CHICAGO BLOG » inflazione http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Ok, il prezzo è giusto ! /2010/09/16/ok-il-prezzo-e-giusto/ /2010/09/16/ok-il-prezzo-e-giusto/#comments Thu, 16 Sep 2010 21:00:37 +0000 Silvano Fait /?p=7060 Periodicamente, ad intervalli brevi ed irregolari, appare sempre qualche market update di provenienza bancaria o finanziaria contenente stime econometriche dell’inflazione attesa dal mercato nei prossimi x anni a venire. Il succo del procedimento consiste nel determinare il differenziale in termini di rendimento annuale tra il tasso di interesse di un titolo governativo a cedola fissa (T-Bond o Bund ad esempio) ed un titolo governativo, di durata finanziaria similare, il cui valore di rimborso finale è indicizzato all’inflazione ufficiale. Facendo un esempio molto rozzo: se un BTP al 5% nominale, con scadenza a un anno, ha prezzo 100 ed un BTPi (indicizzato) con scadenza sempre ad una anno, ma cedola al 2%, ha anch’esso prezzo 100, significa che il mercato si attende un inflazione dei prezzi al consumo del 3% per i prossimi dodici mesi. Il calcolo in realtà è più complesso e si estende lungo tutta la curva dei rendimenti, il principio di fondo però è quello sopra esposto.

Metodologicamente è un ragionamento corretto: il tasso che equalizza di due flussi di cassa attesi dovrebbe rappresentare le aspettative di mercato circa l’incremento medio annuo. In realtà il dato estrapolato non significa assolutamente nulla. Il prezzo dei titoli di stato è fondamentalmente qualcosa di molto prossimo ad un prezzo regolamentato, cioè un prezzo definito a mezzo di provvedimenti amministrativi. Essendo i prezzi calmierati dalla politica monetaria non sono espressivi di alcunché. Non riflettono preferenze temporali, né scarsità relative. Non veicolano alcuna informazione significativa agli operatori circa la struttura del capitale.

Facciamo un altro esempio semplice e paradossale. Supponiamo che in uno slancio di autocrazia il governatore della Bce si impegni a fornire una linea di credito di 1 miliardo di euro richiedendo come collaterale la “bianchina” di Fantozzi ed includa l’utilitaria del nostro ragioniere tra i collaterali presentabili allo sconto per sempre e sempre con lo stesso valore nozionale. Ammettiamo pure che ciò risulti credibile: il risultato sarebbe quello di veder schizzare il prezzo a cui i banchieri sono disposti a pagare la “bianchina” verso la sopramenzionata e strabiliante cifra di un miliardo di euro. Sanità mentale di Trichet a parte, questo “prezzo” sarebbe rilevante ? Sarebbe un indicatore di una qualche preferenza intertemporale ? Sarebbe indice di qualcosa ? La risposta è tanto scontata quanto è improbabile che tale evento si verifichi nella realtà, poiché nella realtà il banchiere centrale prende come collaterali titoli di stato (ed anche un po’ di altri attivi di qualità dubbia).

L’effetto, smorzato degli aspetti più parossistici, è tuttavia paragonabile. Espandendo le dimensioni del proprio bilancio e impegnandosi a determinare un tetto ai rendimenti su ogni scadenza, la banca ottiene il risultato di creare una sorta di grande calmiere relativamente flessibile (i prezzi hanno comunque un certo margine di oscillazione) per i titoli in oggetto. Questa serie di alterazioni perpetrate in maniera sistematica e ripetuta, anche tramite interventi di acquisto diretti, rendono il calcolo dell’inflazione ufficiale attesa qualcosa di molto simile ad un esercizio di stile, tanto meno significativo, quanto più si allunga l’orizzonte temporale di calcolo.

 “Gli imprenditori, che sperimentano una sequenza di episodi in cui la banca centrale implementa politiche di stabilizzazione o tentativi di “stimolare” la crescita economica, possono trovarsi a fronteggiare un costo elevato in termini di mancata comprensione di come le decisioni di politica monetaria interferiscono nei processi di mercato” (Garrison R., Time and Money).

Lo stesso può dirsi degli intermediari finanziari e di qualsiasi individuo in generale. Detto questo, quali conclusioni possiamo trarre circa l’andamento dei prezzi e la crisi attuale ? L’era dell’ inflation targeting e della “Greenspan Put” hanno influito sul modo in cui vengono percepiti i processi di mercato e sulla formulazione delle aspettative da parte degli operatori ? A mio parere sì. Entrambe sono politiche di sterilizzazione: dei prezzi al consumo nel primo caso, del trend di crescita nel secondo. Entrambe le politiche incidono in vari modi (i) sulla struttura dei prezzi relativi e (ii) sui profitti imprenditoriali. I primi veicolano informazioni sulla scarsità relativa dei vari tipi di beni e prodotti, i secondi discriminano tra azioni economiche di successo e sostenibili nel tempo ed iniziative fallimentari ed insostenibili.

Le aspettative si modellano sulle esperienze e sulla conoscenza relativa che ogni individuo ha del sistema. Manipolando il sistema dei prezzi e i processi di mercato attraverso decisioni di politica monetaria si influisce sulla comprensione del funzionamento della realtà, e finché il gioco funziona le aspettative si adatteranno ai desiderata delle autorità monetarie. Ovvero ci si attende un rialzo dei tassi a seguito di un aumento dei dati sull’inflazione, una naturale ripresa della attività economica dopo  un ribasso dei tassi e così via. Il tutto ovviamente senza interrogarsi sulle dinamiche monetarie sottostanti: esperienza e conoscenza si plasmano sull’andamento dei prezzi e dei profitti, i quali, tramite il controllo della moneta, vengono tenuti entro un determinato percorso. Questo fa sì che si accumuli un numero sempre maggiore di distorsioni, le quali, non emergendo palesemente vengono ignorate nei processi decisionali, e non possono essere tenute di conto per la formazione delle aspettative. Facendo degli esempi semplici: tanto più i palazzinari prosperano e girano con il macchinone, tanto più si sarà indotti a vedere nel settore immobiliare un reale motore della crescita. I dubbi di qualche minoranza avveduta si paleseranno soltanto al momento dello scoppio della bolla. Lo stesso è stato per il settore high tech: finché qualsiasi canieporci.com rastrellava capitali abnormi sul mercato l’aspettativa dominante era che internet fosse una sorta di cornucopia. Più in generale, ogni intervento che ha impedito una liquidazione dei malivestimenti ha contribuito a confermare la malsana idea che le bolle siano quasi una sorta di moda passeggera, frutto dell’esuberanza irrazionale e dagli impatti tutto sommato contenibili (e quindi, finché l’intervento “funzionava”, rendeva inutile o falsava qualsiasi percezione delle cause sottostanti). Ogni mancata deflazione sui prezzi al consumo (frutto dell’apertura degli scambi commerciali riconducibili alla globalizzazione) ha contribuito a rafforzare l’idea della ineluttabile vischiosità verso il basso dei salari e ha riproposto logiche ed aspettative di tipo mercantilista (vedi l’ossessione per la bilancia commerciale). Quindi, tornando alle previsioni sui prezzi al consumo, è perfettamente inutile pensare che dominino delle aspettative realiste circa l’evoluzione futura a medio termine, fintanto ché gli operatori non si saranno scrollati di dosso l’idea che l’inflation targeting e le politiche di spesa anticiclica siano degli strumenti di policy facenti parti del business as usual, privi di significative conseguenze a lungo termine. Da questo punto di vista il tessuto sociale ed economico è ancora assai impreparato ad anticipare e valutare degli eventuali “effetti non calcolati” dell’ingegneria sociale quotidianamente perpetrata da stato e banca centrale.

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Il rischio giapponese a cui ci espongono BCE e banche centrali /2010/08/12/il-rischio-giapponese-a-cui-ci-espongono-bce-e-banche-centrali/ /2010/08/12/il-rischio-giapponese-a-cui-ci-espongono-bce-e-banche-centrali/#comments Thu, 12 Aug 2010 12:22:26 +0000 Oscar Giannino /?p=6773 di Silvano Fait (IHC)

Purtroppo non abbiamo avuto ancora il piacere di vedere fare a Trichet uno spot televisivo al ritmo di “La mia banca è differente! Banca Centrale Europea: la Banca con “B” maiuscola”. Mai pubblicità sarebbe stata maggiormente azzeccata. Come noto, la Banca Centrale è il monopolista autorizzato ex lege alla produzione di moneta. Il suo compito istituzionale è preservare la stabilità dei prezzi dei beni al consumo. I driver sono: il target di inflazione programmata pari al 2% e l’espansione della base monetaria determinata in un 4,5% annuale. Nella pratica la (teorica) k-rule è diventata una D&D Rule (Dungeons & Dragons’ rule) ovvero: lancia quattro dadi da sei, incrementa la base monetaria della percentuale corrispondente e poi compra tutti gli asset di dubbio valore sul mercato fino all’occorrenza. Anche la prima idea, quella di un perseguimento di un tasso di incremento dei prezzi dei beni di consumo costante è un po’ perniciosa: per un approfondimento il tal senso può essere opportuna una lettura di “The Sphere of Economic Calculation” (Human Action, cap. XII di Ludwig von Mises) come pure di questo “antico” pezzo di IHC, in quanto una discussione in tal senso richiederebbe uno spazio così ampio da esulare dagli scopi del presente articolo. Torniamo adesso invece al monopolio di emissione riservato alla Banca Centrale. Questo costituisce indubbiamente il principale asset (occulto) all’interno del bilancio della ECB – lo stesso dicasi per i bilanci di Fed, BoE, BoJ, etc. Per un periodo di tempo “t” può essere espresso dalla seguente formula:

I = (it – i Mt) / (1 + it) Mt-1

Dove I ” rappresenta il valore attuale netto (NPV) degli interessi risparmiati dalla Banca Centrale in forza del monopolio di emissione sulla base monetaria, “i ” il tasso di mercato che la stessa dovrebbe pagare in assenza di tale monopolio, “i Mt” il tasso di effettiva remunerazione e “Mt-1” la base monetaria all’inizio del periodo preso in considerazione. Attualmente i Mt è la media ponderata tra l’1% pagato sulle riserve obbligatorie, lo 0,25% sulle riserve in eccesso e l’ammontare delle banconote remunerate a zero, ovviamente.

Willem Buiter, Chief Economist di Citigroup, nel Global Economic Outlook and Strategy del 21 luglio ha elaborato delle stime circa l’ammontare del valore attuale di “I” combinando alcuni scenari tra di loro. Assumendo un costo nullo di emissione della moneta ed ipotizzando che la Banca Centrale voglia tenere fede al proprio impegno di un incremento nominale dei prezzi al consumo del 2% su base annua, la “deep pocket” (la tasca profonda) di Trichet oscillerebbe da 1.985mlrd a 6.864mlrd di euro. In ogni caso decisamente superiore ai 78mlrd di patrimonio netto che ufficialmente figurano a bilancio nell’Eurosistema, quale perdita massima assorbibile dall’istituto di emissione.

Per svuotare una tasca profonda ci vuole una mano profonda, ma attualmente il lavoro è semplificato dal fatto che di mani ce ne sono due: quella a disposizione della Banca Centrale e quella a disposizione del Tesoro (in senso lato), ovvero le agenzie fiscali dei vari paesi dell’eurozona. Nonostante i programmi di austerity dichiarati, i Governi hanno un interesse oggettivo ad estrarre parte di questa rendita monopolistica della Banca Centrale (sul legame finanziario diretto tra Tesoro e Banca Centrale si veda anche qui). Il metodo è tutto sommato semplice: scaricare su di essa il mantenimento della stabilità del sistema finanziario, fatto che a sua volta implica un sostegno diretto o indiretto al collocamento e/o alla negoziazione dei titoli sovrani (se non altro a condizioni meno onerose di quelle che verrebbero richieste in un mercato libero e competitivo). In ultima istanza l’ECB è e sarà costretta ad ogni occorrenza ad espandere la base monetaria e ad accettare collaterali di pessima qualità, anche oltre le intenzioni dichiarate. Non è in discussione quindi se la politica monetaria resterà o meno inflativa, ma semplicemente in che modi e in quali termini.

Il veicolo speciale (SPV), che dovrebbe prendere vita entro qualche mese, e la concertazione di linee di credito bilaterali tra Governi dell’eurozona sono un evento senza precedenti dalla creazione dell’euro ad ora. Come già sottolineato l’ SPV può rivelarsi del tutto inutile a fermare la speculazione: in assenza di credibili politiche di risanamento di bilancio questo diventa un peg contro cui giocare per ottenere free lunch fino all’esaurimento delle risorse finanziarie ivi conferitevi. Senza poi considerare il fatto che i processi di negoziazione intracomunitari raramente seguono la velocità con cui si evolvono le crisi di carattere finanziario e pertanto richiedono (prima, durante e dopo) la fattiva e proattiva assistenza della ECB. È necessario sottolineare come i prestiti intergovernativi stiano al libero mercato dei capitali come il miele sta al diabetico. Non riflettono le preferenze intertemporali degli attori, i tassi e le modalità concessione non rispecchiano alcun costo opportunità riferibile a dei liberi agenti economici, le rinegoziazioni avvengono sotto l’egida della politica. Se la veste formale è pur sempre quella di obbligazioni creditizie, nella sostanza sono uno strumento di carattere egemonico con cui creare e gestire vincoli di sovranità tra Governi, istituzioni intergovernative o sovranazionali. Non sono uno strumento del mercato. Sono uno strumento del nazionalismo economico ed il “patriottismo monetario” è senza ombra di dubbio un elemento di sfaldamento, non di integrazione commerciale tra Paesi.

Nel grande gioco a mantenere lo status quo rimane aperto il problema della sottocapitalizzazione degli istituti di credito. Le leve su cui agire ovviamente sono due: l’attivo ed il passivo. L’emergere dei malinvestimenti della fase espansionista (2003 – 2008, anche se allargando la discussione ci sarebbe da riflettere sulle scelte di politica monetaria degli ultimi vent’anni) ha bloccato l’espansione creditizia, o quantomeno l’ha diretta verso il comparto statale – allocazione questa che non richiede particolari accantonamenti di capitale. Una contrazione prolungata e poco discriminata degli impieghi al settore privato genererebbe un fenomeno di selezione avversa: i soggetti in grado di rientrare sarebbero quelli più solvibili mentre gli altri crediti diventerebbero manifestamente deteriorati o inesigibili (i.e. apparirebbero per quello che già sono). Ciò comporterebbe l’insolvenza degli istituti che più hanno finanziato progetti non sostenibili, come ad esempio le casse di risparmio spagnole. In un’economia di mercato non vi sarebbe niente di anomalo in tutto questo: la pulizia delle inefficienze e la riallocazione delle risorse sono processi salutari. Nel caso attuale invece, è proprio ciò che si cerca sistematicamente di evitare. Sull’asset side delle banche si è intervenuti (i) a livello normativo con il passaggio dal mark to market al mark to fantasy, per favorire l’occultamento delle perdite e (ii) a livello finanziario con quello che ormai giustamente possiamo definire un “quali-quantitative flooding“. Per quanto riguarda il capitale di vigilanza in una prima fase molti paesi hanno proceduto ad interventi sia di nazionalizzazione che di ricapitalizzazione (in gran parte pubblici, più modestamente privati). Questo tuttavia ha semplicemente tamponato la situazione e favorito fenomeni di evergreening. È utile ricordare che un evergreening attuato su scala sistemica, oltre a rallentare la riallocazione del risparmio verso i settori profittevoli dell’economia, rende più difficoltoso sia l’accesso al credito che la realizzazione di nuovi progetti potenzialmente redditizi e maggiormente richiesti dai consumatori: risorse e capitali continuano a permanere dove non dovrebbero, anziché cambiare la propria allocazione in maniera conforme al mutato scenario economico.

In conclusione Europa e Stati Uniti, seppur con alcune significative divergenze circa la tempistica di rientro dalle politiche di spesa, guidati da Governi e Governatori centrali sembrano decisi ad imboccare una via occidentale alla giapponesizzazione delle proprie strutture finanziarie, produttive e sociali. Non è possibile prevederne gli esiti a priori. È possibile che le forze vive del capitalismo producano abbastanza risparmi e beni capitali da permettere un superamento della congiuntura “relativamente” poco doloroso, ma ciò non potrà non essere accompagnato da un riequilibrio dei pesi a livello geopolitico ed economico globale. Allo stesso tempo non è affatto da escludere l’ipotesi che la socializzazione delle perdite – attività che vede gli istituti di emissione impegnati da molti anni – provochi l’apparizione di imprevisti buchi neri (nella gestione del central banking) tali da portare all’ordine del giorno la necessità di ridiscutere l’intera architettura su cui si basa il sistema monetario attuale.

Fino ad oggi le Banche Centrali sono più o meno sempre riuscite a cartellizzare e coordinarsi in maniera tale da garantire la sopravvivenza del sistema (negli ultimi anni in particolare tramite operazioni di currency swap). Tuttavia si sta verificando una situazione in cui, nei Paesi occidentali, vi sono sempre meno margini – sia finanziari che politici – per ulteriori operazioni di supporto tramite l’indebitamento pubblico, mentre in quelli asiatici e in via di sviluppo le riserve accumulate finora potrebbero – essendo espresse prevalentemente in dollari, euro, yen, sterline e franchi svizzeri – accusare pesanti perdite in caso di significativi movimenti al ribasso nel mercato dei cambi di queste valute. Comunque vada, il “global central banking” proseguirà nel suo sentiero inflazionistico ed il suo destino è ad esso indissolubilmente legato.

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Il futuro è d’oro /2010/05/12/il-futuro-e-doro/ /2010/05/12/il-futuro-e-doro/#comments Wed, 12 May 2010 11:11:26 +0000 Mario Seminerio /?p=5987 Oggi segnaliamo un interessante commento di Greg Gibbs, di Royal Bank of Scotland, ripreso da Alphaville, che dà l’esatta misura di quello che sta accadendo sui mercati europei, e quello che ci attende nel prossimo futuro: la monetizzazione del debito pubblico dei paesi di Eurolandia, in perfetto stile-Fed o Bank of England. Perché non ci sono davvero alternative a questo esito, o meglio l’alternativa è la Grande Depressione 2.0. Spiegato agevolmente il motivo del rally dell’oro.

Scrive Gibbs:

Se il mercato non comprerà i titoli governativi, dovranno farlo le banche centrali. Non c’è altra scelta. L’alternativa è semplicemente troppo dannosa per l’economia per essere contemplata. Se le banche centrali non compreranno il debito, i governi saranno forzati ad un surplus di bilancio. Immaginate la carneficina se le maggiori economie fossero costrette a passare da un deficit in doppia cifra a un surplus, stiamo parlando di uno scenario da Grande Depressione o peggio.

Anche solo approssimarsi a quell’esito è cosa troppo brutta da prendere in considerazione, quindi quando i costi di indebitamento cominceranno a crescere, come fatto di recente nella periferia dell’Eurozona, il contagio si diffonderà al mercato azionario ed ai mercati globali. Questo ha forzato i governi dell’Eurozona ad affrontare il problema gettandovi del denaro. Il pacchetto da 1 trilione di dollari ha una certa credibilità solo perché coinvolge i paesi centrali di Eurolandia ed il Fondo Monetario Internazionale, che hanno ancora costi di indebitamento relativamente bassi. Tuttavia, il pacchetto avrebbe poca efficacia se la Bce non fosse coinvolta.

L’acquisto di titoli governativi da parte della Bce (monetizzazione) è critico. Essa rappresenta la più credibile fonte di fondi poiché crea moneta. E’ indubitabilmente vero che le azioni della Bce, questa settimana rendono più chiaro che mai ciò che è globalmente il problema del debito sovrano. Tutti i paesi, non solo l’Eurozona, quando i rendimenti cominceranno a crescere a causa dei rischi di default sovrano, forzeranno le proprie banche centrali a comprare i titoli, cioè a monetizzare.

Potete parlare quanto volete di sterilizzazione, ma quando la banca centrale è forzata lungo questo percorso, potete star certi che i tassi non verranno alzati. Le banche centrali punteranno a tassi reali negativi, e fin quando la “casa fiscale” non sarà rimessa in ordine, punteranno alla crescita del Pil nominale. Che questo derivi da maggiore inflazione o da crescita reale sarà di secondaria importanza. Malgrado l’inflazione debba ancora esplodere, il prezzo dell’oro ci sta dicendo che questa minaccia è del tutto reale nel più lungo periodo. Giustamente, quindi, la gente non si fida più della fiat money.

Perfetto, sposiamo in toto questa analisi. Quali scenari, quindi? Il nuovo patto di stabilità, di cui si è iniziato a discutere dalle parti di Bruxelles, e su cui non scommetteremmo del denaro, dovrà misurarsi con questa nuova realtà di monetizzazione. Ai paesi verrà richiesto, in modo anche formalmente ruvido, di risanare la propria finanza pubblica, ma la prospettiva di avere in azione le presse della Bce limiterà la tensione ad agire, perché di fatto il moral hazard è drammaticamente aumentato.

Quanto alle tecnicalità scelte dalla Fed, ne abbiamo parlato ieri a Nove in punto, con Oscar Giannino. Contrariamente alle nostre elucubrazioni a caldo, la Bce punta alla sterilizzazione automatica, non a vendere i Bund presenti nel proprio portafoglio. In altri termini, le banche centrali europee, per conto della Bce, comprano titoli di stato dell’Eurozona e pagano i venditori (le banche commerciali) con un assegno. Le banche commerciali depositano questo assegno sul conto accentrato che detengono presso la banca centrale, o utilizzano la facility del deposito overnight, che però rende praticamente zero. Così facendo, le riserve bancarie libere presso la Bce si gonfieranno, come nel caso dell’easing quantitativo della Fed.

La Bce potrà in seguito, se le banche commerciali finiranno col detenere troppa liquidità “libera”, pensare ad interventi di drenaggio attraverso operazioni di pronti contro termine o con depositi a termine, per evitare che la massa di liquidità pressoché infruttifera accumulata nelle riserve bancarie libere possa improvvisamente prendere la strada di un aumento del credito all’economia. Per ora non ci sono rilevanti rischi inflazionistici, ma i mercati si portano avanti. Attendiamoci mercati azionari tonici, così come tutte le asset class a rischio.

Siamo entrati nella fase dello svilimento terminale della moneta. E ricordate di tenere nei vostri portafogli d’investimento una quota di oro.

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L’evoluzione bimodale dei prezzi… /2009/12/29/levoluzione-bimodale-dei-prezzi/ /2009/12/29/levoluzione-bimodale-dei-prezzi/#comments Tue, 29 Dec 2009 12:34:15 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4558 Fino a metà 2008 tutti parlavano di recessione inflazionistica: carestie alimentari, fine del petrolio, tavole di Mendeleev vendute a prezzi crescenti nei mercati internazionali. Poi, nel giro di pochi mesi, tutti cominciarono a pensare ad una recessione deflazionistica: i prezzi scendevano e le bolle delle commodities si sgonfiavano rapidamente, ed è rispuntata fuori la trappola della liquidità.

Ora è però quasi un anno che le commodities stanno in rialzo. Il petrolio è passato da 50$ a 80$ al barile. L’indice IMF delle commodity, nel frattempo, è aumentato del 50%, e la cosa è abbastanza uniformemente divisa tra metalli, gas, petrolio e generi alimentari. Oro, argento, platino, rodio e palladio, chi più chi meno, sono aumentati considerevolmente, alcuni anche raddoppiati. Alluminio, rame e nickel, come se non bastasse, sono aumentati anche loro più o meno altrettanto. Che succede?


Se si va su Fred (Federal reserve economic data), poi, si scopre che mentre il CPI, indice dei prezzi finali, è aumentato in un anno solo da 211 a 216, il PPI, l’indice dei beni di produzione, è aumentato più del doppio, da 168 a 178. Per interpretare questo dato, supponiamo che l’unico costo delle aziende siano i materiali nell’indice dei prezzi di produzione: se il CPI aumenta meno del PPI, i profitti lordi calano, a parità di condizioni. Ovviamente non si può trascurare il costo dovuto al lavoro e quello dovuto ai capitali fissi, e neanche i differenziali di rendimento necessari a compensare il rischio, però – ripeto, a parità di condizioni – una riduzione della forbice CPI/PPI è da considerarsi come una cattiva notizia per le imprese: produrre diventa meno redditizio.

Un aumento generalizzato di tutti i prezzi è sintomo di eccesso di moneta. Un aumento generalizzato dei prezzi relativi dei fattori di produzione (come le commodities e gli elementi del PPI) può essere invece sintomo di un eccesso di credito utilizzato per comprare questi beni, il cosiddetto capitale circolante, o di scarsità di questi beni, cioè di colli di bottiglia a livello di capacità di espandere la produzione. Colli di bottiglia che per essere eliminati necessitano di risparmi e di investimenti di lungo termine, cioè in capitale fisso. Un’inflazione generalizzata non spiega perché PPI e commodities risentono delle politiche monetarie più dei beni finali, ma l’eccesso di credito è una possibile spiegazione di ciò che sta succedendo. Come insegna Hayek, il livello assoluto dei prezzi, tra tutte le cose influenzate dalla moneta, è la conseguenza meno importante.

L’economia ha dei colli di bottiglia produttivi: non può espandere investimenti e consumo stabilmente nel lungo termine. Le politiche di sostegno della domanda non possono risolvere il problema (l’esistenza di spare capacity, come spiegò Hayek, è più un’illusione ingegneristica che un fatto economico), perché il problema è che la struttura produttiva richiede di comprimere i consumi per fare gli investimenti necessari a perpetuare o ad espandere la struttura produttiva esistente.

Le banche centrali stanno al contrario cercando di convincere i mercati che si possa superare una crisi da eccesso di credito creando ulteriore credito, per l’ennesima volta in più di 20 anni. Manipolare gli interessi, però, non crea risorse reali, e inoltre facilita lo spreco, l’inefficienza e l’irresponsabilità: ne risulta che le prospettive di crescita future sono probabilmente abbastanza fosche. In compenso, possiamo giocare a chiederci se languiremo in una lenta inflazione o in una lenta deflazione: questa sì che è una grande scelta!

L’economia è bimodale e ogni passo verso la ripresa è un passo verso l’inflazione, che però mostra gli artigli prima che si veda la ripresa vera. In compenso, basterebbe una scarichetta di crisi finanziaria per eliminare il pericolo di inflazione, e reintensificare la recessione. L’alternativa “economia in crescita e prezzi stabili” non sembra far parte del ventaglio degli outcome della politica economica, il che significa che c’è probabilmente qualche serio problema strutturale che nessuno stimolo della domanda aggregata e nessuna ricapitalizzazione delle banche può risolvere.

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G5 batte G7, nel mondo nuovo /2009/10/08/g5-batte-g7-nel-mondo-nuovo/ /2009/10/08/g5-batte-g7-nel-mondo-nuovo/#comments Thu, 08 Oct 2009 01:32:54 +0000 Oscar Giannino /?p=3165 Gli andamenti dei Paesi del vecchio mondo avanzato – il G7 – divergono sempre più sostanzialmente da quelli dei Paesi leader – il G5 composto da Brasile, India, Cina, Messico e Sud Africa — del blocco precedentemente noto come Brics, che nel frattempo ha perso la Russia, troppo instabile e troppo dipendente dal solo andamento del prezzo energetico. La divergenza comporta conseguenze sulla exit strategy, ma non solo su di essa.

Confrontate l’andamento del Pil nel G7 , che varia dal meno 7% del Giappone al meno 3% francese, a quello del G5, che va dal + 7,9% cinese e dal +6% indiano al -1% brasiliano (il Messico è l’eccezione negativa). Confrontate le vendite al dettaglio nella domanda interna del G7 - con l’eccezione britannica e francese, tutte abbondantemente a segno negativo, con gli USA in risalita solo ora verso un -6% da uno spaventoso e prolungato -10% - al tumultuoso andamento delle vendite di auto nel G5, con la Cina che è riuscita a toccare persino un +60% da aprile ad oggi. È evidente che le politiche monetarie e fiscali di sostegno alla domanda interna – di segno sostanzialmente omologo nel G7 e G5 – hanno effetti assai più apprezzabili nei Paesi emergenti che in quelli già sviluppati. Keynes è residualmente più efficace solo nei Paesi poveri, come l’Europa e gli USA dovrebbero aver imparato a proprie spese negli anni Settanta del secolo scorso, anche se oggi l’hanno inopinatamente dimenticato.  Come si legge anche dei diversi andamenti dell’ inflazione, quelli modestissimi e sostanzialmente deflattivi del G7, e quelli invece “robusti” del G5, con l’eccezione veramente impressionante della Cina.

La conclusione è duplice. Da una parte, l’inversione dei tassi a risalire appare assai più prossima nel 2010 per il G5, di quanto non si sposti ormai tendenzialmente verso il 2011 per il G7. Dall’altra, le tensioni monetarie internazionali sul dollaro sono fatalmente destinate a salire, in vista di un diverso ordine monetario mondiale.

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I conti di Obama, i nostri e la corda sull’abisso /2009/09/18/i-conti-di-obama-i-nostri-e-la-corda-sullabisso/ /2009/09/18/i-conti-di-obama-i-nostri-e-la-corda-sullabisso/#comments Fri, 18 Sep 2009 14:13:01 +0000 Oscar Giannino /?p=2829 Se si applicano le proiezioni del Congressional Budget Office alle proposte presentate e sostenute dall’amministrazione Obama, quest’anno la spesa primaria federale Usa toccherà il record dal secondo dopoguerra - un 26% del GDP che a noi italiani abituati al doppio farà pure sorridere, ma negli USA fa tremare. Soprattutto, di qui al 2018 la spesa pubblica federale resterà ancora in deficit a botte non inferiori del 5% del GDP l’anno, con un debito pubblico aggiuntivo superiore ai 9 trilioni di dollari. Il debito pubblico passerebbe così dal 41% del GDP precrisi, a superare il 100% nel 2020. È una corda tesa sull’abisso. E poiché noi all’America ci teniamo innanzitutto per se stessa, e poi perché senza di lei il mondo cresce meno e cresce peggio, il problema che “ci” riguarda è: come uscirne?

Sostanzialmente, le strade sono tre. La prima è quella di un energico consolidamento fiscale. La seconda, quella di una massiccia inflazione. La terza, il default.

Per consolidamento fiscale si intende una massiccia manovra di politica di bilancio che riequilibri il deficit primario, pari ad almeno un punto e mezzo-due punti di GDP l’anno. Naturalmente, si può agire riducendo la spesa, aumentando le tasse, o con un mix di entrambi. L’innumerevole quantità di studi che si è accumulata in materia negli anni Ottanta-Novanta prova, serie storiche dei diversi Paesi alla mano, che hanno ragione Alberto Alesina e Roberto Perotti. Sono i capofila di coloro che dimostrano come il riequilibrio da una parte più solido in termini di stabilità di lungo periodo, e dall’altra più pronubo alla crescita dell’economia, avviene quando ci si concentra sul taglio della spesa pubblica.

L’Italia ha fatto purtroppo diversamente, e si vede. Negli anni 1976, 1982, 1983, 1991, 1992, 1993, 1997, in ciascuno di essi il governo in carica ha effettuato manovre di finanza pubblica di portata tale da rientrare nella categoria del “consolidamento”: tranne in due occasioni per frazioni di punto, mai una volta tagliando la spesa ma sempre alzando le imposte . Risultato: produttività a picco; bassa offerta e domanda di lavoro; bassa crescita; diminuzione costante del Pil potenziale italiano, che variava ancora di un più 3,9% l’anno nei primi anni ’80, poi del 2,6% nei primi anni ’90, solo dell’1,6% nel 2000, e infine di un misero 0,6% nel 2008 (badate bene che parlo del Pil “potenziale”, quello che si realizzerebbe a pieno utilizzo di tutti i fattori…).

Gli Stati Uniti, in passato, hanno quasi sempre seguito la strada più virtuosa. Nel 1946 il debito pubblico postbellico USA ammontava al 121,7% del GDP. Nel 1956 era sceso al 64%, e nel 1966 – prima del Vietnam che lo fece risalire – era al 43,5%. Il riallineamento non fu ottenuto alzando le tasse, che restarono pari più o meno al 17% del GDP nel ventennio 46-66. Ma abbattendo la spesa pubblica federale, che passo da oltre il 25% del GDP al 17,8%. Occhio a quel 25%: vi fa capire perché in America tanti inizino a rabbrividire e a sfilare in piazza contro Obama. Non perché siano rozzi e razzisti: ma perché la spesa pubblica primaria di Obama – al netto degli interessi da pagare sul debito pubblico – supera il totale della spesa pubblica nell’anno finale del secondo conflitto mondiale!

Gli Stati Uniti, come tutti, come noi italiani per primi, dovebbero ricordare la lezione e imboccare di nuovo la strada del “meno spesa-meno tasse”, invece di fare l’esatto contario. Certo, resta la via del ridimensionamento del debito pubblico attaverso l’inflazione, e qella di un default con parziale o total ripulsa del debito. La prima genera instabilità e penalizzerebbe noi europei ancor più che americani ed asiatici. La seconda, significherebbe che l’America come la conosciamo è semplicemente finita una volta per tutte. Piacerà a qualcuno, tale prospettiva, non lo metto in dubbio. Ma a me fa inorridire.

Per chi volesse approfondire, utilissimo l’appena edito paper dell’American Enterprise.

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Inondazione di ultima istanza /2009/08/24/inondazione-di-ultima-istanza/ /2009/08/24/inondazione-di-ultima-istanza/#comments Mon, 24 Aug 2009 07:26:25 +0000 Mario Seminerio /?p=2316 Pare ormai acquisito che la Grande Recessione stia volgendo al termine, almeno sul piano delle variazioni del Pil, mentre l’andamento dell’occupazione sembra destinato a restare depresso almeno fino alla seconda metà del 2010. Circostanza che solleva perplessità riguardo la sostenibilità della ripresa nella perdurante assenza del consumatore americano, che deve prioritariamente preoccuparsi di ridurre il proprio indebitamento e non perdere il lavoro, o trovarne rapidamente uno nuovo, in caso sia disoccupato. Tra gli analisti restano tuttavia significative divergenze riguardo il vigore della ripresa in atto e la sua auto-sostenibilità, al netto dell’impulso fiscale.

La domanda fondamentale è relativa alla dimensione dell’output gap, cioè il vuoto di attività che separa la condizione corrente dal pieno impiego delle risorse economiche. A quanto ammonta oggi l’output gap? E la crescita di trend, è stata intaccata dalla crisi o riprenderà allo stesso passo di prima della recessione? E’ su questi punti che si registrano forti dispersioni di previsioni intorno alla tendenza centrale.

Quello di output gap è un concetto astratto ed accademico, ma presenta rilevanti implicazioni di policy. Ad esempio, dall’esistenza ed ampiezza dell’output gap deriva la presenza o l’assenza di pressioni inflazionistiche, oltre all’andamento del gettito fiscale, a parità di legislazione e scala delle aliquote. La banca centrale che ritiene che il gap stia colmandosi velocemente, o che sia di dimensioni limitate, agirà per rimuovere rapidamente lo stimolo monetario, alzando i tassi.
Analogamente, un errore governativo nello stimare l’invarianza della crescita di trend al valore ante-crisi finirebbe col sovrastimare il futuro gettito fiscale, ed ipotizzare un percorso eccessivamente ottimistico di rientro dal deficit, destinato ad andare incontro a spiacevoli sorprese di sostenibilità fiscale nel medio termine.

Qualcosa del genere pare sia accaduto negli Stati Uniti, dove le nuove proiezioni del bilancio federale, che saranno ufficializzate nella giornata di domani, sembrano destinate ad aggiungere altri 2000 miliardi di dollari di deficit nei prossimi dieci anni (ai 7000 originariamente previsti), essenzialmente a causa di entrate fiscali nettamente inferiori a quelle previste nei mesi scorsi da uno scenario eccessivamente roseo.

Il sostantivo-chiave, per la congiuntura, è dunque “incertezza”, coniugato con l’aggettivo “elevata”. Razionalmente dovremmo quindi attenderci l’applicazione ai mercati di uno sconto per l’incertezza, mentre quello che osserviamo da molti mesi è in realtà un premio di liquidità, che alimenta sopravvalutazioni di asset, se proprio non vogliamo usare il termine “bolla”. Sopravvalutazione che potrebbe essere destinata ad aumentare se dovesse trovare conferma la tesi del presidente della Fed di Saint Louis, James Bullard, che ritiene che i mercati non abbiano realmente colto il senso della frase riportata da parecchi mesi in calce al comunicato finale del Federal Open Market Committee:

“Il Comitato continua a prevedere che le condizioni economiche siano suscettibili di giustificare per un periodo di tempo prolungato livelli eccezionalmente bassi del tasso sui fondi federali”

Secondo Bullard, ciò significa che i tassi non verranno aumentati al manifestarsi dei primi segni non transitori di ripresa, al fine di indurre negli agenti economici aspettative inflazionistiche, che a loro volta fornirebbero una spinta alla domanda, necessaria per colmare rapidamente l’output gap. Se l’interpretazione di Bullard fosse corretta, si tratterebbe di una forma di “stimolo” che agisce sulle aspettative, anticipando decisioni di consumo e investimento. Ad oggi, essa non pare aver avuto particolare successo dal versante della domanda, ma molto di più su quello della propensione dei mercati ad ignorare i fondamentali, rafforzando il convincimento che vi sarà sempre e comunque una “inondazione di ultima istanza” a trarre d’impaccio il sistema finanziario. Ma forse, proprio questo sta a dimostrare che i mercati hanno letto fin troppo bene tra le righe degli statement del FOMC.

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Abolire le banche centrali (cominciando dalla Fed…)? /2009/08/05/abolire-le-banche-centrali-cominciando-dalla-fed/ /2009/08/05/abolire-le-banche-centrali-cominciando-dalla-fed/#comments Wed, 05 Aug 2009 18:25:39 +0000 Alberto Mingardi /?p=1929 In uno storico passaggio delle sue “Considerazioni finali” (1976), l’allora Governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi scriveva:

In questo anno in cui ricorre il bicentenario di due storici messaggi di libertà, vale ricordare un principio che è parte del nostro retaggio democratico. Esso si compendia nella massima: No taxation without representation. Il principio è violato dall’inflazione, che pone in atto nella nostra società un meccanismo redistributivo gigantesco e interamente arbitrario. In una visione di legittimità democratica quel principio investe l’istituto di emissione del diritto-dovere di farsi assertore della difesa monetaria.

Posto che la citazione andrebbe contestualizzata (a straordinario merito di Baffi, tenendo presente cos’era l’Italia nel 1976), c’è da chiedersi quali siano i banchieri centrali che oggi, nel mondo, la sottoscriverebbero volentieri – e quali siano invece quelli convinti che quel “meccanismo reditributivo gigantesco e puramente arbitrario”, se ben “arbitrato”, possa menarci fuori dalle secche in cui ci troviamo.
In tema di politica monetaria, col tempo i liberisti hanno imparato a dividersi in due categorie (fra le altre): i “costituzionalisti” e gli “anarchici” della moneta. I “costituzionalisti”, da buoni costituzionalisti, credono che sia possibile rendere meno arbitraria l’azione dei banchieri centrali, attraverso regole e meccanismi che ne costringano virtuosamente l’operato. Gli “anarchici”, da buoni anarchici, pensano che nell’esistenza stessa del potere sia implicita la possibilità del suo abuso – e che pertanto affannarsi alla ricerca di”vincoli” all’arbitrio sia, al massimo, funzionale ad una “formula politica”.
Sul Christian Science Monitor del 3 agosto, George Selgin (uno dei più autorevoli studiosi del “free banking”) porta sinteticamente buoni argomenti al mulino degli anarchici – rigettando persuasivamente l’argomento per cui una banca centrale sia la migliore risposta alla “instabilità finanziaria” che si verificherebbe in sua assenza. Sul tema, si sono versati fiumi d’inchiostro. Per un’introduzione veloce e un po’ di bibliografia, si puo’ ascoltare questa conversazione con lo stesso Selgin. Piccolo messaggio promozionale: IBL Libri pubblicherà un libro di Kevin Dowd su “Abolire le banche centrali” a settembre.

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Inflazione, attenti a leggere bene /2009/06/30/inflazione-attenti-a-leggere-bene/ /2009/06/30/inflazione-attenti-a-leggere-bene/#comments Tue, 30 Jun 2009 15:30:39 +0000 Oscar Giannino /?p=1263 Il dato dell’inflazione rilasciato oggi dall’Istat obbliga a una lettura distinta, rispetto a quello eurozona rilasciato da BCE. Apparentemente, lo 0,5% del nostro mese di giugno sembrerebbe più “sano”, dell’inflazione negativa al -0,1% rilevata nell’euroarea. Al contrario, è un segnale di allarme aggiuntivo.  Il segno negativo dell’inflazione europea è un bias nei confronti della BCE. Basta leggere il comunicato rilasciato oggi da Francoforte per assistere a una nuova discesa degli impieghi finanziari a famiglie e imprese, e il dramma è che per la prima volta la componente famiglie e credito al consumo assume un segno negativo, rispetto all’anno precedente. L’andamento mese dopo mese dice che in Europa il rischio-deflazione è più che mai aperto. tradotto: i 325 punti base tagliati dalla Bce ai tassi d’interesse, e interventi come il rilascio straordinario di liquidità per 442 miliardi di euro al sistema bancario la settimana scorsa, non si rivelano sinora affatto in grado di stoppare la caduta in basso dei prezzi degli asset. La BCE dovrebbe forse reagire con qualche decisione imprevista, giovedì prossimo, invece di tenere tutto fermo come i mercati attualmente scommettono.

Quanto al dato italiano, non è affatto un segno di minor malattia. Anzi. Una lettura del dato scomposta per diverse componenti attesta che anche quando l’euroarea va a inflazione negativa, noi continuiamo a incorporare variazioni di prezzo che testimoniano la maggior improduttività delle nostre catene distributive ed energetiche, la nostra maggior vischiosità nel meccanismo intertemporale di traduzione dei prezzi dalla produzione al consumo. Tradotto: l’euroarea dovrebbe tagliare Stato e detassare, oltre che “spingere” con politiche monetarie più anticicliche; noi dovremmo, in più e oltre tutto questo, liberalizzare.

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