiedevano il taglio dell’IRAP.

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Brava la Guidi, togliamo l’Irap e stimoliamo la competizione fiscale /2009/06/16/brava-la-guidi-togliamo-lirap-e-stimoliamo-la-competizione-fiscale/ /2009/06/16/brava-la-guidi-togliamo-lirap-e-stimoliamo-la-competizione-fiscale/#comments Tue, 16 Jun 2009 09:45:44 +0000 Piercamillo Falasca /?p=1026 (anche su Libertiamo.it)

Non si può nascondere una punta di soddisfazione nel sentire Federica Guidi scegliere, tra le proposte di policy che i Giovani di Confindustria hanno lanciato alla politica, una misura che l’Istituto Bruno Leoni aveva inserito un anno fa nel Manuale delle Riforme per la XVI legislatura: l’eliminazione dell’imposta regionale sulle attività produttive – l’Irap, l’imposta rapina – attraverso la sua “scomposizione” in due diverse componenti. Se quella del Manuale era una rivisitazione di un’intuizione di Francesco Forte, quella di Federica Guidi ne è una versione molto concreta e – se si volesse – facilmente attuabile. Le buone idee circolano, insomma.

La proposta, nei suoi caratteri generali, è quella che segue. A parità di gettito, le due componenti che sostituirebbero l’Irap sarebbero: la prima, un’addizionale dell’imposta sui redditi d’impresa, modificabile a discrezione delle Regioni entro una forchetta di alcuni punti percentuali; la seconda, un contributo sanitario regionale a carico dei soggetti che oggi sopportano l’Irap, detraibile dalla base imponibile Ires come costo di produzione.

L’addizionale Ires in sostituzione dell’Irap permetterebbe, finalmente, di eliminare quell’astruso meccanismo di imposizione del costo del lavoro e degli interessi passivi, che fa pagare le tasse anche alle imprese in perdita. In più, si stimolerebbe una concorrenza fiscale virtuosa tra le diverse Regioni: nel Manuale, avevamo proposto un’addizionale del 5 per cento, con un forchetta di 2 o 3 punti; potenzialmente, ciò potrebbe portare fino a 6 punti di differenza nel carico Ires tra la Regione più virtuosa e quella più spendacciona. In tempi di federalismo fiscale in fieri, quale migliore occasione per responsabilizzare le Regioni? La legge-delega sul federalismo fiscale che il Parlamento ha affidato al Governo, d’altro canto, prevede espressamente l’abolizione dell’Irap. Se non si vuole che la sua soppressione si traduca in una riduzione del livello di autonomia fiscale e finanziaria delle Regioni, è bene affidare il finanziamento della sanità alle amministrazioni regionali stesse, “condannandole” ad una maggiore responsabilità e ad una più decisa tensione competitiva. Chi saprà offrire una sanità efficiente con un costo più contenuto, potrà ridurre l’Ires ed attrarre investimenti, a danno delle Regioni meno virtuose.

L’istituzione di un contributo sanitario regionale (pro capite, per dipendente) permetterebbe di non escludere dalla nuova forma di tassazione i soggetti Irap non tenuti al pagamento dell’Ires, in primis le pubbliche amministrazioni. Così come per l’addizionale, anche con il contributo sanitario si stimolerebbe la competizione tra territori: le Regioni più capaci di ridurre le spese inutili e gli sprechi veri e propri riuscirebbero a ridurre il carico contributivo delle imprese.

Particolarmente interessante è la possibilità, che Federica Guidi ha richiamato nel suo intervento, che le imprese portino in detrazione dal contributo sanitario le eventuali polizze sanitarie stipulate per i propri dipendenti. Come ha rilevato la presidente dei giovani industriali Guidi, “oltre a favorire lo sviluppo della sanità privata, tale possibilità contribuirebbe alla modernizzazione del modello di relazioni industriali italiane”. La polizza sanitaria entrerebbe a pieno titolo nel gioco della contrattazione tra imprese e sindacati, favorendo uno spostamento del baricentro della contrattazione verso il livello più basso, l’azienda. Si consentirebbe ai lavoratori, come ha sottolineato Guidi, “di riappropriarsi di pezzi del proprio reddito”.

Le luci sono tante, ma non mancano le ombre e le incognite. E’ bene sottolineare che l’eventuale detrazione delle polizze sanitarie dal contributo sanitario rappresenterebbe una sfida tanto importante quanto rischiosa per il governo della sanità regionale. Se è ragionevole pensare che la promozione delle polizze sanitarie aziendali sposterebbe una porzione (limitata probabilmente, ma non per questo non significativa) della domanda sanitaria verso il privato, è altrettanto plausibile temere che l’offerta sanitaria pubblica non riesca automaticamente a ridursi di conseguenza, stante la sua strutturale rigidità. Il passaggio da un sistema all’altro, insomma, richiederebbe – da parte della classe dirigente regionale, sul fronte politico come su quello dirigenziale – uno sforzo rilevante, possibile solo grazie ad un radicale cambio di mentalità e di prospettiva.

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